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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Giovani democrazie crescono (o muoiono)

La Nigeria è di fronte ad una importante sfida democratica: dopo tre mesi di blocco istituzionale dovuto alla malattia del Presidente Yar'Adua, ed in vista delle elezioni, si decide come “ripartire”. Riuscirà il Paese a far valere la propria giovane Costituzione o si tornerà agli scontri?

L'ANTEFATTO – La storia passata e recente della Nigeria, come quella di tanti Paesi africani, è fatta di sanguinosi conflitti etnici, scontri per le risorse naturali, lunghi periodi di governo militare.Dal 1999 però nel Paese vige una Costituzione fondata su principi democratici e, sebbene le elezioni del 2003 e del 2007 siano state segnate da irregolarità e violenze, è rilevante sottolineare che queste hanno anche visto il primo passaggio di consegne ad un Governo non militare.L'attuale Capo dello Stato e del Governo in carica, Umaru Musa Yar'Adua, è infatti il primo Presidente a non provenire dalle gerarchie dell'esercito.Proprio la sua malattia è il fattore scatenante della crisi costituzionale e, soprattutto, del vuoto di potere che ha segnato gli ultimi tre mesi del Paese. Le sue condizioni di salute lo hanno infatti costretto a andare in cura all'estero, ed essendo egli la massima autorità di Governo, il lavoro delle Istituzioni si è bloccato, anche perché le leggi poco dicevano su come fronteggiare il problema. Le diverse fazioni al potere hanno dunque iniziato a confrontarsi su come sbloccare la situazione e, in attesa del rientro del Presidente, sono state avanzate diverse soluzioni e sono sorti timori sul futuro.

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SI RIPARTE? CON CHI? – In Nigeria, oltre agli equilibri di potere stabiliti dalle leggi, pesano molto quelli dettati dal bilanciamento tra gli interessi del nord del Paese, a maggioranza musulmana, e quelli del sud cristiano, rappresentati rispettivamente da Yar'Adua e dal suo vice Jonathan Goodluck.Queste dinamiche si muovono all'interno del principale partito del Paese, il Partito Democratico Popolare (PDP), guidato dal potente ex-Presidente e leader storico Obasanjo.Altro fattore di enorme peso è poi il MEND, il famoso Movimento per l'Emancipazione del Delta del Niger, gruppo armato che rappresenta una minaccia costante per gli interessi petroliferi stranieri nel Paese e per la stabilità dello stesso.Se finora Yar'Adua è riuscito a gestire i contrasti politici e ad ottenere una tregua dal MEND e dagli altri gruppi armati, lo stallo degli ultimi mesi e l’improbabile ritorno al Governo da parte del Presidente rischiano di rimettere tutto in discussione, soprattutto le possibilità di risolvere l’empasse nel rispetto della legalità e delle Istituzioni.

La malattia di Yar'Adua rischia quindi di creare una crisi interna al principale gruppo di potere nigeriano, soprattutto in vista delle elezioni politiche del 2011.Intanto, in attesa di chiarimenti sulle condizioni di salute di Yar'Adua, rientrato in Nigeria in gran segreto mercoledì, il suo vice Goodluck è stato designato dal Parlamento a guidare il Governo; il Senato è anche riuscito a votare una modifica costituzionale per dare un “ultimatum” al Presidente e imporgli di rendere ufficiale la sua capacità o la sua impossibilità di tornare in carica.Queste soluzioni sono arrivate dopo mesi di indecisione e di tensioni interne, con i sostenitori di Yar'Adua che hanno pressato per ritardare ogni decisione in merito a qualsiasi forma di passaggio di poteri; d'altra parte sinora tutti i principali attori politici nigeriani hanno sostenuto la soluzione che assicurasse la continuità della presente struttura di potere. Questa soluzione sarebbe basata su un presunto accordo informale interno al PDP, secondo il quale la carica presidenziale verrà mantenuta per due mandati da candidati del nord e per due da quelli del sud. Secondo questo accordo dovrebbe essere ancora un candidato del nord a guidare il Paese dopo Yar'Adua, ma se l'attuale Presidente pro tempore Goodluck, che è un rappresentante del sud, dovesse riuscire a crearsi un consenso forte in tempo per le elezioni, allora la crisi rischierebbe di diventare reale e di rendere nulli i progressi politici degli ultimi anni, che si fondano sugli equilibri interni al PDP e sull'autorità di Obasanjo.

COSA ASPETTARSI – Entro i prossimi 14 giorni Yar'Adua dovrebbe sciogliere le riserve sulle proprie condizioni fisiche e la situazione di stallo dovrebbe comunque sbloccarsi; se Goodluck manterrà il profilo basso che ha mostrato sinora, non ci dovrebbero essere tensioni ulteriori in vista delle elezioni del 2011 e lo stesso Goodluck si rafforzerebbe come candidato alle elezioni presidenziali del 2014. Qualora invece questi dovesse cercare di forzare la transizione del potere tra nord e sud già alle elezioni del 2011, allora la Nigeria potrebbe nuovamente diventare una polveriera.Nel frattempo il MEND, che sinora ha dichiarato di voler “aspettare e vedere” quale sarà l'evoluzione della situazione politica, potrebbe decidere di approfittare di un ulteriore periodo di stallo per sostenere nuovamente le proprie rivendicazioni con la violenza. 

Pietro Costanzo 25 febbraio 2010

Licenza di uccidere?

La presunta missione degli 007 israeliani a Dubai per eliminare un leader di Hamas si tinge di mistero. Intanto montano le critiche contro Israele.

Diverse tra le questioni che più hanno segnato le passate settimane potrebbero vedere degli interessanti risvolti durante questi giorni, da Israele, all’Iran, alla crisi finanziaria in Grecia.

Si infittisce la trama intorno alla (presunta) missione sotto copertura di agenti dei servizi segreti israeliani a Dubai per uccidere uno dei leader di Hamas. Appare comunque pressoché certo che la missione sia opera del Mossad: diversi Paesi e anche l’Unione Europea sembrano intenzionati a reclamare ufficialmente contro questo omicidio mirato, ancor più per via dell’uso di passaporti falsi europei da parte dei presunti agenti israeliani. Ad ogni modo Israele non ha confermato né negato responsabilità, sebbene siano anche state rilasciate delle fotografie degli appartenenti al commando. La vicenda non è però affatto chiara ed in settimana potrebbero esserci risvolti importanti.

In Europa si definisce un piano di intervento per fornire aiuto finanziario alla Grecia, in grave difficoltà dopo che è emersa la vera entità del dissesto nel bilancio pubblico. Il piano dovrà trovare equilibrio fra tre esigenze principali: ottenere un supporto tale da evitare che i Governi dei Paesi UE non ne ostacolino l’implementazione, elaborare un meccanismo che imponga alla Grecia di rispettare quanto previsto e, ovviamente, fare in modo che questi giochi di equilibrismo non rendano il piano stesso inattuabile.

Dopo gli scontri tra Cina e Stati Uniti, causati dallo scontento cinese per l’incontro tra Obama e il Dalai Lama e per il contratto di fornitura militare tra USA e Taiwan, il dialogo internazionale sulle sanzioni all’Iran contro il programma nucleare potrebbe arenarsi ancora, soprattutto considerando che la Cina potrebbe non appoggiare alcun genere di proposta avanzata dagli Stati Uniti e che la Russia si è dichiarata contraria alle proposte americane di puntare a sanzioni sulle forniture petrolifere.

In Ucraina Viktor Yanukovich ha vinto le elezioni Presidenziali e la sfidante Iulia Timosenko ha lasciato cadere i ricorsi sulle presunte frodi. Adesso si attendono le prime mosse del nuovo presidente filo-russo, soprattutto in relazione agli accordi sul libero scambio con Bielorussia, Kazakhstan e Russia. C’è attesa anche per la possibile riapertura del dialogo sul transito di gas dalla Russia verso l’Europa.

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Anche questa settimana il calendario delle visite politiche e diplomatiche è fitto e risaltano alcuni incontri.

Parecchi i “giri di valzer” in Asia Centrale e Caucaso:

  • Il rappresentante USA per Afghanistan e Pakistan, Richard Holbrooke, continua la missione in Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, Kazakhstan, Georgia e Germania alla ricerca di consenso regionale (e non solo) sulle prossime mosse in Afghanistan.

  • Il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov si trova in Kazakhstan per discutere ed approfondire nuovi accordi politici, economici, culturali e umanitari.

  • Il Rappresentante Speciale UE per l’Asia Centrale ed il Caucaso sarà in Azerbaijan per discutere di cooperazione tra l’UE ed il Paese caucasico e del conflitto in Nagorno-Karabakh.

  • Alti ufficiali militari dell’Azerbaijan andranno in Turichi per valutare le opportunità di allenza con la Turchia.

Segnaliamo anche:

  • La Corte Suprema thailandese avvierà il processo sulla gestione delle risorse economiche “congelate” all’ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra, che gode ancora di grandissimo supporto ed influenza. Le discussioni e le decisioni a riguardo potrebbero agitare ancora una volta le acque nel delicato equilibrio politico interno.

  • Vertice militare USA-Israele: il Ministro delle Difesa israeliano Ehud Barak incontrerà il Segretario per la Difesa Robert Gates, il National Security Advisor James Jones ed il rappresentante del Joint Chiefs of Staff Amm. Michael Mullen.

  • In Nigeria la Commissione Parlamentare per le riforme Costituzionali discuterà possibili modifiche normative, tra cui una mozione per anticipare le elezioni politiche, dato l’attuale stato di incertezza politica dovuta al temporaneo impedimento del Presidente per questioni di salute.

22 febbraio 2010

La Redazione

Colpo di spada su Helmand

La nuova strategia militare americana in Afghanistan comincia a prendere forma sotto la direzione del nuovo comandante delle truppe americane, Stanley McChrystal

L'OPERAZIONE – Pochi giorni fa, nella notte tra il 2 ed il 3 luglio, l'esercito americano ha lanciato una forte offensiva nella provincia di Helmand, roccaforte dei gruppi talebani più agguerriti e ultimo vero grande centro della produzione afghana di oppio. Per quattro giorni, 4000 Marines e 650 militari afghani hanno battuto il territorio, scontrandosi con gli insorti talebani, mentre in contemporanea l'esercito pakistano si schierava sulla propria frontiera per sbarrare la strada ad eventuali movimenti transfrontalieri.Questa operazione mette in luce importanti segnali di cambiamento sullo scenario di guerra: segna intanto una forterivendicazione della guida delle operazioni militari da parte americana, anzitutto rispetto alla NATO e poi anche rispetto alle forze inglesi che sinora avevano gestito l'area. Il Gen. McChrystal, che proviene dalle vincenti operazioni contro gli insorti in Iraq, è infatti stato sostituito autoritativamente dagli USA al comandante ISAF McKiernan, ed ora si trova ad applicare sul campo una nuova strategia, il cui l'obiettivo non è (solo) distruggere il nemico ma (anche) allontanarlo dalla popolazione, prendere e tenere la posizione sul campo e cercare di recuperare il necessario supporto della gente locale. 

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LE MOTIVAZIONI – La provincia di Helmand ha una radicata relazione con il movimento talebano più estremo, la cui influenza sull'area non è diminuita nei tanti anni di guerra, facendo di questa provincia unaroccaforte dei movimenti insurrezionalisti e dei gruppi criminali. Ma non è solo la presenza nemica sul territorio il problema da affrontare: c'è infatti da combattere la forte diffidenza della popolazione rispetto alle truppe straniere. Questa è causata da parecchi fattori, sia storici che sociali, e da motivazioni direttamente legate all'intervento americano: da una parte le perdite civili inflitte negli anni passati, "danni collaterali" degli attacchi aerei raramente riconosciuti; dall'altra i timori dettati dalla percezione delle forze straniere come presenza sporadica e temporanea a fronte di quella talebana percepita come stabile e quasi inevitabile.Una strategia di conquista dei "cuori e delle menti" si è resa quindi necessaria. Questa è stata esplicitata dal Libro Bianco americano per l'Afghanistan (marzo 2009) e presentata da McChrystal dopo l'avvio delle operazioni: controllo e permanenza sul territorio, maggiore assistenza alla popolazione ed ai governi locali, formazione di polizia locale, rottura del nesso tra insurrezione e traffico di droga.In questa prospettiva, la prima mossa è quella militare: occupare il territorio stabilmente, come mai fatto prima in questa regione, e operare per spezzare i legami del nemico con il territorio stesso impedendogli di sviluppare basi logistiche e di sfruttare le sua principale risorsa economica, cioè le coltivazioni di oppio. A questo si accompagnerà, nelle intenzioni americane, una forte attività di supporto ai locali, per cercare di ridurre i principali motivi di scontento che tanto giovano ai talebani: bisogno di protezione e di beni di prima necessità, corruzione, disoccupazione, mancanza di alternative alla coltivazione di oppio. 

IL FUTURO – Questa operazione sarà decisiva per il destino delle nuove politiche presentate dall'Amministrazione Obama. Se gli americani riusciranno ad insediarsi ed a conquistare un minimo di fiducia tra la popolazione, allora si potrà sperare in un recupero di credibilità che aiuterà nella stabilizzazione dell'area afghana. Intanto una immediata riuscita dell'operazione contribuirà ad aumentare la fiducia nelle elezioni nazionali che si terranno in agosto, rispetto alle quali è necessario garantire la libera partecipazione di tutta la popolazione.

Pietro Costanzo [email protected]  12 luglio 2009

Il voto della discordia

Le elezioni in Afghanistan non hanno tradito le attese. Come in un copione ben scritto, non è mancato nulla: la violenza, le frodi, una popolazione stoica che va a votare nonostante i pericoli, nonché il confronto tra due mondi, quello della democrazia occidentale e quello delle regole tribali.

LA TRAMA – Al voto del 20 agosto ha partecipato circa il 40% degli aventi diritto, ma il dato in sé non è rappresentativo: in molte province del nord, stabili e relativamente sicure, l’affluenza è stata ben maggiore; nel sud del Paese, sotto forte influenza talebana, molti seggi sono rimasti chiusi. I dati rilasciati dalla Commissione Elettorale Indipendente (IEC), con oltre il 90% delle schede scrutinate, dicono che Karzai ha ottenuto più del 54% dei voti e che quindi sarebbe di fatto il vincitore già al primo turno; Abdullah seguirebbe con il 28%, l’outisder Bashardost con il 14%, il deludente Ghani con il 3%. Ma ecco il colpo di scena: la Electoral Complaints Commission (ECC), che ha il compito di valutare i ricorsi elettorali (col supportato dalle Nazioni Unite), dopo avere già ritenuto fondati diversi degli oltre 700 ricorsi riguardanti le frodi, ha ordinato l’annullamento dei voti di 32 seggi nelle provincie di Ghazni e Paktika ed il numero è destinato a salire. La medesima ECC ha reso noti i criteri per valutare quali seggi debbano ritenersi a rischio di frode, imponendo il riconteggio dei voti in quei seggi in cui la presunta affluenza è stata prossima al 100% oppure dove un singolo candidato abbia ottenuto più del 95% dei voti.Secondo queste regole sarebbero molti i seggi sotto verifica (circa il 2% del totale) e, date le scarse risorse di cui gli organismi elettorali sono dotati, le procedure di controllo potrebbero richiedere mesi. 

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I PROTAGONISTI – Il Presidente Karzai si è sinora astenuto da proclami di vittoria o dichiarazioni pubbliche che potessero accendere le proteste degli oppositori: la sua posizione è particolarmente delicata infatti. Karzai si trova tra l’incudine interna, che vede sempre meno di buon occhio la sua rielezione, dati i pesanti sospetti (e pare anche qualche certezza) di gravi brogli a suo favore, ed il martello degli Stati Uniti, che dopo avere più volte espresso disappunto per l’operato del Presidente si trovano ad affrontare l’ennesima modifica alle proprie strategie militari senza avere una controparte ritenuta affidabile. Lo sfidante Abdullah invece è prodigo di commenti, generalmente cauti ma sempre più spesso volti a richiamare lo spauracchio dei sollevamenti popolari. Sebbene infatti abbia dichiarato che accetterà qualunque verdetto “legittimo” sancito dalla istituzioni elettorali, di fatto il suo parametro di legittimità sembra ben lontano dalla situazione reale. La popolazioneintanto, dopo aver mostrato una partecipazione comunque non indifferente alle elezioni, difficilmente potrà ricordare questa prova di democrazia come una pietra miliare nella ricostruzione del Paese. Ciò non deve però togliere valore a quello che è un verdetto fondamentale di questa tornata elettorale: nonostante otto anni di guerra e di presenza militare straniera, nonostante una frammentazione interna che mal si accorda con il concetto di democrazia occidentale, nonostante la sfiducia nei confronti delle Istituzioni e le gravissime minacce dei talebani, molti milioni di afgani sono andati a votare. Chi per nulla si è reso protagonista è invece la comunità internazionale, che ha sì fornito il supporto tecnico per le elezioni, ma che sembra soffrire di improvviso mutismo sulle questioni più importanti di questo cruciale momento per la missione internazionale in Afghanistan.  

 

IL FINALE A SORPRESA? – Con circa il 5% dei voti ancora da conteggiare, Karzai potrebbe ugualmente rimanere sopra la soglia del 50%; qualora invece dovessero aumentare i numeri dei presunti voti fraudolenti, allora il rischio di una grave impasse sarebbe concreto. Se poi questo dovesse condurre ad un ballottaggio la situazione diventerebbe ancora più critica: l’approssimarsi dell’inverno, la crescente violenza talebana e le tensioni interne renderebbero il controllo del secondo turno elettorale ancora più difficile del primo, aprendo ad ogni tipo di scenario.Se le procedura di verifica imposte dalla ECC dovessero quindi esser rispettate, lo scenario risultante sarebbe dei peggiori: lo stato di “limbo” istituzionale che si creerebbe non troverebbe contromisure già definite, lasciando spazio a soluzioni di compromesso non facili da trovare. In questo scenario il vantaggio maggiore sarebbe del movimento talebano, che potrebbe guadagnare ulteriore terreno a danno delle fragilissime istituzioni, ancor più indebolite agli occhi della popolazione dopo un’elezione che anziché contribuire alla stabilità del Paese rischia di cristallizzare la frammentazione istituzionale e le divisioni interne. 

Pietro Costanzo 14 settembre 2009 [email protected] 

Il dado è tratto?

Ennesimo colpo ad effetto: il candidato Abdullah si ritira dal ballottaggio per il timore di brogli. Karzai è dichiarato vincitore. Ma l’accordo tra i due contendenti pare rimanere una necessità

I RISULTATI E LE FRODI – Il percorso delle elezioni Presidenziali in Afghanistan, dal voto del 20 agosto ad oggi, si è complicato sempre più, ed oggi la situazione è giunta al massimo livello critico con il ritiro dalla contesa del candidato Abdullah Abdullah.Il Presidente Karzai aveva inizialmente ottenuto il 54% dei voti, ma di questi circa un milione sono stati annullati dopo le pressioni dello stesso Abdullah e, soprattutto, dell'Occidente. Troppe le frodi, anche per un contesto come quello afghano. Troppo debole il risultato e la sua legittimità, data anche la bassa partecipazione al voto (ha votato circa il 38% degli aventi diritto).Il nuovo conteggio ha portato Karzai al di sotto del 50% ed ha quindi reso necessario il ballottaggio, ipotesi che Karzai ha “accettato” settimana scorsa, ancora dopo grandi pressioni. Nel Paese però non esistono le condizioni per pensare all'ipotesi del ballottaggio (inizialmente programmato per il 7 novembre) come alla migliore delle soluzioni, per vari e validi motivi, ma soprattutto perché bisognerebbe nuovamente esporre i civili e le forze di sicurezza nazionali e straniere alla violenza dei Talebani, che hanno chiaramente dimostrato di essere forti e di poter incidere sul debole processo democratico. Il prezzo da pagare sarebbe troppo alto sia per gli afghani che per l'opinione pubblica occidentale. Il ballottaggio viene dunque annullato e Karzai è riconfermato in carica. Ma non è tutto.

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LA RITIRATA – Il gioco di forza tra i due candidati, Karzai ed Abdullah, è divenuto sempre più aspro, fino alla decisione di Abdullah, annunciata domenica, di non prendere parte al voto.La decisione, già ampiamente paventata dallo stesso Abdullah, è conseguenza della mancata accettazione da parte di Karzai delle richieste avanzate dallo sfidante, che mirava a far rimuovere dai propri incarichi dei funzionari pubblici di alto rango accusati di aver avuto importanti ruoli nelle frodi del primo turno a favore del Presidente uscente. Tali richieste, oggettivamente molto pesanti e difficili da soddisfare, hanno portato ad un epilogo in verità inevitabile, che complica la situazione ma che non lascia nulla di nuovo sotto il sole.Abdullah, infatti, dato come perdente ad un eventuale ballottaggio, ha cercato di rafforzare la propria posizione minando ancora di più la legittimità della eventuale vittoria del Presidente uscente, in un ballottaggio con un solo concorrente e con una partecipazione popolare che sarebbe ancora più bassa che al primo turno.La prospettiva di Abdullah potrebbe essere infatti quella che in molti si auspicano, cioè il raggiungimento di un accordo per formare un Governo unitario, o comunque per ottenere posizioni di rilievo nel nuovo Governo: i due candidati, ufficialmente non intenzionati a governare insieme, non sembrano nei fatti escludere la possibilità di un accordo.Al momento del ritiro Abdullah ha dichiarato di “non chiudere nessuna porta” ed ha invitato i propri sostenitori a non scendere in piazza contro Karzai, il quale in questi giorni, da parte sua, si è impegnato in una fitta rete di incontri e negoziazioni con rappresentanti della comunità internazionale. 

 

A CHI SERVIVA IL BALLOTTAGGIO? – Allo stato dei fatti era nell’interesse di tutti evitare il ballottaggio: l’organizzazione dell'evento in così poco tempo avrebbe messo ancora più a rischio la sicurezza dei seggi e dei votanti e non avrebbe consentito neanche di schierare sul territorio un sistema di controllo delle frodi più efficace di quello del primo turno.In questo contesto, Stati Uniti e ONU hanno esplicitamente caldeggiato un accordo tra i candidati per evitare il voto, il quale avrebbe anche comportato un aumento di rischio per le truppe della missione internazionale.Karzai, d’altra parte, avrebbe potuto trarre vantaggi dal voto solo riuscendo a mobilitare molti elettori, così da dare anche formale legittimità alla propria rielezione; ma questo obiettivo era difficile da raggiungere, data la già bassa affluenza al primo turno, la generale confusione sul processo elettorale, la sicurezza sempre più deteriorata, con i talebani pronti a colpire. Abdullah, dal canto suo, aveva già raggiunto attraverso il ritiro il suo primo scopo, cioè quello di rafforzare la propria posizione: da sicuro perdente in un eventuale ballottaggio, adesso è lui l'ago della bilancia. Il processo elettorale, iniziato a Maggio, ha già paralizzato a lungo il Paese che ha invece urgente bisogno di decisioni politiche efficaci per fronteggiare, anzitutto, il deterioramento delle condizioni di sicurezza.In attesa di una formale chiusura delle procedure elettorali, rimane però in ballo il nodo principale: la diplomazia internazionale ed il movimento di Abdullah saranno riusciti ad aprire degli spiragli per la formazione di un Governo afghano in grado di evitare scontri interni e di riprendere in mano le deboli Istituzioni? 

Pietro Costanzo 2 Novembre 2009 [email protected] 

Democrazia cercasi

Le elezioni in Afghanistan del 20 agosto si sono svolte in un clima di tensione e instabilità. Qualunque dovesse essere il risultato, le istituzioni democratiche nazionali sono ancora molto deboli

VOTO A KABUL – Il 20 agosto in Afghanistan si è votato per il rinnovo dei Consigli provinciali e, soprattutto, per l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica Islamica.Nonostante le precarie condizioni di sicurezza e la generale disaffezione della popolazione rispetto alle vicende politiche, dovuta principalmente al perdurare di condizioni di vita critiche ad otto anni dalla caduta dei talebani, le candidature sono state numerose (oltre 3000 per le elezioni provinciali; 41 i candidati iniziali alla carica di Presidente).Questa tornata elettorale è la seconda dopo quella del 2004-2005, da quando, nel 2001, le forze militari internazionali hanno occupato il Paese per rovesciare il regime degli estremisti Talebani. Le elezioni si sono svolte in un clima di notevole incertezza, sia per quanto riguarda la capacità delle forze di sicurezza afghane ed internazionali di mantenere il controllo del territorio di fronte ad un prepotente ritorno delle violenze da parte degli insorti talebani, che per quanto riguarda la partecipazione della popolazione.Dal punto di vista della sicurezza, nonostante le gravi minacce da parte dei talebani nei giorni precedenti il voto, non si sono registrati gravi episodi di violenza nel giorno delle elezioni: circa il 90% dei seggi sono stati aperti e le operazioni si sono svolte con relativa calma. Nei giorni successivi si è invece registrato un aumento degli attacchi alla popolazione ed al personale impiegato nella gestione del processo post elettorale. 

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URNE (SEMI)VUOTE? – Per quanto riguarda l'affluenza alle urne, questa è in effetti stata bassa, si stima poco oltre il 40% degli aventi diritto. Con il 35% dei voti scrutinati, i candidati che hanno ricevuto più voti, come previsto, sono stati il Presidente uscente Hamid Karzai (46%), che punta alla rielezione già al primo turno, ed il suo ex Ministro degli Esteri Abdullah Abdullah (31%). Il ruolo di outsider è spettato a Ramazan Bashardost (13%), mentre molto deludente rispetto alle attese è il risultato di Ashraf Ghani (2,5%). Non stupisce che molte siano già state le reciproche denunce di pesanti brogli, soprattutto a carico di Karzai, che si è presentato alle elezioni come capo di una rinnovata coalizione i cui componenti non sembrano qualificarsi per la propria trasparenza.  

I POSSIBILI SCENARI – Attualmente la possibilità di un ballottaggio rimane aperta, ma non è da escludersi una vittoria di Karzai già al primo turno: tale eventualità non era tra le più accreditate, e questo rischia di agitare le già turbolente acque della contesa elettorale. Alleanze, possibili risvolti e credibilità dei risultati sono da costruire giorno per giorno, perché al momento nulla nel debolissimo processo di costruzione delle istituzioni afghane sembra poter sostenere il peso di un processo elettorale così complesso ed al tempo stesso così determinante per evitare che il vicino inverno afghano non diventi incubatore di una ennesima esplosione di violenza nel Paese. 

Pietro Costanzo 31 agosto 2009 [email protected]

Luglio di sangue

Drastico aumento delle perdite per la coalizione internazionale nelle ultime settimane, tra cui anche un militare italiano, Alessandro Di Lisio. Perchè questa escalation di violenza?

NUOVA OFFENSIVA – La coalizione militare internazionale (ISAF), insieme alle forze afghane, ha lanciato sin dai primi giorni di luglio una offensiva di vasta portata su diverse aree del territorio afghano ed in particolare nella provincia meridionale di Helmand, roccaforte talebana e centro della coltivazione di oppio.L’aumento delle operazioni è stato accompagnato da un risposta sempre più aggressiva da parte delle milizie insorte, che hanno incrementato attacchi suicidi ed attentati con IED (improvised explosive device), cioè gli ordigni esplosivi improvvisati con cui vengono colpite le pattuglie lungo le strade.In queste prime due settimane di luglio sono stati 43 i caduti tra le forze della coalizione internazionale; tra questi anche un militare italiano dei paracadutisti della Folgore, ucciso da un ordigno posizionato lungo la strada.Per registrare un dato così alto bisogna tonare all’agosto 2008 (46 vittime), ma siamo ancora a metà mese. 

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IL PERICOLO AUMENTA – Il maggiore impegno bellico profuso nelle ultime settimane, sia in termini di forze impegate che in termini di operazioni condotte, comporta inevitabilmente un incremento delle vittime, ma ciò non è necessariamente indice di maggiore incisività delle operazioni stesse.Il maggior numero di vittime dice però qualcosa di ugualmente importante: nonostante la nuova strategia delle forze ISAF punti più sul presidio del territorio che sulle attività di ricerca e attacco dei ribelli, le forze sul campo saranno sempre più impegnate negli scontri con le milizie nemiche.Le direttive tattiche del nuovo comandante Stanley McChrystal (disponibili qui: http://www.nato.int/isaf/docu/official_texts/Tactical_Directive_090706.pdf), volte a tutelare maggiormente i propri militari ed i civili nell’applicazione di questa nuova strategia, si scontrano con una realtà che complica le cose. Infatti, la presenza tendenzialmente stabile e distribuita di truppe sul campo, in mezzo alla gente, costituisce un fattore di rischio estremamente alto.

I TALEBANI GIOCANO “IN CASA” – Le forze dei talebani e dei locali signori della guerra sembrano mostrare di essere preparate ad affrontare il nemico, su un campo che è quello “di casa”, e con il fattore tempo dalla propria parte.Una adeguata strategia di contrasto all’insorgenza richiede infatti, tra l’altro, stabilità sul territorio ed appoggio della popolazione locale: elementi che si conquistano col tempo e con grande dispendio di risorse, soprattutto in una realtà tribale complessa e variegata come quella afghana.Per le forze straniere questo è un onere estremamente gravoso, il cui prezzo rischierà di essere alto anche in termini di vite umane.

Pietro Costanzo [email protected]  14 luglio 2009

Rifugio (in)sicuro

La capitale afghana è stata colpita da una serie di attacchi coordinati, portati da militanti Talebani, nel giorno in cui il Presidente Karzai tentava per la seconda volta di presentare al Parlamento una nuova formazione di Governo. Il tentativo di Karzai non è andato a buon fine, ma anche quello dei Talebani è stato arginato

ALLA CONQUISTA DELLA CAPITALE – Nel mattino di lunedì, un gruppo di circa 11 miliziani talebani è entrato in azione nel centro città, colpendo diversi “soft targets”, obiettivi civili vulnerabili, e dimostrando una capacità organizzativa e di infiltrazione non indifferente. Il gruppo di miliziani, diviso in diverse squadre, ha anzitutto attaccato con una autobomba l’edificio della Banca Centrale, dove però non è riuscito a penetrare. Un secondo team ha preso il controllo del vicino  Grand Afghan Shopping Center, nel quale ha preso posizione per sparare sull’hotel Serena (presso il quale alloggiano molti stranieri), sugli uffici di Afghan Telecom e sul Ministero della Giustizia, nonché sulla stessa Banca Centrale. Poco dopo è stato portato un attacco al mercato Gulbahar, usando un’ambulanza militare carica di esplosivo (questa ha ovviamente rappresentato una ottima copertura). L’ultimo obiettivo è stato poi il Cinema Pamir, inizialmente occupato ma rapidamente liberato dalle forze speciali afghane.Il risultato finale dell’attacco non è stato clamoroso come forse era nelle intenzioni dei Talebani: questo attacco infatti ricorda nelle modalità quello a Mumbai, India, del Novembre 2008, con diversi assalti coordinati a obiettivi civili. In quel caso i militanti erano riusciti a tenere il controllo delle strutture attaccate per parecchie ore, avevano fatto molte vittime ed erano riusciti ad ottenere una enorme attenzione mediatica. In questo caso invece le forze speciali afghane, sebbene battute dal punto di vista della prevenzione, hanno prevalso da quello della risposta. È inoltre importante notare come anche la dotazione di armi non fosse del tutto idonea a creare gravi danni, cosa che potrebbe indicare una certa difficoltà dei talebani a dotarsi di armi potenti.

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LA LISTA – Questi attacchi sono comunque carichi di significato. Il Presidente Karzai è infatti alle prese con il difficilissimo compito di fare accettare al Parlamento la lista di Ministri per il nuovo governo; dopo le travagliate elezioni di agosto infatti, le proposte del Presidente per un nuovo esecutivo sono state rigettate per due volte dal Parlamento. Dopo la grave bocciatura di inizio gennaio, quando solo 7 dei 24 Ministri proposti erano stati accettati, lunedì è stata proposta una seconda lista di 17 persone (14 uomini e 3 donne): anche in questo caso sono passate solo 7 nomineCome se non bastasse, nonostante la situazione critica ed il vuoto di potere che rischia di diventare sempre più grave, il Parlamento ha chiuso per la sosta invernale, impedendo dunque al Presidente di presentare nuove nomine.Karzai si presenterà dunque alla conferenza internazionale di Londra del 28 Gennaio con solo metà dell’esecutivo in carica. In quell’occasione infatti, durante un incontro internazionale fortemente voluto dal premier Gordon Brown, la comunità internazionale discuterà un piano di sviluppo e sicurezza per il 2010 e per il futuro. Evidentemente Karzai non porterà sul tavolo della conferenza le migliori carte da giocare. 

IL NODO TALEBANO – Al momento dunque si presenta come ancora più pressante la necessità di migliorare la strategia per giungere ad una progressiva pacificazione con gli insorti talebani. Karzai, dopo aver più volte ricevuto il categorico rifiuto alla collaborazione da parte dei capi del movimento Talebano, ha preannunciato una nuova proposta. Pare infatti che si voglia puntare ad un piano che offra lavoro, formazione ed altri incentivi economici a quelli tra i talebani che vorranno rientrare nella legalità, abbandonando la lotta armata. Il piano è prevalentemente volto ai miliziani di medio e basso livello, a quelli, insomma, che combattono non tanto per convinzione culturale e religiosa ma piuttosto per mancanza di alternative nel trovare mezzi dignitosi di sussistenza.Sarà certo molto difficile per Karzai e per la coalizione internazionale formulare proposte vincenti. Il messaggio inviato dai Talebani attraverso questi ultimi attacchi è forte: il movimento radicale è ancora risoluto, è in grado di organizzarsi e di metter in costante difficoltà le Istituzioni, anche fin dentro al cuore della capitale.La coalizione internazionale dovrà quindi tenere ben presente che si rivolge ad un gruppo che non sente di essere in posizione perdente, che difficilmente accetterà compromessi al ribasso, soprattutto di fronte ad un Presidente che deve prima riuscire a comporre i pezzi di un intricato puzzle di etnie e poteri locali.

 

Pietro Costanzo 19 gennaio 2010 [email protected]

Chi decide?

Pochi giorni alla proclamazione dei risultati definitivi delle elezioni Presidenziali. Le istituzioni locali e internazionali non hanno ancora assunto una posizione chiara rispetto alle accuse di frodi

UNA POLTRONA PER DUE – I dualismi stanno caratterizzando la fase finale di queste tribolate elezioni: già in fase di conteggio dei voti, la Commissione Elettorale Indipendente (organo a guida locale) e la Commissione per i Ricorsi Elettorali (organo supportato dalle Nazioni Unite) erano entrate in contrasto sull’opportunità della ufficializzazione dei risultati preliminari a fronte dei sospetti di vaste frodi.Adesso la contesa si è inasprita all'interno delle Nazioni Unite e coinvolge i due massimi rappresentanti diUNAMA (United Nations Assistance Mission in Afghanistan), il norvegese Kai Eide, capo della missione e l'americano Peter Galbraith, “numero due” della stessa.I due esperti diplomatici sono entrati in aperto contrasto rispetto alla valutazione di estensione e rilevanza delle frodi elettorali a favore di Karzai: il risultato è stato il richiamo in patria per Galbraith.Tale contrasto, a prima vista interno, in realtà rivela quanto complessa sia la questione del riconoscimento dei risultati elettorali per la comunità internazionale.Secondo Galbraith, Eide avrebbe imposto alla missione ONU un profilo troppo basso di fronte alle frodi, negandone la vastità ed impedendo azioni di controllo risolute; il diplomatico statunitense ha chiaramente affermato che senza i voti fraudolenti Karzai sarebbe costretto al ballottaggio.Galbraith nelle settimane passate aveva più volte parlato dell'importanza che le frodi avrebbero per l'esito definitivo delle elezioni, aveva aspramente criticato l'operato della Commissione Elettorale Indipendente circa le regole da applicare per la valutazione della legalità dei voti ed aveva così causato dure reazioni dell'entourage di Karzai nei propri confronti  e della missione ONU.Soprattutto, però, le accuse del diplomatico americano sono state rivolte ad Eide, apertamente accusato di avere forzato lo staff UNAMA a non approfondire le indagini sui sospetti relativi a “seggi fantasma” nel sud del Paese e a non condividere con le istituzioni afgane le prove in loro possesso.

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CHI DECIDE IL RISULTATO – Dopo una iniziale fase di attesa e di parziale riconoscimento delle frodi poste in essere in favore di Karzai, la posizione degli organismi internazionali, e dell'Amministrazione americana in particolare, è rimasta vaga e lo schermo della “neutralità” nei confronti del processo elettorale afgano ha fatto via via trasparire una sorta di rassegnazione davanti all'ipotesi delle riconferma di Karzai.Il dibattito interno al Paese è invece stato decisamente più duro e le critiche contro l'inerzia della comunità internazionale di fronte alla già spesso provata importanza delle frodi sono state veementi.Di fatto, qualora gli organi internazionali non dovessero pressare per un approfondito controllo delle schede sospette, il risultato finale vedrebbe la rielezione di Karzai al primo turno, nonostante tutto. In questa ipotesi l'autorevolezza del voto agli occhi della popolazione e dell'opposizione guidata dal forte candidatoAbdullah Abdullah sarebbe pesantemente compromessa.Al contempo, la vittoria sarebbe per i Talebani, poiché un risultato elettorale delegittimato accrescerebbe la loro possibilità di influenza su una popolazione senza punti di riferimento. Il ruolo della comunità internazionale stessa sarebbe sminuito a fronte di un comportamento lassista nei confronti delle frodi.D'altra parte, un rigoroso controllo dei voti richiederebbe molto tempo e potrebbe portare al ballottaggio. Questa scelta avrebbe due importanti conseguenze: da una parte, l'avvicinarsi dell'inverno bloccherebbe di fatto ogni possibilità di indire una nuova tornata elettorale (vaste aree del Paese rimangono isolate nella stagione invernale); dall'altra, aprirebbe comunque uno scontro tra la comunità internazionale e la fazione capeggiata da Karzai, lasciando il Paese in un limbo istituzionale particolarmente pericoloso. 

NESSUNA SCELTA? – In un momento in cui la missione militare NATO è in grave difficoltà, la necessità primaria è quella di avere un governo stabile e, nonostante il fatto che la corruzione nel Governo Karzai venga considerata una minaccia pari a quella talebana, l'ONU e gli Stati Uniti potrebbero preferire una soluzione accomodante, vedendo in Karzai l'unico interlocutore attualmente possibile. D'altra parte lo stesso Karzai non ha possibilità di scegliere altri partner diversi dagli Stati Uniti.In questo contesto, il voto della popolazione afghana e le debolissime istituzioni costruite dalla caduta dei talebani varrebbero sempre meno. 

Pietro Costanzo 5 ottobre 2009 [email protected]

L’Italia dei soviet

Berlusconi in visita ufficiale in Bielorussia, patria dell’“ultimo dittatore d’Europa” Lukashenko. Gli interessi di una politica estera ambivalente.  Esiste un interesse nazionale italiano?

RELAZIONI PERICOLOSE – Ci risiamo. Realpolitik ai limiti del consentito in Italia. Dopo le visite reciproche fortemente criticate con il leader libico Gheddafi e i rapporti personali quantomeno ambigui con il Presidente russo Vladimir Putin, il Premier italiano Silvio Berlusconi ha compiuto un altro viaggio diplomatico che sarà oggetto di molte disapprovazioni. Il Paese di destinazione questa volta era la Bielorussia del Presidente Aleksandr Lukashenko, anche detto “l’ultimo dittatore d’Europa”. Nessun capo di Stato o governo di un Paese europeo, dal 1994 (anno in cui Lukashenko diventò Presidente della Bielorussia), ha mai messo piede a Minsk, la capitale bielorussa. Negli scorsi anni più di una volta il Dipartimento di Stato USA, l’Unione Europea e organizzazioni come l’OSCE hanno accusato il regime di Minsk di essere anti-democratico, di aver fatto svolgere elezioni pilotate e cambiamenti costituzionali (che, per esempio, permettono allo stesso Lukashenko di ricandidarsi quante volte riterrà opportuno, mentre prima vi era un limite di due mandati presidenziali) che poco hanno a che fare con i principi ispiratori delle democrazie occidentali.

DEMOCRAZIE vs. AUTORITARISMI – Nella sua visita a Minsk che, tra l’altro, ricambiava una visita ufficiale di Lukashenko a Roma nello scorso aprile (visita durante la quale il capo di Stato bielorusso aveva incontrato anche il Papa Benedetto XVI), Berlusconi si è spinto a dichiarare che Lukashenko è un Presidente amato, come si può vedere “dai risultati elettorali che sono sotto gli occhi di tutti”. Quei risultati elettorali che, per inciso, sono così schiaccianti da risultare davvero poco credibili (nelle ultime elezioni, quelle del marzo 2006, Lukashenko vinse con l’82,6% dei consensi. Tanto per intenderci, le ultime elezioni in Iran, quelle dei brogli di Ahmadi-Nejad, hanno visto il Presidente “conquistare” il 62,4% dei voti). Dunque di nuovo la politica estera italiana e l’interesse nazionale del Belpaese sembrano non seguire linee politiche logiche, distanziandosi ancora una volta dagli alleati europei e transatlantici ed andando ad infilarsi nei meandri di regimi autoritari.

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L’INTERESSE ITALIANO: GAS E ARMI? – Interessi economici, affari aziendali e rapporti privilegiati con dittatori malvisti in Europa, in cambio di una parvenza di legittimazione di quei regimi o, al limite, dei famosi 15 minuti di fama che, come diceva Andy Warhol, prima o poi nella vita spettano a tutti. Questo il limite della politica estera italiana allo stato attuale: giocare sul bisogno di uscire dall’isolamento di discussi leader, per poter dare l’impressione di agire da apripista e pionieri di nuove relazioni. Il problema è che, spesso, tutte le retroguardie dietro Roma, composte dagli alleati più tradizionali della NATO e dell’UE, non condividono tali scelte e si distanziano. In tal modo è l’Italia stessa che rischia di trovarsi isolata. Nonostante ciò, business is business. Dunque ecco che, dietro alla visita di Berlusconi a Minsk, arrivano due degli attori che più di altri determinano la politica estera italiana: ENI e Finmeccanica. La prima potrebbe essere alla ricerca di nuovi accordi con Minsk, considerando il fatto  che la Bielorussia non ha molte risorse naturali, ma sul proprio territorio transita una buona fetta del gas russo diretto in Europa. Finmeccanica, invece, è già un passo avanti nelle relazioni con Minsk: lo scorso settembre il Presidente e Amministratore Delegato di Finmeccanica Pier Francesco Guarguaglini, ha incontrato Lukashenko nella capitale bielorussa per stringere probabilmente degli accordi circa possibili investimenti italiani nel settore della difesa bielorussa. L’ex Repubblica Sovietica ha un gran bisogno di rinnovare i propri arsenali per essere al passo con i competitori regionali (come tutti i regimi autoritari, Minsk dà grande importanza al settore militare) e Berlusconi promuove gli interessi dell’industria italiana della difesa, o meglio di Finmeccanica, appunto. E I COMUNISTI? – Pensare che, in casa, Berlusconi usa spesso la retorica anti-comunista e, inoltre, anche la stessa Europa dell’Est va sempre più in questa direzione. Curioso il fatto che, mentre in Polonia la settimana scorsa si approvava un emendamento all’articolo 256 del codice penale, finalizzato a mettere al bando (pena l’arresto) qualsiasi simbolo comunista (bandiere rosse, falci e martelli, magliette con Che Guevara…) e, a Roma, il Presidente del Consiglio continui ad accusare la “magistratura comunista”, l’“opposizione comunista” e i “media comunisti”, fuori Italia Berlusconi cambi così facilmente idea. Amico personale di Putin, ex dirigente del KGB, e adesso tessitore delle lodi di Lukashenko, ex membro del Soviet, e del suo immenso consenso popolare. La Bielorussia, per inciso, ha rapporti stretti anche con la Repubblica Islamica dell’Iran, costituendo una sorta di asse strategico in funzione anti-occidentale con altri Paesi come il Venezuela. Tutti rappresentanti di regimi autoritari, con cui l’Italia continua a tessere relazioni, mettendo in pericolo la credibilità di Roma a livello europeo e facendo nuovamente intendere l’idea che si ha a Palazzo Chigi dell’interesse nazionale, carente di una visione di lungo termine che, a lungo andare, potrebbe invece rivelarsi controproducente.

Stefano Torelli

Acqua s.p.a.

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Le prime avvisaglie di una formale privatizzazione si possono ricondurre al quinto Forum Internazionale dell’Acqua tenutosi a Istanbul lo scorso marzo, quando vennero definite le nuove strategie per la gestione dell’acqua

IL FATTO – Con decreto legislativo n. 1784 il Parlamento italiano ha autorizzato la liberalizzazione del settore idrico italiano. Il decreto, denominato salva-infrazioni, dovrebbe porre un freno alle innumerevoli sanzioni a cui il nostro paese è soggetto in ambito comunitario, ma all’interno inspiegabilmente è contenuto anche il testo che prevede la privatizzazione dell’acqua, togliendo la responsabilità alle amministrazioni locali/Regioni. Immancabili si sono levate le proteste dall’opposizione, che ha promesso una dura battaglia contro questa decisione che, per la velocità con cui è stata presa, sembra essere più una necessità dovuta all’attuale crisi economica, che una vera e propria scelta consapevole (il mezzo del decreto legge aggira la normale discussione parlamentare).

L’AFFAIRE ITALIANO – Secondo un’indagine dell’organizzazione “Acqua Italia”, il 72% degli italiani ha bevuto spesso acqua del rubinetto durante l’ultimo anno, ed il 25% dichiara di farlo abitualmente. Nell’indagine risulta anche che una tra le principali cause sulla scelta dell’acqua di rubinetto sia per ragioni economiche; il prezzo dell’acqua incide non poco sul bilancio familiare degli italiani, un litro d'acqua del rubinetto può costare tra le 300 e le 1000 volte meno di quella in bottiglia. Un altro dato poco ricalcato dai media è quello relativo all’andamento crescente del prezzo dell’acqua negli ultimi dieci anni, fattore determinato dal concentrato numero di gestori che lavorano nel settore e che hanno una sorta di oligopolio su di un bene come quello dell’acqua che si definisce unanimemente “comune”. Nei fatti, quello che accadrà sarà una riorganizzazione delle competenze nel settore, con un’apertura ai privati nelle gare d’appalto per gli ATO (Ambiti territoriali ottimali), strutture che superano la dimensione comunale di gestione e che hanno competenza sul Piano d'ambito, strategia per l’elaborazione delle responsabilità territoriali.

  I MERCATI FINANZIARI RINGRAZIANO – Le sedute di borsa hanno registrato, nei giorni successivi al nuovo decreto, un trend positivo per le compagnie italiane quotate: tra le migliori ci sono la “Mediterranea delle acque”, azienda genovese, e la “Acque potabili spa” azienda siciliana. La cosa interessante però e che entrambe sono delle controllate della “Iride acqua e gas”, uno dei più grandi gruppi energetici in Italia: questo è il tipico esempio di oligopolio di mercato che, come l’economia insegna, non avrà certo effetti positivi per i consumatori nel breve-medio periodo, non essendo il mercato soggetto a concorrenza alcuna. La norma cosiddetta “Ronchi”, per le società quotate, prevede che la mano pubblica nel loro capitale scenda, al 30 giugno 2013, al 40% per poi diminuire ulteriormente al 30% nel 2016. La prima vittima sarà l’Acquedotto Pugliese, unico gestore completamente in mano pubblica, che dovrà vendere gioco forza alcuni settori ai privati per rientrare a norma di legge.

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GEOPOLITICA DELL’ACQUA, AREE DI CRISI – Se andiamo a guardare cosa accade oltre il giardino di “casa Italia”, ci accorgiamo che la situazione legata al fattore idrico è in una fase assai complessa, in alcune zone motivo di tensioni. La terribile siccità che ha colpito nelle settimane scorse la Cina ha lasciato senza acqua potabile due milioni e mezzo di persone, residenti in sette province meridionali: tutto ciò a causa della costruzione di una delle più grandi dighe della Cina, che ha inesorabilmente prosciugato i corsi fluviali. Un altro caso può essere quello dello Yemen, definita senza eccesso di allarmismo come  una “bomba ecologica ad orologeria”, per via della continuata penuria di acqua che affligge il paese e che contribuisce alla destabilizzazione della penisola araba. Un tipico esempio di “guerra dell’acqua” è quella condotta da Israele ed Egitto contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, ma anche della Cisgiordania, ed è uno dei fattori principali che determina la tensione sempre più insostenibile nella regione. Ci sono poi le guerre “ever green” africane, guerre etniche che nascono con l’intento di accaparrare le ultime risorse naturali presenti, ormai quasi dimenticate rappresentano uno scenario che rischia di essere non più utopistico per il mondo cosiddetto “occidentale”. 

Luca Bellusci

Sloow food, fast crisis

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Dopo il fallimento delle banche islandesi rinazionalizzate l’anno scorso, gli strascichi della crisi economica che aveva inaspettatamente travolto l’isola colpiscono anche la grande multinazionale dei panini. Il motivo non sembra certo un’inattesa riscoperta dello “slow food”

MC DONALD’S CHIUDE IN ISLANDA – Secondo quanto riportato sul blog Iceland Weather Report la Mc Donald's Corporation starebbe per andare via dall'Islanda. Perché? Le motivazioni riportate dalla blogger islandese Alda Sigmundsdottir non hanno convinto tutti: ciò che sembra comunque certo è che la grande multinazionale americana sta davvero chiudendo i suoi punti vendita islandesi. La grande multinazionale americana Mc Donald’s sarebbe così più che in procinto di lasciare, seppur a malincuore, l’Islanda per sempre. Così afferma la blogger Alda Sigmundsdottir su un intervento del 26 ottobre del suo blog Iceland Weather Report, seguitissimo in Islanda.

VOGLIE SLOW? – Gli islandesi in un moto di sciovinismo alimentare hanno deciso di rivalutare il merluzzo affumicato ai danni del manzo americano? Non esattamente. A sentire la blogger, lo sciovinismo sarebbe quello degli americanissimi manager della Mc Donald's Enterprise che “costringerebbero” ogni singolo paese a importare le materie prime necessarie a preparare i panini made in Usa celebri in tutto il mondo. Che questo sciovinismo alimentare abbia seri rapporti con gli enormi guadagni dei partner della multinazionale, derivanti dalle tonnellate di materie prime esportate all’estero, sarebbe ovviamente un dato del tutto irrilevante. Secondo la Sigmundsdottir, l’Islanda mollerebbe Mc Donald’s non per moti salutisti né per ipotetici progetti di rivalutazione dei prodotti nazionali, ma per gli altissimi costi di importazione derivanti, impossibili da reggere in questa congiuntura economica mondiale che ha messo in ginocchio i trecentomila e passa abitanti dell’isola, causando una svalutazione pari al 100% della corona islandese.

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IL CARRY TRADING – Una crisi in Islanda motivata principalmente da un decennio di rischiose operazioni di carry trading, cioè di prestiti di denaro da paesi con tassi di interesse bassi (come il Giappone) da cambiare e investire in valute di paesi con un rendimento maggiore, proprio come l'Islanda. L'isola che prima aveva visto salire vertiginosamente i propri tassi, attirando moltissimi investitori esteri, è finita poi per crollare come un gigante dalle gambe di carta a causa di un indebitamento che seppure in yen giapponesi era diventato così grande da non poter essere coperto. Ci penserà poi il Fondo Monetario Internazionale nel 2008 a turare la falla, prestando all'Islanda sei miliardi di dollari, divisi tra lo stesso FMI e varie banche centrali scandinave e giapponesi.

NON C’E’ DUE SENZA TRE– Una crisi della valuta letale anche per il pagamento annuale delle royalties di utilizzo del marchio. A voler dar credito ai fautori del libero mercato senza se e senza ma, verrebbe da dire che la crisi economica ha fatto vincere la legge di mercato. Risultato: slow food batte fast food, con buona pace dei salutisti. Oltre l’Islanda, in Europa solo la Bosnia e l’Albania non sono state ancora colonizzate dai vari Big Mac e Chicken Mc Nuggets. La chiusura sembra in effetti conclamata: è sufficiente infatti entrare nel sito della Mc Donald's Enterprise per rendersi conto che nella sezione dedicata al franchising l'Islanda, pur comparendo nell'elenco dei paesi, non ha più un format di richiesta di apertura di punti vendita, accogliendoci con un laconico country name 'Iceland' is invalid. Please provide a valid country name.

Una spiegazione, comunque, quella della blogger, che non ha convinto tutti e molte sono state le voci di contestazione di chi asserisce che la Mc Donald's non obbliga nessun gestore ad importare i prodotti direttamente dagli USA. Vero è che la multinazionale americana non obbliga nessun paese ad approvvigionarsi esclusivamente dagli USA, ma falso è che i gestori islandesi abbiano chiuso per motivi molto differenti da quelli fatti notare dalla Sigmundsdottir.

La blogger infatti sembra trovare credito anche presso il quotidiano inglese The Guardian e il Corriere della Sera conferma che moltissimi ingredienti necessari alla produzione dei prodotti targati Mc Donald dovevano essere  importati dalla Germania, con costi di importazione deleteri per la vendita al dettaglio; del resto chi comprerebbe un Big Mac al triplo del prezzo normale? Una tragedia per i gestori islandesi e una manna per la Mc Donald’s, che si è rivelata, alla lunga, letale per entrambi. La particolare realtà economica dell'Islanda, al di là della congiuntura economica attuale, non permette grossi slanci ma forse la chiusura del colosso americano spingerà gli islandesi a puntare su forme di speculazione interna più utili allo sviluppo della nazione.

Gherardo Fabretti