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Iran: verso la linea dura

Ristretto Sono stati resi noti i primi risultati delle elezioni per il rinnovo del Majlis, il Parlamento della Repubblica Islamica dell’Iran. L’affluenza è stata particolarmente bassa (42,57%, la più bassa dal 1979, in un Paese che comunque anche normalmente vede andare alle urne solo il 50% circa della popolazione) e come previsto i Conservatori hanno riportato una netta vittoria.

Dei 290 seggi in palio, i Conservatori ne hanno infatti conquistati ben 221. Solo 16 sono andati ai Riformisti del Presidente Hassan Rouhani, 5 a minoranze religiose, e 34 a indipendenti, mentre 14 seggi sono ancora da assegnare perché saranno sottoposti a ballottaggio (avendo votato negli stessi meno del 20% degli aventi diritto). Numeri comunque irrilevanti per gli equilibri dato che i conservatori controllano già ben più dei due terzi del Parlamento. Come spesso accade, l’affluenza è stata un po’ più alta nelle zone rurali, tradizionalmente più legate al regime, mentre sono letteralmente crollate a Teheran, dove nonostante la chiamata al voto da parte della Guida Suprema Ali Khamenei ha votato appena il 25,4%. Non stupisce allora che proprio nella capitale i conservatori abbiano conquistato 30 seggi su 30, perché evidentemente sono andati a votare quasi solo loro… ma questo indica anche una crisi di legittimità nelle grandi città. Oltre ai problemi economici, le accuse di favorire troppo le operazioni dei Pasdaran e non preoccuparsi delle difficoltà interne, il regime sconta anche l’abbattimento dell’aereo ucraino qualche settimana fa e, forse, le incertezze circa il Coronavirus. La città santa di Qom appare infatti essere un focolaio, ma sono stati riportati casi anche a Mashhad (nordest del Paese), Teheran (centro-nord) e in altre località. Come fa notare il giornalista Daniele Raineri, in generale il rapporto tra numero di morti e casi accertati non torna: il regime potrebbe non fare abbastanza per controllare i casi reali o, peggio, potrebbe stare minimizzando la portata della crisi.

Tra gli sconfitti delle elezioni va contato sicuramente Rouhani e non solo per il numero di seggi: di fronte a un regime evidentemente impopolare soprattutto tra i giovani, anche la fiducia verso i riformisti appare crollata a causa delle difficoltà economiche, della crisi con gli USA, e di una serie di scandali scoppiati negli ultimi anni. Rouhani non è responsabile delle sanzioni USA e della politica di Donald Trump, ma agli occhi della popolazione il Presidente appare comunque aver fatto troppo poco per risolvere i problemi del Paese.

Tra i vincitori possiamo citare l’ex-Generale dei Pasdaran ed ex-Sindaco di Teheran Mohammad Bagher Qalibaf, che ha preso più di 1.200.00 voti. Sarà forse il prossimo speaker del Parlamento…e non dimentichiamo che l’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali. Difficile che tutto questo porti a scelte politiche più conciliatorie verso gli USA.

Lorenzo Nannetti

Il nuovo sultano dell’Oman e le sfide interne ed esterne

In 3 Sorsi – Dopo la morte di Qaboos, il nuovo Sultano è Haitham Bin Tariq. Tra le questioni di primaria importanza in politica interna, l’economia e la disoccupazione, mentre a livello diplomatico il nuovo Sultano deve cercare di proseguire sul sentiero tracciato dal suo illustre predecessore.

Terza tappa per i dem, schiacciante vittoria di Sanders in Nevada

Ristretto – Il terzo appuntamento per le primarie democratiche – sotto forma di caucus in Nevada– ha decretato l’alto gradimento della comunità ispanica e afro-americana per Sanders. Vediamo insieme i risultati e le riflessioni che si possono trarre da questi.

Il fattore Bloomberg

In 3 sorsi Il nono dibattito democratico è stato segnato dal fattore Michael Bloomberg che ha scatenando un durissimo “tutti contro tutti” sul palco di Las Vegas.

Verdun 1916: il “tritacarne” della Grande Guerra

Ristretto21 febbraio 1916: inizia la battaglia di Verdun, la più lunga e sanguinosa della prima guerra mondiale. I segni dei combattimenti sono ancora oggi ben visibili nei dintorni dell’antica città fortificata, mentre il ricordo della battaglia ha contribuito al riavvicinamento diplomatico tra Francia e Germania nel secondo dopoguerra.

La battaglia di Verdun è principalmente frutto dell’iniziativa del generale Erich von Falkenhayn, capo di Stato Maggiore dell’Esercito tedesco, che decide di lanciare una massiccia offensiva contro le forze francesi sul fronte occidentale per dissanguarle e costringerle alla resa. L’epicentro dell’offensiva viene quasi subito identificato in Verdun per via della sua importante posizione strategica sulla Mosa e per il suo alto valore storico e simbolico agli occhi della popolo francese. Gli ordini dati alla Quinta Armata del principe ereditario Wilhelm sono quindi di impadronirsi delle alture intorno alla città e di limitarsi poi a difenderle dai contrattacchi francesi, infliggendo il massimo delle perdite possibili al nemico. Il 21 febbraio 1916 un colossale bombardamento d’artiglieria lancia l’attacco tedesco: inizialmente le truppe di Wilhelm avanzano con facilità e riescono a impadronirsi di diverse postazioni chiave, mettendo a rischio l’intero schieramento difensivo francese intorno a Verdun. Ma tali successi tattici finiscono per spingere la Quinta Armata a continuare ad attaccare le postazioni francesi, ignorando gli ordini originali di Falkenhayn e subendo perdite sempre più elevate. Nel frattempo, la difesa della città viene affidata all’abile generale Philippe Pétain, che si limita a contenere l’iniziativa avversaria e mette in atto un efficace sistema di rotazione delle truppe per evitare un loro logoramento sulla linea del fronte. Inoltre il comando francese invia costanti rifornimenti a Verdun attraverso la cosiddetta “Voie Sacrée” (Via Sacra), l’unica strada ancora agibile che collega Bar-le-Duc con la città assediata. Col passare delle settimane l’offensiva tedesca finisce per esaurirsi e lo scontro diventa una gigantesca e inconcludente battaglia di attrito, con perdite pesantissime da entrambe le parti. In estate l’offensiva britannica sulla Somme costringe i tedeschi a riposizionare parte delle proprie forze più a nord e questo offre al generale Robert Nivelle, nuovo comandante di Verdun, l’occasione per passare all’offensiva e riconquistare le posizioni perdute. Dopo lunghi e furiosi combattimenti, i francesi riprendono sia Fort Vaux che Fort Douamont, cogliendo due importanti successi simbolici sul nemico. Il 15 dicembre la battaglia termina più o meno sulle stesse posizioni di dieci mesi prima.

Ma il “tritacarne” di Verdun è comunque costato la vita a 377mila soldati francesi e 330mila tedeschi. Il fallimento dell’offensiva porta al siluramento di Falkenhayn, mentre prima Nivelle e poi Pétain guideranno l’Esercito francese nel difficile biennio 1917-18, seguito dalla vittoria finale sulla Germania. Già nel dopoguerra la battaglia assume un ruolo chiave per l’identità nazionale francese e vengono costruiti diversi monumenti in memoria dei caduti, come il gigantesco ossario di Douamont contenente i resti di oltre 100mila soldati non identificati. La seconda guerra mondiale porta poi a una graduale reinterpretazione dell’evento in chiave europea e contribuisce al riavvicinamento diplomatico tra Francia e Germania. Nel 1967 viene eretto il Memoriale di Verdun, che commemora i caduti di entrambe le parti, e nel 1984 il Cancelliere tedesco Kohl e il Presidente francese Miterrand partecipano a una cerimonia comune nel cimitero di Douamont, stringendosi a lungo le mani. Un gesto ripetuto recentemente da Angela Merkel e Emmanuel Macron durante le celebrazioni per il centenario della fine della Grande Guerra nel 2018.

Tuttavia l’eredità materiale della battaglia resta ben presente nel paesaggio intorno a Verdun. Secondo il Ministero dell’Interno francese, ci sono infatti ancora milioni di proiettili inesplosi nell’area e ogni anno unità di artificieri provvedono alla rimozione di tonnellate di ordigni esplosivi, contenenti spesso pericolose sostanze chimiche. Si calcola che ci vorranno secoli per ripulire le campagne di Verdun dai resti del cataclisma bellico del 1916.

Simone Pelizza

Primarie democratiche USA: tocca a Nevada e South Carolina

In 3 sorsi – Due weekend di fila alle urne, tra il Nevada e il South Carolina, due Stati game-changing per le elezioni: vediamo insieme perché.

La Croazia nel suo primo semestre di Presidenza UE: sfide e obiettivi

In 3 sorsi – Dal 1° gennaio al 30 giugno 2020 la Croazia guiderà il Consiglio dell’Unione Europea in qualità di Presidente di turno. Analizziamo le sfide che la Presidenza si troverà ad affrontare, gli obiettivi e il programma che si intendono realizzare nei primi sei mesi dell’anno appena cominciato. 

1. LE SFIDE PER LA CROAZIA

Il 2020 si è aperto con l’inizio del semestre di Presidenza della Croazia al Consiglio dell’Unione Europea. Questa circostanza risulta interessante per tre motivi principali. In primo luogo si tratta del primo semestre presidenziale in assoluto per la Croazia, dal momento che il Paese è stato l’ultimo ad accedere all’Unione Europea, nel 2013. La Croazia ha reso pubblico un programma ambizioso, sebbene il percorso appaia irto di difficoltà. 
Il 2020 si è aperto con un evento tanto epocale, quanto destabilizzante per l’intera Unione, vale a dire la Brexit. Si preannuncia un periodo di intense negoziazioni tra l’UE e il Regno Unito, che certamente coinvolgeranno il Consiglio molto da vicino. 
Il 2020 sarà, inoltre, un anno fondamentale per la ridefinizione delle relazioni transatlantiche, alla luce delle tensioni commerciali tra USA e UE, che non accennano a diminuire. 
Guardando ai problemi interni, la Croazia dovrà far fronte a sfide di fondamentale importanza per la tenuta dell’Unione, quali la difficile situazione economica che alcuni Stati membri stanno attraversando, il tema migratorio e il fenomeno dell’euroscetticismo, che rischia di diffondersi. 
Infine, da rilevare sono anche le caratteristiche della Croazia stessa. Si tratta, infatti, di un Paese che ha vissuto in prima persona alcune delle problematiche che più mettono in difficoltà la stabilità dell’Unione. Nel 2019, infatti, si sono registrate tensioni lungo i confini esterni della Croazia, per via dell’afflusso di migranti in arrivo dal Medio Oriente a est. È quindi probabile che durante il proprio semestre di Presidenza, la Croazia voglia dare un segnale chiaro nella direzione di una soluzione duratura del problema. 

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Fig. 1 – L’inaugurazione del semestre di Presidenza croato

2. “A STRONG EUROPE IN A WORLD OF CHALLENGES”: IL PROGRAMMA CROATO PER GUIDARE L’UE

Per capire la direzione verso cui andrà la Presidenza è sufficiente leggere il motto che la Croazia ha coniato: “Un’Europa forte in un mondo di sfide”. Sarà proprio questo il leit motif alla base delle proposte che la Presidenza farà durante il semestre. L’intenzione della Croazia, infatti, è quella di rafforzare la stabilità dell’intera macchina europea, rendendola forte e competitiva in un modo sempre più complesso. 
Gli obiettivi della Croazia per il 2020 sono chiaramente riassumibili in quattro punti fondamentali. 
Il primo è facilitare la creazione di una “Unione Europea dello sviluppo”, che investa in ricerca e innovazione, tenendo presenti le esigenze di tutela dei lavoratori europei e quelle di sostenibilità dettate dal cambiamento climatico. 
Il Paese alla guida della Presidenza intende, inoltre, promuovere “Un’Unione Europea che connetta”, incentivando gli investimenti in un’economia sempre più connessa, in infrastrutture energetiche e digitali, prestando una particolare attenzione a non lasciare indietro le aree più remote dell’Unione. 
Il terzo punto elencato tra gli obiettivi croati, “Un’Unione Europea che protegga”, mira a rafforzare la sicurezza interna, implementando i controlli alle frontiere con Paesi terzi, e investendo nella lotta al cyber terrorismo. 
Infine, il quarto obiettivo che la Croazia vorrebbe raggiungere durante i mesi di Presidenza è “Un’Unione Europea influente”. Il programma sottolinea l’importanza di rimanere compatti all’interno della cornice europea, per essere in grado di fare fronte alle sfide comuni. A tale proposito, una particolare attenzione viene data ai rapporti di vicinato, sottolineando l’importanza di continuare sulla strada dell’allargamento, rivolgendosi soprattutto all’area dei Balcani. 
Si profila, quindi, un panorama denso di sfide per i primi sei mesi di questo nuovo anno. 

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Fig. 2 – Il riscaldamento globale è una delle sfide principali da affrontare per Zagabria

3. QUALI PROSPETTIVE PER LA PRESIDENZA CROATA 2020?

Il programma presentato appare ambizioso. Rispetto alla possibilità che la Croazia riesca a realizzare tutti gli obiettivi individuati si pongono alcuni ostacoli.
In primo luogo, si tratta di obiettivi complessi, difficilmente conseguibili in soli sei mesi di Presidenza. I punti elencati dalla Croazia sono comunque da considerare fondamentali perché, essendo di lungo periodo, potranno risultare utili per le successive Presidenze, una sorta di road map per i semestri a venire. 
Per quanto riguarda le sfide occupazionali, la Croazia avrà molto da lavorare, dato che in molti Paesi dell’Unione la crescita economica negli ultimi anni è rallentata, se non azzerata. Si tratta di una sfida, quella del mercato del lavoro, ulteriormente complicata dall’esigenza di tutelare l’ambiente. Sebbene la Croazia possa contare sul supporto della Commissione, visto il recente varo dello European Green Deal, non sarà semplice conciliare la visione di ventisette Paesi, tenendo anche in considerazione il clima di sfiducia che si è venuto a creare a seguito degli scarsi risultati riportati dalla COP25 di dicembre 2019. 
La sfida più importante che la Croazia dovrà affrontare sarà quella relativa al ruolo dell’UE nel mondo. Le prove che l’Unione deve affrontare come attore globale, infatti, sono sempre più numerose e non sempre questa è in grado di esprimere una sola voce. Certo sembra improbabile che un Paese poco influente come la Croazia sulla scena internazionale possa orientare la leadership dell’UE sulle grandi questioni globali. 

Mariasole Forlani

Il Green Deal Europeo: come l’Unione Europea agirà per contrastare il cambiamento climatico

In 3 sorsi Il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha inserito tra i pilastri fondamentali della sua politica la lotta al cambiamento climatico. Il Green Deal Europeo rappresenta la volontà di dare una svolta all’apparato industriale ed energetico dell’Unione, aumentando gli investimenti verso i progetti di sviluppo ecosostenibile e raggiungendo la neutralità climatica entro il 2050. Ma tutto ciò sarà realizzabile?

Il caso Li Wenliang e la vana attesa di una svolta democratica in Cina

In 3 sorsiLa morte di Li Wenliang, l’oftalmologo di Wuhan che denunciò per primo l’epidemia di coronavirus, ha scatenato la rabbia della popolazione cinese nei confronti del Governo. Improbabile che la mobilitazione virtuale, però, porti a proteste simili a quelle di Hong Kong; impossibile che si arrivi ad una svolta democratica.

Amici problematici: Roosevelt e l’inizio dell’alleanza USA-Arabia Saudita

Ristretto 14 febbraio 1945: il Presidente americano Roosevelt incontra il re saudita Ibn Saud a bordo dell’incrociatore USS Quincy, ormeggiato nel Grande Lago Amaro del Canale di Suez. È l’inizio della lunga e controversa relazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita, ancora oggi al centro degli equilibri geopolitici in Medio Oriente.

Gli Stati Uniti avevano già riconosciuto diplomaticamente l’Arabia Saudita nel 1931, ma per molti anni i rapporti tra i due Paesi erano rimasti limitati al solo settore energetico, con gli sforzi della Standard Oil di sfruttare i giacimenti petroliferi della provincia di al-Hasa. La seconda guerra mondiale cambia tutto: l’amministrazione Roosevelt si convince dell’importanza strategica dei giacimenti sauditi, mentre Ibn Saud perde fiducia nella tradizionale protezione della Gran Bretagna e comincia a cercare nuovi referenti politici esterni. Nel 1943 Washington estende il programma Affitti e Prestiti al Governo saudita e due anni più tardi, di ritorno dalla conferenza di Yalta, Roosevelt accetta di incontrare personalmente Ibn Saud a bordo del Quincy. Il meeting viene tenuto segreto, perché Roosevelt ha ufficialmente promesso a Londra di non interferire nella sua sfera di influenza in Medio Oriente, e vede la discussione di numerosi temi politici e economici, come l’immigrazione ebraica in Palestina e le attività delle compagnie petrolifere USA in Arabia Saudita. Il Presidente e Ibn Saud vanno così d’accordo che si scambiano persino diversi doni personali, tra cui un costoso pugnale tempestato di diamanti offerto dal re saudita a Roosevelt. Nonostante l’atmosfera amichevole, però, Ibn Saud si mostra irremovibile sulla questione Palestina e condanna il continuo arrivo di immigrati ebrei nella regione, chiedendo la loro rilocazione in Europa. Va molto meglio invece sul tema petrolio: il Governo USA ottiene di fatto numerose garanzie a sostegno delle proprie compagnie e i sauditi autorizzano anche la costruzione di basi militari statunitensi sul proprio territorio per proteggere gli impianti di estrazione. La nascita di Israele nel 1948 non mette in discussione tali accordi e la relazione tra i due Paesi diventa sempre più stretta nel corso degli anni ’50, anche per via della comune opposizione ai disegni regionali del Presidente egiziano Nasser.

Nel 1964, però, l’ascesa al trono di Faisal crea alcune difficoltà. A Washington non si fidano infatti del nuovo sovrano, giunto al potere dopo un duro confronto con il fratello Abdulaziz, mentre Faisal guarda con malcelata ostilità al continuo sostegno degli USA ad Israele. Queste tensioni finiscono per esplodere nel 1973, quando il re saudita lancia un vero e proprio embargo petrolifero internazionale in risposta alla guerra dello Yom Kippur. La decisione danneggia le relazioni con gli USA, che devono affrontare una grave crisi energetica provocata dall’embargo, ma non riesce a romperle completamente. Al contrario, l’amministrazione Ford si dà molto da fare per ricucire i rapporti con Riyadh e i due Paesi finiscono per firmare diversi accordi di cooperazione militare. Nel 1979, poi, l’invasione sovietica dell’Afghanistan spinge Washington e Riyadh a collaborare ulteriormente a sostegno della locale guerriglia contro Mosca, rifornita costantemente di armi, soldi e volontari stranieri provenienti da tutto il mondo islamico. L’impresa afghana si conclude con successo nel 1989, ma il fanatismo religioso provocato dal conflitto – e influenzato dalla rigida ortodossia saudita – finisce per dar vita a pericolosi gruppi terroristici, come la famigerata al-Qaeda guidata da Osama bin Laden.  Quest’ultima intensifica le proprie attività negli anni ’90, sfruttando l’oltraggio pubblico provocato dalle presenza di militari americani in territorio saudita durante la guerra del Golfo, e si rende successivamente responsabile dei sanguinosi attentati di New York e Washington dell’11 settembre 2001.

Tali eventi scuotono il pubblico americano e alimentano numerose polemiche politiche sulla natura dei rapporti di Washington con Riyadh. Queste polemiche continuano ancora oggi e sembrano avere acquistato nuova forza a seguito del brutale intervento militare saudita in Yemen e dell’omicidio di Jamal Kashoggi nel 2018. In più, il Governo saudita ha cominciato a cercare nuovi partner internazionali al di fuori degli USA, rivendicando una maggiore libertà d’azione diplomatica. Ma per ora il legame creato da Roosevelt e Ibn Saud nel 1945 resiste alle pressioni e rimane cruciale per gli assetti geopolitici del Medio Oriente. 

Simone Pelizza

Shinzo Abe nel Golfo: gli interessi del Giappone in Medio Oriente

AnalisiTra l’11 e il 15 gennaio il premier giapponese Shinzo Abe ha svolto un viaggio ufficiale tra i Paesi del Golfo Persico, recandosi in visita prima in Arabia Saudita, poi negli Emirati e infine in Oman. Scopo del viaggio è stato non solo quello di porsi come mediatore nel mezzo delle tensioni USA-Iran, ma anche di difendere gli interessi del Giappone in merito alle forniture di petrolio.

Primarie dem 2020, Sanders vince in New Hampshire

RistrettoLa sfida nel cosiddetto Granite state si è giocata tra i candidati più favoriti nei sondaggi: Bernie Sanders e Pete Buttigieg. Vediamo nel dettaglio le perfomances elettorali di questo secondo round di primarie dem, da cui emerge anche l’ascesa di Amy Klobuchar.