domenica, 21 Dicembre 2025

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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Gli errori navali di Israele

Il disastro della Mavi Marmara è stato valutato da molti analisti come un messaggio volutamente provocato da Israele nei confronti della Turchia. Un’analisi dell’operazione e delle motivazioni israeliane mostra invece semplicemente una combinazione di pessima pianificazione e grande ingenuità. Non appare necessario ipotizzare strategie particolari in un evento che si mostra semplicemente figlio di una colpevole incompetenza tattica.

 

L’intervento dei commandos israeliani sulla Mavi Marmara è stato in effetti caratterizzato da una serie di errori e leggerezze tattiche che hanno portato a una situazione ove lo scontro a fuoco risultava non evitabile.

 

INTELLIGENCE ASSENTE – Il comando israeliano era convinto che gli equipaggi e i passeggeri sulle navi del convoglio fossero in gran parte addormentati; sarebbe dunque stato possibile abbordarle senza opposizione e contare sull’effetto sorpresa per prenderne il controllo. Tuttavia le intenzioni israeliane erano state pubblicizzate da tempo e ci si aspettava una tale mossa; questo ha permesso agli occupanti della Mavi Marmara di prepararsi all’arrivo dei commandos.

 

ERRATA VALUTAZIONE DELL’AVVERSARIO – I commandos erano convinti di affrontare una situazione simile a quella vissuta in occasione dell’abbordaggio della Francop, dove il semplice arrivo dei militari aveva provocato la resa dell’equipaggio. Ci si attendeva quindi nessuna o minima resistenza e passeggeri non aggressivi; per questo motivo i commandos erano stati dotati di fucili armati a pallini di gomma invece delle armi d’ordinanza, con solo le pistole come dotazione di guerra. La determinazione – forse il fanatismo se si valutano le dichiarazioni dei genitori di alcuni morti ai quali i figli avevano confessato il desiderio di martirio – dei passeggeri non è stato però intimorito dalle armi finte.

 

PIANO TATTICO INADEGUATO – L’inserzione tramite elicottero presenta l’inconveniente tattico di non permettere il recupero immediato dei militari se l’operazione incontra difficoltà impreviste; inoltre permette di inviare solo pochi soldati alla volta. Se i passeggeri fossero stati effettivamente addormentati tale modus operandi sarebbe stato sufficiente, ma nella situazione affrontata questo ha permesso che i soldati venissero sopraffatti a uno a uno mentre scendevano, senza avere possibilità di fuga.

 

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MANCATO USO DI CONTROMISURE ELETTRONICHE – Non aspettandosi uno scontro a fuoco, il comando israeliano non ha pensato di impiegare alcun sistema di isolamento elettronico della flottiglia (radar, radio, video), permettendo quindi a immagini indipendenti di raggiungere il resto del mondo e peggiorando perciò la ricaduta mediatica.

 

LOCAZIONE RISCHIOSA – La decisione di operare in acque internazionali, sconsigliata dal Ministero degli Esteri israeliano per evitare ripercussioni diplomatiche, ha tolto ulteriori giustificazioni a Israele. Anche in questo caso la valutazione poco critica della situazione ha invitato a operare senza valutarne l’amplificazione mediatica in caso di errore.

 

Il risultato di questa serie di errori e leggerezze è stata una situazione inaspettata dove i soldati, colpevolmente male equipaggiati e senza via di uscita, si sono sentiti costretti a sparare per salvarsi la vita. La tragicità e la responsabilità dell’evento non sembrano dunque da cercare nella condotta dei soldati sul campo, quanto nell’inadeguata pianificazione dell’azione.

 

L’intera questione ripropone il problema dell’aspetto mediatico del blocco di Gaza, già visto in occasione dell’Operazione Cast Lead. Israele tende a reagire alle minacce esterne in maniera diretta, spesso senza considerare i rischi diplomatici di certe scelte. In questo caso fermare la flottiglia diretta nella Striscia è stato valutato necessario per evitare l’arrivo di materiale da costruzione (che Hamas avrebbe potuto confiscare per costruire ripari) e per evitare la perdita di faccia di un blocco che alla prova dei fatti si dimostra inesistente. Tuttavia gli eventi sulla Mavi Marmara hanno mostrato come il raggiungimento degli obiettivi pratici possa avere effetti disastrosi se non si tiene conto dei rischi coinvolti nelle varie opzioni a disposizioni.

 

Blues indeboliti, ma non ‘bolliti’?

La Francia si presenta al Mondiale sudafricano dopo lo scandalo della qualificazione subita ai danni dell’Irlanda di Trapattoni, per mezzo della “mano di Henry” nei supplementari. Dopo il turbine di di polemiche e discussioni alimentate anche dalle scelte molto contestate, in patria e non solo, del proprio ct Raymond Domenech la domanda è una: riusciranno i galletti attraverso il gioco e le magie dei propri campioni, a dimostrare di meritarsi “l’aiutino” ricevuto?

IL PAESE

Dal punto di vista geografico, la Francia si presenta come un territorio immensamente vasto ed estremamente fertile. Non a caso il paese transalpino è il maggior produttore agricolo d’Europa. Non solo. Contemporaneamente alla produzione agricola, l'economia della nazione vive di realtà industriali altamente tecnologiche come dimostrato dai successi dei colossi dell’industria automobilistica (Renault, Citroen), della farmaceutica e della moda. Grazie a questa diversificazione del portafoglio economico si riescono a conciliare tradizioni e tecnologie, prodotti industriali e sviluppo del territorio. Come paese mediterraneo e contemporaneamente nordico, l’integrazione è risultato essere un fattore fondamentale, facendo del popolo francese uno dei più interculturali d’Europa. A partire dal primo ministro, molti francesi sono sposati e legati in matrimoni misti. Del resto la fine del vastissimo impero coloniale francese ha permesso ad intere popolazioni di emigrare in Francia portando così ad un vero e proprio melting-pot della società francese. Esistono comunque ancora dei possedimenti all'estero, sotto il nome di Francia d’Oltremare, i quali risultano ancora sotto la giurisdizione francese. Ad esempio la Polinesia francese, Guadalupa, Martinica e Guyana francese, e poi le isole di Saint Pierre e Miquelon, Saint Martin, Saint Barthelemy, oltre a diversi territori australi ed antartici.

CAFFÈ IN PILLOLE

  • Nel 2006 l’Istituto nazionale di statistica e degli studi economici ha stimato che circa 5 milioni di immigrati (stranieri nati al di fuori del territorio), rappresentano ormai l’8% della popolazione. Secondo la legge francese i bambini nati da genitori immigrati sono considerati francesi e di conseguenza, il numero di cittadini francesi di origine straniera è nell’ordine di circa 6,7 milioni (censimento dell’INSEE del 1999), ossia circa un decimo della popolazione francese.

• La Francia, di tutti i principali Stati Europei, è quello di più antica formazione. Membro del Consiglio d’Europa è uno dei paesi fondatori dell’Unione europea, della zona euro e dell’area Schengen. È uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e fa parte degli otto Paesi più industrializzati del Mondo (G8), dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). È tornata a far parte, dal 2002, all'interno del Comando integrato della NATO (da cui era uscita nel 1966 per volere di De Gaulle) ed è attualmente la terza potenza nucleare mondiale, dietro Stati Uniti e Russia.

UNA SQUADRA FORTE NONOSTANTE LE ECCELLENTI ESCLUSIONI

La Francia, ed in particolare il suo ct Domenech, stupisce ancora per le esclusioni eccellenti dalla sua rosa. Oltre all’infortunato Lassana Diarra del Real Madrid, i Bleus si sono privati del fortissimo portiere della Fiorentina, Sebastian Frey, del centrale della Roma Mexes, dei giovani trequartisti Nasri e Ben Arfa e dell'ancora più forte attaccante francese del Real Madrid: Karim Benzema. Nonostante il suo apparente autolesionismo, però, la Francia rimane una formazione di tutto rispetto, dotata di straordinari e veloci terzini di spinta come Clichy, Evra e Sagna, da un centrocampo robusto dove spicca l’erede di Zidane, Yoann Gourcuff, ed un attacco che oltre al solito Henry, può contare su elementi rapidi e tecnici come Malouda, Ribery ed Anelka. Incognite rimangono il centrale da affiancare a Gallas ed una punta centrale di grande affidamento. A comunque la coesione del gruppo anche se spesse volte le scelte tattiche del proprio allenatore restano talvolta del tutto inspiegabili.

GEOPALLONE

La tradizione multietnica della nazionale francese ha radici storiche. Il primo giocatore di colore in nazionale fu convocato nel 1931: Raoul Diagne, il quale vantava origini africane (i genitori venivano dalla Guyana). Dagli anni novanta in poi la Nazionale francese è ritenuta da alcuni un esempio di moderna convivenza pacifica tra etnie diverse per la sua capacità di incarnare l’ideale multiculturale della Francia. La squadra ha ottenuto successi a livello continentale e mondiale rimanendo etnicamente eterogenea e diversa per la provenienza dei singoli giocatori, alcuni dei quali originari dei dipartimenti di oltremare della Francia, e altri, invece, figli di immigrati dalle ex colonie francesi. Inizialmente si trattò di italiani (Roger Piantoni, Michel Platini), spagnoli (Luis Fernandez), polacchi (Raymond Kopa), armeni (Youri Djorkaeff) e portoghesi (Robert Pirès), passando per campioni come Zinédine Zidane di origini algerine, precisamente cabile (come anche Karim Benzema).

Tuttavia anche nella multietnica Francia vanno segnalati spesse volte intollerabili episodi di razzismo. Durante l'ultimo campionato svoltosi, la Federcalcio francese ha inflitto un punto in meno in classifica di penalizzazione ed un incontro a porte chiuse alla squadra del Metz a causa degli insulti provenienti dagli spalti. Talvolta nelle serie minori la situazione è ancora più difficile. Recentemente ha fatto scalpore la condanna inflitta ad un giocatore di un club di dilettanti del nord della Francia il quale è stato condannato a 4 quattro mesi per insulti di stampo razzista.

Mauro Incordino

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Si comincia!

Il giorno tanto atteso è finalmente arrivato: prendono oggi il via i Mondiali di calcio, che per la prima volta si tengono in un Paese africano. Andiamo dunque a vedere la situazione politica ed economica del Sudafrica, prima potenza continentale caratterizzata da livelli di sviluppo per alcuni aspetti paragonabili alle nazioni occidentali ma per altri ancora ancorati ai Paesi del Terzo Mondo.

PRONTI, VIA! – L'attesa è finita: da oggi prendono ufficialmente il via i Mondiali di calcio sudafricani. È la prima volta che il continente nero ospita una manifestazione sportiva così importante e per un mese tutti i riflettori del mondo saranno puntati su questa nazione, che vede nei Mondiali la simbolica occasione per il riscatto definitivo dal punto di vista politico e sociale. Se infatti la manifestazione si svolgerà nel modo migliore e al mondo verrà data l'immagine di un Paese socialmente maturato, nel quale la convivenza tra i bianchi “afrikaaners” e i neri è ormai un dato acquisito e le disuguaglianze vengono progressivamente ridotte, allora si potrà forse dire che la macchia dell'apartheid, abolito solamente all'inizio degli anni '90, sarà stata definitivamente lavata.

NON E' TUTTO ORO – Dopo la “sparata” di ottimismo iniziale, è necessario però tornare con i piedi per terra. È chiaro che le autorità sudafricane cercheranno in questo mese di nascondere sotto al tappeto i problemi del Paese per mostrare all'esterno la migliore immagine possibile; tuttavia, le criticità che caratterizzano il Sudafrica sono ancora molte, nonostante gli enormi progressi in campo politico, sociale ed economico. Indubbiamente il Paese è la principale potenza continentale ed è dotata di un'economia che per diversi aspetti è assimilabile a quella degli Stati occidentali più avanzati: non a caso la Repubblica Sudafricana fa parte del G-20 ed è membro del forum informale IBSA (insieme a India e Brasile), una sorta di replica del BRICs. Dall'altra parte, però, permangono disuguaglianze enormi all'interno della popolazione: non più soltanto sulla linea di frattura bianchi-neri, ma anche all'interno di questo gruppo etnico. Se infatti molte famiglie di colore hanno migliorato il loro status socio-economico in seguito alla presa del potere delle elites nere, molte altre, quelle che vivono tuttora negli enormi ghetti urbani (di cui Soweto, alla periferia di Johannesburg, è l'esempio più noto), non hanno visto migliorare le loro condizioni. Ad esse, inoltre, si sono aggiunti centinaia di migliaia di individui immigrati dal resto dell'Africa: attratti dal contesto economico sicuramente più favorevole rispetto al generale sottosviluppo del continente, soprattutto da Paesi come il vicino Zimbabwe (ormai uno Stato fallito in balia delle follie del dittatore Robert Mugabe). Insomma: al giorno d'oggi oltre il 20% dei sudafricani vive ancora sotto il livello di povertà e l'11% della popolazione è sieropositivo. L'AIDS rischia di rappresentare un vero e proprio freno per lo sviluppo di questo Paese, e le discutibili dichiarazioni in proposito del Presidente in carica, Jacob Zuma (che ha cinque mogli e venti figli), non sono certo d'aiuto. L'attuale leader dell'African National Congress, il partito al potere, ha infatti dichiarato nei mesi scorsi che per evitare il contagio “basta farsi una doccia dopo aver avuto un rapporto”.

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I NUMERI – Al di là di queste dichiarazioni fini a se stesse, è innegabile che il Sudafrica riponga grandi speranze in questo grandissimo evento. Lo dimostrano gli investimenti effettuati: il Governo (i finanziamenti sono stati quasi interamente pubblici) ha stanziato 17,4 milioni di rand (circa 1,8 miliardi di euro) per la realizzazione delle infrastrutture necessarie, comprendendo all'interno di questa cifra le spese per i nuovi stadi e per tutte le altre opere di collegamento. Una cifra enorme, se paragonata alla dimensione dell'economia locale, senz'altro inferiore a quella di Germania (edizione 2006) o di Corea del Sud e Giappone (mondiali 2002), e che rischia di non venire riassorbita del tutto. Il turismo, infatti, potrebbe non essere abbastanza numeroso, a causa della grande distanza geografica dai Paesi del “Nord” del mondo e per il fatto che adesso in Sudafrica è inverno. Inoltre, i posti di lavoro che sono stati creati difficilmente rimarranno attivi dopo la manifestazione, quindi la disoccupazione, già altissima (è del 23% la percentuale di cittadini che non trovano accesso a canali di lavoro formale) sembra destinata ad aumentare.

FORZA BAFANA BAFANA – Significa “ragazzi” in zulu ed è il soprannome che viene dato alla squadra di calcio sudafricana. Con questo augurio non ci riferiamo direttamente alla nazionale ospitante, che con tutta la simpatia che si può attirare ha però scarse probabilità di arrivare in fondo al mondiale. Ci rivolgiamo all'intero popolo, che in questi ultimi vent'anni ha saputo compiere un piccolo miracolo, seppur tra mille difficoltà che perdurano ancora oggi, diventando un esempio per tutto il continente africano. Senza dimenticare l'opera compiuta da Nelson Mandela, grande uomo oggi novantenne, senza il quale molto probabilmente i Mondiali del 2010 si sarebbero disputati in un qualsiasi altro Paese del “Nord” del mondo. Buon divertimento a tutti.

Davide Tentori

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All Blacks? No, All Whites!

Non solo rugby, anche se i kiwi calcistici non sono proprio temibili come i campioni della palla ovale. Viaggio in Nuova Zelanda: vediamo le caratteristiche del Paese e della Nazionale, cenerentola del girone degli azzurri

IL PAESE

Dio salvi la regina: preghiera diffusa anche in Nuova Zelanda. Il Commonwealth non è solamente un retaggio dei tempi che furono: dominion dell’Impero britannico nel 1907, e indipendente dalla casa madre dal 1931, ma formalmente solo dal 1947, la Nuova Zelanda è una monarchia parlamentare, è la Regina è sempre lei, Elisabetta II.  Il Governo del National Party (area centro-destra) è saldamente guidato dal Primo Ministro John Key, che rimarrà in carica almeno sino alle prossime elezioni, previste nel 2011. Tra i principali obiettivi dell’esecutivo, che fa del patriottismo la sua bandiera, è importante sottolineare il tentativo di perseguire accordi di libero scambio con altri Paesi o aree regionali. Da menzionare l’accordo firmato con la Cina nell’aprile 2008; nel breve-medio periodo, il grande obiettivo sarà l’inizio di trattative che giungano ad un accordo analogo con gli Stati Uniti. Dal punto di vista economico, anche qui la crisi internazionale si è sicuramente fatta sentire (Pil -0,6% nel 2009), ma a livelli inferiori rispetto ad altre aree del mondo, e con una crescita prevista che va ad attestarsi ad una media del 2,6% annuo tra il 2011 e il 2014. Di certo, non si è riproposta la crisi degli anni ’80, quando la disoccupazione raggiunse livelli da capogiro. Certo, il mercato nel Paese continua a non offrire grandi opportunità: il Paese agli antipodi dell’Italia paga in particolar modo l’isolamento geografico e lo scarso numero di abitanti (4,2 milioni, con una densità di 15 abitanti/kmq: l’82% bianchi di origine inglese e scozzese, il 14% maori. Gli indigeni di etnia polinesiana sono circa 201.000).

 

IN PILLOLE:

_ L’agricoltura (cereali, ortaggi e frutta) è un settore strategico, nonostante l’88% della popolazione viva in aree urbane. Agricoltura, allevamento e pesca costituiscono il 7% del Pil, ma sono la maggior fonte di export (rendendo così l’economia fin troppo sensibile a cambi delle merci e situazioni climatiche). In particolare, il settore frutticolo è famoso per l’esportazione di mele e kiwi, un frutto selezionato da genetisti neozelndesi.

_ Forte anche il settore del manifatturiero. Industrie rilevanti nei settori agroalimentare, tecniche e meccaniche. Ben sviluppate le reti stradali, tutto il contrario per quelle ferroviarie.

_ Non male il turismo: un turista ogni 2,3 abitanti. Il 30% di questi sono australiani, seguiti da Usa (12%), Giappone (11%), Gran Bretagna (9%), Corea del Sud (5%), Italia (3%).

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GEOPALLONE

Dici Nuova Zelanda e pensi a loro, ai terribili All Blacks, la squadra più carismatica e più forte del rugby mondiale, capace di riempire San Siro, solo pochi mesi fa, almeno come le grandi sfide di calcio. Ironia della comunicazione, negli stessi giorni in cui, in Italia, la palla ovale rubava spazio a quella rotonda, nelle pagine sportive dei giornali, ad Auckland e dintorni accadeva il contrario: nelle prime pagine c’era il calcio, per merito della nazionale che aveva centrato per la seconda volta il pass per la fase finale dei Mondiali. Perfino nel nome c’è tutto il contrasto con in rugby: gli “All Whites”, tutti bianchi, si chiamano così perchè la loro divisa è un omaggio all’Inghilterra.

QUEI KIWI TUTTI BIANCHI

La prima e sinora unica partecipazione ai Mondiali è in Spagna nel 1982 (un buon auspicio per gli azzurri?), dove i “kiwi” capitarono in un girone composto da Brasile, Urss e Scozia: il risultato fu di tre sconfitte con 12 gol subiti e due fatti, entrambi, ininfluenti, alla Scozia. Ma per gli adepti del pallone neozelandese, i componenti della nazionale neozelandese che parteciparono al Mundial del 1982 sono delle vere leggende. Fra loro anche Ricki Herbert, all'epoca ingenuo terzinaccio che ha visto (segnare) da vicino Zico e Falcao, poi ha cercato, senza trovarla, fortuna in Inghilterra. Proprio Ricki Herbert, il mister “reduce” di Spagna ’82, è riuscito a far qualificare la sua Nazionale dopo un girone di qualificazione relativamente semplice: i neozelandesi lo hanno dominato, con 5 vittorie consecutive e la sconfitta ininfluente,nell'ultima partita contro le Isole Fiji, ed hanno poi battuto nei match di spareggio il Bahrain. Il girone di qualificazione sfiorava il ridicolo: Nuova Caledonia, Isole Fiji e Vanuatu le avversarie degli All Whites; eppure la difesa non è stata di certo imperforabile, con i suoi 5 gol al passivo. La sconfitta contro le Fiji, in una partita in cui nulla era in ballo, dimostra che i neozelandesi necessitano della massima attenzione anche per superare un avversario poco più che dilettante.

Tra i tanti illustri sconosciuti della squadra, spiccano Ryan Nelsen, capitano del Blacburn e della nazionale, difensore esperto e roccioso, con un passato nella Major League americana, e Chris Killen, ex Manchester City e Hibernian, ora riserva al Celtic, autore di una doppietta contro l’Italia nel 4-3 per gli azzurri di un anno fa (che vuol dire: occhio però, se li prendiamo sottogamba ci fanno soffrire…).

Pronostico? Già tornare a casa senza il numero zero nella casellina dei punti sarebbe un gran successo. In ogni caso, in un Paese in cui primeggiano oltre al rugby sport come cricket, polo, lacrosse, hockey su prato e rugby a 7, la popolarità del calcio è in netta crescita. Auckland City e Waitakare United si dividono i campionati e le Champions League oceaniche, e il trasloco dell’Australia nel nelle qualificazioni mondiale dell’Asia garantisce in futuro diverse chance mondiali agli All Whites.

Andrea Bernasconi Alberto Rossi

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Ungheria come la Grecia, anzi no

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Nei giorni scorsi si è diffusa la notizia di una possibile bancarotta dello stato ungherese. La reazione dei mercati finanziari è stata drammatica, l’indice della Borsa di Budapest (BUX) è crollato e il fiorino ha perso il 4,8%  contro l’euro tra giovedì e venerdì della scorsa settimana.

Data la massiccia presenza di istituti di credito occidentali nel paese, molte famiglie ungheresi hanno acceso negli scorsi anni mutui in euro, sterline e franchi svizzeri. Mutui che ora, per via della pesante svalutazione subita dal fiorino, saranno più difficili da ripagare. A creare questa situazione sono state le dichiarazioni di due esponenti del nuovo governo di centrodestra. Il vicepresidente del partito di governo Fidesz, Lajos Kósa, ha dichiarato venerdì che il paese è in condizione critica e che c’è solo una piccola possibilità di evitare l’insorgere di una situazione simile a quella della Grecia. Cercando di stemperare queste dichiarazioni il portavoce del primo ministro Viktor Orbán, Péter Szijjártó, ha affermato che sarebbe assurdo pensare che un commento fatto da un politico abbia tanta influenza da portare ad un crollo dell’indice di borsa o nel tasso di cambio, aggiungendo però che il paragone con la Grecia non era esagerato.

Ma l'Ungheria è veramente sull'orlo del tracollo finanziario? Si tratta davvero di una nuova Grecia? In realtà no, anzi. Dall'autunno del 2008 l'Ungheria ha accesso ad una linea di credito del Fondo Monetario Internazionale, a condizione di un monitoraggio mensile. Monitoraggio che ha obbligato il precedente governo a tenere i conti pubblici in ordine negli ultimi due anni. Il nuovo governo aveva promesso tagli alle tasse durante la campagna elettorale, che non potranno essere effettuati per via della difficile situazione economica interna e internazionale. E così, per giustificarsi agli occhi degli elettori e buttare sul precedente governo la colpa del mancato abbassamento delle tasse, i due ingenui politici hanno provocato la tempesta dei mercati finanziari sul loro paese.

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I CONTI DELL'UNGHERIA E LA RIFORMA FISCALE – La situazione economica ungherese è ben diversa da quella greca. Nel 2009, il paese ha registrato un deficit di bilancio pari al 4% del PIL, e un debito pubblico del 78,2% sempre rispetto al prodotto interno lordo. La Grecia ha un deficit pari al 13,6% del PIL e un debito del 116,8%. Dal punto di vista contabile, addirittura, l'Ungheria ha un surplus di bilancio: ha 4 miliardi di dollari di debiti da ripagare entro ottobre, ma ha circa 5 miliardi di dollari di crediti non spesi nei confronti del Fondo Monetario Internazionale, oltre che riserve di valuta estera per 41 miliardi di dollari. Secondo la banca centrale, il deficit di bilancio non verrà ripianato entro fine anno, ma non c'è alcun motivo di temere il peggio: le aspettative sono per un rapporto deficit-pil del 4,5% a fine 2010. Jean-Claude Juncker, premier lussemburghese a capo dei ministri delle finanze dell'eurogruppo, ha affermato che “non c'è alcun motivo di preoccupazione” per quanto riguarda la situazione ungherese.

I conti sono dunque a posto, e questo ha permesso all'attuale partito di governo Fidesz, durante la campagna elettorale, di promettere il taglio delle tasse. La riforma fiscale, basata sul passaggio da una tassazione basata su coefficienti di reddito ad una basata su coefficienti familiari (sul modello di quella francese), dovrebbe vedere l'introduzione di un'unica aliquota uguale per tutti compresa tra il 15 e il 20 per cento e l'abolizione di almeno dodici degli attuali 52 diversi tipi d'imposta. I lavoratori, secondo le intenzioni del governo, dovrebbero pagare il 5-10 per cento in meno di tasse rispetto ad oggi, e l'aliquota contributiva sarebbe calcolata su base familiare e non più individuale, con agevolazioni in base al numero dei figli.

GLI ERRORI DEI POLITICI E QUELLI DEGLI INVESTITORI – Una volta vinte le elezioni, il nuovo partito di governo Fidesz si è trovato a fronteggiare una situazione economica che non permette, almeno nel breve periodo, alcun tipo di taglio fiscale. Inoltre, durante la campagna elettorale il nuovo primo ministro, Viktor Orbán, aveva promesso di rinegoziare con il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea gli obiettivi di bilancio. L'idea di Orbán era di mettere in secondo piano la stabilizzazione delle finanze pubbliche privilegiando la crescita economica. Orbán non aveva però alcun potere contrattuale nei confronti dei suoi interlocutori, e ne ha ancor meno ora, dopo che il fiorino è crollato e la fiducia dei mercati nei confronti dell'Ungheria è diminuita radicalmente.

È quindi probabile che, nel momento in cui il governo si è reso conto che era impossibile rispettare le promesse della campagna elettorale, alcuni esponenti del partito Fidesz abbiano sentito l'esigenza di scaricare le responsabilità del mancato rispetto degli impegni sulla situazione economica ereditata dal precedente governo. È d'altronde emblematico dell'instabilità dei mercati finanziari che siano bastate due dichiarazioni di esponenti di secondo piano del partito di governo senza alcuna responsabilità sulla politica economica a provocare il crollo del fiorino e del Bux, a fronte di una situazione finanziaria che vede i “fondamentali” ungheresi in linea con altri paesi europei, e certamente non ai livelli della Grecia.

Stefano Ungaro*

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Proteste a Gerusalemme

Il “Caffè” è presente anche nella più importante città per israeliani e palestinesi. Un nostro collaboratore ci offre la testimonianza, scritta e fotografica, delle proteste che si sono verificate nei giorni scorsi in seguito alla vicenda della Freedom Flotilla. Tra chi difende le autorità israeliane e chi, invece, le attacca, è difficile ricostruire la verità dei fatti nella sua completezza.

GLI STUDENTI ALZANO LA VOCE – Gli avvenimenti che negli ultimi giorni hanno avuto luogo tra le acque internazionali di fronte a Gaza sono esplosi in proteste in tutto il mondo. Una di queste ha avuto come scenario quello della Hebrew University di Gerusalemme, dove lo scorso primo giugno studenti di destra e supporter di Israele si sono riuniti per far sentire le loro voci. La protesta è stata relativamente calma finché solo un lato era presente, ma nel momento in cui studenti di sinistra ed Arabi hanno raggiunto la zona il dibattito si è acceso con scambi di accuse come “terroristi” da un lato e “fascisti” dall’altro, quasi raggiungendo lo scontro fisico. La tensione si avverte, e difficilmente si placherà nei prossimi giorni.

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DIBATTITO MONDIALE SU ISRAELE – Nel frattempo il mondo continua ad osservare lo scenario medio orientale in attesa di eventuali sviluppi.

Mai prima d’ora Israele ha avuto una così cattiva reputazione, specialmente dopo le recenti notizie che i media hanno trasmesso su scala mondiale.

Il dibattito è acceso anche in numerosi siti di network come Facebook, Twitter e varie pagine di blog. Da un lato chi accusa Israele di aver ucciso civili innocenti che stavano solo cercando di portare aiuti a Gaza, dall’altro chi sostiene che i così detti “pacifisti” non erano altro che individui supportati dal gruppo terrorista di Al-Qaeda, e che hanno agito con l’intenzione di minare la reputazione israeliana all’estero, con collaborazione turca. Gli strumenti di questo dibattito sono quelli dei mainstream media, e consistono principalmente nel pubblicare link degli ultimi video usciti su Youtube o gli articoli proposti dalle varie agenzie di news.

Ciò porta ad una discussione senza fine dove ogni frammento della storia può essere usato nel modo più conveniente a seconda di quale lato si vuole supportare. Dibattiti simili hanno già riempito la rete e le discussioni giornaliere in altre circostanze passare, come l’operazione Cast Lead su Gaza.

Le notizie dovrebbero essere complementari, ma come spesso succede, anche in questo caso si contraddicono a vicenda e di conseguenza nascondono la realtà manipolandola invece di mostrarla chiaramente, qualunque essa sia.

Ruben Salvadori

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Svolta a destra (per un soffio)

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Tutt’altro che facile stabilire chi ha vinto le elezioni olandesi. I liberali hanno prevalso di un soffio sui laburisti. Clamorosa affermazione degli estremi xenofobi anti-islamici, che però difficilmente potranno entrare nel governo di coalizione. Ecco tutti gli scenari

VITTORIA DI CHI? – A urne chiuse, e a scrutini ultimati, sembra spesso banale stabilire chi ha vinto. Non sempre però è così. Israele 2009 e Gran Bretagna 2010 sono stati esempi eclatanti. Anche l’Olanda oggi entra di diritto in questa casistica che vuole una fase di stallo dopo il voto, seguita da trattative serrate. Non è facile infatti dire chi ha vinto le elezioni politiche di ieri, indette dopo la crisi politica dello scorso febbraio. In particolare, c’è un partito che ha diverse ragioni concrete per sorridere, senza però grandi possibilità che questo eclatante risultato elettorale venga seguito da un ingresso nella maggioranza di governo.

 

100 ANNI DOPO, UN LIBERALE PREMIER – Andiamo con ordine, è facciamo un po’ di luce. Queste le sentenze emesse dalle urne: il testa a testa tra liberali e laburisti è stato vinto sul filo di lana dai primi. Il Partito Liberale (Vvd) del 43enne Mark Rutte (foto in alto), area centrodestra, ha infatti ottenuto 31 seggi, contro i 30 dei laburisti, principale partito di centrosinistra del Paese, su posizioni socialdemocratiche. Il programma del Vvd prevede un taglio di 20 miliardi di euro alla spesa pubblica nel corso della legislatura, la riduzione a zero del deficit pubblico entro il 2015, il dimezzamento del numero dei ministri e l’aumento dell’età pensionabile dagli attuali 65 ai 67 anni. I laburisti (Pvda), guidati da Jacob Cohen (62 anni) puntavano invece su di un investimento di 2 miliardi di euro nell’istruzione da qui al 2015, aumentando la pressione fiscale sui redditi alti e tagliando 10 miliardi di euro della spesa pubblica.

 

OLTRE OGNI PREVISIONE – Al terzo posto, ecco il Pvv, partito di estrema destra, conservatore, ultranazionalista ed esplicitamente anti-islamico, guidato da Geert Wilders (46 anni, nella foto qui sotto), un ex liberale. I primi punti del programma del partito, fondato nel 2006 prevedono il divieto di immigrazione dai Paesi musulmani, la sospensione della costruzione di moschee, e la tassazione del velo islamico. I musulmani rappresentano attualmente il 6% della popolazione (17 milioni di persone). Proprio il Pvv (la cui traduzione è “Partito per la Libertà”) potrebbe apparire come il vero grande vincitore, essendo passato da 9 a 24 seggi, con un clamoroso salto in avanti. Un vento di estrema destra che è soffiato anche in altre recenti elezioni europee.

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GRAZIE E ARRIVEDERCI – Quarto posto e bruciante debacle per il Cda, Partito Cristiano-democratico, vincitore delle elezioni del 2006 con 41 seggi. Lo storico partito, fondato nel 1977 dalla fusione di tre partiti precedenti e guidato dal premier uscente Jan Peter Balkenende (54 anni), ha perso ben 20 seggi, dimezzando di fatto il suo gradimento nell’elettorato: un crollo senza precedenti. Il premier ha dunque pagato caro lo scivolone di febbraio, quando i laburisti tolsero il loro appoggio relativo alla missione in Afghanistan. Tra i punti rilevanti del programma del premier, da sottolineare una innalzamento dell’età pensionistica più tenue rispetto al programma liberale: in pensione a 66 anni nel 2015, a 67 nel 2020. Balkenende ha già annunciato le sue dimissioni ed il suo ritiro dalla vita politica.

 

IPOTESI – E adesso? La maggioranza si raggiunge a quota 76 seggi. Una coalizione è dunque inevitabile, ma su tematiche quali economia e immigrazione i partiti sono molto divisi tra loro. Le differenze in campo economico tra i due partiti principali sono già state mostrate; è da sottolineare inoltre come i laburisti di Cohen, ex sindaco di Amsterdam, sono favorevoli ad una politica di integrazione rispetto al mondo islamico, e dunque è inattuabile una coalizione tra secondo e terzo partito a scapito della formazione più votata (come successo in Israele nel febbraio 2009, quando Kadima, guidato dall’ex Ministro degli esteri Tzipi Livni, “vinse” le elezioni conquistando 28 seggi, ma non riuscì a formare una coalizione e restò fuori dal governo, il cui leader, Netanyahu, conquistò un seggio in meno).

 

POSSIBILI SCENARI – Per avere una maggioranza stabile, l’unica alleanza possibile sarebbe quella tra i due partiti maggiori, estesa ai democristiani e a qualche altro partito minore, probabilmente i centristi del D66 (10 seggi), partito radicale-liberal-socialista, pro aborto, eutanasia e riforma dello stato sociale. Meno chance per i Verdi (area di sinistra,10 seggi), i socialisti (15), l’Unione Cristiana (5). Dunque, lo scenario più plausibile è quello del Governo di unità nazionale, già ribattezzato in passato “coalizione viola”. E gli estremisti xenofobi di Wilders? Un loro ingresso nel governo, escludendo i laburisti, risulterebbe essere un vero e proprio choc; tale scenario, comunque, risulta essere assai improbabile. Pochissimi i punti di contatto con il programma dei partiti maggiori, che hanno bisogno di un governo compatto per affrontare le sfide economiche che l’Olanda ha davanti. E anche le idee del partito, seppure in crescita, non appaiono certo maggioritarie nel Paese. Dunque, Wilders e i suoi non possono non gioire per il loro risultato, ma non possono neppure proclamarsi vincitori: la vera vittoria per le loro politiche sarebbe l’ingresso nell’esecutivo, scenario assai remoto. Ma da non escludere affatto nel medio periodo, se tale ascesa dovesse ulteriormente proseguire.

 

Alberto Rossi [email protected]

Tante nazionalita’ per un’unica maglia

Buone individualità ed altrettanto buon gioco. Nessuna stella da mostrare, ma tanta sostanza. Come dimostrato anche nell'amichevole contro L'Italia, la Svizzera si presenta in Sud Africa come una realtà solida, ma non certamente brillante. Una realtà che porta in sé tante anime di diversissima provenienza.

Il paese

Sono ben 26 i cantoni che compongono il multilingue e multietnico stato federale svizzero. Le principali identità culturali e linguistiche della Svizzera sono il francese, il tedesco e l'italiano.

Ovviamente le banche e gli istituti finanziari rappresentano i due principali pilastri dell'economia svizzera. Aiutate dalla forza della moneta locale (il franco svizzero) e dalla particolare legislazione in materia, i 327 istituti bancari attualmente presenti sul territorio rappresentano il fiore all'occhiello dell'economia locale.

Altro fattore decisamente importante per l'economia di Berna è la produzione di cioccolato. Un settore questo, che sebbene leggermente in crisi a causa dello spropositato aumento del prezzo dello zucchero, continua ad essere una voce di rilievo per la bilancia dei pagamenti statale.

Storicamente neutrale dal punto di vista della politica estera, la diplomazia svizzera ha vissuto, e continua a vivere tutt'oggi, momenti di forte tensione con la Repubblica Araba di Libia del colonnello Gheddafi. A seguito del criticatissimo divieto di costruire minareti, il leader libico ha invocato un jihad contro Berna accusandola di miscredenza ed apostasia. Ma i problemi fra le due nazioni hanno avuto inizio nel luglio 2008 quando la polizia elvetica arrestò il figlio minore del colonnello, Hannibal, e la moglie. Un affronto mai digerito dal leader arabo che ormai da due anni non perde occasione per scagliarsi con la Svizzera mettendo sotto pressione la sua diplomazia, ma soprattutto mettendo a rischio gli investimenti multimiliardari della stessa in Libia.

Caffè in pillole

– Le istituzioni locali si sono dimostrate storicamente sensibili nel garantire la massima trasparenza all'interno del settore del cioccolato. In questi mesi in paese è in discussione la “Dichiarazione di Berna contro il lavoro minorile nel cioccolato”. Nel documento si chiede ai produttori di cioccolato di mettere fine allo sfruttamento dei minori nelle piantagioni di cacao in Africa (il 60% delle produzioni mondiali di cacao proviene dall'Africa Occidentale).

– Dopo una brevissima apertura nei confronti della giustizia internazionale, il sistema bancario svizzero è tornato a chiudersi a riccio su se stesso. La Camera bassa del Parlamento svizzero ha infatti bocciato la ratificazione dell'accordo siglata nell'agosto 2009 tra UBS ed il governo degli Stati Uniti. L'intesa riguardava i nomi degli evasori fiscali americani che avevano aperto un conto nell'istituto elvetico.

– Secondo Amnesty International in Svizzera il razzismo è un fenomeno in costante e preoccupante aumento. Ad oltre 6 mesi dal referendum che vietava l'edificazione di minareti, nel mese di maggio la popolazione locale si è nettamente espressa contro la possibilità per le donne musulmane di indossare il burqa.

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I multietnici Rossocrociati

Una nazionale dove si parlano molte lingue differenti e dove le origini dei calciatori convocati si perdono fra Albania, Turchia, Serbia, Costa d'Avorio e Repubblica Democratica del Congo. Per fare un esempio il centrocampo titolare dovrebbe essere composto da “stranieri” come Behrami ed Inler e rappresenta il miglior reparto della squadra, comunque molto solida in difesa anche grazie alle prestazioni di Senderos. La composizione della nazionale sembra comunque essere lo specchio della società se consideriamo che allo stato attuale in Svizzera la percentuale di naturalizzazioni rispetto alla popolazione è fra le più alte d'Europa.Il punto debole della compagine elvetica sembra essere quindi l'attacco dove lo storico bomber (40 reti all'attivo), nonché capitano, Alexander Frei non sembra poter reggere da solo l'insostenibile responsabilità del goal. Se poi si pensa che il bomber svizzero si è anche recentemente infortunato durante un allenamento le cose si complicano ancor più. L'attacco sterile rischia di essere quindi il grande limite di una squadra che sembra però poter comunque lottare per gli ottavi di finale. La Svizzera è collocata nel gruppo H insieme alla temibilissima Spagna ma anche con Honduras e Cile, avversari alla portata degli europei.

Geopallone

L'intreccio fra calcio e politica sembra essere molto forte nel paese, foss'altro che la FIFA ha sede a Zurigo mentre l'UEFA a Nyon. I due palazzi che gestiscono il calcio mondiale hanno la loro sede fisica in queste due città svizzere le quali inevitabilmente rappresentano i maggiori centri di potere nella gestione di tutti gli affari concernenti il mondo calcisitico.

Ragioni storiche, geografiche e culturali hanno permesso che queste due istituzioni abbiano stabilito in Svizzera la loro base trovandosi talmente a loro agio che per bocca dei propri rappresentanti fanno sapere di considerare la Svizzera come la migliori delle opzioni possibili.

Anche nel calcio le donne sembrano voler trovare sempre più spazio. Dopo aver conquistato importanti cariche statali, alcune deputate hanno pensato di portare interrogazioni parlamentari chiedendo la parificazione delle condizioni economiche delle calciatrici svizzere.

Marco Di Donato

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Banzai

Il Giappone si presenta ai Mondiali del Sudafrica senza troppe aspettative. Una squadra mediocre e un girone molto difficile rendono la qualificazione agli Ottavi quasi una chimera. E Nakata non c'è più… Le prestazioni in campo geopolitico ed economico non sempre coincidono con quelle calcistiche

IL PAESE

Quasi 128 milioni di abitanti, uno dei dieci Pesi più popoloso del mondo, il Giappone rappresenta una delle realtà più floride, dal punto di vista economico, politico e dello sviluppo, di tutto il continente asiatico. Formalmente è una monarchia costituzionale, il cui Capo dello Stato è ancora oggi l’Imperatore (da 20 anni è Akihito), ma di fatto è molto più simile ad una Repubblica Parlamentare, con i poteri dell’esecutivo nelle mani del Primo Ministro. Quest’ultimo, da solo poche settimane, è Naoto Kan, esponente del Partito Democratico, per la prima volta al potere dal 1946 soltanto nel settembre del 2009, quando fu eletto Primo Ministro Yukio Hatoyama, predecessore di Kan.

Il Giappone è una delle potenze economiche più importanti del mondo, nonostante la recente crisi economica non abbia risparmiato neanche Tokyo. Risulta essere il secondo Paese al mondo per PIL in valori assoluti, dopo gli Stati Uniti, e il terzo per produzione industriale, dopo Cina e Stati Uniti. Per ciò che concerne i dati commerciali, risulta essere il quarto Paese esportatore al mondo e il quinto importatore. Ciò dimostra le capacità economiche e produttive del gigante asiatico. Ottimi anche i dati circa lo sviluppo: il Paese è al decimo posto mondiale per l’Indice di Sviluppo Umano, alle spalle dei Paesi scandinavi e di altri noti “paradisi del benessere” come Australia, Canada e Islanda.

CAFFE’ IN PILLOLE

  • Il Giappone, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha escluso la possibilità di dichiarare guerra, adottando una Costituzione pacifista che non prevede un Esercito. Nonostante ciò, negli ultimi anni le Forze Armate giapponesi si sono evolute e il Paese ha partecipato anche ad alcune missioni internazionali, come in Iraq nel 2003. La Costituzione potrebbe essere soggetta a rivisitazioni.

  • A testimonianza delle ottime qualità di vita del Giappone, il Paese è in assoluto al mondo quello con l’aspettativa di vita più alta, secondo le statistiche dell’Organizzazione Mondiale per la Salute: 83 anni la media e, per le donne, 86 anni.

  • La capitale Tokyo e il suo comprensorio, con 33 milioni di abitanti, è di gran lunga la città più popolosa al mondo. New York, al secondo posto, ha “solo” circa 18 milioni di abitanti.

I BLUES

Da non confondere con Les Blues, soprannome affidato alla compagine francese, la squadra giapponese è attualmente la migliore asiatica, in quanto a ranking FIFA. La lega calcistica nazionale, il corrispettivo della nostra Serie A, la J League, è molto recente e data al 1992. Da quel momento il Giappone ha visto un crescendo sempre maggiore della popolarità dello sport del calcio, prima del tutto oscurato a sport nazionali ben più seguiti e di tradizione più antica e consolidata, come il sumo, il baseball e il wrestling. La nazionale ha cominciato ad essere più importante dalla fine degli anni ’90 e, nel 1998, ha partecipato per la prima volta nella sua storia ai Mondiali di calcio, nell’occasione quelli di Francia. Nel 2002, insieme alla Corea del Sud, il Giappone ospitò i Mondiali e raggiunse il suo miglior risultato, qualificandosi per gli Ottavi di finale (in cui avrebbe perso contro la Turchia, che quell’anno si sarebbe piazzata terza).

Squadra dalle ambizioni ridotte, soprattutto in un girone le cui avversarie sono Olanda, Camerun e Danimarca, il Giappone si presenta ai Mondiali del Sudafrica come prima qualificata in ordine cronologico, dopo la vittoria contro l’Uzbekistan per 1-0 il 6 giugno del 2009. Un tempo trascinata dal suo giocatore probabilmente più forte di tutti i tempi, l’ex perugino e romanista Hidetoshi Nakata, attualmente i suoi punti di forza possono essere rappresentati da altre due conoscenze del nostro calcio: il catanese Takayuki Morimoto, classe 1988 e il numero 10, ex Reggina, Shunsuke Nakamura, giocatore di ottimo livello tecnico. Come già sottolineato, la possibilità di una qualificazione agli Ottavi di Finale sembra essere molto remota.

GEOPALLONE

Calcio e politica. Anche soft power e molto altro. Italia e Giappone hanno una particolare affinità per ciò che concerne il calcio, la società e l’influenza esercitata su di esse dal mondo del pallone. Negli anni ’90, vuoi anche per il credo buddhista del personaggio, Roberto Baggio risultava essere una delle persone italiane più famose ed acclamate in Giappone, a tal punto che, nel 2002, uno dei motivi principali portati avanti da chi voleva il “Divin Codino” ai Mondiali nippo-coreani (quelli in cui Trapattoni, alla stregua di Lippi oggi con Cassano, si rifiutò di dar retta all’evidenza e di portare il giocatore più forte che avesse a disposizione, nonostante l’età), era proprio nell’influenza che la sua sola presenza in suolo giapponese avrebbe potuto avere. In termini di influenza, come non citare il cartone animato “Holly e Benjy”, di fattura giapponese, emblema del calcio nei cartoon per tutti i bambini italiani.

Poi fu il momento di un altro ex idolo delle folle italiane, divenuto idolo giapponese: Totò Schillaci, che nel 1994 approdò al Jùbilo Iwata, dove segnò 56 gol in 78 partite. Al contrario, si ricorda l’infelice esperienza in Italia del primo giapponese nella storia della Serie A, Kazuyoshi Miura, al Genoa, sempre nel 1994. Nella partita di esordio contro il Milan, ai primissimi minuti subisce una frattura al volto in uno scontro con Baresi, che lo costringerà per molto tempo fuori dai campi. In due anni, il bottino in Italia è di appena un gol in sole 21 partite giocate.

Stefano Torelli

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Pari e patta?

Per la prima volta i sondaggi affermano che i principali candidati alla Presidenza brasiliana, in vista delle elezioni che si terranno ad ottobre, sono in parità. Dilma Rousseff ha infatti raggiunto José Serra nelle preferenze. La vicinanza tra i due potenziali successori di Lula, però, non sta solo nei numeri, ma anche nei programmi.

TI HO PRESO! – E' durata parecchi mesi, ma alla fine la “remontada” di Dilma Rousseff si è compiuta. La candidata alla presidenza brasiliana, esponente del Partito dei Lavoratori (PT) del leader in carica, Luiz Inàcio Lula da Silva, ha infatti raggiunto negli indici di gradimento dei sondaggi il suo principale rivale, il socialdemocratico José Serra. Quest'ultimo, governatore uscente dello stato di San Paolo, partiva da una posizione di grande vantaggio nei confronti della Rousseff, che nelle inchieste di alcuni mesi fa, quando la campagna elettorale ancora non era cominciata, si trovava praticamente doppiata considerando le intenzioni di voto dei cittadini intervistati.

Oggi, invece, l'IBOPE (Istituto Brasiliano di Opinione Pubblica e Statistica), ha divulgato un nuovo numero: 37%. Su tale cifra (vedi foto sotto)si attestano le preferenze per la Rousseff e per Serra, praticamente senza alcuno scarto tra i due. Molto più lontana la terza candidata, Marina Silva del Partido Verde, che non andrebbe oltre il 9% dei voti.

Se entrambi i candidati ottenessero il 37% dei suffragi, o comunque nessuno dei due superasse il 50% necessario per vincere al primo turno, si andrebbe al ballotaggio. Anche in questo caso, però, il risultato sarebbe sorprendente: le intenzioni di voto di un ipotetico secondo turno si dividono equamente al 42%, mentre il 9% dei brasiliani voterebbe scheda bianca e il 7% è ancora indeciso.

Insomma, il cammino verso le elezioni presidenziali di ottobre si fa sempre più incerto. Da una parte, il grande successo degli otto anni di presidenza Lula sono come un “lasciapassare” per la Rousseff che, membro fino a poche settimane fa dell'esecutivo in carica, può contare sulla efficace sponsorizzazione dell'ex operaio e sindacalista. Dall'altra, Serra può contare sulla propria esperienza di politico di lungo corso e di governatore della zona più popolosa e sviluppata del Paese: nella sola provincia di San Paolo vivono circa quaranta milioni di brasiliani, circa un quinto della popolazione totale. Un bel bacino elettorale.

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UNO SGUARDO ALL'ECONOMIA -.Intanto, il Brasile vola. Le stime di crescita per quest'anno prevedono un aumento del PIL del 6-7%, in barba alla crisi che sta invece colpendo sempre di più l'Europa. Le ragioni di tale successo e di questa sostanziale immunità agli effetti “tossici” della finanza globale vanno ricercati anche in politiche macroeconomiche sane ed equilibrate, votate al contenimento dell'inflazione e al raggiungimento di surplus fiscali, messe in opera a partire dal governo di Fernando Cardoso, predecessore di Lula ed esponente del centrodestra. Il “presidente operaio” (nel vero senso della parola) non ha fatto altro che proseguire nella linea tracciata da Cardoso, e c'è da credere che chiunque vinca le elezioni non si scosterà da questo percorso. Ecco perchè i programmi dei due candidati in politica economica sono sostanzialmente molto simili, ed ecco dunque una delle ragioni che spiegano la grande incertezza dell'elettorato.

Davide Tentori

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Le inevitabili conseguenze di evitabilissimi errori

L'attacco alla Freedom Flotilla diretta a Gaza è stato condannato dalla quasi totalità delle diplomazie mondiali. Uno spargimento di sangue sicuramente evitabile che comporterà pesanti conseguenze a livello regionale, ma non solo.

LE REAZIONI – Non è stato esclusivamente il mondo arabo ed islamico a ribellarsi a quella che molti hanno definito una barbarie inconcepibile. I video andati in onda sulle televisioni satellitari, al-Jazeera in primis, e le cruente immagini diffuse da svariate agenzie di stampa internazionali hanno mobilitato non solo le coscienze dei palestinesi, ma anche di molta parte delle società europee. Importanti manifestazioni di protesta si sono tenute a Roma, Parigi ed Atene. In queste ultime due città i manifestanti sono anche giunti a scontri abbastanza duri con la polizia dimostrando un astio nei confronti di Israele che sembrava ormai sopito da tempo. Epicentro di tutte le contestazioni è stata comunque la città di Istanbul dove migliaia di turchi si sono raccolti in piazza Taksim chiedendo l'espulsione dell'ambasciatore israeliano e la revisione delle relazioni, fino ad oggi molto forti, con Tel Aviv. Come opportunamente sottolineato in più di un occasione da Stefano Torelli, quello che era un felice matrimonio rischia oggi di divenire un divorzio a tutti gli effetti.

HAMAS VERSO LA LOTTA "GLOBALIZZATA"? – Se il primo "successo" dell'operazione militare israeliana era stato quello di bloccare "ad ogni costo e con qualsiasi mezzo" la Freedom Flotilla, il secondo è certamente stato quello di riaccendere un sentimento anti-israeliano che non si era così evidentemente manifestato nemmeno in occasione della pur drammatica operazione Cast Lead nel 2009. Bandiere di Hamas ed Hezbollah hanno sventolato indisturbate durante le ultime manifestazioni di protesta per le strade di Gaza, ma anche di Istanbul e più sorprendentemente di Atene. Questo a dimostrazione che l'appello di ieri lanciato dal movimento di resistenza islamico di Hamas è stato raccolto. A poche ore dall'assalto alla nave madre Mavi Marmara, i leader di Hamas avevano chiamato ad un Intifada globale contro le sedi di rappresentanza israeliane all'estero. E' la prima volta che il movimento palestinese chiama alla lotta contro Israele al di fuori dei confini palestinesi. Ecco che si materializza il terzo "successo" delle operazioni di lunedì 31 maggio: la globalizzazione di operazioni di resistenza palestinesi finora sempre limitate all'ambito nazionale. Non solo. Da alcuni giorni la polizia israeliana è in stato di massima allerta al fine di contenere il probabile scoppio di violenze nella West Bank. Nella Striscia di Gaza sono in corso scontri fra forze militari israeliane ed alcuni miliziani palestinesi i quali hanno invano tentato di entrare in Israele per compiere, con tutta probabilità, un'azione di vendetta. Le recenti cronache parlano di 4 morti fra le fila di Hamas.

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LA TATTICA ISRAELIANA – Isolamento internazionale, con la particolare rottura dei rapporti con la Turchia, probabile ripresa della violenza nei territori occupati ed ultimo, ma non certo in ordine di importanza, legittimazione nemmeno troppo indiretta delle politiche di resistenza di Hamas. Tali conseguenze sarebbero state probabilmente evitabili qualora si fosse deciso di affrontare diversamente la questione delle navi appartenenti alla Freedom Flotilla. L'esempio della "Rachel Corrie" (nella foto sopra) ne sembra evidente dimostrazione. Sembra inoltre difficile credere ad una trappola tesa da alcuni pacifisti in cui il migliore esercito del mondo, quello israeliano appunto, sarebbe ingenuamente caduto. Se così fosse gli israeliani avrebbero di che preoccuparsi. Ma c'è di più. Appare infatti anche più difficile credere ad un errore quando le autopsie ufficiali rilasciate dal Turkish Council of Forensic Medicine, dimostrano la presenza di ripetuti colpi d'arma da fuoco a distanza ravvicinata (meno di 45cm) e quando i corpi degli attivisti turchi preseentano, in quasi tutti i casi, più di un foro di proiettile. Sorge allora spontaneo il dubbio che non vi sia stata alcuna volontà di affrontare diversamente la faccenda. Ed il perchè è presto spiegato. Capovolgendo infatti i termini del ragionamento quest'ultimo trova una sua precisa logica.

OBIETTIVO RAGGIUNTO – Le dure condanne internazionali hanno permesso di spostare il focus dell'attenzione altrove. Dalla possibile apertura di un tavolo di dialogo con l'ANP di Abu Mazen, o addirittura con la Siria di Assad per le Alture del Golan, alla dura ed inequivocabile condanna da parte di quasi tutte le diplomazie occidentali. Tranne una. La Casa Bianca si è prudentemente tenuta al di fuori del coro di accuse lanciate dai paesi europei e dalla Russia, in attesa di "conoscere meglio i fatti". Le decisioni e le condanne dell'ONU inoltre non hanno mai portato, e non lo faranno certo in questo caso, a conseguenze pratiche e finchè Israele avrà al suo fianco Washington può ben permettersi di inimicarsi Londra, Parigi e Mosca. Le probabili violente reazioni dei palestinesi forniranno ulteriori pretesti per conservare pressochè intatto l'embargo su Gaza. Considerando che l'obiettivo primario di Israele è conservare l'attuale status quo attraverso il congelamento di qualsiasi trattativa (anche e soprattutto per quanto riguarda gli insediamenti nella West Bank e le Alture del Golan), la manovra sembra perfettamente riuscita. In ultimo grazie all'attacco della nave principale battente bandiera turca, Tel Aviv ha lanciato un messaggio di fondamentale importanza ad Ankara. La Turchia è da alcuni mesi impegnata nelle trattative di riconciliazione nazionale inter-palestinese fra Hamas e Fatah e non si deve dimenticare che il 17 maggio Turchia, Iran e Brasile avevano firmato siglato una collaborazione su un progetto di scambio di combustibile nucleare. Occhio per occhio, dente per dente.

Marco Di Donato

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Mari agitati o molto mossi

Sempre la questione del blocco di Gaza al centro di questa settimana: Turchia, Iran e Stati Uniti sono in fermento, mentre Israele mantiene la linea dura. In Afghanistan si è concluso il grande incontro che riuniva i rappresentanti delle forze tradizionali del Paese per parlare di pacificazione; i risultati non sembrano di alto livello, ma delle conseguenze potrebbero esserci. Intanto Turchia e Asia Centrale si trovano al centro di incontri internazionali di rilevo. E giorno 11 cominciano i Mondiali di Calcio…

Le reazioni all'azione armata di Israele contro la flotta che portava aiuti verso Gaza sono state molte e dure, ma al momento nulla di concreto è stato ancora deciso. Sono previsti in settimana incontri potenzialmente importanti, sebbene il pragmatismo pare che abbia il sopravvento su iniziative di principio. Sinora infatti sia la Turchia, Paese maggiormente coinvolto nell'incidente e vero centro di gravità in questa disputa, che Israele non hanno preso iniziative pratiche: i turchi continuano a puntare sulla illegalità dell'azione delle forze armate israeliane, mentre Gerusalemme non sembra ancora avere intrapreso azioni per raffreddare le tensioni.

Intanto questa settimana il Presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas incontrerà il Presidente turco Abdullah Gul prima, per poi volare da Barak Obama alla Casa Bianca.

Se da più parti dunque pare prevalere un approccio pragmatico e molto cauto, così potrebbe non essere per quanto riguarda l'Iran, che potrebbe dar seguito alle proprie intenzioni di scortare imbarcazioni destinate a Gaza con delle navi militari. Teheran, sinora principale oppositore di Israele nell'area, vede ora il rafforzarsi della Turchia come una possibile minaccia al proprio “primato” e potrebbe cercare iniziative rilevanti o addirittura eclatanti per guadagnare visibilità e consenso.

Afghanistan: la Jirga per la pace si è conclusa. Questo evento, una assemblea di natura tradizionale che ha raccolto circa 1600 leader delle diverse comunità e gruppi afghani, è certamente valutabile come iniziativa concreta verso la ricerca di una più pacifica e condivisa unità nazionale, ma ha avuto il grave vizio di aver lasciato fuori i Talebani.

Questi infatti non sono stati invitati a prendere parte alla Jirga e, sebbene le esortazioni di Karzai e dell'Assemblea siano state dirette anche a loro, la ricerca di un dialogo vero senza sedere intorno allo stesso tavolo appare difficile.

Poco tangibili dunque i risultati di questo incontro ma, andando oltre i risultati ufficiali, bisognerà capire se si sono gettate le basi per contatti e accordi futuri.

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Gli incontri della settimana:

  • Gas: la società russa Gazprom e l'operatore greco DESFA dovrebbero concludere l'accordo per la costruzione della parte greca del gasdotto South Stream.

  • Europa ed Euro: i Ministri delle Finanze dell'eurozona si riuniscono in Lussemburgo per discutere ulteriormente e forse definire il pacchetto di misure per la stabilizzazione economica. Intanto dovrebbe anche essere dichiarata l'idoneità dell'Estonia all'ingresso nell'euro.

  • Turchia: il Primo Ministro russo Putin incontrerà il suo omologo turco, Erdogan. Sul tavolo molti temi di rilievo: dall'energia a Israele. A Istanbul si terranno anche il terzo meeting per la cooperazione turco-araba e la Conferenza Internazionale su Governance, Fraud, Ethics & Social Responsibility.

  • Asia Centrale e Nord Caucaso al centro: molte rilevanti iniziative coinvolgono i Paesi dell'area. Una esercitazione militare per la risposta rapida antiterrorismo si terrà per iniziativa della Collective Security Treaty Organization, a cui parteciperanno unità speciali provenienti da Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizstan e Tagikistan. Intanto si terrà anche un incontro della Shanghai Cooperation Organization, l'altra grande organizzazione di cooperazione per la sicurezza asiatica, con la partecipazione del Presidente cinese Hu Jintao.

    I leader di diversi Paesi dell'Asia Centrale si incontrano poi a Istanbul per la Conferenza su ”Interaction e Confidence Building Measures in Asia” e altri incontri sono previsti sia con rappresentanti cinesi che turchi.

  • Terrorismo: nuova sessione nel Dialogo Strategico tra USA e Pakistan, per fare il punto dopo i recenti attentati in suolo pakistano.

  • Elezioni e Istituzioni: in Olanda si terranno le elezioni parlamentari, mentre in Giappone il nuovo Primo Ministro Naoto Kan dovrebbe annunciare la squadra di Governo.

  • Giorno 11 giugno avranno inizio di Campionati del Mondo di Calcio in Sud Africa (clicca qui per lo Speciale del Caffè Geopolitico).

Pietro Costanzo – La Redazione

lunedì 7 giugno

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