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Cronaca di una morte annunciata

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È Naoto Kan il nuovo premier giapponese. 63 anni, già vice premier e Ministro delle Finanze del governo uscente, co-fondatore e vice presidente del partito Democratico giapponese. Sostituisce Yukio Hatoyama, dimessosi il 4 giugno, in vista del voto della Dieta, che ha decretato il cambio di guardia ed un nuovo esecutivo. Il gradimento di Hatoyama era sceso al 17% dopo soli otto mesi di governo, da quando, vinte le elezioni in agosto, aveva mandato all’opposizione i Liberaldemocratici dopo una supremazia incontrastata di 54 anni.

UNA CADUTA INESORABILE – Hatoyama ha annunciato bruscamente le sue dimissioni dopo il fallimento che l’ha visto coinvolto nella risoluzione riguardante la base americana di Futenma, ad Okinawa. A peggiorare la sua posizione, alcuni scandali finanziari che continuavano a perseguitarlo. Si è dimesso anche il numero due del partito dei Democratici, Ichiro Ozawa. Uno scivolone che ha solo messo i ripari ad una definitiva sconfitta, in previsione delle elezioni per il rinnovo del Senato a luglio.

Hatoyama si era scusato, ritenendosi addolorato, per non essere riuscito a trovare una soluzione migliore che trasferire la base militare statunitense dalla popolosa città di Ginowan verso la zona costiera e poco abitata di Capo Henoko, a Nago, ma sempre ad Okinawa. La giustificazione dell’importanza di mantenere sul proprio suolo uno scudo americano contro le potenze nord coreane e cinesi non convince più né la popolazione, né probabilmente la comunità internazionale (nella foto sotto alcune proteste popolari), nonostante il recente affondamento della corvetta sudcoreana. Hatoyama ha d’altronde deluso la presidenza statunitense, mancando l’impegno preso con Barack Obama e Hillary Clinton di risolvere la questione militare entro il 31 maggio. Queste mosse hanno inevitabilmente screditato l’immagine del Giappone non solo dinanzi agli Stati Uniti, ma anche di fronte agli attori mondiali.

L’IRA DI KAN… – Kan è il 94esimo presidente del Giappone, ed eredita un governo traballante, senza un appoggio popolare saldo. L’elezione di Kan era dopotutto scontata: il suo appoggio nella Camera Bassa era considerevole, dove è stato eletto con 313 voti. Alla Camera Alta, ha totalizzato 123 preferenze. Il nuovo premier è noto per le sue idee conservatrici in ambito economico-finanziario, per la sua propensione ad uno yen debole, ma le sue priorità saranno quelle di risanare l’ingente debito pubblico che attanaglia il paese, così come applicare politiche demografiche per fermare il costante invecchiamento della popolazione nipponica. E ancora: la sua preoccupazione è lavorare fianco a fianco con il corpo giudiziario e con i membri del suo esecutivo, in vista della formazione del nuovo governo prevista per martedì, e non per giovedì, come aveva precedentemente affermato.

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NUOVO CORSO – Il Giappone ha uno spudorato bisogno di dare alla propria politica una nuovo volto. Un maquillage di cui Kan, un self-made man, una rarità per la politica nipponica, dovrà prendersi carico. Naoto è un pacifista, in linea con la vecchia scuola della tradizione di sinistra. Già nel 2003, prese le distanze dall’impegno in Iraq, ritenendo la decisione di inviare delle truppe un calcolo politico sbagliato. Segno che non vuole entrare in discussioni pericolose riguardanti obiettivi sensibili con i propri alleati. La base di Futenma, adesso, rappresenta un precedente al quale guardare con discrezione: gli elettori non si faranno più raggirare con facilità, e il patto con il potere per Kan non è affatto semplice.

Alessia Chiriatti

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Diario da Kabul

Aghanistan 2010: Emanuele Giordana, giornalista dalla lunga esperienza sul campo, raccoglie in questo libro quanto ha scritto negli ultimi anni, mettendo insieme i “pensieri liberi” riversati nel suo blog con le analisi e gli articoli pubblicati per quotidiani, riviste, radio, tv. Il risultato è una sintesi attenta, che mette in evidenza gli aspetti della vita vera in Afghanistan, quella dei militari e quella dei civili, quella degli expatriates e quella dei locali.

Noi e l'Afghanistan, l'Afghanistan e noi

Giordana divide così il suo libro, due parti in cui tenta di dare due visuali diverse, per poi arrivare ad una conclusione dura ma realistica: siamo in Afghanistan ma lo guardiamo solo con i nostri occhi. “Anche quando ci sforziamo di raccontare gli altri, finiamo sempre per parlare di noi”, afferma.

La comunità internazionale agisce sul quel territorio dalla storia e dalle tradizioni millenarie, spesso soprassedendo alle necessità ed alle caratteristiche reali della popolazione e dello Stato afghano, combattendo anzitutto contro le proprie ambiguità interne.

La prima conseguenza, da italiani, nota giustamente l'autore, è che non possiamo pronunciare la parola guerra; ma di più, è estremamente delicato raccontare anche solo che i nostri soldati facciano uso di armi in battaglia.

Questo tabù è però un limite culturale, una barriera che sembra impedire alla nostra politica ed alla nostra società civile di uscire dal pantano di un dibattito sterile e odioso che sembra solo voler semplificare: facciamo la guerra o portiamo la pace?

Racconta l'autore, invece, delle mille sfumature, delle particolarità di un missione internazionale che vive la tragedia quotidiana di scelte difficili e complesse; racconta di persone, militari o civili, che vivono in una realtà lontana da noi, ma per la quale noi decidiamo.

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È possibile fare altrimenti?

Scriveva Tolstoj in Guerra e Pace: “ogni uomo vive per sé, si vale della libertà per il raggiungimento dei suoi fini personali e sente con tutto l’essere suo che egli può sull’istante fare o non fare la tale azione; ma appena l’ha fatta, questa azione, compiuta in un certo momento, diventa irrevocabile e diviene patrimonio della storia, nella quale ha una portata che non è libera ma predeterminata”.

Il realismo imposto dalla guerra suggerisce che no, non è possibile avere un approccio al problema con gli occhi dell'altro. Cionondimeno, lo sforzo da tentare è quello di guardare al problema insieme all'altro, cercare di decidere insieme e cercare di farlo consapevolmente, così che le nostre azioni siano determinate da libertà e la storia possa fare il suo corso senza che sia il caso a dettare le sorti.

In questo caso l'altro e l'afghano, anzi è l'Afghanistan: con tutte le sue complessità e le fazioni coinvolte in questo conflitto che è insieme una guerra americana, una guerra della NATO, un disordine civile, una battaglia geopolitica, un tentativo di portare aiuto.

Emanuele Giordana ci guida bene in questo sforzo di comprensione: parla di noi, e ci racconta del lavoro dei militari, dei diplomatici, delle organizzazioni di cooperazione allo sviluppo, dell'ossessione per la sicurezza, del grande business della guerra e della sua incredibile logistica.

Parla degli afghani e ci racconta dei talebani, dei toelettatori per cani diventati i nuovi burocrati, delle loro particolarità.

Inoltre, l'autore non evita di trattare anche alcune spinose questioni di politica nazionale internazionale (dalle nomine diplomatiche al “caso Emergency”), relative anche alle posizioni della politica italiana .

Tutto questo senza di perdere di vista la domanda fondamentale: ma gli afghani, la maggioranza di loro, che ruolo hanno in tutto questo?

Pietro Costanzo

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Un’altra impresa… ‘pazza idea’ ?

La Grecia si presenta al Mondiale di Sud Africa 2010 a fari spenti con una formazione combattiva e senza troppe pretese. Il girone con Argentina, Nigeria e Corea del sud, non lascia molte speranze di passaggio del turno agli uomini di Otto Rehagel e sembra davvero improbabile pensare alla replica di un ottimo risultato, come quello dell’Europeo portoghese, per tentare di risollevare l’umore di un paese in ginocchio a causa della crisi economica.

Il Paese

Da diverse settimane, ormai, la Grecia è al centro dell’attenzione mondiale a causa della gravissima crisi economica che ha flagellato il paese. Analisi e dossier economici descrivono la drammatica salute economica della nazione ellenica ponendo l’attenzione sull’enorme debito pubblico e sul pesantissimo rapporto tra la spesa pubblica e il prodotto interno lordo. Proprio quest'ultimo fattore ha scatenato l’aumento vertiginoso dei prezzi di moltissimi prodotti nonché un impressionante ridimensionamento dell’occupazione, riduzioni e tagli in ogni settore economico del paese. Atene sembra davvero essere ad un passo dalla totale bancarotta. Il tutto senza calcolare gli immensi danni subiti dal turismo a causa dalle crescenti tensioni sociali e dei conseguenti scontri, spesso anche armati, tra la popolazione e la polizia. Il paese sembra essere sull’orlo di una vera e propria rivolta popolare. Al momento attuale pare che solo che un intervento economico delle nazioni dell’Unione Europea possa salvare Atene da giorni ancora più bui. Il calcio in quest'occasione può davvero poco.

Caffè in pillole

• Nelle scorse settimane, il governo greco, guidato da Yorgos Papandreou, ha imposto alla popolazione misure economiche drastiche: taglio di parte della tredicesima e della quattordicesima dagli stipendi dei dipendenti pubblici, aumento dell’Iva (mediamente del 2%) dei prodotti in commercio, sovrattasse su sigarette ed alcolici, considerevoli aumenti della benzina passata in breve tempo dal costo di 1,10 euro al litro a punte di 1,50 euro.

• La bandiera greca, che riporta i colori bianco (simbolo di purezza) e l'azzurro (simbolo di eternità), fu scelta da patrioti e fu adottata fin dal 1832. La croce indica il simbolo cristiano e le nove strisce rappresentano le nove sillabe del motto nazionale: "Libertà o Morte". Secondo l'interpretazione popolare la bandiera sarebbe blu come il mare e bianca come la schiuma delle onde sottolineando cosi la prevalente attività marittima che la Grecia ha sempre avuto fin dalla storia antica.

La squadra: tra gli eroi del Portogallo e le nuove leve

La rosa a disposizione del tecnico selezionatore, cittadino onorario greco ed eroe nazionale Otto Rehagel, sembra essere un mix fra campioni del 2004, come Charisteas, Seitaridis, Karagounis, Katsouranis, ed una nuova leva di giovani rappresentati soprattutto dal giovane talento Ninis. Trequartista dotato di tecnica e velocità, in questo Mondiale Sotir Ninis potrebbe davvero trovare una vetrina d’eccezione per farsi notare. Da notare l’esclusione dello storico, ma oramai datato portiere Nicopolidis. La difesa si presenta farcita di giocatori fisici come Kyrgiacos del Liverpool e degli “italiani” Moras e Papastatopulos, ma tuttavia sprovvista di terzini dotati di particolari doti di spinta in appoggio delle punte. A centrocampo regnerà come al solito l’organizzazione tattica ed il pressing sistematico per tentare di irretire le giocate dell’avversario, con la parte di costruzione della manovra affidata alle giocate dell’affidabile Karagounis oppure del citato gioiellino Ninis. In attacco sembra scontata la presenza della seconda punta Gekas, capocannoniere europeo delle qualificazioni con 10 reti ed autore di un’ottima annata di Bundesliga quest’anno, affiancato da una punta centrale tra Caristeas e Samaras. Insomma una nazionale tutta corsa, pressing e olio di gomito, che tenterà attraverso queste armi di compensare la differenza tecnica con le sue più blasonate avversarie.

Geopallone

Dopo non essersi qualificata al Mondiale 2006, la Grecia torna alla ribalta. Storicamente la Nazionale greca ha sempre giocato le sue partite più accese contro i vicini della nazionale turca. Grecia e Turchia, già rivali nella corsa al Mondiale tedesco, sono finite nello stesso girone di qualificazione ad Euro 2008 e, nonostante la Grecia abbia sofferto un pesante 4-1 casalingo, ha poi finito la sua corsa in testa al girone seguita proprio dai rivali, che è riuscita a battere per 1-0 ad Istanbul. Atene ed Ankara hanno ancora aperto un contenzioso di politica estera riguardante la questione cipriota. Dal 1963 ad oggi la situazione di tensione e guerra effettiva venutasi a creare sull'isola di Cipro tra le comunità greco-cipriota (maggioritaria) e quella turco-cipriota (minoritaria) non risulta essersi ancora risolta. Proprio a causa del perdurare di una situazione esplosiva, l'isola è ancora divisa in due: ad ovest la Repubblica di Cipro a maggioranza greco-cipriota, riconosciuta internazionalmente e membro dell'Unione Europea, mentre ad est troviamo l'autoproclamata Repubblica Turca di Cipro Nord la quale occupa un terzo dell'isola e che allo stato attuale risulta riconosciuta esclusivamente dalla Turchia.

Mauro Incordino

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Gaza, il nostro Vietnam?

Arriva a chiederselo la stampa israeliana. Vediamo come gli eventi della Freedom Flotilla sono stati vissuti in Israele. E tra le tante analisi dell’accaduto, emerge con forza una questione: ma in tutto questo, ora Israele è più sicuro? Ecco perché l’assedio di Gaza rischia di diventare sempre più un boomerang per la sicurezza dello Stato ebraico.

LA STAMPA – Passato qualche giorno, e delineati alcuni aspetti (seppur in maniera tutt’altro che definitiva) relativi alla dinamica dell’accaduto, appare ora possibile sottolineare alcune questioni del caso della Freedom Flotilla. Le nuove informazioni arrivate negli ultimi giorni permettono di analizzare più chiaramente l’azione israeliana. A tale proposito, è interessante conoscere come questo tragico episodio sia stato vissuto all’interno della società israeliana, prendendo spunto da alcuni contenuti emersi sulla stampa locale in questa settimana.

La parola che emerge con maggiore frequenza è trappola. Al di là dell’effettiva dubbia identità di alcune organizzazioni pacifiste, di questo si è trattato: una trappola in cui l’esercito è cascato come un dilettante. Pare che Netanyahu, appena avvertito dell’accaduto, fosse furioso: il Capo di Stato Maggiore israeliano, Gabi Ashkenazi, preannunciandogli un eventuale blitz sulle navi dei pacifisti, aveva garantito che non vi sarebbero stati rischi né per i soldati, né per i civili a bordo. Al di là del comportamento dell’esercito, le critiche all’esecutivo non si sono certo risparmiate, da più parti, anche con picchi estremi. Ne proponiamo qui una su tutte, di Ari Shavit, analista e giornalista di Haaretz: “Durante la guerra del 2006 in Libano, ho scritto che mia figlia di 15 anni avrebbe potuto prendere delle decisioni molto più sagge di quelle prese dal duo Olmert-Peretz. Vedo che abbiamo fatto progressi: oggi è chiaro che anche mio figlio di 6 anni potrebbe fare meglio del nostro attuale Governo. (…) Invece di spingere Palestinesi, Siriani e Turchi contro l’Iran, Netanyahu li sta portando dalla loro parte. Invece di portare europei e americani a sostenere le nostre ragioni, il Primo Ministro ce li sta mettendo contro”. Sintetizza in maniera ufficiale il giornale: “Il nostro esecutivo si sta comportando come un robot privo di giudizio e impostato su un percorso predeterminato”. Poche, soprattutto inizialmente, le voci che hanno sostenuto l’attacco alla flottiglia. Non si registrano però richieste forti di dimissioni, se non qualche voce sparsa contro il Ministro della Difesa Barak (tra cui una interna al partito del Ministro degli Esteri Lieberman, fatto che ha imbufalito Barak, che non è rimasto a guardare, affermando: “Gli attacchi e le critiche della comunità internazionale a Israele sono il risultato di una politica di pubbliche relazioni fallimentare da parte del Ministero degli Esteri”).

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IL POPOLO – E cosa dice la gente? Un sondaggio a caldo pubblicato mercoledì dal quotidiano Maariv ha mostrato come il 63% degli Israeliani sostenga che la flottiglia si sarebbe potuta bloccare senza violenza né armi. Eppure, la maggior parte della gente resta ancora dalla parte del Governo e dell’IDF, l’esercito israeliano. Anzi, col passare dei giorni, e dopo i video della flottiglia attaccata resi pubblici dall’IDF, pare che gli Israeliani siano sempre più convinti della versione proposta da Israele, così come dimostrano diverse manifestazioni in tutto il Paese. Paradossalmente, negli ultimi giorni l’indice di popolarità del Governo appare in crescita. Come spiega il quotidiano Yedioth Ahronoth, “Ogni volta che c’è una crisi nazionale o un attacco da parte della comunità internazionale, gli Israeliani tendono sempre a schierarsi con il proprio Governo. Solo dopo iniziano a farsi domande, a chiedersi se si poteva agire in un altro modo, se si poteva evitare la via militare e se si è sbagliato in qualcosa. Vedi la guerra con il Libano nel 2006 e l’Operazione Piombo Fuso sulla Striscia di Gaza”.

SICUREZZA E ASSEDIO – I temi di analisi, rispetto a quanto accaduto, sono tanti e disparati. Un punto però emerge con prepotenza: Israele è oggi più sicuro, o era forse meglio, per la sicurezza di Israele, fare arrivare la Freedom Flotilla a Gaza? La risposta è sin troppo scontata. Perché, allora, è avvenuto questo? Perché si è caduti in questa trappola, così come da più parti è stata definita?

Premesso che Israele da anni ha gravissimi problemi nella modalità di comunicare adeguatamente se stesso e le sue azioni, e che è bravissimo nell’autoflagellazione a livello mediatico e di immagini, è un fatto che Israele da sempre sia giustamente ossessionato dalla ricerca della propria sicurezza. Spesso però negli ultimi anni è accaduto che questa ricerca di sicurezza favorisse sovrareazioni spropositate e grandi errori, che finiscono col favorire i suoi avversari e nemici. Anche stavolta è accaduto questo. E al di là dell’episodio della flottiglia, è doveroso allargare il cerchio e soffermarsi brevemente su Gaza. Israele sta difendendo il proprio assedio di Gaza, per impedire che Hamas venga rifornito di armi e missili. Ma se è legittimo il timore israeliano di impedire rifornimenti ad Hamas, non è troppo alto il prezzo da pagare? Il blocco e l’assedio israeliano rappresentano attualmente una delle armi più potenti che Hamas – e, in senso lato, Iran ed Hezbollah – possono sfruttare contro lo stesso Israele. E a livello strategico, se questo blocco non viene accompagnato da una apertura concreta, e non solo di facciata, verso l’Autorità palestinese, e la ripresa dei negoziati del processo di pace, con tutto ciò che questo comporta (congelamento totale degli insediamenti in primis), il rischio boomerang sarà concreto, e Israele sarà riuscito nell’impresa di crearsi con le proprie mani un cordone territoriale ostile che va dalla Turchia alla Siria, dal Libano alla Giordania, dall’Arabia Saudita all’Egitto, fino, ovviamente, all’Iran. E, in tal caso, si avvereranno le parole lette su Haaretz: “Non stiamo più difendendo Israele. Stiamo difendendo l’assedio di Gaza. E l’assedio sta diventando il nostro Vietnam”.

 

Alberto Rossi [email protected]

Pallone e cioccolato

Queste sembrano essere al giorno d'oggi le principali risorse della Costa d'Avorio, Paese africano il cui sviluppo è stato frenato da anni di guerra civile. Il tentativo di ritrovare stabilità politica prosegue su un crinale molto ripido ed incerto. Dal lato sportivo, invece, gli ivoriani si presentano al mondiale sudafricano con tanta voglia di far bene grazie ad una squadra che vanta alcune stelle di prima grandezza.

IL PAESE

C'era una volta un Paese africano relativamente benestante e avviato sulla strada dello sviluppo economico e sociale, grazie a ricchezze naturali ingentissime e istituzioni politiche stabili. Poi, però, un colpo di stato militare fece precipitare la nazione nel disordine e nell'insicurezza, vanificando tutti i progressi fatti nel corso degli anni. Stiamo parlando della Costa d'Avorio, Stato africano che si affaccia sul Golfo di Guinea e che possiede nel cacao la sua ricchezza principale. La Costa d'Avorio è infatti il primo produttore ed esportatore mondiale dei preziosi semi della pianta del cacao, ma non ha saputo amministrare al meglio questa ricchezza enorme concessa da madre Natura. Infatti nel 1999 si svolse il primo golpe nella storia del giovane stato africano (aveva ottenuto l'indipendenza dalla Francia all'inizio degli anni '60 in epoca di decolonizzazione), ad opera di una fazione dell'esercito guidata da Robert Guei, che si autoproclamò presidente dopo aver manipolato la consultazione elettorale del 2000. Rivolte popolari costrinsero però i ribelli comandati da Guei a rifugiarsi nel Nord del Paese, mentre nella capitale Yamossoukro saliva al potere Laurent Gbagbo. Ne scaturì una sanguinosa guerra civile che portò all'intervento militare dei caschi blu delle Nazioni Unite e dell'esercito francese. Dopo anni di disordini, si giunse ad un accordo tra i contendenti, Gbagbo e il nuovo leader dei ribelli Guillaume Soro, che nel dicembre 2007 firmarono un cessate il fuoco a Ouagadougou, in Burkina Faso, con l'incorporazione della fazione ribelle nell'esecutivo (Soro ha infatti assunto la carica di Primo ministro). Oggi, dopo continui rinvii, la popolazione aspetta ancora di poter andare alle urne per eleggere autonomamente il nuovo Governo.

CAFFE' IN PILLOLE

  • Fino a pochi anni fa la coltivazione del cacao era l'attività economica prevalente in Costa d'Avorio, tanto che il 68% della popolazione attiva è impegnata nel settore agricolo e nelle attività terziarie ad esso legate. Dal 2006, però, le attività estrattive di gas e petrolio, di cui sono stati scoperti in epoca più recente ingenti giacimenti, hanno superato per rendimento la coltivazione della pianta di cacao

  • La guerra civile e l'instabilità politica hanno portato il Paese ad essere meta dei peggiori traffici criminali. In Costa d'Avorio sono purtroppo tristi realtà il traffico di minori così come il commercio di droga

  • Contrariamente al Ghana, paese modello dal punto di vista della stabilità istituzionale nella regione africana che si affaccia sul Golfo di Guinea, la Costa d'Avorio non è riuscita a registrare le medesime performance. Nonostante un tasso di crescita del PIL del 3.9% nel 2009, il 42% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà con un reddito pro capite annuo, misurato in parità di potere d'acquisto, di 1700 $.

LA SQUADRA

Didier Drogba: basterebbe questo nome per incutere timore agli avversari che si troveranno di fronte in Sudafrica la nazionale ivoriana. Il fortissimo attaccante del Chelsea però non sarà solo: al suo fianco ci saranno anche Yaya Touré del Barcellona, Kolo Touré ed Emmanuel Eboue del Manchester City e Salomon Kalou del Chelsea. Vere e proprie stelle che avranno la fortuna di essere allenate da un altro personaggio notissimo del calcio, Sven-Goran Eriksson, nominato c.t. della squadra africana dopo il risultato deludente registrato in occasione della Coppa d'Africa disputata a gennaio scorso. Lo svedese Eriksson, ex allenatore dell'Inghilterra e del Messico, è finito nell'Africa nera con la voglia di rilanciare la propria carriera in declino: un connubio curioso che potrebbe innescare una miscela esplosiva. Sarà compito di Brasile e Portogallo riuscire a disinnescarla, mentre la Corea del Nord rischia fortemente di rimanere scottata…

GEOPALLONE

In Africa la passione per il calcio è molto di più che un semplice sport – ve ne abbiamo già dato prova quando vi abbiamo parlato del Camerun. Patriottismo e sentimento nazionale in questo continente, intendendo ovviamente l'Africa subsahariana, vanno di pari passo col tifo calcistico. Anche in Costa d'Avorio avviene questo, ma in una maniera peculiare. Mentre in altri Paesi, come il vicino Ghana, il patriottismo è associato al riscatto di tutte le popolazioni nere (con accenti dunque tipici del pan-africanismo), in Costa d'Avorio il patriottismo assume connotazioni maggiormente etniche. La difesa dell' “Ivoirité” è stata uno dei temi dominanti durante la guerra civile, dato che ciascuna delle parti in causa si arrogava la prerogativa di esserne il migliore esponente. Per questo motivo, il calcio viene considerato dalla popolazione come l'unico elemento in grado di unire tutti: non a caso la stella più ammirata è Didier Drogba, che è cresciuto in Francia e non ha mai giocato per un club del suo Paese, quindi non è assimilabile da nessuna delle parti in conflitto.

Davide Tentori

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Baci e abbracci

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Maggiore cooperazione tra i due continenti: è stato questo il leitmotiv del VI Vertice UE – America Latina e Caraibi (LAC) svoltosi nella capitale spagnola dal 17 al 19 maggio con la partecipazione dei leader di 60 paesi (27 europei e 33 latinoamericani) dei due continenti. Come al solito, però, al di là delle dichiarazioni di intento i risultati concreti non sono stati molti.

SOMOS SOCIOS GLOBALES ANTE DESAFÍOS GLOBALES” – “Alleati globali di fronte a sfide globali”. Così il leader spagnolo José Luis Zapatero ha aperto il summit che ha riunito i membri del partenariato strategico UE – LAC (America Latina e Caraibi) nato nel corso del Vertice di Rio de Janeiro (1999) e volto al rafforzamento della cooperazione politica, economica e culturale tra le due regioni. Democrazia, Stato di diritto, diritti umani, lotta contro il cambiamento climatico, aiuti per la ricostruzione ad Haiti e in Cile dopo i devestanti terremoti, sono stati alcuni dei temi trattati nel corso della due giorni.

UN PASSO INDIETRO – Gli Accordi di Associazione tra Unione europea e i Paesi latinoamericani iniziano con il Vertice di Madrid nel 1995, durante il quale l’UE siglò un accordo quadro con il MERCOSUR (blocco economico che raggruppa Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) con l’obiettivo prioritario di creare una zona di libero scambio. Nel 2000 e nel 2002, invece, l’UE stipula accordi commerciali separati rispettivamente con Messico e Cile, optando per questa formula in ragione del fatto che i due paesi appartengono a due blocchi regionali diversi.

Il dialogo bi-regionale ha un’accelerazione con il primo Vertice UE – LAC di Rio de Janeiro nel 1999, assumendo l’attuale cadenza biennale, e subito dopo subisce una grande battuta d’arresto nonostante nei seguenti quattro vertici internazionali venisse sempre ribadito l’impegno ad un’accelerazione dei processi negoziali.

Da ciò si capisce l’importanza che avrebbe dovuto rivestire il Sesto Summit di Madrid il cui obiettivo preponderante era il rafforzamento delle relazioni tra l’UE e i paesi latinoamericani nel quadro delle priorità del semestre della Presidenza spagnola nell’UE.

SUCCESSO SOLO COMMERCIALE? – Facendo una rapida disamina dei contenuti dei negoziati dal 1999, ci si rende conto che non pochi sono gli aspetti che hanno impedito un reale progresso non solo perchè i Paesi hanno esigenze commerciali diverse, dovute anche ai diseguali livelli di sviluppo economico, ma anche perchè differenti sono le aspettative e i benefici che ciascun Paese può trarre dagli accordi. Il marcato protezionismo agricolo dell’Unione Europea è infatti una fonte di attrito tra i due blocchi regionali ed è una della cause che hanno frenato il processo di integrazione.

Anche se nuovi settori sono stati sotto i riflettori, tra questi l’importanza dell’innovazione e della tecnologia, per raggiungere lo sviluppo sostenibile e l’inclusione sociale, e la creazione della Fondazione EUROLAT (che si occuperà di stimolare i rapporti tra le due regioni), proposta dal presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, continua dunque a essere il commercio il vero protagonista del Vertice, sintetizzato nel documento di 44 punti conclusivo del summit, nei patti commerciali con la Colombia e il Perù, nell’accordo di libero commercio con sei paesi dell’America Centrale e nell’intesa per riprendere a luglio i negoziati per la liberalizzazione commerciale tra l’UE e il Mercosur, fermi dal 2004.

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DISSIDI – Non sono mancati tentativi di boicottaggio. Infatti, molti capi di Stato latinoamericani, tra questi in prima linea il presidente venezuelano Hugo Chávez e il brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, hanno mostrato il loro disaccordo per la partecipazione al summit del presidente honduregno Porfirio Lobo, eletto in continuità al regime golpista, instaurato lo scorso giugno, con il quale fu destituito il legittimo presidente Manuel Zelaya. La soluzione è stata trovata con l’accettazione di Lobo di partecipare alle conferenza tra i 27 e l’America centrale, evitando la riunione conclusiva dei 60 leader.

PARADOSSI – In primis non c’è stata nessuna evoluzione per la creazione di un’alleanza strategica e, come ha sottolineato il presidente cileno Sebastián Piñera, che si occuperà del VII Vertice che si terrà a Santiago nel 2012, il processo bi regionale appare “lento”. Inoltre, la presenza defilata di Catherine Ashton, l’alto rappresentante per l’Unione europea per la politica estera e la sicurezza comune, che ha partecipato ai lavori in veste non ufficiale, ha reso insufficienti gli sforzi spagnoli e portoghesi verso un miglioramento delle relazioni oltreoceano perché per raggiungere questo obiettivo è necessario che anche le alte cariche europee in materia siano coinvolte. Nonostante il Trattato di Lisbona preveda infatti un rafforzamento della politica estera comunitaria con la creazione di questa nuova figura istituzionale, manca ancora un disegno strategico nei confronti dell’America Latina. Infine, secondo alcuni Capi di Stato latinoamericani come il presidente boliviano Evo Morales, gli accordi UE, come il recente con la Colombia e il Perù, si presenterebbero come ostacoli aumentando il grado di dipendenza economica e di conseguenza incrementando il livello di povertà e disuguaglianza in cui si trovano i paesi latinoamericani. Ciò spiega il motivo per cui la Bolivia si è sempre dichiarata contraria a negoziare con l’UE qualsiasi questione di tipo commerciale che riguardi il libero commercio.

Valeria Risuglia

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Non c’è un limite a tutto, ma forse una logica sì

Quando ieri la Freedom Flotilla si apprestava a salpare dalle coste turche nessuno immaginava cosa sarebbe accaduto di lì a poco. Sei imbarcazioni salpate alle ore 16:00 di domenica 30 maggio al fine di raggiungere Gaza per portare 10 tonnellate di aiuti umanitari alla popolazione locale. Poi stamattina la Marina israeliana ha dato il via ad un attacco contro il convoglio umanitario: diversi morti accertati e decine di feriti.

FRAMMENTI DI NOTIZIE – Mentre scriviamo le notizie sono ancora scarse, e le fonti non ufficiali riportano bollettini non concordanti. Alle 9:30 una fonte dell'esercito israeliano ha dichiarato che sarebbero circa 19 i morti, poi aggiornati a 10. Le stesse fonti militari affermano che i soldati hanno risposto a colpi d'arma da fuoco provenienti dalla nave Mavi Marmara. Al momento però nessuna delle immagini rilasciate dalle televisioni internazionali conferma questa dichiarazione, ma la vicenda può essere così sintetizzata: alle ore 6:00 del 31 maggio 2010 le forze della marina militare israeliana hanno assaltato in acque internazionali le navi della Freedom Flotilla dirette verso la striscia di Gaza, causando alcuni morti e decine di feriti.

QUALI RAGIONI? – Che cosa porta un Paese considerato a ragione l'unica democrazia regionale a spingersi così oltre? Vista l'impossibilità di pensare che un atto del genere non comporti gravi conseguenze, tanto sul piano interno quanto esterno, ci si domanda infatti quale sia il motivo di un gesto che definire sconsiderato è riduttivo.

Attaccare un convoglio di navi di pacifisti ufficialmente disarmati in acque internazionali non è certo la miglior pubblictà possibile per un Paese costantemente sotto pressione (non a caso al momento in Israele le immagini dell'assalto ed i video dove si mostrano gli attivisti morti sono stati censurati e da alcuni minuti alcuni siti d'informazione non sono più raggiungibili, nemmeno dall'Italia).

Di più. La nave madre che guidava la Freedom Flotilla batteva bandiera turca ed Ankara è storicamente uno dei migliori alleati regionali dello stato israeliano.

Anche se recentemente le relazioni fra le due parti erano decisamente peggiorate, attaccare militarmente delle navi partite dalla Turchia e con un'enorme bandiera turca sul fianco non è certo la strada migliore per riallacciare i rapporti.

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LE PRIME RISPOSTE – La Turchia ha immediatamente convocato l'ambasciatore israeliano ad Ankara, più che per chiedere spiegazioni, per metterlo al corrente delle "irreparabili conseguenze" del recente attacco.

La chiosa finale del comunicato stampa del Ministero degli Esteri Turco conferma questa linea: "Qualunque siano le ragioni di Israele è impossibile accettare tale azione contro civili che conducono attività pacifiche. Israele dovrà sopportare le conseguenze di questa violazione della legge internazionale".

Ma se a livello istituzionale le conseguenze saranno certamente durissime, a livello popolare rischiano di esserlo ancor di più. Inutile dire che il movimento di resistenza islamico di Hamas ha utilizzato tutto il vocabolario negativo possibile per condannare quest'operazione militare "barbara ed incivile". Ma ha fatto anche di più. Per la prima volta nella sua storia il movimento ha chiamato ad un'Intifada contro le ambasciate israeliane nel mondo.

Un passo preoccupante poichè allarga decisamente il conflitto: da regionale a globale. Anche senza l'invito di Hamas comunque decine, se non centinaia di manifestanti si erano già radunati di fronte all'ambasciata israeliana di Ankara per protestare contro Tel Aviv, causando un lancio di pietre e conseguenti scontri con la polizia.

E l'impressione è che siamo solo al'inizio.

La polizia israeliana ha decretato lo stato di massima allerta e nelle prossime ore la situazione potrebbe decisamente peggiorare. Gli arabo-israeliani residenti in Israele potrebbero sollevarsi contro le autorità locali, i gruppi di resistenza militare potrebbero dare il via ad una campagna di attentati: molto più di ieri lo scoppio di nuove violenze sembra essere dietro l'angolo.

QUALI LOGICHE? – La questione che sorge spontanea riguarda il perchè di tutto questo. Il perchè di una dimostrazione di forza tanto inutile, nel senso che tutti conoscono la forza regionale di Tel Aviv, quanto dannosa, nel senso delle conseguenze internazionali, ma soprattutto sanguinosa, nel senso che uccidere attivisti non è accettabile.

Alla fine di tutto resta comunque l'impressione che alle volte Israele giochi contro se stesso. Migliorare la propria sicurezza interna attraverso azioni militari così evidenti e sconsiderate è una tattica difficilmente comprensibile. Tuttavia risulta altrettanto difficile credere che gli scenari di possibile violenza sopra riportati non siano stati quanto meno immaginati dallo Stato Maggiore di Tel Aviv. A maggior ragione dunque l'incursione militare dell'alba di stamane risulta incomprensibile.

Questo, ovviamente, escludendo che non si voglia innescare una escalation di violenza a livello regionale. In tal caso la lettura degli eventi cambierebbe totalmente trovando, purtroppo, una sua seppur perversa logica.

Marco Di Donato

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Friday bloody friday

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Cosa c’è dietro l’attacco talebano di venerdì a due moschee in Pakistan? In primo luogo, si vuole ribadire la linea ortodossa fondamentalista, contro tutte le minoranze. Ma c’è dell’altro, collegato alla trattativa in corso tra l’intelligence americana e quella pachistana. Ecco perché il conflitto – di questo si tratta – che imperversa in Pakistan diventa sempre più strategico e decisivo.

I FATTI – È venerdì, il giorno della preghiera. A Lahore, in Pakistan, sono circa duemila i fedeli radunati in due moschee del Pakistan, Model Town e Garhi Dhahu, distanti quindici chilometri tra loro. Avviene tutto all’improvviso, esattamente nello stesso orario: spari a raffica, bombe a mano, tre kamikaze, fedeli trattenuti in ostaggio all’interno della moschea all’arrivo (forse tardivo) delle forze speciali di polizia. Un’ora di scontri, spari dai tetti, e un tragico bilancio di oltre 80 morti e 110 feriti. Una strage rivendicata dal gruppo Tehrik-i-Taliban (“Movimento studentesco”), tra i rami più ortodossi dell’universo talebano.

PERCHE’ CONTRO DUE MOSCHEE? – Talebani, elementi terroristici ed estremisti islamici, che attaccano musulmani che pregano il venerdì in una moschea. Fatto più che insolito, in prima battuta. Dov’è l’errore? Semplicemente, l’obiettivo è una minoranza musulmana, gli Ahmadi, considerata eretica, e dichiarata non musulmana da un emendamento costituzionale, emanato nel 1974 dall’allora premier pachistano Zulfikar Al Bhutto, sotto forti pressioni delle autorità religiose islamiche. Addirittura, agli Armadi è vietato salutare in pubblico secondo la formula tradizionale islamica di saluto in Pakistan: “Salaam Aleikum”, la pace sia con te. Gli Ahmadi traggono origine dal loro fondatore, Mirza Ghulam Amad, considerato dai suoi seguaci un messaggero di Dio. Essi non riconoscono Maometto come ultimo profeta, e pertanto tale minoranza è discriminata, e da tempo nel mirino quale bersaglio di violenze da parte di gruppi ortodossi.

MOTIVAZIONI INTERNE… – Quali messaggi si celano dietro questo attacco? Innanzitutto vi è una forte componente interna. Occorre indubbiamente sottolineare come tale attacco andava ad individuare un obiettivo facile e “sostenibile”, che difficilmente avrebbe riscosso una totale disapprovazione interna, alla luce della discriminazione subita dagli Ahmadi. Dunque, la prima motivazione vuole ribadire la linea ortodossa fondamentalista dei talebani sunniti, contro i non ortodossi, e dunque sciiti, Ahmadi, e in genere tutte le altre minoranze.

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MA NON SOLO – Non si può comunque non allargare il cerchio, considerando la situazione pachistana nel suo complesso. E allora appare impossibile non citare la trattativa iniziata il 19 maggio scorso tra Leon Panetta, numero 1 della Cia, Jim Jones, Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, e l’intelligence pachistana. Due, in particolare, le richieste americane. La prima: più libertà d’azione sul territorio pachistano, e più collaborazione da parte dei servizi segreti pachistani, affinché non accadano più episodi analoghi a quello di Feisal Shahzad, l’uomo protagonista del fallito attentato di Times Square, che ha viaggiato indisturbato diverse volte in Pakistan prima di entrare in azione negli Stati Uniti. La seconda richiesta riguarda invece un possibile offensiva nel Waziristan del Nord, necessaria alla luce del fatto che i guerriglieri pachistani si rovesciano in Afghanistan per combattere. Il duplice attentato alle moschee degli Ahmadi può anche essere letto come un forte messaggio dei talebani al Governo pachistano, un segnale esplicito: non cedete a quelle richieste. Di sicuro, il rischio di nuovi attentatori pachistani in territorio americano è molto sentito dall’Amministrazione Obama, e la pressione americana non si ammorbidirà di certo per questi attentati, anzi. L’impressione che il Pakistan sia un alleato troppo tiepido nella lotta ai militanti è sempre più forte, anche considerando i casi in cui Islamabad, nonostante le pressioni, non ha troncato le relazioni speciali con alcuni gruppi islamismi allevati per dare battaglia all’India, nell’ottica di un’eventuale scontro tra questi due Paesi. Per tali ragioni, la pressione americana, anche a seguito di questi ultimi episodi, non potrà che crescere.

L’IMPORTANZA DEL CONTESTO – Vale la pena ricordare quanto sia ogni giorno più strategico per gli Usa (e in generale, per l’intero Occidente) quanto accade in Pakistan. Innanzitutto, già da anni, la guerra in Afghanistan è un teatro definito “Af-Pak”. Proprio in Pakistan si nascondono i maggiori leader di Al Qaeda. Dobbiamo considerare come il Pakistan non è slegato dall’Afghanistan, anzi. È necessario affermare chiaramente come in Pakistan vi è un vero e proprio conflitto in corso. Ulteriore riprova sono i continui attacchi missilistici americani, tramite droni. Bush nel 2008 autorizzò 37 attacchi missilistici in Pakistan. Il Nobel per la Pace Obama ne ha autorizzati 53 nel 2009, e già 38 nel 2010, uno più che nell’intero 2008, a riprova di una situazione sempre più critica e non trascurabile. Le missioni coi droni sono talvolta anche seguite da azioni di commando e contractor. E per ribadire quanto sia fondamentale il teatro pachistano, basta ricordare un solo dato: il Pakistan ha la bomba atomica. E qualora lo Stato pachistano giungesse al collasso, e l’atomica finisse nelle mani sbagliate, davvero allora questo sarebbe un disastro e un rischio enorme. Non solo per gli Usa, ma per il mondo intero.

Alberto Rossi

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Provateci ancora!

La nazionale portoghese si presenta ai Mondiali dopo essere arrivata quasi in fondo nel 2006 con tanta voglia di vincere, pur non rientrando nel gruppo ristretto delle favorite. Una voglia di riscatto che coinvolge tutto il Paese iberico, afflitto in modo più grave dalla crisi economica rispetto agli altri Stati europei. C'è infatti il rischio che Lisbona possa diventare la nuova Atene.

IL PAESE

Dopo Atene, Lisbona? Il presagio, diffuso dai mass media nelle ultime settimane, non è forieri di buone notizie per il Portogallo, che potrebbe risentire della crisi finanziaria in maniera decisamente più grave rispetto agli altri membri dell'Unione Europea. I bond (ovvero, i titoli del debito pubblico) portoghesi, hanno infatti subito ad aprile un declassamento del rating da parte dell'agenzia Standard & Poor's, facendo suonare più di un campanello d'allarme sulla tenuta finanziaria della nazione lusitana. La situazione, al giorno d'oggi, è abbastanza grave: il Portogallo è infatti giudicato il Paese più a rischio di “crack” nella zona euro, secondo solamente alla Grecia, per la quale è stato però varato un ingente piano di salvataggio.

La nazione iberica, del resto, si trascina una situazione strutturale di fragilità economica che non è stata cancellata neppure dagli ultimi anni di crescita sostenuta, agevolata dalla terziarizzazione delle attività produttive e dai benefici ottenuti dall'Unione Europea (di cui è membro dal 1986 ed è stata uno dei principali riceventi di finanziamenti previsti dai Fondi Strutturali per lo sviluppo delle regioni più arretrate). Il debito pubblico, che non è alto come quello di altri Paesi come l'Italia (ben al di sopra del 100% del PIL da anni, ma tendenzialmente costante), è tornato ad alzarsi in modo preoccupante soprattutto a causa dell'incremento del rapporto deficit/PIL, che nel 2009 si è impennato superando il 9%. I dubbi sulla solvibilità finanziaria del Portogallo, che ha subito una recessione del 2,8%, sono dunque aumentati.

CAFFE' IN PILLOLE

  • Il Portogallo, a dispetto delle sue dimensioni estremamente ridotte, è stato una delle principali potenze coloniali europee ed una delle ultime a smantellare il proprio “impero”. Solo nel 1975, infatti, le colonie africane di Capo Verde, Angola, Mozambico, São Tomé e Principe, ottennero la propria indipendenza. Il Brasile, invece, aveva ottenuto l'indipendenza in maniera curiosa: nel 1822 l'erede al trono del Portogallo, Pietro di Braganza, dopo essere stato designato come reggente in Brasile proclamò l'autonomia dalla madrepatria dando vita all'impero brasiliano. Nel 1889 una rivolta pacifica pose fine alla monarchia;

  • Anche se poco rilevante dal punto di vista economico, da Lisbona proviene l'uomo più influente nel panorama delle istituzioni europee. Il Presidente della Commissione Europea, José Manuel Durão Barroso, in carica dal 2004, aveva ricoperto in precedenza l'incarico di Primo Ministro in patria;

  • Attualmente il Portogallo è governato dal Partido Socialista di José Socrates Carvalho, Primo Ministro dal 2005. Il partito, di ispirazione socialdemocratica, non va confuso con il Partido Social Democratico, che è invece di centrodestra e di orientamento più liberale.

LA SQUADRA

La formazione rosso-verde si presenta in Sudafrica con una grande voglia di vincere e di riscattare la delusione subita quattro anni fa in Germania, quando giunse ad un passo dalla finale venendo sconfitta dalla Francia. La stella è ovviamente Cristiano Ronaldo, campione del Real Madrid che però quest'anno non ha brillato come ci si attendeva a causa di numerosi infortuni. Attenzione anche al centrocampista Deco e al difensore del Real Madrid Pepe. L'allenatore è l'ex assistente di Sir Alex Ferguson al Manchester United, Carlos Queiroz, il quale ha definito “dinosauri” le squadre più favorite, includendo nella definizione anche l'Italia.

Il cammino del Portogallo però non sarà facile: il girone G, nel quale è stato inserito dal sorteggio, è uno dei più ardui. I lusitani se la dovranno infatti vedere con il Brasile in una sorta di “derby” intercontinentale e con la temibile Costa D'Avorio, una delle più forti squadre africane, mentre lo scontro con la Corea del Nord sembra una formalità. Passano soltanto due squadre: la battaglia per non restare fuori, ne siamo certi, sarà appassionante.

GEOPALLONE

Anche in Portogallo il calcio è molto importante non solo per motivi sportivi ma anche come mezzo di affermazione e contrapposizione sociale. Le squadre principali di Lisbona, lo Sporting e il Benfica, sono infatti storicamente sostenute da diverse classi sociali portoghesi. Mentre la tifoseria del Benfica coincide tradizionalmente con le fasce più basse della popolazione, quella dello Sporting si identifica con i ceti più benestanti e con un elettorato tendenzialmente di centrodestra. Una contrapposizione presente anche in molti altri Paesi: in Argentina, per esempio, a Buenos Aires è acerrima la competizione tra Boca Juniors (squadra degli abitanti più poveri del quartiere La Boca), e River Plate (espressione dei quartieri borghesi della capitale). Fa eccezione Milano, dove il tifo per Inter e Milan è distribuito in maniera più trasversale.

Davide Tentori

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Ecco le stelle nere!

Le potenzialità delle nazionali africane nello sport sono sotto gli occhi di tutti. Ciò che ha sempre impedito alle selezioni del continente africano di raggiungere risultati significativi è stata la mancanza di organizzazione dei rispettivi movimenti calcistici, una delle più leggere conseguenze della tragica situazione geopolitica del continente. Negli ultimi anni le cose stanno forse cambiando, grazie ai risultati di squadre come il Ghana. Quale migliore vetrina per un movimento in crescita del primo mondiale ospitato in Africa?

 

IL PAESE

 

Nel panorama, spesso tragico, dell'Africa il Ghana può essere considerato una felice eccezione. Certamente dopo l'indipendenza del 1957 (il Ghana è stato il primo stato sub-sahariano a rendersi autonomo) il paese ha vissuto anch'esso la sua parte di tragedia durante i governi di Kwame Nkrumah (questi è una figura controversa per i suoi modi di governo non sempre in linea con gli standard democratici, ma anche uno dei padri del pan-africanismo e uno tra i personaggi più importanti della storia politica dell'Africa dell'ultimo secolo) e Jerry Rawlings. Tuttavia nel quadro della situazione instabile dell'Africa occidentale il Ghana ha potuto godere di un livello di democrazia e sviluppo superiori alla media. Basta pensare alle terribili guerre civili che hanno sconvolto i vicini regionali come la Liberia, la Guinea-Bissau, la Costa d'Avorio o la Nigeria, mentre ad Accra si viveva in pace(più o meno). Il passaggio dalla dittatura al regime democratico è avvenuto in maniera indolore nel 1992, quando il precedente dittatore, ex tenente dell'aeronautica militare, JJ Rawlings ha vinto le elezioni giudicate corrette dagli osservatori internazionali. Da allora il paese ha imboccato stabilmente la via della democrazia. La stabilità e l'efficienza delle istituzioni (che garantiscono tra l'altro anche un livello di libertà di stampa notevole… sì, nelle classifiche il Ghana è sopra l'Italia), unite a un sistema economico funzionante con un buon livello di industrializzazione fanno del Ghana uno dei paesi modello per tutto il continente. Il modello-Ghana è stato pubblicamente sponsorizzato anche da Obama, che ha incominciato il suo primo viaggio in Africa proprio da Accra.

 

IL CAFFE’ IN PILLOLE

 

  • L'importanza del Ghana dal punto di vista geopolitico è evidenziato dal fatto che un diplomatico ghanese, Kofi Annan, ha svolto il ruolo di segretario generale delle Nazioni Unite. Inoltre le forze armate ghanesi hanno indossato il casco blu dell'Onu per agire come forze di peacekeeping in diversi conflitti regionali e non (Liberia, Sierra Leone, Libano, Kosovo)

 

  • Tra le principali ricchezze del Ghana c'è il cacao, di cui Accra è il secondo produttore mondiale. Per quanto la floridità delle piantagioni di cacao costituisca una fortuna per il paese (e un grande motivo di invidia per chi scrive), la grande dipendenza dell'economia nazionale da questa risorsa (il cui commercio è controllato dallo stato) ha rappresentato storicamente un problema. La crisi economica che investì il paese negli anni '70-'80 e che portò in seguito all'intervento del Fondo Monetario Internazionale era infatti in buona parte dovuta al crollo del prezzo del cacao.

L’AFRICA CHE CRESCE

 

Il calcio africano è in crescita, e  chissà che non sia proprio il mondiale sudafricano a sancire definitivamente la raggiunta maturità delle selezioni nazionali del continente, con un piazzamento inaspettato. Le “stelle nere”, come sono stati battezzati i nazionali ghanesi, hanno fino ad oggi partecipato solo a un mondiale, l’ultimo in Germania. Non hanno quindi una grande tradizione, come del resto le altre rappresentative africane. A testimoniare la crescita del movimento calcistico nazionale c’è però il fatto che, alla prima partecipazione al campionato mondiale, il Ghana ha superato il primo turno (in seconda posizione dietro all’Italia) battendo gli Stati Uniti e una squadra di grande tradizione come la Repubblica Ceca. Agli ottavi la squadra ha avuto poi la disgrazia di incontrare il Brasile e gli africani sono stati svegliati bruscamente dal sogno con tre sberle verde-oro. Nel palmares della nazionale ci sono comunque ben quattro coppe d’Africa e il Ghana rimane una delle squadre africane dotate di maggior talento: la bandiera della squadra è capitan Appiah, ma altre celebri “stelle nere” che giocano nei maggiori campionati europei sono Michael Essien, Sulley Muntari e Asamoah Gyan. Infine il Ghana si è preso una rivincita nei confronti del Brasile sconfiggendo la seleçao nella finale della campionato mondiale under 20 nel 2009, diventando la prima squadra africana campione del mondo. Il futuro si annuncia roseo per il calcio ghanese.

 

GEOPALLONE

 

Nonostante il Ghana abbia poca esperienza in Coppa del mondo, nondimeno il calcio vanta un’antica tradizione nel paese affacciato sul golfo di Guinea. Il primo club ghanese di soccer, l’Excelsior fu fondato ai tempi del governo imperiale inglese nel 1903. Il mito delle “black star”, le “stelle nere”, come sono stati chiamati i nazionali ghanesi (o in maniera ancora più magniloquente “il Brasile dell’Africa”) ha inizio negli anni ’60 sotto il governo di Kwame Nkrumah, all’indomani dell’indipendenza. Il primo presidente della Repubblica di Ghana, uno dei leader politici più famosi e amati a livello continentale,  aveva bene in mente la grande forza propagandistica del soccer e come utilizzarlo per diffondere la proprie idee pan-africane e socialiste, nonché il sentimento nazionale nella neonata repubblica. Sotto il suo governo il calcio ghanese venne rivoluzionato, con la fondazione della Ghana Amateur Football Association e la nomina a suo segretario di Ohene Djan, uno dei più influenti manager sportivi africani. Il lavoro di Djan che vantava la fiducia incondizionata di Nkrumah, portò il Ghana nel 1963 ad ospitare la Coppa d’Africa in significativa concomitanza con la riunione dell’Organizzazione per l’Unità Africana ad Accra. Il Ghana vinse in casa la prima Coppa continentale della sua storia, ripetendosi ancora due anni dopo a Tripoli e nel ’78 e nell’81. Le “stelle nere” diventarono con le loro vittorie i migliori ambasciatori dell’idea di Africa del loro presidente: un’Africa indipendente, unita a dispetto delle differenze etniche e di religione, capace di competere con l’Europa e l’occidente bianco. Il sogno di Nkrumah non è ancora una realtà, ma almeno sul campo da calcio l’Africa sta crescendo e il primo mondiale continentale è sicuramente un evento dal punto di vista simbolico altamente significativo. C’è da scommettere che il “Brasile d’Africa” vorrà fare bene.    

Jacopo Marazia

Le Furie Rosse materanno anche il Mondiale?

La Spagna si presenta al Mondiale da campione d’Europa con il preciso obiettivo di realizzare una storica doppietta. Si è spesso parlato delle Furie Rosse come di una formazione da sempre creatrice di bel gioco, ma dagli scarsi risultati: Sud Africa 2010 potrebbe essere l’occasione giusta per gli uomini di Del Bosque per dimostrare il contrario.

IL PAESE

La Spagna è un paese che oggi affronta i grandi disagi della crisi economica che ha pesantemente coinvolto il sistema finanziario generale causando tagli occupazionali per gli impiegati statali, blocco dei contratti d'assunzione ed il crollo di un mercato immobiliare in fortissima espansione negli ultimi anni. Anche il turismo, una delle maggiori fonti di guadagno e di impresa per la Spagna, sembra aver subito un duro colpo a causa del calo delle prenotazioni da parte dei turisti stranieri. A livello governativo l'esecutivo guidato da José Luis Rodríguez Zapatero si è dimostrato artefice negli ultimi sei anni di una vera e propria rivoluzione sociale e culturale di stampo fortemente laico nella pur cristianissima Spagna. Il governo ha approvato importanti cambiamenti in campo legislativo, ad esempio permettendo i matrimoni fra persone dello stesso sesso e riconoscendo la possibilità di aborto per le minorenni.

CAFFE' IN PILLOLE

  • All’interno del parlamento catalano è in corso un acceso dibattito sulla possibile abolizione della corrida. Il parlamento regionale di Barcellona deve decidere entro l’estate se abolire o meno a livello locale questa antichissima tradizione spagnola. Prima della decisione finale, è stato dato il via ad una serie di audizioni parlamentari con esperti e testimonial tanto del mondo ‘taurino’ quanto di di quello abolizionista..

  • La Spagna sembra dominare la scena sportiva negli ultimi anni, con una generazione straordinaria di campioni in tutti gli sport: dall’Europeo conquistato dalla nazionale del calcio, all’Eurolega di basket vinta quest’anno dal Barcellona, ai successi del tennista Nadal ai campioni della velocità come Jorge Lorenzo e Fernando Alonso, il nome di questa nazione è sempre tra i primi posti.

LE FURIE ROSSE VERSO LA DOPPIETTA?

La nazionale di calcio spagnola si presenta indubbiamente come una delle favorite del Mondiale. Le sue caratteristiche principali sono la straordinaria capacità di tenere il possesso di palla e di far girare il pallone mediante le elevatissime capacità tecniche e di palleggio di centrocampisti votati alla costruzione del gioco come Xavi Hernandez e Iniesta del Barcellona, Fabregas dell’Arsenal e Xabi Alonso del Real Madrid. A tutto questo si aggiunge una grande abilità di esterni veloci in grado di saltare l’uomo e servire le punte come Casorla, Silva, Diego Capel e Jesus Navas. Un altro punto di forza è sicuramente una coppia di attaccanti titolari a disposizione di Del Bosque, come Villa-Torres, probabilmente la meglio assortita al mondo e dotata di forza, velocità, tecnica e concretezza sotto porta.

Anche la difesa sembra dare le sue garanzie con un portiere di oramai conclamata esperienza come Casillas, una coppia di centrali di sicuro affidamento, come Puyol e Pique, e con uno dei migliori terzini destri al mondo, Sergio Ramos. L’unico punto debole sembra essere quindi il terzino sinistro, ruolo non coperto da giocatori di particolare caratura, anche se le recenti prove del capitano dell’Atletico Madrid, vincitore dell’Europa League, Antonio Lopez, potrebbero fornire argomenti sufficienti per coprire al meglio anche quel ruolo. Insomma una giovane corazzata pronta per la conquista di traguardi importanti, purchè forma fisica e condizione sostengano le garanzie tecniche fornite da questa nazionale.

GEOPALLONE

Il senso di nazionalità spagnola è spesso minato alle sue fondamenta da numerose differenze che sembrano dividere il paese: gli abitanti della Catalogna sentono di non essere spagnoli a tutti gli effetti e considerano Barcellona, molto più di Madrid, la loro capitale legittima. Anche alcuni movimenti indipendentisti dei paesi baschi, l'ETA (acronimo di País Vasco y Libertad ) su tutti, rivendicano costantemente autonomia dal governo centrale. Il desiderio indipendentista basco si riflette anche nel calcio. L’Atletic Bilbao, club spagnolo della Liga, è noto per la sua politica di tesseramento di soli giocatori che siano Baschi o di origini basche. Nonostante questa possa sembrare una scelta settaria, in realtà è una forma di esaltazione di tutto ciò che è basco. D'altro canto, per mantenere la sua internazionalità, l'Athletic ha conservato la h nel suo nome per sottolineare la sua origine britannica a tesserare spesso allenatori non di origine basca. Come in Italia anche molte tifoserie spagnole hanno precise connotazioni politiche. Il Real Madrid viene considerato come la squadra del regime franchista, dunque schierata a destra, mentre diametralmente opposto appare l'orientamento dei supporter blaugrana. Riuscirà la nazionale spagnola a riunificare tutte queste divisioni interne, attraverso i suoi successi sportivi?

Mauro Incordino

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Nuove ‘scosse’?

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La maggioranza dei mezzi di informazione sembra avere già dimenticato quello che è successo a gennaio ad Haiti. Il “Caffè”, però , vi descrive l’evoluzione della situazione sull’isola caraibica a quattro mesi dal devastante sisma grazie al contributo di un collaboratore impegnato sul posto. Oltre alla ricostruzione economica e sociale, tra alcuni mesi si porrà anche il problema delle elezioni: la cronica instabilità politica haitiana rischia di provocare altre forti scosse.

ELEZIONI IN VISTA – Gli anni elettorali sono spesso sinonimo di instabilità ad Haiti. É sufficiente ricordare il difficile contesto nel quale si sono svolte le ultime elezioni presidenziali del 2006, le prime dopo l’intervento militare dell’ONU che ha ristabilito uno “stato democratico”, e la perturbante partenza dell’ex Presidente, Jean Bertrand Aristide. Il 2010 é ancora una volta un anno di elezioni ad Haiti e, dopo il tremendo terremoto d’inizio anno che ha provocato 350.000 morti e un milione di rifugiati interni, il voto promette nuovi scossoni, questa volta politici e sociali.

Delle manifestazioni sono state organizzate negli ultimi giorni a Port-au-Prince, la capitale devastata dal sisma, in protesta contro la decisione del Presidente René Préval (foto sotto) di rinviare le elezioni presidenziali, previste originariamente per il prossimo novembre, nel caso in cui la situazione del paese non permetta il loro regolare svolgimento. Ciò ha comportato la necessità di emendare la Costituzione, disposizione intrapresa dal parlamento controllato dalla maggioranza del partito presidenziale del Lepswa ma che é stata criticata dal principale partito oppositore, il Lavalas, tutt’ora facente capo all’esiliato ex Presidente Aristide. La decisione si é prodotta alcune settimane dopo l’altrettanto discussa risoluzione dello stesso Préval d’estendere il periodo d’urgenza a 18 mesi successivi al drammatico evento del 12 gennaio.

IL PUNTO SULLA RICOSTRUZIONE – Ma le ragioni per temere sono anche economiche e sociali. A quattro mesi dal terremoto lo stato d’emergenza continua. Migliaia di haitiani vivono ancora negli accampamenti installati dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni umanitarie che si caratterizzano per condizioni di vita spesso insalubri mentre, col passare delle settimane, la violenza e l’insicurezza hanno rimpiazzato la solidarietà che esisteva inizialmente fra i rifugiati. Tale situazione rischia inoltre di peggiorare con l’inizio, in giugno, della tristemente critica stagione delle piogge a causa dei cicloni e tempeste tropicali che periodicamente colpiscono i Caraibi e che solamente nel 2008 provocarono migliaia di senza tetto e gravi danni all’agricoltura haitiana, con la perdita del 60% dei capi di bestiame, indebolendo ulteriormente la già precaria situazione economica del paese. L’educazione é un’altra preoccupazione urgente. Per gli haitiani questa occupa la stessa posizione della religione in termini d’importanza, ma dal 12 gennaio mandare i figli a scuola é diventato quasi impossibile. Ufficialmente, l’anno scolastico ha ripreso il 5 aprile, ma solamente una piccola parte degli istituti scolastici hanno ripreso le lezioni nelle tre regioni principalmente colpite dal sisma, dove 5000 edifici -circa 1/3 del totale – di cui la maggior parte a Porto Principe-, sono andati distrutti o gravemente danneggiati. Inoltre la situazione economica delle famiglie, che devono pagare le tasse d’ingresso a scuole private che dominano il sistema per il 90%, é ulteriormente fiaccata dalla riduzione dei redditi che ha generato la catastrofe naturale.

L’ONU tenta di ricollocare le persone che vivono attualmente negli accampamenti, installati nelle piazze pubbliche o nelle strade davanti alle macerie delle abitazioni, e di trovare soluzioni per i migliaia di migranti che hanno lasciato la capitale in seguito al terremoto in direzione delle province. Queste però sono spesso impreparate per ricevere un tale flusso di persone. Zone abitabili -ad immagine dell’area di “Camps Corrail”- sono state quindi identificate alla periferia di Port-au-Prince per rilocalizzare i campi di accoglienza e cercare -allo stesso tempo- di decongestionare la sovrappopolata capitale, certamente uno dei fattori dietro all’enorme numero di morti provocato dal terremoto. Ciononostante, su tali soluzioni, già s’affaccia il timore di vedere Camps Corrail trasformarsi in un altro sobborgo di Porto Principe, la nuova “Cité Soleil”, la baraccopoli off-limits della capitale, ancora fino a poco tempo fa il nucleo della criminalità, delle bande organizzate e del traffico.

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IL SISTEMA DEGLI AIUTI – La comunità internazionale, sulla quale riposa gran parte della responsabilità per la ricostruzione, ha promesso lo scorso aprile a New York in una conferenza organizzata per Haiti, un grande appoggio finanziario -10 miliardi di dollari- nei prossimi 10 anni. La cooperazione, l’esperienza in Haiti l’ha già dimostrato, non risolve i problemi del paese caraibico che risiedono ancor prima che in altre aree, sul buon governo e la trasparenza politica e di gestione. Nondimeno, dopo il terremoto -i cui danni si stimano ad oltre il 100% del suo PIL e le conseguenze sull’economia si prevede che si faranno sentire almeno per i 5 anni a venire- il paese non può rilanciarsi da solo. Ciononostante questo “cantiere” internazionale stenta a decollare. Una Commissione, composta dal primo ministro haitiano e dall’ex presidente Bill Clinton, con il compito di vigilare l’utilizzazione dei fondi non é ancora attiva. Significativamente, il Brasile é l’unico paese ad aver contribuito ad un fondo stabilito per la ricostruzione. Il rischio che si ritorni alla pratica del Business As Usual, cioè ai progetti implementati dalle differenti agenzie e ONG, invece che alla coordinazione nazionale che veniva proposta a New York per la ricostruzione, é quindi alta.

Politicamente la situazione non è stabile. Il possibile rinvio delle elezioni indette per novembre ha generato il malcontento popolare che reclama a viva voce la partenza del Presidente Préval. Le Nazioni Unite, seppur auspicando il regolare svolgimento della tornata elettorale per quest’anno, riconoscono che il concretizzarsi di questa possibilità sarebbe eccezionale. Con tale appoggio, non è quindi probabile che René Preval abbandoni le redini del governo prima di terminare il suo mandato “in pace” come ha dichiarato pubblicamente durante la celebrazione di una festa nazionale, il giorno della bandiera, svoltasi recentemente.

Gilles Cavaletto

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