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Il Caffè Geopolitico in lutto per le stragi dei migranti

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Oggi la redazione del Caffè Geopolitico si unisce al lutto nazionale proclamato a fronte della tragedia dell’Isola di Lampedusa. Le acque del Mediterraneo, crocevia di culture, esperienze storiche e popoli, continuano a essere martoriate dalla morte e dalla sofferenza di migranti in viaggio verso la speranza di una nuova vita. Non ci addentreremo al momento né in analisi, né in critiche, né in ulteriori commenti, poiché, tra le molte parole gettate nella tempesta del dibattito, noi, nel nostro piccolo, parteciperemo al minuto di silenzio che si terrà in Italia per le vittime di Lampedusa, ampliando il nostro pensiero ai bambini, alle donne e agli uomini scomparsi lungo il sentiero dei migranti in ogni tempo e in ogni luogo.

 

La Redazione

L’Africa è davvero il continente della guerra? (II)

Miscela Strategica – Nell’opinione diffusa, l’Africa è la terra della guerra, dei grandi gruppi di ribelli che combattono per l’indipendenza e dei massacri su vasta scala. È questa la realtà?

Lo sviluppo della guerra antisom

Miscela StrategicaL’avvento del sommergibile, seguito successivamente dal sottomarino, ha rivoluzionato strategie e tattiche della guerra in mare, rendendo necessarie tecniche per la caccia di questi battelli sfuggenti. Vediamo come.

Sudan: 200 morti, 800 arrestati

Secondo Amnesty International, la repressione in Sudan avrebbe causato almeno 200 morti nella sola Khartoum, con 800 persone arrestate. Nel frattempo, il ministro degli Esteri del Sudan guida una delegazione economica a Roma.

La difficile partita di Hassan Rohani

Hassan Rohani, Presidente iraniano dallo scorso giugno, ha ispirato in parte della comunità internazionale la speranza di una svolta riformista a Teheran, che consenta di riaprire il dialogo su molti temi fondamentali, dal nucleare, alla questione siriana.

Siria, cominciano le operazioni dell’OPAC

Gli ispettori dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche sono arrivati in Siria per cominciare le operazioni di distruzione degli arsenali, secondo la risoluzione delle Nazioni Unite approvata la scorsa settimana. Intanto, si continua a discutere sull’eventualità di ‘Ginevra 2’.

Brasile: i dribbling di Dilma verso il Mondiale

L’inizio del mese di giugno è stato un momento particolarmente caldo dal punto di vista sociale in diversi Paesi.

American shutdown: la parziale chiusura dello Stato federale

Nessuna intesa tra democratici e repubblicani per l’approvazione del bilancio provvisorio: negli Stati Uniti scatta lo shutdown, ossia la chiusura parziale delle attività federali, dagli uffici, fino ai parchi, con il blocco degli stipendi per 800mila dipendenti pubblici. I repubblicani chiedevano in cambio il rinvio di un anno della riforma sanitaria (che entra in vigore oggi), ma Obama e i democratici hanno respinto la proposta.

 

1. SHUTDOWN! – Nonostante una lunga e aspra trattativa, il Congresso di Washington non ha trovato l’accordo sul bilancio provvisorio, necessario per finanziare il sistema dello Stato federale, cosicché si è avviato a mezzanotte il cosiddetto “shutdown”, ossia la chiusura di una serie di importanti attività (sedi distaccate dei ministeri, musei, agenzie, parchi…) e il blocco dello stipendio per 800mila lavoratori del settore pubblico. Obama ha affermato che la vicenda avrà un «impatto immediatamente su tutta l’economia, il peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale». Le tensioni all’origine della mancata intesa sul bilancio sono da ricercarsi nello scontro tra Casa Bianca, democratici e repubblicani riguardo alla riforma sanitaria fortemente voluta dal Presidente. Il Partito repubblicano, infatti, contando sulla propria maggioranza al Congresso, aveva proposto di acconsentire al finanziamento del sistema federale in cambio del rinvio di un anno della “Obamacare”, in vigore da oggi. La Camera bassa statunitense ha approvato il compromesso, mentre il Senato, guidato dai democratici, lo ha respinto, ritenendo la riforma sanitaria (che riguarderà 35 milioni di cittadini) fuori da ogni negoziato.

 

2. LE PAROLE DI OBAMA – La reazione di Obama è arrivata tramite un video destinato alle Forze Armate statunitensi, durante il quale il Presidente ha garantito che le missioni all’estero, in particolare in Afghanistan, resteranno attive, con il pagamento degli stipendi già definito. Al contrario, potrebbe esserci una diminuzione consistente del personale civile, sia sul campo, sia dipendente direttamente dal ministero della Difesa. Rivolgendosi ai militari, Obama ha tentato di attaccare i repubblicani in un loro bacino storico di propaganda e di voti, considerato che il Grand Old Party ha intrapreso questa controversa battaglia contro l’entrata in vigore della riforma sanitaria (pur contestata da molti statunitensi) proprio mentre il gradimento dell’opinione pubblica per l’operato del Congresso si aggira attorno al 20% (sondaggio CNN).

 

3. POSSIBILI EFFETTI – L’ultimo shutdown fu nel 1996, all’epoca della presidenza Clinton. Secondo “The Washington Post”, la spesa per l’interruzione parziale delle attività federali costerà circa 200 milioni di dollari alla sola area di Washington D.C., nella quale si ha un’elevata presenza di uffici e dipendenti pubblici federali. Non bisogna dimenticare, poi, che tra gli 800mila lavoratori a rischio ci sono anche quelli di musei, parchi e luoghi di cultura o intrattenimento, cosicché potrebbe esserci un notevole impatto anche nella riduzione delle entrate turistiche. Gli effetti dello shutdown, comunque, non incideranno eccessivamente sull’economia nazionale (fatta salva quella di Washington D.C.), a meno che non si superi la durata di un mese: in quel caso, le perdite si assommerebbero ai danni già causati dai tagli alla spesa pubblica di inizio anno.

 

Beniamino Franceschini

Italia: un hub energetico per tutta l’Europa?

Un nuovo gasdotto collegherà il Mar Caspio alla Puglia, permettendo di approvvigionare direttamente tutta l’Europa occidentale: un progetto interessante che potrebbe accrescere l’importanza strategica del nostro Paese, ma che desta anche alcune preoccupazioni ambientali 

Sudan, le promesse di al-Bashir e le incertezze delle opposizioni

Per tutta la giornata di ieri sono continuate le manifestazioni in Sudan, sebbene, secondo fonti dirette, alcune zone di Khartoum stiano tornando alla normalità.

Sudan, proteste e sangue contro al-Bashir

A Khartoum si ampliano le manifestazioni contrarie ad al-Bashir, con la reazione del Governo che resta ancora caratterizzata da fatti di sangue. Nel frattempo, però, alcuni membri della maggioranza al potere chiedono al Presidente un passo indietro.

 

1. I FATTI – In Sudan continuano ormai da lunedì gli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza. Le proteste erano esplose dopo che il Governo aveva deciso di ridurre i sussidi per il carburante, causando un aumento dei prezzi considerevole in un contesto gravemente provato dalla crisi economica e con un’inflazione preoccupante. Già nel 2011 e nel 2012, Khartoum aveva subìto grandi contestazioni, con scioperi in tutto il Paese e categorie (soprattutto avvocati, giornalisti e medici) direttamente esposte nelle proteste. Per di più, con l’indipendenza del Sudan del Sud, il Sudan ha perso circa il 75% delle proprie risorse petrolifere, trovandosi al contempo ad affrontare col nuovo Stato sia la questione della gestione del transito dell’oro nero (le uniche infrastrutture al momento disponibili sono verso nord), sia un conflitto armato per il controllo della regione di Abyei e del distretto estrattivo di Heglig. Il tutto, mentre nel Darfur e nel Kordofan riprendevano vigore gli scontri.

 

2. LE VIOLENZE – La reazione del Governo alle manifestazioni, concentrate soprattutto nell’area di Khartoum e nelle regioni centrali del Paese, è stata dura e violenta: le forze di sicurezza, che hanno impiegato su vasta scala gas lacrimogeni e pallottole di plastica, hanno anche sparato sulla folla, causando un numero di vittime che potrebbe oscillare tra 100 e 150. Con la rete internet oscurata da mercoledì a venerdì e alcune redazioni di testate internazionali occupate dall’esercito, le notizie giungevano – a fasi – soprattutto da Twitter, tramite gli hashtag #SudanRevolts e #Abena. I manifestanti hanno preso d’assalto nei primi giorni le pompe di benzina e alcune sedi della formazione al Governo, il Partito del Congresso Nazionale, però non si segnalano altri atti di violenza. La polizia ha compiuto oltre 700 arresti e, sulla base di immagini e testimonianze dirette, sarebbe stata coadiuvata da bande di armati reclutate con lo specifico compito di pattugliare le strade, impiegando anche metodi brutali. Le proteste si sono pertanto trasformate in breve in marce contro al-Bashir, Presidente del Sudan sul quale grava un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità (non per genocidio, come invece spesso riportato). Nella giornata di sabato, mentre per Khartoum sfilava una marcia di 3mila persone (compresi i giornalisti in sciopero) e dopo che la polizia aveva aperto il fuoco sul funerale di un manifestante anti-governativo, il farmacista 34enne Salah Sanhoury, il Partito del Congresso Nazionale e alcuni esponenti islamisti hanno chiesto ad al-Bashir di revocare le misure di austerità economica.

 

3. È POSSIBILE LA CADUTA DI AL-BASHIR? – Al momento non è semplice tentare una previsione sull’esito degli eventi. Il punto principale è riuscire a capire se il Governo sudanese possa subire un serio contraccolpo e quale dimensione possano assumere gli scontri. Per esplicita ammissione di uno degli organizzatori delle marce contattato direttamente dal Caffè Geopolitico, il numero dei manifestati è ancora basso rispetto al bacino potenziale di oppositori ad al-Bashir anche nella sola Khartoum. Gli appelli rivolti sia tramite internet, sia dalle comunità della diaspora (che ieri hanno organizzato manifestazioni davanti alle ambasciate del Sudan a Londra e Washington) sono soprattutto per coinvolgere coloro che sono definiti «indifferenti», ma che, in realtà, sono disillusi oppure desiderosi di non compromettersi con le Autorità. Rispetto alle rivolte precedenti, però, questa serie di proteste non è coordinata da capi politici di primo piano o da gruppi noti, avendo, invece, componenti eterogenee e una pressoché totale dimensione urbana. Proprio quest’ultimo aspetto potrebbe essere la discriminante: il Governo, infatti, ha sempre fronteggiato crisi, anche belliche, nelle regioni periferiche, restando più forte nelle città del Nord e del Nordest. La diffusione delle reti informatiche, inoltre, consente una pervasività e una capacità di mobilitazione mai viste prima. Le prossime ore, quindi, saranno decisive per comprendere quale direzione possa assumere la vicenda, tenendo presente, comunque, che molti manifestanti sul campo abbiano l’impressione di essere a un punto di svolta decisivo.

 

Beniamino Franceschini

Il caso Sudan: l’Italia muore (anche) di indifferenza

In Sudan sono in corso vaste proteste contro le politiche economiche del Governo: in meno di una settimana, i morti sarebbero già un centinaio, e gli arrestati più di 700, con il Paese che è rimasto isolato da internet fino a venerdì.