Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – A un anno dall’inizio delle rivolte in Libia, e a diversi mesi dalla fine della guerra civile in seguito alla morte di Muhammar Gheddafi, la Libia rimane ancora un punto interrogativo, eppure può diventare un case study interessante sulle dinamiche attualmente esistenti relativamente all’interventismo – e le sue possibili conseguenze – in paesi esteri
LA RIVOLTA DI TRIPOLI – La rivolta araba è arrivata in Libia per motivazioni simili a quelle degli altri paesi del Nord Africa: una forte presenza giovanile senza lavoro, senza prospettive di sviluppo date da una crisi economica globale che ha portato anche a speculazione sui prezzi del cibo, culturalmente collegata al mondo esterno dalle nuove tecnologie e che si sentiva chiusa da una dittatura generalmente spietata nel reprimere il dissenso. Infine, le divisioni etniche e settarie, legate in Libia soprattutto all’appartenenza alle diverse tribĂą. Gheddafi è stato però forse il primo dittatore ad impiegare mezzi estremi per cercare di piegare i rivoltosi fin dai primi giorni, e per quanto il suo operato sia ora da considerarsi “superato” da quello del suo omologo siriano, per allora si trattava di scelte dall’elevatissimo impatto mediatico (L’ora di Tripoli). Forse convinto dalla sua stessa retorica – accade spesso tra i dittatori – ha pensato che nessuno potesse davvero intervenire, e, arrivato a un passo dalla vittoria (La resurrezione del colonnello) con le sue forze giĂ nei sobborghi di Bengasi, ha minacciato ulteriori stragi. Ed è stato questo ciò che ha dato l’ultimo impulso alla decisione di intervento.
IL PUNTO DI VISTA ESTERNO – Ogni nazione aveva infatti i suoi motivi per intervenire o meno nel conflitto, e in particolare gli interessi economici e politici francesi e inglesi nel Mediterraneo hanno giocato un ruolo importante nella decisione di intervenire (così come in quella italiana di temporeggiare, almeno all’inizio), tuttavia è indubbio che tale opzione sia stata resa piĂą appetibile da un’opinione pubblica scioccata dalle immagini e dalle testimonianze provenienti da Tripoli e dintorni, oltre che dalla prospettiva di un ultimo bagno di sangue a Bengasi. Non sorprende quindi che la discussione internazionale in sede all’ONU abbia poi visto una sostanziale comunione d’intenti tra i principali attori; perfino Russia e Cina hanno preferito non opporsi col veto al Consiglio di Sicurezza, aprendo la strada alla risoluzione ONU e al relativo intervento armato. (Vento caldo sulla Libia) E’ qui che dobbiamo cambiare prospettiva e osservare l’intervento esterno. Tanti sono i punti da ricordare, prima fra tutte le divisioni politiche tra alleati, preludio militare dei difficili negoziati attuali in tema di economia. Così si è avuto il paradosso di nazioni alleate che operano quasi da sole, con tante operazioni separate l’una dall’altra e solo marginalmente coordinate per non pestarsi i piedi. (Confusione nei cieli)
E se alla fine un accordo si è trovato con l’istituzione dell’Operazione Unified Protector a comando NATO canadese, questo ha confermato i problemi europei ad avere una politica estera comune e condivisa da un lato, e a poter operare senza sostegno USA dall’altro, con le forze statunitensi costrette comunque a rifornire gli alleati di munizioni e aiutarli con droni e AWACS. (Né Unified né Protector) Anche dall’ambito comunicativo le differenze di opinione e il desiderio di alcune nazioni di non apparire troppo coinvolte hanno portato NATO e Europa a non comunicare con sufficiente chiarezza né gli scopi ultimi (Gheddafi è un bersaglio o no? Perché si/Perché no?) né le modalità (In cosa consiste una no-fly zone? Con che ruoli stanno intervenendo le varie nazioni?), lasciando che fossero i media a rispondere a queste domande, spesso in maniera errata o poco approfondita – dando dunque adito a incomprensioni e superficialità .
UN BILANCIO – Tutto fallimentare dunque? Non proprio, anzi gli elementi di successo esistono: la NATO è riuscita a intervenire senza mandare truppe di terra, come molti paventavano, ad eccezione di squadre di forze speciali. E’ stato possibile rifornire e guidare gli insorti, con il supporto dall’alto, fino alla conquista di Tripoli e, successivamente, fino alla morte di Gheddafi, ottenendo gli obiettivi strategici di breve periodo. Infine si è costituita un’intesa con nuovi attori come il Qatar con cui è stato possibile ottenere comunione d’intenti e di esecuzione grazie all’attivismo del suo sovrano Al-Thani, forse uno dei pochi casi di interventismo arabo diretto oltre all’impegno saudita in Bahrein. (Game over (?))
D’altra parte però l’esperienza libica ha portato anche ad altre ripercussioni, che dominano adesso la situazione locale e non solo e contribuiscono a mantenere dubbi sul raggiungimento degli obiettivi strategici di lungo termine. Dal punto di vista internazionale, l’intervento NATO in Libia è stato giudicato così negativamente da Cina e Russia che le due nazioni non sono più disposte a concedere il loro – seppur silenzioso – beneplacito ad altre situazioni simili, cosa che ha portato al loro veto nei riguardi di soluzioni incisive in Siria. (Ci “veto” doppio) Dal punto di vista locale invece la Libia non ha ancora compiuto quel deciso passo verso la ricostruzione che l’Occidente si aspettava; le differenze tra i vari gruppi armati rimangono notevoli, soprattutto per quello che riguarda la spartizione del potere e delle ricchezze, così come l’interesse a compiere vendette incrociate impedisce per ora un disarmo delle milizie, premessa fondamentale per la pacificazione reale del paese. In tale ottica, avere armato i ribelli ha sicuramente favorito la caduta del dittatore, ma sul lungo periodo continuerà a riproporsi come la maggiore incognita sul futuro del paese e alimentando la possibilità che gruppi armati estremisti possano infine prendere il potere e riportare il paese a essere un nemico piuttosto che il partner economico e politico che tutti auspicano. (Ghedda-fine) E’ per questo che ancora si esita tanto ad armare meglio i ribelli siriani, che presentano la stessa frammentarietà , addirittura acuita in quel caso da serie divisioni confessionali che già in Iraq avevano mostrato la loro esplosività .
COSA IMPARARE DALLA LIBIA? – Dunque le lezioni da imparare sono molteplici:
- L’Europa continuerà a produrre politiche contraddittorie finché non avrà una voce sola, così che vi sia comunione d’intenti e di operato nel trattare le crisi esterne. In particolare, gli stati dovranno gradatamente rinunciare all’indipendenza in politica estera per permettere che l’Alto Commissario UE per gli Affari Esteri (attualmente la britannica Catherine Ashton) sia molto più dell’attuale figura vuota.
- La NATO senza gli USA non possiede sufficiente projection power per influenzare eventi e situazioni molto lontani dall’Europa – soprattutto a causa degli ingenti tagli di budget, recenti e futuri, a meno di non produrre un sistema di difesa europeo integrato che possa ovviare alle mancanze dei singoli stati con sinergie transnazionali più efficienti (Lezioni di Libia)
- Armare i popoli in rivolta contro dittatori scomodi è un’efficace metodologia per scalzare gli stessi dal potere senza impegnarsi troppo direttamente – ma contribuisce anche ad armare gruppi che potrebbero in seguito rivoltarsi contro i propri benefattori o comunque contribuire a impedire il recupero della sicurezza. Questo è tanto più probabile quanto più è frammentata l’opposizione da aiutare, e quanto meno essa è conosciuta dall’esterno.
- Perché l’opinione pubblica possa essere pienamente consapevole e, in ultimo, appoggi l’operato militare, devono essere spese energie per spiegare in maniera semplice ed esaustiva al pubblico, generalmente non specialista, le principali questioni operative e politiche dietro a un intervento e al suo svolgimento. Altrimenti il pubblico può essere più facilmente influenzato da disinformazione o informazione superficiale che possono in ultimo creare effetti di sfiducia e diffidenza. (La via d’uscita)
- L’interventismo del Qatar, mai così attivo come in Libia, costituisce una novità che sembra porre le basi per nuovi contatti e collaborazioni nello risolvere crisi locali nell’area Medio Oriente-Nord Africa. Da un lato questo elemento consente all’Europa di potersi disimpegnare parzialmente da futuri interventi diretti in alcune aree del globo, a tutto favore della riduzione delle spese connesse. Dall’altro però indica anche come l’Europa stia perdendo ulteriormente peso come partner degli USA, che sul lungo periodo potrebbero vedere come più efficaci altri legami, a tutto discapito dell’influenza dell’UE al di fuori dei propri confini.
- Non sempre chi inizia i conflitti con l’idea di trarne vantaggio poi riesce davvero a farlo come sperava. Francia e Gran Bretagna ipotizzavano di poter rinegoziare gli accordi petroliferi e poter avere un maggiore accesso alle riserve libiche, ma in questo sono state frustrate proprio dall’Italia, che per concedere le proprie basi e dare l’ok all’operazione NATO – il cui quartier generale era a Napoli – ha chiesto e ottenuto che i propri interessi energetici preesistenti fossero rispettati. L’elevato impegno dell’ENI stessa nel finanziare il governo di transizione di Bengasi ha poi tutelato ulteriormente la posizione italiana, come segnalato dal fatto che l’attuale Ministro del Petrolio libico è un ex-dirigente del cane a sei zampe.
- La caccia a Gheddafi e la minaccia di condurlo comunque a giudizio presso un tribunale (la corte internazionale dell’Aia) che avrebbe potuto condannarlo a morte hanno giocato un ruolo nel prevenire un’eventuale resa del dittatore (Nella testa del Colonnello). Se non si offrono vie d’uscita alternative, per quanto opposte al senso di giustizia comune, nessun dittatore preferirà mai la resa/l’esilio al combattere fino all’ultimo. Per questo ora in Siria l’opzione dell’esilio volontario rimane lasciata aperta.
Lorenzo Nannetti