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Dinamiche regionali nella sponda sud del Mediterraneo

Miscela Strategica – L’area geografica indicata come “sponda sud del Mediterraneo” è una regione ad alto impatto strategico per la zona euro-atlantica e per il mondo arabo. Sottovalutata fino all’insorgere delle rivolte di piazza in Tunisia, Egitto e Libia nel 2011, oggi rappresenta uno dei grossi buchi neri delle politiche di sicurezza internazionali.

L’AREA – La definizione di “sponda sud del Mediterraneo” non è così ovvia. Intuitivamente, parlando dell’area meridionale del bacino del Mediterraneo, si intende l’insieme di Paesi che si affacciano lungo le coste nordafricane: Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e – in alcuni casi – Egitto. La tendenza generale, spesso adottata anche in ambiti istituzionali, è quella di pensare alla sponda sud del Mediterraneo come al Maghreb (più esteso alla zona continentale in quanto comprendente anche la Mauritania) oppure alla zona MENA (Middle East and North Africa), che invece si estende più a est, ricomprendendo anche Paesi quali la Giordania, il Libano e la Siria. Se già il piano prettamente geografico può portare a confusione, quello politico potrebbe ulteriormente complicarne la definizione. La regione nordafricana, interessata negli ultimi anni da lunghi e complessi processi di mutamento politico, subisce inevitabilmente l’impatto delle crisi in corso a est in Medio Oriente e a sud nel Sahel. Essenziale è, però, riuscire a dare un ordine alla percezione confusa generatasi in conseguenza alle Rivoluzioni arabe, alla crisi nel Mali e all’esplosione di violenza in Siria. Tunisia, Libia ed Egitto stanno attraversando processi di re-orientamento politico e sociale, più o meno conflittuali, diversi fra loro e difficilmente assimilabili. La cosiddetta fase di transizione politica post-Primavere certamente non può dirsi conclusa e la sua evoluzione non è affatto scontata.

‘PRIMAVERE ARABE’: QUASI QUATTRO ANNI DOPO – I Paesi della sponda sud del Mediterraneo stanno attraversando profondi mutamenti non solo sul fronte politico-militare, ma anche culturale, sociale, religioso ed economico. Le Rivoluzioni arabe hanno ribaltato un assetto politico consolidato e accettato, pur con alcune riserve, dalla comunità internazionale. La situazione oggi è ancora in divenire, pertanto la chiave di lettura del punto politico dei Paesi in oggetto è imprescindibilmente legata proprio al concetto stesso di divenire.

MAROCCOIl Marocco è il Paese della sponda sud del Mediterraneo che sembra aver attraversato praticamente immune la bufera delle Primavere arabe ed è per questo portato da molti osservatori come modello di transizione del regime autoritario a struttura più aperta e democratica. La Monarchia marocchina sta infatti attraversando una fase di riorganizzazione rivolta all’apertura. Mentre in Tunisia e in Egitto si lottava per la destituzione del regime, in Marocco la popolazione si è battuta per ottenere una serie di riforme sociali, che il re Muhammad VI ha accolto. Inoltre, l’ascesa al Governo del nuovo primo ministro Abdelillah Benkirane, leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo, che combina elementi di apertura democratica alla tradizione islamica, è stato interpretato come un segnale positivo. Al momento il Marocco è probabilmente il Paese più stabile dell’area, sia dal punto di vista politico che economico.

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Fig. 1 – Cittidini marocchini assiepati in attesa della visita di re Muhammad VI.

ALGERIALa struttura del potere algerino, centralizzata nel Governo autoritario di Abdelaziz Bouteflika, pare non aver ceduto agli scossoni delle rivolte nei Paesi vicini. Con la riconferma di Bouteflika al potere dopo le elezioni dello scorso aprile, la situazione politica in Algeria sembrerebbe rimanere certamente immutata per almeno i prossimi cinque anni. Sebbene il Paese non sia stato del tutto immune all’ondata di proteste popolari, le tensioni sociali non sono riuscite a rovesciare l’autorità. Nonostante alcune analogie con Paesi come Tunisia, Libia ed Egitto, due elementi in particolare hanno favorito il regime algerino. In primo luogo la sua solidità finanziaria legata al mercato energetico (l’Algeria è uno dei principali produttori di gas e idrocarburi della regione nordafricana) ha permesso al regime di “contenere” il malcontento con una mirata politica di welfare. In secondo luogo la componente militare è tuttora ancorata al regime. La stabilità del Paese, oggi, è legata alla messa in atto delle riforme sociali promesse da Bouteflika in campagna elettorale. Il sistema politico, infatti, è caratterizzato da una profonda corruzione, da una limitata tutela dei diritti umani oltre che da una mala gestione della crescita di crimine organizzato e attività terroristiche.

TUNISIAÈ opinione condivisa che la Tunisia sia l’unico Paese ad aver vissuto una vera “primavera”. La rivoluzione-modello tunisina ha rovesciato il regime di Ben Ali, dando al Paese una costituzione tra le più liberali di tutto il mondo arabo. Il partito salito al Governo, Ennahda, è stato sicuramente in grado di raccogliere il consenso di frange eterogenee della popolazione e di presentare proposte mirate ai bisogni e alle esigenze della società tunisina. Le Forze Armate, garanti della sicurezza dei cittadini più che del potere, non hanno rappresentato una fonte di opposizione governativa in fase di transizione, mantenendosi distanti dai giochi di potere, come da tradizione. Una delle problematiche per la nuova Tunisia, in virtù delle crisi in corso nella macro regione araba, potrebbe però effettivamente essere la gestione della sicurezza dei suoi confini. La Tunisia vanta infatti il primato di affluenza nelle file dello Stato Islamico: molti giovani delusi dagli effetti del nuovo ordinamento politico sulla loro realtà quotidiana si sono avvicinati all’ideologia del Califfato. Sono quasi tremila, stando alle stime governative, i tunisini che sono usciti dal Paese per diventare combattenti in Siria o in Iraq. Un campanello d’allarme sociale, che non può essere sottovalutato in ottica politica.

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Fig.2 – Militanti del partito islamista tunisino Hizb-ut-Tahrir commemorano la caduta di Ben Alì

LIBIA La Libia è il Paese più critico di tutta la regione, quello che sta attraversando un vero ‘inverno arabo’. L’attenzione della comunità internazionale è ovviamente focalizzata sull’evolversi del progressivo disgregamento della società libica, ma al comune riconoscimento della necessità di un forte impegno congiunto euro-atlantico nel Paese ancora non hanno fatto seguito azioni concretamente efficaci. Il Governo centrale riesce a controllare a malapena la capitale, mentre in tutto il Paese la violenza legata ai gruppi di influenza jihadista ha raggiunto livelli di massima allerta. Dopo il crollo del regime di Gheddafi la costellazione di milizie nate durante la rivoluzione ha generato il collasso politico e il caos militare nel Paese. Oltre alle fratture interne che appaiono difficilmente sanabili senza un intervento mirato, persiste il vuoto istituzionale. Continua la competizione (molto spesso armata) fra il Governo eletto e le milizie, che al di fuori della capitale rappresentano di fatto l’unica forma di potere. Le milizie dovrebbero essere riorganizzate all’interno di un programma DDR-Disarmament, Demobilization and Reintegration, però i risultati finora registrati sono scarsi per non dire allarmanti. Il Consiglio di sicurezza supremo (SSC), legato al ministero degli Interni, raccoglie una decina di milizie, mentre le Libya Shield Forces (LSF) è un’organizzazione che mira a raggruppare sotto di sé le milizie di stampo islamista vicine ai Fratelli Musulmani. L’abuso di questi strumenti da parte di Autorità corrotte si sta trasformando in un sistema di estorsione delle risorse statali, che ha fatto salire esponenzialmente i salari di queste milizie rispetto alle altre forze di polizia. Inoltre, l’accorpamento della Petroleum Facilities Guard (PFG) all’interno del ministero della Difesa sta permettendo a numerose milizie di mettere direttamente mano sulla gestione della prima risorsa finanziaria del Paese. Il quadro è allarmante, anche in virtù dell’estrema porosità dei confini libici, che hanno reso la Cirenaica il teatro di traffici illeciti transfrontalieri. L’Unione europea ha riconosciuto la necessità di istituire una missione di protezione e controllo dei confini, ma la sua implementazione soffre ancora delle difficili condizioni di sicurezza locali.

EGITTONon grave quanto la situazione libica, anche quella egiziana è caratterizzata da gravi elementi di criticità. Dopo la caduta di Mubarak, l’ascesa dei Fratelli Musulmani al Governo non ha garantito la stabilità politica auspicata. Al contrario, il Governo di Morsi è stato oggetto di forti proteste popolari dopo l’emanazione della bozza di Costituzione, decisamente diversa rispetto a quella aperta e liberale proposta in Tunisia. Forte del malcontento generale, la componente militare è riuscita a destituire Morsi dall’incarico, prendendo il potere nell’estate del 2013. Il Paese è nuovamente guidato da un leader militare, il generale al-Sisi, che sta cercando di conquistare consensi al di fuori dei confini nazionali attraverso una politica estera presente nelle principali questioni di rilevanza strategica, dalla crisi di Gaza, all’Iraq e alla Siria. Tuttora, però, l’Egitto sta affrontando l’escalation di violenza che l’instabilità politica ha generato nel Paese. A differenza del caso della Tunisia, il Governo di Morsi ha completamente fallito nella creazione di una transizione basata sul consenso e sull’approccio inclusivo, elemento che non potrà che ripresentarsi come fonte di destabilizzazione anche della guida di al-Sisi.

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Fig.3 – Miliziani fedeli a Khalifa Haftar si preparano alla battaglia nei pressi di Bengasi, nell’estate appena trascorsa

CONFINI, TERRORISMO ED ENERGIA – I Paesi della sponda sud del Mediterraneo non possono essere considerati come un omogeneo tutt’uno ma, pur mantenendo un distinguo a livello di politica interna dei singoli Paesi, devono essere prese in considerazione alcune dinamiche destabilizzanti la sicurezza dell’area che sono già, o potrebbero diventare, trasversali: la porosità dei confini nazionali, la forte instabilità politica, il rischio di infiltrazioni terroristiche e il potenziale economico-finanziario legato alle risorse energetiche. La sponda sud del Mediterraneo è un’area strategica di primo rilievo per la sicurezza della più estesa regione del Nord Africa-Medio Oriente (MENA), come anche dell’Europa, che ha da sempre avuto uno sguardo privilegiato sui Paesi al di là del bacino del Mediterraneo. Ciononostante da parte euro-atlantica non si è registrata solamente una debole capacità di previsione e gestione di quello che è accaduto a partire dal 2011: anche l’attuale approccio alla regione necessita di un generale ripensamento.

Emma Ferrero

[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]Un chicco in più

Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, nel suo rapporto sul terrorismo Paese per Paese, individua in Tunisia l’emergere del gruppo terroristico Ansar al-Shari’a, sempre più attivo. Insieme ad al-Qaida nel Maghreb islamico, operante soprattutto in Mali, Libia e Algeria, rappresenta una delle principali minacce alla sicurezza dell’area della sponda meridionale del Mediterraneo.  [/box]

 

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Emma Ferrero
Emma Ferrero

Torinese di nascita, ma romana di adozione, ha frequentato da civile la Scuola di Applicazione e Istituto di Studi Militari dell’Esercito, conseguendo con lode la Laurea Magistrale in Scienze Strategiche nel 2012. Con passate esperienze di ricerca e analisi in ambito geostrategico e militare presso il Centro Studi per le Operazioni Post Conflict di Torino e presso la Rappresentanza Permanente italiana alla NATO a Bruxelles, dopo aver conseguito un master in Sicurezza Economica, Geopolitica e Intelligence in SIOI, attualmente collabora con alcune testate e organizzazioni internazionali. Le sue aree di interesse sono: NATO e sicurezza cooperativa, industria difesa, analisi d’area (in particolare Afghanistan, Iraq, Paesi del Golfo, Medio Oriente, Asia Centrale).

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