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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Canguri col pallone

L'Australia è uscita di scena dai Mondiali sudafricani senza riuscire a ripetere la piccola impresa compiuta nel 2006, quando raggiunse gli ottavi di finale dove fu sconfitta da un'Italia ben diversa da quella vista quest'anno. Un Paese sconfinato e scarsamente popolato, spesso ai margini delle grandi vicende geopolitiche, ma non per questo meno affascinante.

IL PAESE

Troppo grande per essere un'isola: l'Australia è considerata come un vero e proprio continente. Del resto l'Oceania, oltre all'immenso blocco australe, è poco altro: la Nuova Zelanda, schiacciata agli antipodi del pianeta, e i minuscoli arcipelaghi dispersi nell'Oceano Indiano. E' innegabile dunque che l'Australia rappresenti un vero e proprio “magnete geopoltico”, ovvero un attore che esercita un'attrazione e un'influenza pressochè esclusiva nell'area. Un'influenza che però è quasi esclusivamente regionale, dal momento che gli interessi in gioco non sono abbastanza ingenti da mettere in gioco gli interessi delle grandi potenze globali.

Con una popolazione di appena ventun milioni di abitanti concentrati quasi per intero sulle coste, l'Australia ha agito nella prima metà del XX secolo come grande richiamo per gli emigranti in cerca di fortuna dall'Europa, un po'come gli Stati Uniti e l'Argentina. E tanti sono coloro che hanno fatto fortuna: oggi l'ex colonia britannica (fa ancora parte del Commonwealth) è una delle nazioni più sviluppate al mondo.

La ricchezza del Paese si basa su una discreta dotazione di materie prime (carbone, oro, gas naturale, uranio), oltre che su una struttura produttiva molto moderna che si basa al giorno d'oggi sulla fornitura di servizi.

Nonostante la relativa lontananza dal resto del mondo, però, Canberra non è riuscita ad evitare gli effetti della crisi globale. A differenza dell'Europa, che continua a rimanere impantanata nella stagnazione, tuttavia il governo laburista di Kevin Rudd ha saputo far fronte alla congiuntura sfavorevole abbassando i tassi di interesse e spingendo sulla leva delle esportazioni, dirette essenzialmente verso la Cina. Questo ha permesso al gigante oceanico di crescere il proprio PIL nel 2009 e di mantenere la disoccupazione a livelli molto bassi per gli standard attuali europei (attorno al 5%). La buona performance economica non è stata però sufficiente a Rudd per evitare di essere rimosso dal proprio incarico di Governo e sostituito proprio in questi giorni (il 25 giugno) dalla nuova leader laburista Julia Gillard, prima donna a governare l'Australia nella sua storia. Sembra che Rudd abbia pagato gli scarsi risultati nella lotta contro il cambiamento climatico, tema a cui i cittadini locali sono molto sensibili.

CAFFE' IN PILLOLE

  • Il premier Rudd era in carica dal 2007. Come primo atto di Governo ha provveduto a ratificare il protocollo di Kyoto, che il suo predecessore, il liberale Howard, aveva deciso di mantenere in “stand-by”

  • L'Australia è culturalmente legata all'Occidente e mantiene anche legami di tipo strategico-militare con USA e Regno Unito, ma a livello economico, anche per la vicinanza geografica, partner di primo livello sono Cina e Giappone, con i quali sono in fase avanzata di negoziazione degli accordi di libero scambio,

ECCO I “SOCCEROOS”

Per descrivere il calcio australiano potrebbe valere lo stesso discorso fatto per la Nuova Zelanda: la terra dei canguri (non a caso i giocatori sono chiamati “socceroos”, per giocare sull'unione delle parole “soccer” e “kangaroos”) non è propriamente uno dei terreni più fertili per questo sport. Rugby e cricket sono gli sport nazionali, anche se negli ultimi anni il calcio giocato dalla formazione gialloverde ha conosciuto uno sviluppo interessante. L'Australia è alla sua seconda partecipazione consecutiva ad un mondiale, ma in Sudafrica non è riuscita a ripetere il piccolo “miracolo” compiuto quattro anni fa in Germania. Allora, infatti, riuscì a superare il girone di qualificazione e ad approdare agli ottavi, dove fu sconfitta dall'Italia che sarebbe poi diventata campione del mondo. In quell'occasione l'Australia dimostrò la sua caratteristica principale: una formazione abbastanza solida e preparata atleticamente, anche se povera tecnicamente e incapace di dare spettacolo.

Quest'anno la formazione oceanica non è riuscita a ripetersi: penalizzata dal pesante 0-4 subito dalla Germania all'esordio, non sono stati sufficienti il pareggio col Ghana e la vittoria con la Serbia per passare il turno.

GEOPALLONE

Anche per uno Stato in cui il calcio non è propriamente lo sport nazionale i Mondiali possono contribuire a compattare un'intera nazione, risvegliando il proprio orgoglio patriottico. Una dinamica di questo tipo si verificò in Australia quattro anni fa, in occasione della qualificazione raggiunta allo spareggio contro l'Uruguay. In occasione del match di ritorno, giocatosi a Sidney di fronte a 85 mila spettatori, più di dieci milioni di australiani seguirono la partita (circa metà della popolazione), riversandosi poi nelle strade in seguito all'insperata vittoria. Era da 32 anni che i “socceroos” mancavano alla fase finale dei Mondiali di calcio.

Davide Tentori

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Il disgelo tra Pechino e Tokyo

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Il premier nipponico Naoto Kan ha partecipato come da protocollo al vertice del G8, svoltosi in questi giorni in Canada. Durante una cena privata, Kan ha proposto informalmente agli altri grandi di invitare ai prossimi incontri anche la Cina. Dopo le scaramucce con gli Stati Uniti per la base di Okinawa, è forse questo il tentativo da parte di Tokio di formalizzare una nuova alleanza con Pechino?

A TORONTO – Spetterà alla Francia, prossima sede del vertice, decidere se la Cina potrà sedersi al tavolo con gli altri rappresentanti delle più potenti economie mondiali, ma il Giappone ha comunque messo la proposta sul banco: incoraggiare Pechino “ad avere un ancora maggiore senso di responsabilità” nelle questioni internazionali. Questa la motivazione di Naoto Kan, da poco tempo premier ma già in grado di regalare colpi di scena. Le fonti governative giapponesi hanno confermato l’accaduto, ma si sono limitate a descrivere le reazioni degli altri membri del vertice. La dichiarazione fa da cornice ad un G8 molto criticato per via dei mancati accordi conclusi in questa sessione canadese, seguito da un G20, che probabilmente ne prenderà il posto senza tanti rimpianti, probabilmente senza fornire una svolta decisiva per combattere la crisi economica mondiale in corso. Unica novità: Obama ha affermato che il sistema di Wall Street diventerà più responsabile grazie a regole più severe e a una maggiore protezione dei consumatori.

UNA STORIA DIFFICILE – Prima che la sua popolarità crollasse e venisse sostituito da Kan, anche per Hatoyama (Primo Ministro fino a pochi mesi fa) ridisegnare i rapporti con la vicina Cina era un elemento di primaria importanza per la politica estera giapponese. Frutto di continue discussioni bilaterali, fu il rapporto redatto il 31 gennaio di quest’anno, un documento di 549 pagine, che racchiude i risultati degli ultimi tre anni di discussioni congiunte sulla storia dei due paesi. Escluso il periodo del dopoguerra, ovviamente. Nonostante sia risultato irrisolto il dibattito sui fatti di Nanchino avvenuti nel 1937, e anche se la Cina ha volontariamente glissato sul massacro di Tiananmen del 4 giugno 1989, il piano originale di ricalcare gli aspetti riguardanti la storia antica, medievale, moderna e contemporanea ha visto la luce. L’allentamento dei contrasti sino-giapponesi era dunque evidente già da tempo: da diversi anni, Tokyo guarda alla Cina non solo come un partner economico forte e potente, ma anche come il gigante continentale assetato di amicizie politiche, quasi quanto di energia.

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NON SOLO ECONOMIA – Sempre a gennaio, la Cina ha scavalcato economicamente il Giappone, confermandosi potenza mondiale, seconda solo agli Stati Uniti. In base ai dati del Fmi, il Pil cinese avrebbe toccato i 4.910 miliardi nel 2009, mentre quello atteso per il Giappone si attesterebbe a 5.100 miliardi di dollari. E ancora sembra che la Cina continui a crescere per tutto il 2010 del 9%, a fronte dell’1,3% del Giappone. Inoltre, un grosso flusso di esportazioni sono dirette dal Giappone verso la Cina, mentre quest’ultima scavalca il primo anche per la produzione di diamanti, raggiungendo quest’anno gli oltre 1,5 miliardi di dollari. Il Giappone sembra insomma essersi reso conto che la massiccia presenza cinese in tutto il mondo ha dato frutti da un punto di vista geostrategico oltre che economico, e ignorarla o farle guerra non sarebbe affatto utile. Come reagiranno gli Stati Uniti di fronte al miglioramento delle relazioni sino-giapponesi?

Alessia Chiriatti

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L’Estonia nell’euro dal prossimo gennaio

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L'Estonia, dal primo gennaio 2011, sarà il diciassettesimo paese ad utilizzare l'euro come moneta nazionale. Il processo di adesione alla moneta unica, che ha visto il paese baltico raggiungere nei mesi scorsi gli obiettivi richiesti da Bruxelles, sembrava potesse essere ostacolato dall'alta inflazione che ha colpito l'Estonia come conseguenza della crisi economica. I ministri delle finanze della zona euro, riuniti la scorsa settimana, hanno però dato il definitivo via libera all'ingresso di Tallinn nell'Eurozona. L'Estonia è l'unico paese dell'Unione europea insieme alla Svezia a rispettare i limiti di deficit e debito imposti dal trattato di Maastricht.

POLITICA vs. ECONOMIA – L'adesione dell'Estonia all'euro avviene in un momento critico per l'eurozona: proprio in questi giorni ferve il dibattito su come rafforzare la governance economica europea, minata dalla crisi finanziaria e dalla situazione della Grecia. Proprio a causa dei recenti problemi economici interni all'Unione, alcuni analisti pensavano che l'ingresso del paese baltico nell'euro potesse essere ritardato. La Banca Centrale Europea, in particolare, aveva espresso nei mesi scorsi alcune riserve sulla capacità dell'economia estone di affrontare la moneta unica. In un comunicato si parlava di “preoccupazioni riguardanti la sostenibilità dell'inflazione”, ovvero rispetto alla possibilità che la moneta unica porti ad un aumento della già alta inflazione del paese baltico. Nel 2008, il tasso d'inflazione ha superato in Estonia la doppia cifra.

Se Francoforte, sede della Bce, ha cercato di frenare Tallinn, Bruxelles ha invece sostenuto la candidatura dell'Estonia. Questo perché Tallinn è stata posta come esempio nei confronti del resto d'Europa per la sua capacità di mantenere le finanze pubbliche all'interno dei criteri stabiliti per l'ingresso nell'euro nonostante la fortissima recessione che ha colpito il paese l'anno scorso. Secondo i funzionari di Bruxelles favorevoli all'espansione, l'esclusione dell'Estonia dall'euro avrebbe mandato un segnale negativo agli altri paesi che vogliono adottare la moneta unica, come la Lettonia e la Lituania, che stanno portando avanti riforme difficili con lo scopo di entrare nell'eurozona. La moneta unica, infatti, è un obiettivo molto importante per le nazioni post-sovietiche, che inseguono l'ingresso nell'euro per contare di più all'interno dell'Unione.

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UNA POLITICA ECONOMICA ESEMPLARE – I ministri delle finanze dell'eurozona hanno dunque dato il via libera all'accesso di Tallinn nell'euro. La principale motivazione dell'ingresso è il rigore con cui il governo ha perseguito gli obiettivi di controllo di deficit e debito, portando l'Estonia a performance di gran lunga migliori rispetto a quelle di molti paesi già membri dell'euro. Basti pensare che il paese baltico ha un debito pubblico pari al 7,5% del PIL, mentre il debito pubblico italiano vale il 115% del suo prodotto interno lordo. Il deficit estone, all'1,7% rispetto al PIL, è di gran lunga negli standard europei.

L'Estonia e la Svezia sono gli unici due paesi dell'Unione a rispettare le regole della moneta unica. Tutte le altre nazioni, comprese quelle che già usano l'euro, sono oltre ai limiti di deficit e debito. I politici estoni hanno raggiunto questo obiettivo grazie a grossi sacrifici da parte della popolazione, visto che sono stati tagliati i salari, aumentate le tasse e ridotta la spesa pubblica. Punire l'Estonia che ha seguito le regole e salvare la Grecia che invece le ha violate, avrebbe secondo i funzionari di Bruxelles (nella foto in alto Olli Rehn, Commissario UE per gli Affari Economici) indebolito la credibilità dell'euro sia nei confronti dei governi che degli investitori.

NEL NOME DELL'EURO-ATLANTISMO – L'Estonia è il terzo paese ex sovietico ad adottare la moneta unica, dopo Slovacchia e Slovenia. Questo importante risultato è stato raggiunto grazie a un'economia che dal 1991, anno dell'indipendenza, è cresciuta moltissimo, e a una classe dirigente onesta e di qualità. Dopo gli ingressi nella Nato e nell'Unione europea, entrambi avvenuti nel 2004, l'adesione all'euro sancisce la definitiva appartenenza della repubblica baltica all'area euro-atlantica.

Stefano Ungaro

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Il sogno celeste

Già due volte campioni del mondo, gli uruguagi sognano un'incredibile tripleta. Sebbene i pronostici siano tutti contro, si tratta di una delle rivelazioni del torneo. In patria, un Paese sviluppato e economicamente e politicamente in salute, nonostante i problemi legati alla crisi economica mondiale. L'Uruguay resta una delle realtà più virtuose del subcontinente americano e il calcio sembra attualmente calcare le orme della situazione politico-economica.

IL PAESE

Secondo Paese per grandezza in tutto il sub-continente americano, secondo solo al Suriname, il piccolissimo Stato (circa 3 milioni e mezzo di abitanti) rappresenta una delle realtà più floride e sviluppate dell’America Latina. Dal 2004 è al potere per la prima volta il Fronte Ampio, grande coalizione di centro-sinistra che raggruppa tutte le forze della sinistra, dai comunisti, ai socialisti, agli ex guerriglieri rivoluzionari dei Tupamaros. L’economia dell’Uruguay è una delle più virtuose del Sudamerica, così come, a livello politico, la situazione sembra essere molto stabile, dopo la fine della dittatura militare, durata per più di dieci anni tra gli anni ’70 e ’80.

Per alcuni aspetti, verrebbe da dire, ancora “ultimo tra i primi”, se si considera il rapporto dell’Economist Intelligence Unit secondo cui l’Uruguay è il meno democratico delle 28 maggiori democrazie al mondo, il Paese vanta comunque una posizione di avanguardia in tema di libertà e diritti civili, se rapportata al resto dell’America Latina. La qualità della vita è una delle migliori nell’area, come dimostrato dall’aspettativa di vita tra le più alte e i tassi di mortalità tra i più bassi nella regione. Allo stesso modo, l’Uruguay vanta il più basso indice di corruzione percepita di tutto il Sudamerica, dopo il Cile e, dopo l’Argentina, il più alto indice di sviluppo umano. Una delle sfide cui deve far fronte attualmente, complice la contingenza economica mondiale, riguarda la diminuzione della disoccupazione (quasi all’11%) e il peso ancora molto forte dell’agricoltura sull’economia del Paese.

CAFFE’ IN PILLOLE

  • In un’epoca, soprattutto in prospettiva, di conflitti mondiali per le risorse primarie, riguardo la risorsa per eccellenza, l’acqua, l’Uruguay può dormire sogni sereni. Il 100% della popolazione rurale ha accesso all’acqua potabile e il Paese è ricchissimo di risorse idriche.

  • La grandissima maggioranza (circa il 90%) degli abitanti dell’Uruguay, unico caso insieme all’Argentina nel continente sudamericano, è di origine europea, soprattutto spagnola e italiana.

  • L’attuale Presidente uruguagio, Josè Mujica Cordano, è il primo Presidente proveniente dal gruppo dei Tupamaros, rivoluzionari e guerriglieri attivi durante il regime militare.

  • Circa la metà degli abitanti di tutto il Paese è concentrata nell’area urbana della sua capitale Montevideo.

LA CELESTE

In pochi avrebbero scommesso su una squadra apparentemente non irresistibile, proveniente da prove non brillanti nelle ultime apparizioni dei Mondiali di calcio e per di più inserita in un girone, quello A, ostico e quasi insuperabile, con Francia, Messico e i padroni di casa del Sudafrica. Eppure chi lo ha fatto è stato ripagato. L’Uruguay è attualmente tre le prime otto del Mondiale, con buone possibilità di giocarsi un posto in finale, presumibilmente (salvo altre grandi sorprese) con una tra Brasile e Olanda. Già campione del mondo ben due volte, nel 1930 (prima edizione della Coppa del Mondo) e nel 1950, la squadra sudamericana torna a sognare uno storico risultato che entrerebbe nella storia.

Finiti i tempi, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, dei talenti alla Fonseca, Francescoli, Aguilera e Recoba, tutti di livello internazionale ma troppo isolati per poter far sì che la squadra decollasse, l’Uruguay di oggi, con Tabarez (ex allenatore del Milan) in panchina, sembra essere più competitivo. Dopo aver sostanzialmente fallito nelle ultime edizioni dei Mondiali, la Celeste si gioca contro il Ghana un posto tra le prime quattro di Sudafrica 2010. A guidare la squadra c’è il talento di Diego Forlan, attaccante dell’Atletico Madrid, insieme al bomber dell’Ajax Luis Suarez. Se questi due giocano come sanno, con una riserva di lusso come il palermitano Cavani, sarà difficile per tutti battere questa squadra, nonostante non sia tra le favorite del torneo.

GEOPALLONE

Basterebbe ricordare il nome dello stadio di Montevideo: il Centenario. Nel 1930 la prima edizione dei Mondiali di Calcio, ideati da Jules Rimet, si disputano proprio in Uruguay e l’occasione è un classico intreccio tra calcio e politica: il centenario del Giuramento della Costituzione, avvenuto nel luglio del 1830 . Del resto l’Uruguay era la squadra più forte al mondo, reduce dalle vittorie alle Olimpiadi estive del 1924 e 1928. Organizzazione del Mondiale in casa, stadio appena inaugurato apposta per l’occasione, prendendo spunto dai cento anni della Costituzione del Paese, e la storia è fatta. L’Uruguay, proprio nello stadio di Montevideo, vince i primi Mondiali della storia. Il 31 luglio, giorno dopo la finale dei Mondiali, fu proclamato giorno di festa nazionale.

Nel 1950 ancora l’Uruguay è indirettamente protagonista di una delle crisi socio-politiche legate al calcio più incredibili di sempre. Nell’ultima partita dei Mondiali giocati stavolta in Brasile, davanti ai 200.000 spettatori del mitico Maracanà di Rio de Janeiro, ai padroni di casa basta un pareggio per conquistare il titolo e la vittoria appare certa. A meno di mezz’ora dalla fine il Brasile è in vantaggio, ma in un quarto d’ora la Celeste ribalta il risultato, grazie a due autentici miti del calcio urugagio e mondiale: Ghiggia e Schiaffino. L’Uruguay è per la seconda volta campione del Mondo e la partita passerà alla storia per i Brasiliani come “il disastro del Maracanà. Almeno dieci persone sono morte di infarto nello stadio, per lo choc, e dopo la partita si sono verificati molti casi di suicidio, da parte di brasiliani che avevano scommesso tutto sulla vittoria della propria squadra. L’Uruguay fu costretto a scappare letteralmente in patria, ma ciò non evitò a Schiaffino un’aggressione fuori lo stadio, che gli costò lesioni a una gamba che lo tennero per un anno lontano dai campi di gioco. In Brasile si proclamarono tre giorni di lutto nazionale. Rimangono le parole di Ghiggia: «A sole tre persone è bastato un gesto per far tacere il Maracanà: Frank Sinatra, il Papa e io».

Stefano Torelli

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Que’ pasa en Caracas?

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Uno scandalo ha colpito il Venezuela: oltre 2.300 container carichi di viveri importati dall’estero destinati ai venezuelani più poveri sono stati lasciati scadere e mai distribuiti. Lo scandalo ha avuto un forte impatto soprattutto in coincidenza della crescente carenza di prodotti alimentari di base nelle catene di supermercati di proprietà statale e della guerra economica al settore privato dichiarata dal Presidente Chávez.

SCANDALO – Il silenzio della stampa estera e italiana su quanto accaduto in Venezuela aumenta ancor di più la gravità dell’accaduto. Secondo quanto pubblicato dalla stampa locale, i viveri erano arrivati ai diversi porti venezuelani nel 2008 ed erano destinati alla popolazione venezuelana più povera, il cui 6% soffre di malnutrizione. Il carico è venuto alla luce il mese scorso, durante un’indagine sul furto di latte in polvere. Permangono ancora dei dubbi sulla reale quantità di cibo presente nei container: il governo sostiene che erano 30.000 le tonnellate di cibo in decomposizione nel porto di Puerto Cabello (nella foto in alto), la stampa di opposizione, invece, ha affermato che erano 75.000, ovvero un quinto di quello che la PDVAL (Productora y Distribuidora Venezolana de Alimentos), l’azienda statale responsabile, ha importato nel 2009.

È un problema grave”, ha detto il presidente venezuelano, che non vuole minimizzare la gravità dell’accaduto, e, continua, sostenendo che i viveri perduti sono solo l’1% dell’immenso volume di alimenti che la popolazione riceve grazie a Mercal (Mercados de Alimentos) e PDVAL.

Parte della responsabilità dell’accaduto è da attribuire alla gestione dei porti, che sono stati nazionalizzati nel 2009 e posti sotto il controllo dell’Impresa Bolivariana dei Porti, il capitale è per il 51 % venezuelano e il 49% cubano.

Da alcune interviste svolte ai lavoratori dei porti (che hanno preferito non essere identificati per paura di essere licenziati) è emerso che Puerto Cabello, uno dei porti principali, funziona solo in parte da quando è stato nazionalizzato. Sono necessari da uno a tre mesi per lasciare il porto.

Anche il ritardo è un gran business: l’affitto di ciascun container costa allo Stato circa 150 dollari al giorno. Inoltre, la questione è più complessa per i container refrigerati adibiti al trasporto di alimenti come la carne, per i quali è necessaria l’elettricità, che manca almeno due ore al giorno, lasciando i vivere esposti al sole, secondo le direttive del piano di razionamento della fornitura dell’energia elettrica applicato da un paio di settimane nel paese per volere del Presidente.

IL PRECEDENTE – Nell’aprile 2009 era successa una cosa simile: quella volta l’odore di “marcio” proveniva da 50 container che portavano cibo della PDVAL, filiale della Petroleos Venezuelana (Pdvsa), il gigante petrolifero statale. Tuttavia, anche in quell’occasione la notizia non si convertì in uno scandalo nazionale fino a quando poche settimane dopo non apparvero centinaia di lotti di container carichi di viveri in decomposizione. Ancora. Lo scorso 15 giugno il governo della Repubblica Domenicana ha restituito al Venezuela una nave carica di viveri (tonno, pasta e latte) scaduti, che erano stati inviati dal governo di Chávez come aiuto umanitario per Haiti.

LEVIATANO VENEZUELANO – Da quasi 7 anni ormai Chávez tenta di farsi carico della produzione, distribuzione e commercializzazione degli alimenti per mettersi al riparo da eventuali “sabotaggi” del settore privato. Nel 2003 ha creato l’impresa Mercados de Alimentos (Mercal) con punti vendita a basso prezzo per le strade venezuelane. Nel gennaio del 2008, considerando gli scarsi risultati che aveva ottenuto la Mercal, Chávez creò la PDVAL con il fine di garantire la “sovranità alimentare” del paese e affidandole il compito di gestire tutto il ciclo produttivo, dagli acquisti all’estero fino alla vendita nei mercati interni.

I risultati di questa politica di nazionalizzazione non sono stati quelli sperati: si sono registrate carenze persistenti di cibo e aumento costante dell’inflazione, che nei primi 5 mesi del 2010 ha subito un incremento del 21%, secondo i dati della Banca Centrale. La causa di questa inflazione galoppante, sostiene il vicepresidente Elías Jauá, è attribuibile agli speculatori finanziari che si muovono secondo interessi politici volti a destabilizzare la società.

Il governo, invece, ha dato la colpa di tutto ai “ricachones” (ricconi) delle imprese private ritenuti colpevoli della scarsità e della carenza di prodotti alimentari (come farina, latte, carne, riso) a cui si assiste da tre anni a questa parte. Il problema vero invece è che il Venezuela è costretto ad importare la maggior parte del proprio fabbisogno alimentare perché il sistema produttivo nazionale è basato quasi interamente sullo sfruttamento delle risorse petrolifere.

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NON FINISCE QUI – Negli ultimi anni il governo venezuelano ha intensificato le espropriazioni di aziende agricole, produttori e distributori di prodotti alimentari. Coerentemente a questa politica il 7 giugno l’esecutivo ha annunciato l'acquisizione di 18 aziende alimentari accusate di violare i regolamenti. Tra queste sono comprese sia grandi multinazionali produttrici di cereali, caffè, pomodori come Molinos Nacionales, Cargill e Heinz, sia catene di supermercati come la franco – colombiana Éxito e Cada.

La prossima impresa nel mirino è Alimentos Polar, l’azienda venezuelana a conduzione familiare più grande nel settore della produzione alimentare e di bevande. Le accuse di Chávez nei confronti del direttivo del gruppo sono numerose, tra queste le più eclatanti riguardano l’essersi accaparrati la produzione degli alimenti e l’aver diretto lo sciopero nazionale che ha paralizzato il paese tra il dicembre del 2003 e il febbraio 2004. Alcune delle aziende del gruppo Polar, presenti nella città di Barquisimeto, a marzo sono state in parte espropriate. Nonostante le denunce di abusi presentate da Polar, soprattutto per le 220 visite degli ispettori del governo nei primi 5 mesi dell’anno, alla fine di maggio la Guardia Nazionale ha sequestrato 120 tonnellate di alimenti dai magazzini per il reato di “acapariamiento” e per aver giocato con la fame del popolo.

CONTESTAZIONI – Il Venezuela sembra essere entrato in vortice dal quale non riesce più ad emergere. Le critiche verso il sistema bolivariano aumentano di giorno in giorno, e queste provengono sia da organizzazioni non governative, che costantemente lamentano nei loro rapporti il mancato rispetto dei diritti umani, sia da organizzazioni internazionali come l’ILO (International Labour Organization) che ha sottolineato la carenza di tutela dei lavoratori e degli impresari venezuelani.

Da un rapporto pubblicato di recente è emersa la preoccupazione per le minacce subite dagli impresari e dai sindacati, ma soprattutto per le restrizioni alle libertà civili, di associazione, al libero commercio e alla proprietà privata.

Il rapporto dell’ILO è particolarmente duro con la gestione di Chávez e sottolinea il clima di intimidazione in cui le aziende si trovano ad operare. Cosa ancor più grave, la Commissione d’Inchiesta ha sottolineato che di anno in anno il governo chavista ignora le proprie raccomandazioni e osservazioni, tra cui quella relativa alla modifica della legislazione per adattarla alla Convenzione della Libertà di Associazione e Protezione del Diritto a organizzarsi e quindi alla necessità di creare uno spazio per un dialogo tripartito tra i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori da un lato, e l’esecutivo dall’altro.

Valeria Risuglia

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Baro romano drom

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Quarto appuntamento con “l'altro” visto con gli occhi della letteratura… Stavolta andiamo a scoprire un mondo “diverso” e poco conosciuto, anche se troppo spesso e frettolosamente “chiacchierato”… quello dei rom. Grazie all'opera di un artista eclettico e poliedrico, Alexian Santino Spinelli.

La concezione di una Nazione senza Stato è estranea alla forma mentis dell’Europa. L‘aspetto relazionale dell’identità risulta di ostica comprensione, nonostante si sia rivelato nel tempo il più duraturo e l’unico concepibile nel mondo che abbiamo nostro malgrado costruito. L’esasperazione dell’idea d’identità nazionale ha prodotto cumuli di negazioni della giustizia e della libertà nei rapporti storici e quotidiani tra i popoli, di cui tendiamo a ricordarne solo una piccola parte. C’è un popolo che l’Europa del libero pensiero e delle libertà individuali rifiuta con odio secolare: quello romanì. Un popolo che è rimasto costantemente incardinato nel pregiudizio, di cui storia e cultura ci sono del tutto ignote. E non abbiamo mai rivelato curiosità nel scoprirle. Zingari, nomadi, carovane, giostre e violini. Furti di beni e di bambini, da nascondere sotto quelle gonne larghe, colorate e soprattutto sporche. Passivi, mendichi, incapaci di vivere “normalmente”; portatori insani di disagio e vergogna. Eppure.

Eppure la loro storia, di difficile ricostruzione per le scarse testimonianze scritte e la loro difficile interpretazione, mostra una romanipè tenutasi costante e granitica nel corso dei secoli sotto i numerosissimi colpi inflittele dai bandi di Stati, Ducati, Imperatori e Chiese. Santino Spinelli la ricostruisce egregiamente, partendo dall’analisi linguistica e filologica dei termini per lasciar conoscere questa popolazione e la sua organizzazione sociale, la lingua, tutte le ramificazioni dei sottogruppi delle comunità romanés e dei loro innumerevoli dialetti. Soprattutto la scrittura deve render noto il loro lunghissimo cammino e l’autore compie il proprio sulle orme della Storia. Tra le righe, il “j’accuse” di Spinelli è fortissimo e lo svelamento al gagio (il non-rom, dall’indiano antico gajiha, letteralmente “civile, non militare”) di se stesso e delle sue colpe è tutto volto a distruggere l’immagine mentale dello “zingaro” e l’ignoranza che ce l’ha scolpita.

L’area vitale d’origine di rom, sinti, kale manouches e romanichals –si noti:l’autore non utilizza mai uno solo di questi etnomini dei grandi gruppi romanés, ma sempre rigorosamente insieme, nonostante essi siano in sostanza sinonimi tra loro, per sottolinearne ulteriormente il valore identitario- viene scovata dall’analisi linguistica nel Nord dell’India, in un territorio compreso tra l’attuale Pakistan, il Punjab, il Rajastan e la valle del fiume Sind. In origine si trattava di un gruppo eterogeneo denominato Dom (“uomo”)che occupava i territori dell’antico Impero Persiano e successivamente dell’Armenia, a causa della conquista islamica dei territori. Da qui una parte si sedentarizzerà, un’altra confluirà verso i territori dell’impero bizantino. Proprio la denominazione greca medievale di antighani (“non toccato, non offeso”, termine che porta subito alla mente la strutturazione sociale delle caste indiane) è all’origine dei termini atsiganos e antsinkanos, da cui scaturirà la futura generalizzazione razzista di “zingaro”.Quella di “gitano” deriva invece dal nome di “piccolo Egitto” che veniva attribuito alle regioni da essi abitate, zone prospere.

Coloro i quali sono nella posizione di definire e di denominare un popolo sono anche in grado di controllarlo e reprimerlo”:nelle regioni balcaniche iniziarono le prime schiavitù, sotto lo stato, i boiardi, la Chiesa (e in Romania verrà abolita solo nel 1856). Di peregrinazione in peregrinazione, essi approdarono nel XV secolo in Europa Occidentale, specie in Spagna e Italia meridionale, accattivandosi privilegi e concessioni presso le autorità spirituali e temporali tramite un capo con titoli nobiliari, nonché per l’abilità come musicisti -specie nelle corti- e professionisti nella lavorazione dei metalli. Quest’ultimo fu però un primo motivo di timore e ostilità da parte delle popolazioni “ospitanti”: le credenze popolari arcaiche attribuivano ai “signori del fuoco” l’affiliazione con la Terra e quindi forze sacre e demoniache. E’ un fattore che nello specifico del popolo romanì si legava alle arti magiche -la chiromanzia- e a un linguaggio incomprensibile e sconosciuto ai più. Da qui, e dalla svolta epocale della strutturazione in fieri degli stati sovranazionali, la situazione iniziò a precipitare: dal “Wer Zingeuner schuadight, frewelt nicht” (“Chi colpisce gli zingari non commette reato”), emesso dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo durante la dieta di Augusta nel 1498, alla “Dichiarazione del re contro gli zingari”, firmata da Luigi XIV nel 1682; passando per i 210 provvedimenti emanati dai vari “staterelli” “italiani” – di cui ben 79 a firma dello Stato Pontificio- e per il dispotismo illuminato di Maria Teresa d’Austria e di suo figlio Giuseppe II, che prevedeva un assimilazione ghettizzante ma trasformatrice per la romanipè. Fino ad arrivare allo zenit dell’orrore novecentesco:il genocidio che ne fece il nazifascismo, completamente ignorato dalle commemorazioni storiografiche ufficiali.

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Gli studi di eugenetica riuscirono persino a identificare il “gene del wandertriebe”, quello dell’istinto al nomadismo, attraverso “studi scientifici” condotti su 148 bambini. Nei campi di sterminio furono deportati migliaia di rom e sinti: nel solo campo di Auschwitz perirono in 23.000, stime approssimative parlano di circa 500.000 vittime. Non basta. Gli anni novanta del novecento li annoverano tra le vittime della pulizia etnica di Milosevic e Djuric. Nonostante gli organismi e le commissioni internazionali abbiano emanato numerosi documenti in difesa dei diritti di queste popolazioni, tutte elencate con precisione cronologica, e nonostante abbiano dei propri organismi non governativi all’interno dell’ONU (l’International Romanì Union) oggi essi vivono in una situazione di segregazione razziale legalizzata -una sorta di volontà di annientamento intrinseca porta alla collocazione dei “campi nomadi” in zone periferiche, magari sotto tralicci dell’alta tensione, per esempio- coadiuvata dalle associazioni che dovrebbero favorirne l’integrazione e che Spinelli sbugiarda nei loro intenti profondi come “becero assistenzialismo con tanto di controllore mascherato da solidarietà”.

L’autore parte dalla concretezza degli eventi, corredandoli con citazioni di un’ampia bibliografia, per cercare di far comprendere quelle che noi gage chiamiamo “caratteristiche culturali degli zingari” e che lui invece definisce “strategie di sopravvivenza”, ovvero la genesi della completa discrepanza che non permette una convivenza tranquilla: la solidarietà verso la famiglia di appartenenza, la conservazione in clandestinità della lingua e della cultura romanì, il rafforzamento dei legami endogamici, l’autoesclusione, la mendicità, la menzogna, la divinazione, gli spostamenti necessari per fuggire le persecuzioni. Ultimo, l’incompreso per eccellenza: il furto, che procaccia mezzi per la sopravvivenza e colpisce i gage nei loro beni materiali dall’importanza eccessiva: colpo economico, quindi, ma anche morale. Incomprensione non condannabile, ma certo comune a molti atti di resistenza.

L’interesse dell’opera cresce quando l’analisi si sposta all’interno di questo mondo così estraneo. L’autore scandaglia ogni singolo particolare dell’organizzazione sociale, svelando la struttura orizzontale della “famiglia”, il valore immenso che ciascuna di esse ha all’interno della comunità di appartenenza e un principio di reciprocità che non comporta gerarchizzazioni sociali, se si escludono il divario economico e la preminenza della sfera maschile su quella femminile. Rituali religiosi, matrimoni, funerali sono tutti osservati con l’occhio indispensabile dell’origine tradizionale. Colpisce soprattutto la visione manichea della vita e del mondo, dell’osservazione dei fenomeni naturali e sociali, ma anche di particolari quali gli animali, i cibi, l’igiene personale, secondo quell’ottica dualistica, dove predominano i concetti di “Onore” e “Vergogna”, di “Purezza” e “Impurità”; dove Cielo e Terra hanno un valore arcaico radicato nel tangibile.

Infine l’arte, “caratterizzata da due aspetti inscindibili e complementari perfettamente confacenti alla visuale della filosofia romanés: la malinconia, la ribellione e la dissonanza da un lato e l’allegria, la vivacità e il calore dall’altro”. Pittura (Ferdinand Koçi, rom illustratore e pittore albanese), letteratura (Bronislawa Wajs “Papusa”,roma polacca, figura importantissima nel panorama letterario romanò), teatro (moltissime compagnie, di cui si ricorda l’esperienza fondamentale del Teatro Romen di Mosca, fondato nel 1931) e soprattutto la musica (chi non conosce Django Rehinardt?!).

Siamo sicuramente di fronte a un libro da maneggiare con cura, da sorseggiare come una piccola enciclopedia piena di eventi, leggende,cifre, nomi e studi linguistici che potrebbero anche risultarci pleonastici. Non dobbiamo dimenticare che a parlare è “l’altro” e la situazione consona che viviamo nei suoi confronti è totalmente rovesciata. Ma per conoscere e soprattutto per capire bisogna ascoltare. Rispettare, non assimilare. Inserire, non annullare. Per impedire che proprio l’identità nazionale, continuando a mantenere una radice unica e a non incontrare altre radici con cui condividere il succo della terra, finisca per indebolirsi e assottigliarsi. L’ampliamento la fortifica e riafferma con più vigore. Lacho Drom!

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Italia, che delusione

Ieri mattina il titolo era: ore 16, l'Italia si desta? La risposta purtroppo è stata evidente, eppure il Caffè ci credeva. Ecco la scheda geopolitico-pallonara (scritta prima del disastro Slovacchia) del nostro Paese e della nostra Nazionale, che tra loro hanno diverse commistioni e moltissimi punti in comune. Sembra essere nel nostro DNA: diamo il meglio nella difficoltà e nell'emergenza. Non ieri, purtroppo

IL PAESE

Raccontare il proprio Paese in poche righe è assai più complicato che farlo per tutti gli altri Paesi…proviamoci. Come sta la nostra Italia? Si potrebbe dire che la nostra Nazionale è attualmente lo specchio del Paese reale (considerazione estendibile a tanti altri Paesi). Si arranca e si fatica, in mezzo alle polemiche. Una crisi economica che non dà tregua, anzi. Una manovra da approvare, tra tante considerazioni e una certezza comune: è necessario tagliare e fare sacrifici, certo, il momento è particolare. Basta non lo si chieda a me e alla mia categoria. Una maggioranza e un governo caratterizzati da divisioni e lotte. Una opposizione troppo spesso non pervenuta. Un controverso referendum su Pomigliano, che ancora non è chiaro se rivoluzionerà il mercato del lavoro o se lascerà tutto com’è. Uno scandalo alla settimana, che non può avvenire che trascorra qualche giorno senza che questo o quel potente di turno, beccato con le mani nella marmellata, passi dalle stelle alle stalle in un amen. Una legge sulle intercettazioni che, tra utilizzo delle stesse nelle inchieste giudiziarie, libertà di informazione e diritto alla privacy, promette di essere una delle questioni più controverse della Seconda Repubblica. Un federalismo che chissà se si potrà attuare, tra spinte di decentramento (legittime) e venticelli di divisione (un po’ meno). Un sistema di riforme che arriverà assieme a Godot, se non dopo. Una precarietà sul lavoro sempre più pesante. Un…

Stop. È il nostro mestiere: noi italiani siamo bravissimi a prendere fango, gettarlo nel ventilatore e poi parlare di noi stessi. Succede parlando del Paese quanto della Nazionale. C’è del marcio in Italia, direbbe Amleto? Forse sì, ma non c’è solo quello. Non possiamo parlare solo male dell’Italia, nonostante qualche livido e qualche cerotto. Ad esempio: parlando di Europa, non si può non segnalare che noi italiani dobbiamo ancora ringraziare la fatica fatta per entrare nella zona euro una dozzina di anni fa. Nonostante siano diversi quelli che rimpiangono la vecchia lira, e al di là del futuro incerto della moneta unica, bisogna considerare come attualmente senza euro saremmo ben oltre il livello di difficoltà del grosso grasso pandemonio greco. E sullo scacchiere globale, al di là di una politica estera che nell’ultima decade ci ha avvicinato molto tanto agli Usa quanto alla Russia, anche tramite la personalizzazione, talvolta eccessiva, della politica estera nella figura del premier Berlusconi, è da segnalare il sempre più crescente apprezzamento degli italiani nelle missioni internazionali in cui sono coinvolti, Afghanistan e Libano in primis. E poi, al di là delle notizie da prima pagina, si percepisce in Italia un grande “sommerso” di positivo: dalla voglia di emergere di giovani tutt’altro che bamboccioni (il web ne è un esempio lampante, e nel nostro piccolo, anche noi) agli imprenditori che stringono i denti nelle piccole-medie imprese di settori e distretti, la lista che sta in mezzo è davvero lunga. Insomma: forse si potrà contestare l’assenza di leader adeguati per questa Nazione (e per questa Nazionale). Ma se fossero i gregari, le vite da mediano, a migliorare il nostro Paese? In fondo, anche nel calcio, non abbiamo vinto il Mondiale con i campionissimi, ma con i Grosso e i Gattuso…

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I NOSTRI AZZURRI

È sempre stato così: diamo il meglio nella fatica e nell’emergenza. Tanto nel nostro Paese, quanto nei campi di calcio. Chiunque conosca un briciolo di storia della nostra Nazionale, sa che le partite con Nuove Zelanda, Perù e Coree varie sono quelle che nascondono sempre le peggiori insidie. Ne abbiamo fatte di figuracce, ben peggiori dell'ultima, in questi 100 anni di Nazionale. Ma soprattutto, abbiamo avuto grandi trionfi: se, per dirla con i brasiliani, la mano di Ayrton Senna non avesse alzato il rigore di Baggio, nel 1994 probabilmente l’Italia sarebbe la nazione più titolata al mondo. E, come dimostrò quel mondiale (finalisti dopo aver passato il girone come ultima delle migliori terze) e come hanno dimostrato il trionfo post Calciopoli di Berlino, e il Mundial del 1982, partito tra critiche ben più aspre di quelle attuali, il nostro destino (non solo come Nazionale?) è sempre quello di soffrire e faticare. E di emergere proprio in questi momenti. È vero, manca il giocatore dal dribbling fulminante, dell’invenzione negli ultimi 20 metri, l’uomo che accende la fantasia e scalda i cuori. Vero, siamo più deboli di quattro anni fa (quando però vinse una squadra di gran lunga inferiore a quella delle quattro edizioni precedenti). Vero, i nostri due uomini migliori tra i 23 sono in infermeria. Eppure questa Nazionale nessuno la vorrebbe incontrare. Non brillerà, ma sarebbe un avversario difficile per tutti. E una volta superato il sempre ostico passaggio del girone (nella storia, più il girone era facile, più ci complicavamo la vita), potremmo essere un cliente poco raccomandabile per tutti, dall’Olanda in poi. Magari fra poche ore la Slovacchia ci manda a casa con la coda tra le gambe. Un pronostico personale? Io dico di no. Per cui, se è opinione più o meno condivisa la perplessità suscitata da alcune esclusioni eccellenti, iscriversi al partito Cassano-Balotelli ora come ora conta poco. Siamo 60 milioni di c.t., ognuno di noi la pensa diversamente. Uno di questi 60 milioni si chiama Marcello Lippi, fa davvero il c.t. (ancora per un po’, si spera una ventina di giorni), a molti ispira meno simpatia che un’operazione dentistica, eppure è il c.t. che ci ha fatto vincere un Mondiale. Un po’ di credito se lo merita. I conti, nel bene e nel male, si fanno alla fine.

GEOPALLONE

A parte alcuni ricorsi storici (la Seconda Repubblica politica post Dc-Pci si forma negli stessi anni della Seconda repubblica pallonara, in cui il calcio italiano si divide in pre e post-sacchismo), verrebbe quasi da sorridere: calcio e politica? La politica che si occupa di calcio? Ma dai… come è possibile? E invece lo sappiamo bene, non ci sono ricerche storiche da fare: basterebbe citare le dichiarazioni di vari Ministri degli ultimi giorni, o le sparate di Radio Padania con mire più o meno secessioniste. Riassumendo: i calciatori guadagnano troppo (vero, ma all’interno di un sistema di mercato con determinate cifre. Diversamente dai politici…), Lippi hai sbagliato tutto, forza Paraguay, tanto con la Slovacchia vi comprate la partita, e chi più ne ha più ne metta. Per dirla con Ringhio Gattuso: politici, ma perché parlate di calcio?

La commistione calcio e politica presenta anche dei gustosi flash storici, dallo scopone scientifico sull’aereo di ritorno da Madrid tra Zoff, Bearzot, Causio e il Presidente della Repubblica Pertini, sino alle gesta del Ministro dello Sport Giovanna Melandri nel 2006, che salutò la Nazionale in partenza per la Germania scendendo sul campo fradicio in infradito, inzuppandosi completamente. La stessa, poi, entrando negli spogliatoi col Presidente Napolitano a fine mondiale sarà protagonista di cori irripetibili promossi dagli azzurri. Al di là degli aneddoti, occorre soffermarsi sui Mondiali del 1934, giocati e vinti in casa. Strumento diplomatico, di consenso e di propaganda, il calcio in genere e il mondiale furono promossi e seguiti strenuamente dal regime fascista, che vide la vittoria del titolo come motivo di vanto e orgoglio nel mondo intero. Fu quella la commistione calcio-politica più evidente. Ma il vizietto ci è rimasto. Un esempio su tutti? Le critiche a Lippi sono bazzecole rispetto a quelle subite da Bearzot. Cassano e Balotelli sono attualmente snobbati, rispetto a quanto vennero richiesti nel 1982 Pruzzo e Beccalossi: le convocazioni, in quel caso, furono oggetto di interrogazioni parlamentari che parlavano di "lesione di interessi nazionali preminenti". Come andò a finire, poi, lo sappiamo tutti. Che sia di buon auspicio.

 

Alberto Rossi

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Le volpi sono tornate

L’Algeria torna ai Mondiali di calcio dopo un’assenza durata 24 anni. A permettere agli algerini di staccare il biglietto per il Sudafrica è stato l’eterno scontro con l’Egitto, rivale sulla carta più forte, ma sconfitta in uno spareggio drammatico. Il Paese, in cerca di stabilizzazione dopo il terremoto della guerra civile nel decennio scorso, gioca le sue carte a livello internazionale e regionale sulle immense risorse di gas naturale di cui dispone, ma è anche sulla strada di una difficile riconversione e diversificazione dell’economia, che possa portare all’Algeria maggiore sviluppo e benessere sociale.

IL PAESE

Uscita da una sanguinosissima guerra civile solo 10 anni fa, l’Algeria continua ad essere, seppur ai margini delle cronache occidentali, un Paese che a stento cerca di uscire dalla spirale di instabilità e violenza che ha caratterizzato tutti gli anni ’90. Ancora teatro di frequenti scontri tra le Forze di sicurezza e i gruppi di matrice islamista, adesso riuniti sotto la sigla di AQAM (Al-Qaeda nel Maghreb), l’Algeria si muove nel panorama internazionale attuale tra molte contraddizioni, in parte tipiche di un Paese in via di sviluppo e ricco di risorse naturali. Si tratta infatti del maggior produttore di gas naturale della regione del Maghreb, uno dei primi al mondo, e il maggior fornitore di tale risorsa ai Paesi europei, Italia in primis.

Allo stesso tempo, la natura di stampo semi-autoritario del regime del Presidente Bouteflika, mascherata da un apparente sistema istituzionale democratico e repubblicano, alimenta le tensioni all’interno dell’Algeria, affetta da un’ineguaglianza della redistribuzione delle risorse che lascia molte persone in una situazione di povertà: Tutto ciò, nonostante gli apparenti tentativi di riforma economica e sociale portati avanti dal governo centrale. La presenza di una forte minoranza berbera, soprattutto cabila, unita alla permanenza di gruppi legati al radicalismo islamista, non aiuta a normalizzare del tutto la situazione interna, in cui è ancora latente la possibilità di scontri sociali e politici, nonostante alcuni progressi siano stati fatti.

CAFFE’ IN PILLOLE

  • Con una superficie di circa 2.380.000 chilometri quadrati, l’Algeria risulta essere il secondo Stato africano per estensione territoriale.

  • Dal 2014 dovrebbe essere operativo il GALSI (Gasdotto Algeria Sardgena Italia), destinato all’importazione da parte dell’Italia di gas naturale dall’Algeria. Dovrebbe trasportare 8 miliardi di metri cubi di gas naturale l’anno e costituirebbe un passo avanti in più per rendere il nostro Paese più indipendente dalla Russia nel proprio approvvigionamento energetico.

  • Tra il 1992 e il 1997 il Paese è stato teatro di una guerra civile, tra le Forze di sicurezza statali e i gruppi islamisti del GIA (Gruppi Islamico Armato) e altri movimenti affiliati, dopo lo scioglimento del FIS (Fronte Islamico di Salvezza), partito politico che aveva vinto il primo turno delle elezioni politiche nel dicembre 1991. Per evitare che il secondo turno sancisse la vittoria definitiva degli islamisti, l’Esercito impose un colpo di Stato e annullò le elezioni: da qui le violenze che, in 10 anni, provocarono la morte di circa un milione di persone.

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LE VOLPI DEL DESERTO

Questo il soprannome dato alla squadra, per via della piccola volpe che abita il Nord-Africa. L’Algeria si presenta ai Mondiali di calcio del Sudafrica, dopo che la sua ultima apparizione era stata quella di Messico ’86. Si tratta della sua terza apparizione nella massima competizione calcistica mondiale, dopo quella appena menzionata e la precedente, quella in cui trionfarono gli azzurri di Spagna ’82. Sulla carta, tra tutte le squadre africane è quella con meno chances di andare avanti, nonostante si sia fatta valere nella sfida contro l’Inghilterra, in cui ha sfiorato la vittoria. La sua stella è il numero 10 Karim Ziani, giocatore del Wolfsburg, l’anno scorso squadra campione della Bundesliga tedesca. Può contare anche sulla velocità e l’estro di Belhadj, fluidificante sinistro in forza al Portsmouth e nelle mire della Roma e, sull’altra fascia, di Yahia, il quale milita anche lui in Germania, nel Bochum.

Un pizzico di Italia nella squadra algerina si può ritrovare nel giovane Mesbah, difensore del Lecce appena promosso in serie A, e nell’attaccante del Siena Ghezzal, giocatore dotato di buona tecnica, ma non titolare in nazionale. La squadra è guidata, per la terza volta dopo i bienni 1985-86 e 2003-04, da Rabah Saadane, tornato ad essere CT nel 2007. Le possibilità di passare il turno nel girone C, quello di Inghilterra, USA e Slovenia, sono ridotte e l’Algeria si giocherà tutto nella terza partita con gli Stati Uniti.

GEOPALLONE

Come già trattato più di una volta sul Caffè Geopolitico, la correlazione tra calcio e politica in Algeria ha una data precisa ed un avversario, l’avversario di sempre: l’Egitto. La data è mercoledì 18 novembre 2009. In Sudan Algeria ed Egitto si giocavano lo spareggio per un posto ai Mondiali, dopo un incredibile finale di girone che aveva visto l’Egitto, sempre contro l’Algeria, conquistare lo spareggio in una partita drammatica giocata due settimane prima e finita con un gol al 90° minuto. Intorno a quel match Egitto – Algeria era successo di tutto: l’autobus degli algerini era stato aggredito al Cairo da un gruppo di tifosi e i giocatori sono rimasti terrorizzati.

Sono scesi in campo anche i Ministri degli Esteri e i Presidenti dei due Paesi, minacciando ritorsioni contro il Paese avversario, ma stavolta in campo politico ed economico. Dopo scontri di piazza tra le due tifoserie e la vittoria dell’Algeria nello spareggio, infatti, la compagnia egiziana Orascom ha minacciato di togliere il lavoro ai suoi 4.500 dipendenti algerini, anche a seguito degli attacchi alle sue filiali (la Djezzy) in Algeria, che hanno causato danni alla compagnia per circa 54 milioni di dollari, tramite la campagna di boicottaggio partita in Algeria. Si può proprio dire, in questo caso, che le tensioni politiche e sociali dei due Paesi si sono sfogate nel campo di calcio.

Stefano Torelli

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Quei rammolliti della Casa Bianca

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Scossa all'interno dell'Amministrazione statunitense: la rivista americana Rolling Stone ha pubblicato un lungo articolo contenente dichiarazioni decisamente "sopra le righe" che il Generale americano Stanley McChrystal, a capo delle coalizione internazionale ISAF e della missione militare USA in Afghanistan, ha rilasciato alla rivista, infuocando la discussione sulla attuale strategia americana.

Leggerezza o scontento?

Il problema di McChrystal? I rammolliti che alla Casa Bianca non decidono come dovrebbero, spesso fermi a idee da guerra fredda o buoni solo a scrivere e-mail.

Dopo queste incaute dichiarazioni, Obama ha subito convocato alla Casa Bianca il suo Generale, additando le sue dichiarazioni come dettate da “scarso giudizio”.

Il Generale si è intanto scusato per la leggerezza delle proprie dichiarazioni ed ha offerto le proprie dimissioni, senza però ritrattare nulla e la sua posizione è adesso fortemente a rischio.

Ma si tratta solo di questo, è solo una leggerezza?

Dopo la recente offensiva militare nella regione afghana di Marja, lanciata in grande stile ma con risultati poi valutati ben al di sotto delle attese, ed in vista di una nuova azione militare a Kandahar, le dichiarazioni del Generale non possono certo essere solo frutto di scarsa riflessione.

Lo scontento mostrato dalle tante affermazioni pungenti del militare fanno infatti ragionevolmente pensare che il problema evidenziato sia un altro, come d'altro canto rimarcato anche da altre voci nell'Amministrazione USA: la squadra americana non sembra lavorare sempre come tale.

McChrystal si trova infatti a capo del team militare americano, che dovrebbe raccordarsi con Holbrooke (il Rappresentante Speciale per Afghanistan e Pakistan), Biden (vice-Presidente USA), Eikenberry (Ambasciatore americano a Kabul) nonché direttamente con Obama ed il suo Consigliere per la sicurezza nazionale Gen. Jones, ma tale raccordo tra ramo politico e ramo militare appare problematico.

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Le grandi difficoltà strategiche e tattiche di cui gli USA non sembrano proprio riuscire a venire a capo hanno già avuto conseguenze dure: una guerra lunga, logorante, che vede l'Amministrazione afghana sempre più lontana da quella americana, la popolazione afghana sempre meno tollerante della presenza straniera, Talebani e ribelli sempre sulla cresta dell'onda.

Al momento, l'unico ad avere preso le difese di McChrystal, criticato anche da molti colleghi militari, è Karzai. Il Presidente afghano ha dichiarato infatti che McChrystal "è il miglior comandante della guerra", che "è una persona di grande integrità" e "che possiede una profonda comprensione del popolo e della cultura afghani".

Una inattesa dichiarazione di stima, considerato il tono ben diverso che da mesi Karzai riserva agli americani, nonché ulteriore indizio di una frattura che pare davvero esistere nel team americano, spesso in grave contrasto con Kabul.

Lo sfogo del Generale mette in evidenza non tanto gravi differenze di vedute o fratture insanabili, quanto il rischio di logoramento dovuto a risultati limitati ed instabili rispetto agli obiettivi dell'Amministrazione ed alle aspettative di alleati, opinione pubblica e afghani.

A breve è attesa una decisione di Obama: rimuovere il Generale o richiamare l'intero team all'ordine?

Pietro Costanzo

23 giugno 2010

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Ritorno sulla Via della Seta?

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La Repubblica popolare torna a guardare a Occidente. Dietro all’interesse del dragone si nascondono sete di petrolio e l’esigenza di tutelare la propria sicurezza nazionale. L'Asia Centrale si caratterizza però per essere una regione “difficile” per la sua instabilità politica e religiosa.

LA CINA E L'ASIA CENTRALE, UNA LUNGA STORIA- Una storia non sempre d’amore, ma non per questo meno importante. La via della seta, per secoli la più importante via commerciale planetaria, passava attraverso quelle pianure assolate e polverose. Questo potrebbe darci la misura di quanto la Cina sia stata legata al “suo” occidente. Oggi, secoli dopo, la storia si ripete. La Cina torna a guardare verso il sole calante.

LE RISORSE ENERGETICHE, UNA NECESSITA'- Il tempo delle spezie e della seta è finito, questa è l’era del petrolio e dei minerali, degli oleodotti e delle ferrovie. La Cina, con quasi un miliardo e mezzo di abitanti e un tasso di crescita che sfiora il 10% annuo è il Paese che più ne ha bisogno. La sete del dragone -come viene acutamente evocata la brama di idrocarburi che anima Pechino- è forte e non basteranno pochi barili di greggio a placarla. La Repubblica Popolare deve soddisfare i suoi bisogni energetici, questa è un'assoluta priorità nell’agenda dei suoi dirigenti. Paesi come l’Uzbekistan -solo per citarne uno- rappresentano una fonte che Pechino non può non considerare attentamente. Soprattutto quando si consideri che l’estrazione di petrolio sul suolo cinese ha praticamente smesso di crescere mentre i consumi della Repubblica Popolare sono aumentati vertiginosamente: dall’esportatore di greggio che era, il Paese si è trasformato nel secondo importatore a livello mondiale. Nel 2004 la domanda cinese costituiva ben il 31% della crescita della domanda mondiale. Considerando che i cinesi consumano a livello pro-capite molto meno degli occidentali è facile intravedere la crescita potenziale della sua domanda nei prossimi anni. Dunque, l’oro nero e i metalli rappresentano un obiettivo primario nella marcia verso occidente. Ma non sono gli unici elementi. E’ chiaro che l’interesse cinese per le aride terre che si estendono oltre il Gobi ha anche radici politiche e strategiche. L’Asia Centrale è una zona instabile, ma estremamente importante per la sicurezza della Repubblica Popolare. Ieri era il luogo dove stanziavano le truppe sovietiche, oggi è il terreno di coltura per l'estremismo islamico che influenza gli uighuri nello Xinjiang. Le cose cambiano, ma sembra che continui ad esserci una buona ragione per tenere sott’occhio il confine occidentale.

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I RISCHI POLITICI – Inserirsi con peso economico e politico in quest’area potrebbe tuttavia sollevare delle problematiche nuove. In primis, ovviamente, svetta l’inevitabile conflitto con la Russia. L’erede dell’Unione Sovietica ha sempre avuto una fortissima influenza sui Paesi dell’Asia Centrale, specialmente nel settore più caro ai cinesi, quello del petrolio. L’inserimento di Pechino con oleodotti e investimenti potrebbe mettere in forse il peso di Mosca, che finora ha avuto un vantaggio competitivo enorme dovuto ai suoi collegamenti stradali e ferroviari, nonché ai suoi gasdotti (basti pensare che, fino al 2007, Gazprom comprava il gas Uzbeko a 50 dollari ogni mille metri cubi per poi venderlo all’Europa a 300). D’altra parte bisogna sempre considerare la delicata posizione internazionale dell’Iran e la presenza americana in Afghanistan. Un’area calda che sta richiamando l’attenzione del mondo come successe ai tempi del “great game”. Finora la Cina ha mantenuto una posizione defilata su tutti questi temi, assicurando la priorità alle questioni economiche, ma è difficile ipotizzare che questo possa continuare se la Cina si presenterà con maggior forza nella regione. Il rischio è di trovarsi invischiati in questioni scottanti ed essere sottoposti a maggior pressione da parte di Paesi terzi. Da quando la Cina ha cambiato volto –vale a dire dalle riforme di Deng Xiaoping- Pechino non ha accettato di assumere un ruolo politico pari a quello economico. In futuro chissà.

Michele Penna

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Rimescolamento di carte

Un altro cambiamento nel panorama istituzionale argentino in un ministero chiave del Governo Kirchner. Si tratta di Jorge Taiana, Ministro degli Esteri, che venerdì scorso ha rassegnato improvvisamente le dimissioni. Al suo posto è stato designato Héctor Timerman, attualmente ambasciatore negli Stati Uniti, peronista e kirchnerista di ferro. Quali scenari si aprono per la politica interna ed estera argentina?

ME NE VADO – In questi giorni non è facile trovare un argomento che possa appassionare la popolazione argentina al punto di mettere in ombra le prestazioni convincenti che la selección di Diego Armando Maradona sta mostrando ai Mondiali di calcio sudafricani. Tuttavia, nei giorni scorsi si è verificato un importante evento al vertice delle istituzioni nazionali: venerdì 18 giugno, infatti, il ministro degli Esteri Jorge Taiana (nella foto sotto) ha rassegnato le dimissioni dal suo incarico. Un gesto improvviso ed inatteso, ancor di più perchè giunto all'indomani della soluzione di una crisi diplomatica annosa con il confinante Uruguay, sorta in merito al presunto inquinamento delle acque del fiume Uruguay (che, appunto, rappresenta una linea di frontiera geografica tra i due Paesi sudamericani) da parte della cartiera Botnia. Sembra essere stato proprio lo strascico di questa crisi però il fattore che ha provocato le dimissioni del ministro. Infatti il quotidiano “Clarín”, oppositore del Governo di Cristina Kirchner, ha pubblicato una notizia a proposito del fatto che il Brasile si occuperebbe di gestire l'area incriminata dall'inquinamento, in modo tale da agire da “arbitro” della questione. In realtà le cose non stanno proprio così: Brasilia parteciperà insieme a Buenos Aires e a Montevideo nella gestione congiunta dell'area. I Kirchner non hanno però gradito l'errore pubblicato dal “Clarín” e hanno accusato Taiana di aver volontariamente informato il quotidiano, che però ha prontamente rettificato negando la responsabilità del ministro e assumendosi la responsabilità dell'errore. La frittata, però, era fatta: difficile sapere se tutto ciò è stato fatto intenzionalmente oppure se si sia trattato di un vero, anche se grossolano, errore: sta di fatto che ora il nuovo “Canciller” argentino è Héctor Timerman, ambasciatore negli Stati Uniti richiamato in patria per guidare la politica estera nazionale.

QUALI RETROSCENA? – Non è chiaro il vero motivo delle dimissioni di Taiana, che fino a questo momento aveva agito sostanzialmente in linea con le direttive di politica estera dettate dai coniugi Kirchner. In realtà, Timerman era già stato designato ministro degli Esteri “in pectore” e la sua nomina era data per scontata in caso di vittoria di Néstor Kirchner alle elezioni presidenziali in programma per il 2011. E allora perchè affrettare il tutto? Sembra che la causa scatenante del divorzio tra Taiana e la “Presidenta” sia una divergenza di vedute nella questione sul nucleare iraniano. Il ministro dimissionario, infatti, si è allineato alla posizione brasiliana di sostanziale “appeasement” nei confronti di Teheran (non dimentichiamoci che Lula ha promosso un mese fa un accordo insieme alla Turchia per aiutare l'Iran a dotarsi di uranio arricchito per scopi civili), in antitesi alla linea dell'Esecutivo, che preme invece per una posizione più rigida verso il regime degli ayatollah, al fianco degli Stati Uniti. Il che potrebbe apparire strano, dato che l'Argentina in questo periodo non vanta relazioni propriamente idilliache con Washington. E allora? Il motivo è essenzialmente quello di cercare di garantire a Buenos Aires prestigio e autorevolezza nella regione sudamericana, cercando di non appiattirsi sulle posizioni della potenza brasiliana e quindi di non scomparire. Non sembra infatti un caso se il cambio al Ministero degli Esteri è avvenuto proprio ad una settimana dal vertice del G-20 in programma in Canada, durante il quale verosimilmente si discuterà anche del programma nucleare iraniano, alla luce delle recenti sanzioni approvate dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU con i soli voti contrari, guarda caso, di Brasile e Turchia.

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PROSPETTIVE – La vicenda sembra dunque risolversi in due punti fondamentali. Primo: a livello interno, i Kirchner riaffermano l'insofferenza verso ogni dissenso politico nei confronti dell'Esecutivo. I continui cambi al timone del Ministero dell'Economia (oggi in mano ad Amado Boudou, diligente esecutore delle direttive che giungono dalla Casa Rosada), così come del Banco Central (affidato a Mercedes Marcò del Pont, che prontamente ha ubbidito alla richiesta di sbloccare diversi miliardi di dollari in riserve monetarie per rimpolpare la spesa pubblica), ed ora quello al Ministero degli Esteri, rappresentano la sistematica tendenza dei coniugi Kirchner a non tollerare il dibattito all'interno del proprio schieramento e a rispettare una certa autonomia nei confronti di ministri importanti come quello dell'Economia e degli Esteri. Non a caso il neo designato Cancelliere, Timerman, si è subito profuso in una serie di elogi a Cristina Fernández, elogiando l'operato del Governo sotto tutti i punti di vista.

Secondo: per quanto riguarda la politica estera, ha confermato il giudizio positivo nei confronti del Venezuela, giudicato “un attore importante per la spinta verso l'integrazione regionale” (sarà proprio così?), e condannato velatamente l'operato dell'Iran. Inoltre ha confermato che l'Argentina intende giocare un ruolo di primo piano all'interno del G-20 e che il Paese non permetterà al Regno Unito di sfruttare le riserve petrolifere che giacciono sui fondali delle isole Malvinas-Falkland senza alcun riconoscimento per lo Stato sudamericano.

Le idee sembrano chiare e sono volte a ridare prestigio internazionale all'Argentina, la quale attraversa però una fase di lento e progressivo declino, soprattutto in termini relativi nei confronti di Brasile e Cile, che sono gli attori più dinamici della regione. Gli scenari sono quindi incerti, anche alla luce della scadenza elettorale dell'anno prossimo. I Kirchner stanno cercando di gettare le basi che possano garantire la loro successione al vertice del peronismo: il prossimo anno sarà decisivo per il futuro della politica argentina.

Davide Tentori

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Russia in Action

La settimana si preannuncia molto calda per la Russia: dovrà gestire l'annunciato blocco del gas alla Bielorussia, e nel frattempo una grande missione partirà alla volta degli Stati Uniti per tracciare la strada per nuovi accordi commerciali e politici. In Cina, intanto, gli scioperi cominciano ad essere motivo di preoccupazione. Elezioni in Somalia e Guinea.

Dmitri Medvedev guiderà nei prossimi giorni una grande spedizione russa alla volta degli Stati Uniti. Oltre 250 imprenditori saranno al seguito del Presidente Russo, per visitare Texas e California, alla ricerca di accordi commerciali che possano dare una spinta importante al processo di modernizzazione ed innovazione che è da sempre uno dei punti cardine del suo programma politico. Medvedev incontrerà anche Obama e sul tavolo della discussione ci saranno tutti gli argomenti caldi del momento: dalle sommosse in Kirghizstan alla questione iraniana. I risultati di questo viaggio dagli ampi obiettivi saranno un ottimo termometro dello stato attuale delle relazioni tra le due potenze.

Intanto Mosca, dopo avere riportato l'Ucraina a più miti consigli circa le proprie posizioni sulla gestione degli accordi legati al gas, ha iniziato un “percorso di convincimento” nei confronti della riottosa Bielorussia. Dopo avere annunciato il graduale taglio delle forniture di gas, per via di mancati pagamenti da parte di Minsk, il Ministro degli Esteri russo Lavrov si recherà presso il suo omologo bielorusso Viktor Martynov.

La Bielorussia è di fatto l'unico Paese nell'area ex sovietica che cerca di mantenere una posizione ostinatamente indipendentista rispetto all'influenza russa, e Mosca non pare disposta ad accordare trattamenti di riguardo a queste condizioni.

In Cina le ultime settimane hanno visto scioperare le manovalanze di diverse aziende, soprattutto straniere (Toyota ed Honda ad esempio). Questi scioperi sono avvenuti senza il previo assenso del Governo, circostanza del tutto inusuale, ed il possibile ripetersi di attività simili pone il Governo cinese davanti alla necessità di affrontare il problema. L'aumento della pressione dei lavoratori, principalmente votata alla ricerca di migliori condizioni economiche e di qualità del lavoro, richiede che Pechino e le grandi aziende che hanno delocalizzato in Cina le proprie produzioni trovino il modo di evitare l'esacerbarsi dei contrasti.

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Cos'altro succede in giro per il mondo

  • Esercitazioni militari in corso in Europa: l'operazione MILEX 2010 vede coinvolti i comandi militari congiunti che si occupano di gestione delle crisi. Non saranno comunque schierate truppe.

  • I Presidenti della parte greca e di quella turca di Cipro, Demetris Christofias e Dervis Eroglu, si incontreranno in settimana.

  • In Turkmenistan si tiene una importante Conferenza Internazionale sul disarmo della regione dell'Asia Centrale e del Caspio. Parteciperanno delegazioni da Azerbaijan, Iran, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Russia, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.

  • Il Presidente afghano Hamid Karzai sarà a Londra per promuovere lo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese.

  • Il 26 e 27 giugno si terrà a Toronto, Canada, il summit del G-20. Sono previsti anche molti incontri bilaterali, ad esempio tra Turchia e Stati Uniti. Saranno presenti i leader di diversi Paesi invitati a partecipare, tra cui Nigeria, Malawi ed Etiopia.

  • Parte in Nigeria il programma di formazione e reinserimento di gruppi di ex-militanti che operavano nel Delta del Niger, come parte del programma governativo di amnistia per i ribelli che decidono di abbandonare la lotta armata.

  • Elezioni: in Etiopia verranno ufficialmente rilasciati i risultati delle consultazioni nazionali del 23 maggio. Elezioni nazionali sono previste in Guinea giorno 27 e nella regione autonoma del Somaliland (Somalia), giorno 26.

Pietro Costanzo – La Redazione

21 giugno 2010

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