Analisi – Le proteste iniziate alla fine del 2019 hanno fatto emergere il malcontento da parte del popolo iracheno nei confronti delle due maggiori potenze che influenzano la politica del Paese: quella iraniana e quella americana. Le truppe USA sono attualmente stanziate sul territorio iracheno e nonostante l’inizio di un dialogo strategico, il ritiro totale delle truppe sembra ancora da negoziare.
INSTABILITÀ E MALCONTENTO VERSO LE TRUPPE STRANIERE
Come vi abbiamo raccontato nel nostro Ristretto, fin dal mese di ottobre 2019 in Iraq sono sorte delle proteste insistenti che tuttora vedono il Paese in subbuglio. Ai problemi strutturali, sia sociali che economici, si sono aggiunti altri elementi principali: il malcontento per la presenza di truppe straniere, che ha provocato episodi di escalation violenta sul suolo iracheno, dove si giocano gli interessi delle potenze internazionali e, in secondo luogo, la consequenziale volontà ferma del popolo iracheno di potersi autodeterminare senza l’influenza degli attori stranieri che destabilizzano il Paese.
Sono soprattutto la presenza americana e iraniana a essere considerate intrusive e opportuniste. Nonostante l’insofferenza per la conduzione di proxy wars in Iraq fosse già motivo di rabbia nelle proteste dell’autunno scorso, l’uccisione a gennaio del Generale Soleimani e la risposta iraniana hanno reso ancora più palese la competizione tra Iran e Stati Uniti. La popolazione è dunque scesa in piazza per chiedere alle truppe statunitensi di lasciare il Paese, per poi riferirsi anche a tutte le potenze straniere.
La situazione politica resta molto instabile e questo è dimostrato dal fatto che Baghdad ha cambiato Primo Ministro tre volte in dieci settimane, con proteste continue che si opponevano alle varie nomine. Le manifestazioni hanno di fatto comportato le dimissioni del Primo Ministro Muhammad Allawi prima – avverso alla classe politica sciita – e a quelle di Adnan Zorfi poi, che ha annunciato quasi subito la rinuncia alla carica, non essendo riuscito a ottenere abbastanza sostegno per formare il Governo, soprattutto a causa della forte opposizione dei partiti filo-iraniani che lo avevano etichettato “American joker” a causa dei suoi legami con le forze di coalizione statunitensi. L’ultimo ad aver accettato la carica e ad averla mantenuta finora è Mustafa al-Kadhimi, eletto il 7 maggio 2020. Khadimi pare avere un buon legame con molte delle forze politiche del Paese.
Fig. 1 – Un iracheno durante una protesta nei pressi della Green Zone nella capitale Baghdad, 12 luglio 2020
LA PRESENZA AMERICANA: QUALI INTERESSI IN GIOCO?
Negli scorsi mesi le basi statunitensi (soprattutto a Taji e nella green zone a Baghdad) hanno continuamente subito attacchi, portando dunque gli americani a ritirare alcune truppe a nord a fine marzo.
Le basi americane in Iraq sono nove e sparse sul territorio, due di queste si trovano nella capitale Baghdad (Camp Victory Army Base all’aeroporto internazionale di Baghdad e al-Taji Military Base, utilizzata per l’addestramento delle forze irachene); altre due sono a nord nella provincia di Anbar (Habbaniyah Air Base e Ain al-Asad Air Base, utilizzate durante la campagna contro Daesh dal 2014); sempre a nord, al confine con Baghdad, nella provincia di Salah al-Din, si trova la base aerea di Balad, mentre a Mosul c’è la base militare di Qayyara. Nel Kurdistan iracheno la presenza militare è a Kirkuk (base militare K1) e ad Erbil (Harir Air Base). Con la decisione di Trump dello scorso anno di ritirare le truppe americane dalla Siria, quest’ultima è diventata un pilastro importante dopo la sconfitta di Daesh nella zona, ed è considerata un porto sicuro per operazioni di diversa natura (non solo militare).
TUTTI CONTRO LO STATO ISLAMICO
Presenti già da marzo, a fine aprile una serie di attacchi nella provincia di Diyala lungo il confine iraniano hanno sollevato serie preoccupazioni. Alcuni combattenti di Daesh si sono filmati con armi che paiono di origine iraniana. Dubbi in merito alla sicurezza nella zona restano anche a causa del clima di tensione tra Kurdistan iracheno e Governo centrale a Baghdad in merito al territorio, ai proventi del petrolio e ad altre questioni che continuano a portare a lacune della sicurezza e a una mancanza di coordinamento sfruttato da parte dei gruppi di insorgenza. All’instabilità di Diyala si aggiungono significativi incidenti nelle vicine province di Kirkuk e Salah al-Din, tra cui un tentativo di attentato suicida contro gli uffici di intelligence di Kirkuk il 28 aprile.
Da maggio nelle zone sul confine siro-iracheno si contano un numero significativo di attacchi da parte dello Stato islamico, che stanno mettendo potenzialmente a rischio la vicina provincia di Anbar, dimostrando a fatti che la sconfitta di Daesh non è ancora compiuta. Per sanare queste instabilità le forze irachene hanno combattuto diverse operazioni a fianco delle forze di coalizione con grossa partecipazione statunitense. Il Paese resta molto instabile, fragile e pieno di vacua appetibili per gruppi di insorgenza che potrebbero trascinarlo di nuovo sotto il controllo di attori non-statali.
A maggio i combattenti locali delle tribù sunnite nella provincia di Kirkuk si sono uniti all’esercito iracheno e alle unità di mobilitazione popolare (PMU) a guida sciita che operano nell’area contro lo Stato islamico. Ma le tensioni tra gruppi militari antagonisti non si sciolgono: il 22 maggio, nel Giorno di Quds (che celebra la volontà di “liberare” Gerusalemme), il PMU sciita supportato da Teheran ha sfilato con una bandiera americana con lo slogan “morte all’America”.
Fig. 3 – Un manifestante iracheno durante le proteste del 12 luglio 2020 a Baghdad
VERSO UN DIALOGO STRATEGICO NECESSARIO
All’inizio di giugno le Forze Armate dell’Iraq hanno iniziato una grande operazione chiamata “Heroes of Iraq – Victory of Sovereignty“, con l’obiettivo di “bonificare” quei territori che vedono ancora presenti cellule dello Stato Islamico. L’operazione precede l’avvio dei colloqui fissati con gli Stati Uniti in merito alla loro presenza nel Paese. Washington e Baghdad avevano in programma l’inizio del “dialogo strategico” l’11 giugno, condotto in videoconferenza a causa della pandemia, proposto ad aprile dal Segretario di Stato americano Mike Pompeo. Il premier Kadhimi ha incluso il dialogo strategico all’interno del suo piano d’azione presentato al Parlamento, piano che però non menziona la partenza delle truppe statunitensi dal Paese.
Il dialogo non si limiterà a discutere la presenza militare degli Stati Uniti in Iraq e la cooperazione in materia di sicurezza, ma comprenderà anche accordi finanziari, economici, sociali, politici ed energetici. Gli Stati Uniti hanno concesso all’Iraq un’ulteriore esenzione di 120 giorni dalle sanzioni statunitensi sull’importazione di gas naturale e di elettricità da Teheran, e si aspettano che l’Iraq trovi fonti alternative. Tuttavia l’Iraq ha appena firmato un accordo con l’Iran per continuare a importare gas ed elettricità per i prossimi due anni. Questa potrebbe essere una grande barriera per il raggiungimento di un accordo. Altre questioni difficili saranno la fine della presenza delle truppe statunitensi e lo smantellamento delle milizie appoggiate dall’Iran. Le milizie filo-iraniane in Iraq hanno avvertito Baghdad che il dialogo deve focalizzarsi sulla partenza delle truppe statunitensi dal Paese e hanno accusato il Governo di fare scelte discutibili nella sua selezione di membri per la delegazione.
La prima giornata di dialoghi ha portato risultati positivi e collaborativi su temi di sicurezza reciproca e anche sulla rivalità con l’Iran, con la parte irachena che ha ammonito circa il ruolo statunitense, teoricamente volto stabilizzare e non a parteggiare per le forze politiche con le quali simpatizza. I dettagli sono riportati nel joint statement e riguardano anche la cooperazione umanitaria e le opportunità per i giovani iracheni.
Per l’Iraq si avvia una stagione di compromessi nella speranza di una reale stabilizzazione tra la due forze di influenza sul suo territorio.
Giulia Macario
Immagine di copertina: “iraq” by The U.S. Army is licensed under CC BY