La decisione del Consiglio Affari Esteri dell’UE di sospendere l’esportazione di determinate categorie di armi all’Egitto costituisce una presa di posizione con conseguenze in termini simbolici più che materiali.
Siria, verso la risoluzione ONU
Stanotte potrebbe essere approvata la bozza di risoluzione congiunta russo-statunitense che vincola i contendenti siriani alla distruzione degli arsenali chimici e delle fabbriche che producono le sostanze. Il documento non prevede in alcun caso l’uso della forza: qualora gli impegni fossero disattesi, occorrerebbe una seconda risoluzione. Nel frattempo, inoltre, si comincia a parlare di una nuova conferenza sulla Siria.
L’Africa è davvero il continente della guerra? (I)
Miscela Strategica – Nell’opinione diffusa, l’Africa è la terra della guerra, dei grandi gruppi di ribelli che combattono per l’indipendenza e dei massacri su vasta scala. È questa la realtà?
Ventotto diverse politiche di difesa
Miscela Strategica – I più attenti lettori del Caffè si saranno accorti di come la nostra rubrica “Miscela Strategica” sia cambiata dopo l’estate: più ricca di articoli, più ricca di mappe e schemi, tutto per comprendere meglio quelle tematiche strategiche e militari delle quali tanto sentiamo parlare, ma non sempre in maniera approfondita. Adesso aggiungiamo qualcosa in più.
La NATO 3.0 e il coinvolgimento in Siria
Miscela Strategica – Il decennio balcanico rappresentò un’occasione insperata per rivitalizzare l’Alleanza Atlantica, che dopo la Guerra Fredda appariva obsoleta.
Germania, le sfide per Frau Merkel
Le elezioni parlamentari di domenica 22 settembre hanno confermato il dominio di Angela Merkel e della sua CDU sulla scena politica tedesca. Incognite sulla coalizione che sarà chiamata a formare e sulle future sfide economiche offuscano però il trionfo elettorale.
1. I NUMERI – Quasi il 42% delle preferenze da parte degli elettori tedeschi: un successo impressionante? Forse, ma non abbastanza per riuscire a governare da sola la Germania. Angela Merkel e la sua CDU (Unione Cristiano Democratica) hanno ottenuto un risultato molto netto alle elezioni parlamentari di domenica scorsa, distanziando di ben oltre 16 punti il principale rivale, Peter Steinbruck del partito socialdemocratico SPD. Tuttavia, il sistema elettorale tedesco – un proporzionale puro con clausola di sbarramento al 5% – non assegna premi di maggioranza al partito o alla coalizione che “arriva prima” (come, ad esempio, il nostrano “porcellum”). Il partito che ottiene la maggioranza relativa deve dunque formare una coalizione con uno o più avversari alle urne per poter contare su una maggioranza nel Bundestag, il Parlamento tedesco. Nulla di nuovo nel contesto tedesco, dato che la Merkel, durante i suoi due precedenti mandati, aveva dovuto governare prima con la SPD e poi con i liberaldemocratici della FDP. Lo scenario di una grosse-koalition con la SPD era comprensibilmente il risultato meno auspicato, ma l’assoluta débâcle dei liberali, che non sono arrivati al 5%, impedirà alla Merkel di proseguire la coalizione, forzandola a scendere nuovamente a patti con i socialdemocratici. Una vittoria a metà, dunque, che potrà forse limitare la libertà d’azione della Cancelliera.
2. LE SFIDE – La Germania accetterà di assumere la leadership dell’Unione Europea? Alcuni mesi fa il settimanale “The Economist” aveva definito Berlino come «l’egemone riluttante» per la sua incertezza nel guidare in maniera netta e propositiva l’UE fuori dalla crisi economica e la preferenza per la tutela della crescita economica tedesca a discapito delle economie periferiche. Ecco perché progetti che sarebbero fondamentali per aiutare l’economia dell’Unione a ricominciare a crescere sulle basi di un’integrazione più solida, come l’unione bancaria o la condivisione del debito pubblico attraverso l’istituzione degli “Eurobond”, stanno procedendo a rilento. Sarebbe invece nell’interesse della Germania stessa intraprendere un percorso che porti a un rilassamento dell’austerity fiscale, altrimenti il modello di crescita basato su una forza impressionante dell’export è destinato a esaurire la sua forza per carenza di domanda dal resto d’Europa. Frau Merkel deve capirlo e avere più coraggio. La Germania è l’unico attore che in questo momento ha le risorse, economiche e politiche, per guidare un processo di questo tipo.

3. CONTRO L’EUROPA – È importante un cambio di rotta da parte di Berlino anche per evitare che il sentimento anti-europeo si diffonda a macchia d’olio. Nella stessa Germania i liberali hanno ottenuto la stessa percentuale del partito Alternativa per la Germania (AFD), con tendenze chiaramente ostili alle politiche di Bruxelles. Non va dimenticato che nel 2014 si terranno le elezioni Europee: il rischio di un exploit da parte degli anti-europeisti è alto, se pensiamo alla crisi economica che sta ancora colpendo i Paesi mediterranei, ma anche all’ostilità di membri come il Regno Unito, che hanno promesso un referendum sulla membership UE. Angela Merkel ha dunque davanti a sé un periodo cruciale non solo per la Germania, bensì per l’intero continente. Riuscirà a vincere la sfida?
Davide Tentori
Paukphaw: l’amicizia “fraterna” sino-birmana
Dopo quasi tre anni di lavori, lo scorso luglio è stato inaugurato ed è già in piena attività il gasdotto-oleodotto che collega il Myanmar alla Cina. La mega-struttura è stata progettata per trasportare circa 12 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Qual è l’importanza dell’infrastruttura nella regione?
Kenya: un piano regionale dietro l’attacco al Westgate?
I combattimenti al Westgate di Nairobi sono finiti: il bilancio dei morti è di 61 civili, 6 uomini delle forze di sicurezza e 5 terroristi, oltre ad almeno 200 feriti, sebbene molte persone siano ancora sotto le macerie. Nel frattempo si indaga sulla composizione del gruppo (in particolare sulla presenza della “Vedova bianca”) e sulla realizzazione dell’attacco.
1. LA FINE DELL’ASSEDIO – Secondo il Governo keniota, la battaglia nel centro commerciale Westgate è terminata dopo quasi tre giorni di assedio e tutti gli ostaggi sono stati liberati. Il presidente Kenyatta ha affermato che l’operazione sia stata un completo successo, ma che il bilancio dei feriti (almeno 200) e delle vittime (61 civili, 6 membri delle forze di sicurezza e 5 terroristi) potrebbe peggiorare, poiché numerose persone sono intrappolare sotto le macerie di un tetto crollato. Inoltre, le Autorità keniote stanno ancora perquisendo l’edificio con grande cautela, al fine di individuare eventuali ostaggi rimasti isolati e accertarsi che non vi siano altri terroristi nascosti. Fonti ufficiali, infatti, hanno confermato l’arresto di 11 attentatori, ma non è chiaro da quanti elementi fosse composto il gruppo, nonostante sull’account Twitter di al-Shabaab fossero riportati 17 nomi. Il Kenya ha proclamato tre giorni di lutto nazionale.
2. LE IDENTITÀ DEI TERRORISTI – Il ministro degli Esteri di Nairobi, Amina Mohamed, parlando a una televisione statunitense, ha affermato che tra i terroristi ci siano anche «due o tre americani e una cittadina britannica», riprendendo in sostanza sia quanto scritto nei tweet di al-Shabaab, sia le voci circa la presenza della “Vedova bianca”, l’inglese Samantha Lewthwaite, moglie di uno degli attentatori di Londra nel 2007 e compagna di un combattente islamista somalo. Per di più, una commessa del Westgate, intervistata dal “Daily Mail”, ha raccontato di essere scampata a una raffica sparata da una donna con «la pelle bianca, i capelli neri lunghi e una maglia larga e nera». Al-Shabaab ha smentito su Twitter, scrivendo di «non usare sorelle in questo tipo di operazioni militari». Tuttavia, bisogna tener presente che le Autorità non hanno confermato alcunché in merito, né si sono espresse circa l’autenticità dei tweet del gruppo somalo e dei nomi indicati quali partecipanti all’attacco. Pertanto è necessario mantenere una certa prudenza.
3. IPOTESI SULL’ORGANIZZAZIONE REGIONALE – I terroristi avrebbero utilizzato un deposito a Nairobi (forse un box auto o un magazzino) per nascondere le armi, una circostanza che indica la presenza di complici sul campo. Non tutti gli osservatori, infatti, sono concordi nell’attribuire la responsabilità ad al-Shabaab, chiamando in causa al-Qaida o gruppi di islamisti kenioti. Non è da escludersi, però, che l’operazione abbia avuto una valenza regionale, ossia che abbia coinvolto tutte la rete combattente del Corno d’Africa e dell’Africa orientale. Al-Shabaab è parte di al-Qaida dagli inizi del 2012, ma non c’è completa identificazione tra le due formazioni, così come non ci sono sovrapposizioni perfette nelle intenzioni e nel modus operandi all’interno della stessa organizzazione somala. Dopo la sconfitta militare, infatti, al-Shabaab ha cominciato a riorganizzarsi su due livelli, vale a dire quello interno, impegnato nella lotta contro il Governo di Mogadiscio e più vicino alle tradizionali istanze nazionalistiche somale, e quello esterno, con basi nell’Ogaden etiope e nelle Province Nordorientali keniote, integrato nella rete di al-Zawahiri e ormai propenso a seguire la sua vocazione sovranazionale. Difficilmente l’attacco al Westgate potrebbe essere stato condotto da al-Qaida, poiché essa, fortemente ridimensionata nell’Africa orientale, evita di esporre i propri uomini in modo diretto sul campo, fornendo però sostegno logistico e finanziario. Pertanto, è probabile che l’azione di Nairobi abbia visto il lavoro congiunto di al-Qaida nella fase elaborativa, macro-logistica e di network; degli islamisti kenioti per il sostegno in loco; di al-Shabaab per l’esecuzione.
Beniamino Franceschini
Argentina: Repsol, a volte ritornano
Ad appena un anno e mezzo di distanza dalla nazionalizzazione di YPF, la compagnia spagnola Repsol potrebbe riaffacciarsi direttamente sul mercato petrolifero argentino, anche se in via indiretta
In Kenya continua il terrore
Il Westgate di Nairobi resta ancora un campo di battaglia tra le forze keniote e i terroristi di al-Shabaab. Nel frattempo, il gruppo somalo ha pubblicato su Twitter un elenco non confermato di partecipanti all’attacco: tra loro, anche alcuni cittadini statunitensi e britannici, ma nessuna traccia della ragazza inglese definita la “Vedova bianca”.
1. L’ASSEDIO CONTINUA – Nel centro commerciale Westgate a Nairobi continuano gli scontri tra le forze di sicurezza keniote e un numero non ben precisato di terroristi. Nella mattinata di ieri sembrava che il blitz fosse ormai prossimo alla conclusione, ma la resistenza è stata maggiore del previsto, anche a causa di incendi, scambiati in un primo momento per ordigni esplosi, appiccati dai combattenti di al-Shabaab. Al momento, le Autorità hanno confermato l’arresto di almeno 10 persone nell’aeroporto di Nairobi sospettate di essere collegate ai fatti del Westgate. Quanto agli ostaggi tenuti prigionieri dai terroristi, il loro numero, in base alle fonti, potrebbe essere compreso tra 30 e 50, mentre il conteggio dei morti si sarebbe attestato a 68. Nel frattempo, inoltre, stanno cominciando a emergere le testimonianze dei sopravvissuti, secondo le quali gli assalitori avrebbero mostrato sin da subito la volontà di compiere una strage: alcuni di essi sparavano ad altezza d’uomo e lanciavano granate, mentre altri fermavano i clienti del centro commerciale chiedendo loro di recitare la shahada (la testimonianza di fede musulmana) o di rispondere a specifiche domande sull’Islam (per esempio, il nome della madre di Maometto), uccidendo coloro che non fossero in grado di soddisfare le richieste. Ad affiancare le forze keniote nelle operazioni ci sono, come consulenti, anche esperti britannici, israeliani e statunitensi.
2. LA LISTA – Non è ancora sicuro il numero dei terroristi che stanno agendo, né sono certe le loro identità. Tuttavia, ieri sull’account Twitter di al-Shabaab (costantemente sospeso e riattivato) è stata pubblicata una lista di 17 nomi, con tanto di età e provenienza, indicandoli quali membri del commando del Westgate. Se queste informazioni fossero confermate, il gruppo sarebbe costituito solo da maschi tra i 20 e i 27 anni, provenienti nella maggior parte dei casi da Paesi occidentali, ossia da Canada (Ontario), Finlandia (Helsinki), Regno Unito (Londra), Russia (Daghestan), Stati Uniti (Illinois, Kansas City, Maine, Minneapolis, Tucson) e Svezia, con la partecipazione anche di cittadini britannici e americani. Alcuni terroristi avrebbero indossato abiti femminili, mentre non è stata confermata la presenza dell’inglese Samantha Lewthwaite, detta la “Vedova bianca”, 29enne moglie prima di Jermaine Lindsay, uno degli attentatori del 7 luglio 2007 a Londra, e successivamente di un affiliato di al-Shabaab.
3. LA QUESTIONE KENYATTA – Gli osservatori internazionali, però, stanno riflettendo anche sull’eventuale cambiamento del Kenya dopo questi giorni di terrore. In particolare, sarà interessante valutare la condotta del presidente Kenyatta, imputato presso la Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità in riferimento alla sua posizione durante gli scontri intertribali che tra il 2007 e il 2008 causarono oltre 1.300 morti e 600mila sfollati. Al momento della sua elezione, avvenuta nel marzo 2013, Gran Bretagna e USA mostrarono un formale, ma freddo distacco, comprendendo che, nonostante le vicende giudiziarie, i rapporti con Kenyatta sarebbero stati fondamentali per garantire i propri interessi e mantenere un alleato nella lotta al terrorismo. Il Presidente fu a Londra a maggio per una conferenza sulla Somalia organizzata dal Governo britannico e in quella circostanza Cameron scelse un approccio realista. Tuttavia, qualora il Kenya dovesse impegnarsi in una vasta azione di contrasto ai fenomeni connessi all’Islam combattente, i rapporti con Stati Uniti e, soprattutto, Gran Bretagna potrebbero subire importanti modificazioni, divenendo ben più profondi del doppio binario attuale rappresentato da relazioni diplomatiche formali, ma interessi economici intensi.
Beniamino Franceschini
India vs. Cina, confronto ad alta quota (II)
Il tetto del mondo e i suoi territori contigui sono sempre stati oggetto di contenziosi, ben prima della nascita di India e Repubblica Popolare Cinese come le conosciamo adesso, sin da quando l’India era ancora il diamante della corona imperiale britannica. Oggi, a causa anche del fatto che India e Cina sono i due Stati in assoluto più popolosi al mondo e tra le economie col tasso di crescita più alto, questi dissidi assumono una dimensione diversa.
LA BATTAGLIA PER IL TETTO DEL MONDO – Nell’aprile scorso le tensioni al confine himalayano tra Cina e India si sono acutizzate di nuovo. L’India ha infatti accusato la RPC di aver sconfinato, varcando la LAC (Line of Actual Control), confine de facto dell’amministrazione indiana nella zona contesa, allestendo un campo militare. Per tutta risposta, Nuova Delhi ne ha a sua volta stabilito uno a 300 metri di distanza da quello cinese. La situazione è poi rientrata grazie al lavoro di entrambe le cancellerie, ma questo episodio può far capire come i rapporti di confine tra le due potenze siano volatili. La “battaglia” per questi territori, inoltre, viste le loro caratteristiche morfologiche (il solo Aksai Chin ha un’altezza media di quasi 5.000 metri), non è combattuta solo via terra, ma anche via aria. L’India, difatti, oppone alla Cina diverse basi situate in punti strategici, come quelle di Chabua e Tezpur, poste proprio nel cuore dell’Arunachal Pradesh, mentre la Repubblica Popolare ha appena ultimato la costruzione di una base a 3.500 metri d’altezza a Gonkar, in Tibet, con un raggio d’azione che si spinge su tutto il nord del Subcontinente.
Un confine geopoliticamente molto “caldo”
VECCHIE TENSIONI MAI SOPITE – L’origine di questo contenzioso è piuttosto antica, e può essere fatta risalire ai tentativi inglesi, attraverso i vari studi di Johnson e McMahon, di delimitare rispettivamente le regioni di Kashmir e sud Xinjiang a est, e l’area compresa tra Bhutan, Cina e India a ovest. Il problema è che sia la linea Johnson sia quella McMahon erano controverse persino 150 anni fa, al tempo della loro formulazione. Da allora, la situazione si è evoluta, soprattutto dopo l’indipendenza dell’India, in un gioco di rilanci e controrilanci, tra scaramucce di confine e conflitti locali, che vedono ora il Kashmir sostanzialmente diviso tra India e Pakistan, con la separazione della cruciale zona dell’Askai Chin, in mano alla Cina, mentre l’Arunachal Pradesh a ovest, benché reclamato da Pechino, è sotto amministrazione Indiana.
L’IMPORTANZA STRATEGICA – Le zone in questione sono molto sensibili sotto diversi punti di vista: l’Arunachal Pradesh è una regione fondamentale per l’India dal momento che, oltre a rappresentare la porta di ingresso a est al proprio Paese, col suo milione e mezzo di abitanti, è anche un’area etnicamente delicata, già teatro di diverse sollevazioni nel passato. Tutto ciò è inoltre reso più complicato dal fatto che essa è collegata al resto del territorio nazionale solo da una sottile striscia di terra. Questa regione è anche inserita in un triangolo strategico fondamentale, confinando con Cina, Bangladesh e Myanmar, tutte aree molto sensibili, e componenti molto importanti della strategia regionale cinese. L’Aksai Chin, invece, è un territorio poco popoloso e desolato, ma di fondamentale importanza strategica: non solo è incuneato nel Kashmir, una delle zone più calde del globo, ma è anche un fondamentale corridoio di collegamento tra due delle regioni cinesi a più alta tensione interna, cioè il Tibet e lo Xinjiang. Basti pensare che attraverso le sue alture passa la più importante arteria di collegamento tra queste due Province cinesi, contribuendo cosí a renderlo uno snodo nevralgico irrinunciabile per Pechino.

OBIETTIVI CONTRASTANTI? – Uno dei principali “core interests” di Nuova Delhi è non solo contenere la presenza cinese nelle zone montagnose al nord, ma allo stesso modo limitare anche via terra la strategia espansiva cinese che può passare dal mare, attraverso il cosiddetto “Filo di perle”, ovvero una serie di porti e installazioni di importanza strategica ed economica disseminati per l’Oceano Indiano, evitando che questo si trasformi in una collana, proprio attorno al collo dell’India. La Cina, dal canto suo, vuole invece rafforzare la propria presenza nel Sud-Est Asiatico e mettere in sicurezza il proprio fianco a sud-ovest, dove le tensioni etniche sono all’ordine del giorno. Tenendo comunque conto di questa situazione, e non escludendo un riacutizzarsi, quasi inevitabile, delle tensioni locali, non bisogna però dimenticarsi del quadro più generale: la Repubblica Popolare Cinese e l’India hanno economie profondamente interdipendenti tra loro e condividono svariati progetti nell’area, senza tralasciare inoltre che Pechino non ha alcun interesse a inimicarsi eccessivamente Nuova Delhi, correndo il rischio di spingerla nelle braccia degli Stati Uniti. Non sembra dunque nell’interesse di nessuna delle due potenze lasciare che tali questioni, benché spinose, influiscano negativamente sullo sviluppo reciproco dei rispettivi Paesi.
(La prima parte dell’articolo è raggiungibile cliccando qui).
Marco Lucchin


