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L’Egitto sul baratro

In Egitto cresce l’intensità degli scontri, con il Paese ormai attraversato da un clima di guerra civile imminente. I rappresentanti dei maggiori attori politici stanno negoziando per la nomina del nuovo Primo Ministro, ma gli islamisti pongono un veto assoluto su el-Baradei, sia come capo del Governo, sia come vice-premier. Probabile che l’incarico spetti a un economista, forse a el-Din, già collaboratore di Mubarak dimessosi prima della caduta del rais.

 

SCONTRI E TENSIONI – La situazione in Egitto diviene più critica di ora in ora: nei soli scontri di questa notte, secondo il ministero della Sanità, sarebbero morte almeno 42 persone, tra militari e sostenitori di Morsi. Il campo di battaglia principale è stato la sede della Guardia Repubblicana, dove il Presidente destituito è trattenuto. Da parte sua, la Fratellanza Musulmana ha invitato gli egiziani all’insurrezione e al ripristino del contesto precedente l’intervento dell’esercito. Ancora non è chiara la dinamica delle violenze del primo mattino, poiché da un lato i manifestanti affermano che siano stati i soldati ad aprire il fuoco, mentre dall’altro lato i militari sostengono che la loro sia stata una reazione all’uccisione di un ufficiale.

 

LA SCELTA DEL PRIMO MINISTRO – Nel frattempo, però, continuano le negoziazioni per l’individuazione del nuovo Primo Ministro. Nelle ore successive alla destituzione di Morsi sembrava che l’incarico potesse essere assegnato al Governatore della Banca Centrale egiziana, Ramez, quindi a emergere con sempre maggiore insistenza è stato il nome di el-Baradei, premio Nobel e portavoce del fronte “30 Giugno”. Tuttavia, su quest’ultimo grava il veto delle formazioni salafite, cosicché adesso si sta trattando per la nomina a Primo Ministro di Ziad Bahaa el-Din, economista già collaboratore di Mubarak, ma dimessosi prima della rivoluzione del 2011, al quale dovrebbe essere affiancato come vice lo stesso el-Baradei. Anche questa soluzione, comunque, è sgradita alle componenti islamiste, proprio per la presenza nel Governo del premio Nobel, ritenuto imparziale a causa del suo ruolo nella destituzione di Morsi. Oltretutto, in seguito alle violenze di stanotte, i delegati di al-Nour, partito con forti note dell’Islam estremistico, ma che non aveva aderito al blocco di Tagarrud (a sostegno del Presidente), si sono ritirati in segno di protesta.

 

A UN PASSO DAL BARATROL’Egitto è davvero sull’orlo di una guerra civile, a meno che nei prossimi giorni non si giunga a una decisione che sia compresa dalla popolazione. Trovare un equilibrio tra i vertici degli opposti schieramenti non è sufficiente, poiché il Paese è percorso da un reale sentimento di contrapposizione e scontro, sul quale grava l’ostilità di un’ampia parte di egiziani nei confronti dell’esercito e delle Forze di sicurezza. Inoltre, il richiamo della Fratellanza Musulmana all’insurrezione potrebbe convincere i manifestanti rimasti in disparte a entrare nella contesa, mentre sta salendo di ora in ora l’allerta per il rischio di azioni condotte da gruppi dell’Islam combattente. Probabilmente, l’incarico di Primo Ministro spetterà a un economista o, comunque, a un tecnico del settore, sia per un riscontro verso le istanze economiche dei manifestanti di Tamarrud, sia per gestire aiuti stranieri ed eventuali interventi del FMI. L’aspetto geopolitico è un altro campo di scontro: da un lato il Qatar, sostenitore di Morsi, si trova a fronteggiare questa sconfitta proprio nel pieno della transizione, dall’altro lato l’Arabia Saudita, così come Assad in Siria, vedono favorevolmente il cambio di regime politico nel Paese. Il tutto con gli Stati Uniti che mantengono una posizione ambigua, formalmente neutra, sebbene in realtà favorevole al fronte del “30 Giugno”, soprattutto se a garantire la transizione fosse el-Baradei. In sostanza, l’Egitto è a un passo dal baratro: la direzione del cammino inciderà sul futuro dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente.

 

Beniamino Franceschini

Il Pakistan e il suo labirinto

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Elezioni costellate da attacchi terroristici con risultati discussi, l’arresto dell’ex presidente Pervez Musharraf, le crescenti tensioni con gli Stati Uniti, il vicino Afghanistan in una guerra decennale dalla quale l’ISAF si disimpegnerà l’ anno prossimo… i pezzi che compongono il puzzle del Pakistan attuale delineano un autentico labirinto che pare offrire poche vie di uscita, tutte cariche di rischi. Se  consideriamo le varie componenti possiamo provare a comporre un quadro generale. Vediamo come.

 

ESITO ELETTORALE – L’11 maggio scorso si sono tenute le elezioni in Pakistan, nelle quali gli aventi diritto sono stati chiamati ad eleggere a suffragio universale diretto i 342 deputati dell’Assemblea Nazionale (Aiwan-e Zirin, Camera bassa) e 100 membri del Senato invece in modo indiretto. Le elezioni sono seguite alla fine del terzo governo targato PPP (Pakistan People’s Party), guidato da Asif al-Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e noto per i suoi coinvolgimenti in tangenti e corruzione. L’ex-premier conservatore Nawaz Sharif è emerso come vincitore dalla competizione elettorale con la sua Pakistani Muslim League-N, partito islamico moderato radicato nel Punjab. Gli altri partiti protagonisti di queste elezioni sono stati il PPP, alleato con il PML (Q) (forza politica di centro, nazionalista), mentre sul fronte conservatore si è potuta osservare una saldatura tra il PML, il Sunni Tehreek e il PML (F); si è presentato anche il partito di centro PTI guidato dal carismatico ex campione di cricket Imran Khan, alleato con il JI (Jaamat al-Islami) e il Bawahalpur National Amawi Party.  Il clima elettorale è stato segnato dall’arresto dell’ex presidente Pervez Musharraf, tornato nel Paese dopo il suo esilio volontario a Londra; il 20 maggio le accuse nei suoi riguardi di non aver garantito la sicurezza dell’ex premier Benazir Bhutto sono però state respinte. Inoltre, la strada verso le elezioni è stata infiammata dalle violenze, dal momento che vari gruppi jihadisti operanti in Pakistan hanno lanciato una serie di attacchi contro i partiti candidati a guidare il Paese.

Imran Khan si è seduto all’opposizione emergendo come il grande sconfitto da questa tornata elettorale. Il successo di Sharif può essere invece interpretato partendo dalla sua intenzione di contrastare la crisi economica fino alla sua figura di leader influente, carismatico e di esperienza, anche se non sfuggono alcune ombre come l’ambigua relazione con alcuni gruppi del radicalismo islamico. Su Khan ha invece pesato, tra i vari elementi, l’esser visto come eccessivamente vicino agli interessi dell’ISI, i servizi segreti pachistani. Nonostante ciò, l’ex campione di cricket e il suo partito continuano a denunciare irregolarità e brogli occorse nelle ultime elezioni, influenzate anche dal terrore diffuso dagli attentati terroristici.

 

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Il grande sconfitto delle elezioni, l’ex giocatore di cricket Imran Khan

 

CRISI  ECONOMICA – La condizione economica del Pakistan è decisamente preoccupante, considerando la bassa crescita al 2,5% e un tasso di inflazione che ha raggiunto nel corso di questo anno il vertiginoso livello del 12%. Al momento il tasso di inflazione si aggira attorno al 7% e il deficit di bilancio del Paese segnala livelli sempre più crescenti. Una situazione economica così drammatica rappresenta un perfetto humus per la crescita di movimenti estremisti nel territorio nazionale, in congiuntura con una crescente tensione sociale. Le rimesse dei pakistani all’estero rappresentano una delle poche leve per lo sviluppo del Paese, ma non possono chiaramente essere considerate sufficienti. Il prossimo governo del Pakistan dovrà fronteggiare questa emergenza, legata non solo a fattori di sviluppo, ma anche a necessari miglioramenti nel sistema educativo. Un prestito del Fondo Monetario Internazionale appare quindi necessario in questa fase per il neo-eletto governo Sharif.

 

RELAZIONI CON GLI STATI UNITI – I rapporti tra Pakistan e Stati Uniti hanno vissuto una progressivo deterioramento negli ultimi anni. La cattura e l’uccisione di Bin Laden in territorio pakistano è stata vista come una gravissima violazione della sovranità nazionale del paese, ma ha anche esibito ulteriormente l’ambiguità dei rapporti tra l’ISI e forze come i Taliban. I bombardamenti mirati condotti da droni USA nelle zone confinanti con l’Afghanistan hanno causato numerose vittime civili, suscitando manifestazioni di protesta guidate da esponenti in vista della politica del paese, come lo stesso Imran Khan, e incrementando un sentimento anti-americano già in parte diffuso nella popolazione. Il Pakistan ha risposto bloccando i rifornimenti per l’Afghanistan diretti alla missione ISAF, aumentando le complicazioni per la missione che si concluderà nel 2014. Anche in considerazione dei rapporti tra ISI e i Taliban, il ruolo del Pakistan sarebbe vitale e centrale in questa fase al fine di tentare una forma di pacificazione per il futuro Afghanistan, a patto che riesca a mantenersi come stato unitario dopo il 2014. Sharif, vista la necessità dei prestiti dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e avendo giocato le elezioni sulla lotta alla crisi economica sta cercando di silenziare o ammorbidire voci eccessivamente anti-americane, favorendo, almeno nelle apparenze, un approccio più aperto anche alla vicina India. Allo stesso tempo recentemente il neo-governo ha annunciato imponenti investimenti nel settore della Difesa. La ragione di tale mossa potrà apparire più chiara nei prossimi mesi, anche dal modo in cui il governo Sharif deciderà di interagire con i gruppi dell’ islamismo radicale, con i quali in certi casi sono stati intrattenuti rapporti non solo da Esercito e ISI ma anche dai precedenti governi Sharif. La scelta del Presidente Obama di avviare un ripensamento riguardo l’utilizzo dei droni nella regione può esser concepito come un segnale di apertura da parte statunitense, ma resta da vedere se ciò accadrà realmente.

 

SFIDA AI TALIBAN – Le operazioni militari condotte dal governo Musharaff prima e Zardari poi hanno rappresentato duri colpi per i jihadisti locali, ma le aree tribali del Paese sfuggono ancora alle maglie del controllo del governo centrale. Il gruppo più problematico è certamente rappresentato dal Tehrik-e-Taliban-Pakistan (TTP), il movimento dei talebani pachistani, ostile ai militari e ai servizi segreti. L’ intento di questo gruppo è quello di realizzare un governo islamico basato sulla shari’a ed è stato al centro della maggior parte degli attentati dal 2007 (anno della sua fondazione) a oggi, oltre che maggiore protagonista della strategia della tensione sviluppata nelle recenti elezioni. Il TTP è inoltre al centro delle diffuse violenze settarie nel Paese contro gli sciiti, poiché il suo intento principale non è semplicemente quello di trasformare il Pakistan in uno Stato islamico generico, ma piuttosto in una colonna dell’ islamismo sunnita. Vi sono poi altri gruppi, come ad esempio l’Haqqani Network, che militari e ISI continuano a vedere e considerare come un’utile pedina per svariati fini, tra i quali certo spiccano le manovre contro l’India. L’ambiguità dell’esercito e dei servizi segreti del Paese è apparsa a Washington come rilevante dato che proprio ad Abbottabad, ove Bin Laden era nascosto, ha sede un rilevante centro dell’esercito pakistano. Il ruolo di quest’ultimo, il sentimento popolare, i rapporti dei Servizi e lo sviluppo delle dinamiche con Washington rappresenteranno quattro elementi focali nella partita pakistana.

 

Angelo Boccato

Cile, questa miniera non s’ha da fare

Da Coquimbo (Cile) – Santiago blocca un altro polemico progetto minerario che riaccende il dibattito sul delicato equilibrio tra crescita economica e tutela ambientale nel paese andino. La Superintendencia nazionale, organo statale di controllo in materia ambientale, ha ordinato lo scorso maggio la sospensione del progetto Pascua Lama e inflitto alla responsabile dell’opera – la Compagnia mineraria canadese Nevada spa, di cui Barrick Gold è succursale cilena – una multa di circa 16 milioni di dollari. Il settore minerario cileno é da anni nell’occhio del ciclone e le infrastrutture, realizzate per la maggior parte da investitori stranieri, devono fare spesso i conti con la giustizia locale.

Il combattimento urbano e l’evoluzione del Close Quarter Combat

Miscela strategica – La Seconda Guerra Mondiale è stata il punto di partenza per lo sviluppo tecnologico e dottrinale di nuovi sistemi d’arma (aerei e carri armati in primis)

Senza ri-Morsi

Il presidente egiziano Morsi è stato destituito al termine dell’ultimatum lanciato dalle Forze Armate e adesso si trova sotto sorveglianza. Contemporaneamente sono stati condotti agli arresti i vertici della Fratellanza Musulmana. Il nuovo capo dello Stato ad interim è il primo giudice della Corte Costituzionale, garante del percorso guidato dall’esercito: sospesa temporaneamente la Carta, l’obiettivo è giungere a elezioni anticipate.

 

«MORSI GAME OVER» – Ieri alle 16,30 è scaduto l’ultimatum che le Forze Armate egiziane avevano imposto al presidente Morsi, affinché egli si decidesse a rassegnare le dimissioni. Già un’ora prima, alcuni carri armati avevano circondato la sede della televisione di Stato, mentre i vertici militari si erano riuniti in colloqui con i capi dell’opposizione e le autorità religiose, compresi il grande imam di al-Azhar, Ahmed el-Tayyeb, e il papa copto Teodoro II di Alessandria. Nel tardo pomeriggio le informazioni erano piuttosto confuse, poiché non era ben chiaro che cosa stesse accadendo al Cairo: in un primo momento, infatti, un’emittente indipendente aveva annunciato l’arresto di Morsi, quindi è giunta la comunicazione ufficiale che il Presidente avesse soltanto un divieto d’espatrio e che fosse sorvegliato per ragioni di sicurezza. Nella notte, infine, è arrivato l’aggiornamento: Morsi è stato destituito e attualmente è trattenuto presso il ministero della Difesa, pur essendo apparso in un video nel quale invita il popolo a difendere la legittimità del suo mandato. L’esercito avrebbe proceduto all’arresto di alcuni esponenti illustri della Fratellanza Musulmana e della loro rappresentanza parlamentare, ma sarebbero stati già emessi circa trecento ordini di cattura anche nei confronti dei membri di altri partiti islamisti. Da segnalare, inoltre, che i militari abbiano posto sotto controllo la stessa redazione di Al-Jazeera, ritenuta vicina alla Fratellanza. Nella notte si segnalano scontri in diverse zone del Paese, ma soprattutto ad Alessandria, dove ci sarebbero almeno 10 morti.

 

LA ROAD MAP – Mentre in piazza Tahrir i manifestanti festeggiavano con fuochi d’artificio la destituzione di Morsi, al-Sissi, comandante delle Forze Armate egiziane, ha comunicato alla televisione i punti del “percorso guidato”: la Costituzione è momentaneamente sospesa; Adli Mansour, primo giudice della Corte Costituzionale, sarà Presidente ad interim; il Governo sarà composto da tecnici; il compito delle Istituzioni di transizione sarà giungere quanto prima a elezioni anticipate con una nuova Carta. El-Baradei, premio Nobel e rappresentante del fronte delle opposizioni a Morsi, ha confermato che la road map mirerà alla conciliazione nazionale, ossia a quanto il portavoce di Tamarrud, Badr, ha definito «la rivoluzione per pane, libertà e dignità».

 

LE INCERTEZZE SULLA NUOVA TRANSIZIONE – Sul futuro dell’Egitto nel breve periodo restano alcune incognite. Innanzitutto, quali siano le intenzioni di Morsi e dei suoi sostenitori. I vertici della Fratellanza Musulmana potrebbero essere completamente annientati entro poche ore, ma nel Paese restano sempre molto gruppi, anche dell’estremismo islamico, contrari al colpo di Stato. Per esempio, Mohamed al-Zawahiri, fratello di Ayman, la guida di al-Qaida, ha comunicato ai membri della propria fazione di non esitare a combattere «il complotto ordito dagli Stati Uniti e dai loro agenti» e a convincere i ribelli che alla fine saranno sconfitti, pur affermando di non voler «caos, disordine e sedizione». Riguardo alla reazione di Washington, dopo un lungo silenzio, Obama ha invitato le Forze Armate egiziane alla moderazione e alla responsabilità, mentre Leahy, Presidente della commissione del Senato sugli aiuti internazionali, ha sostenuto la necessità di interrompere i contributi all’Egitto (circa $1,5 miliardi) fino a nuova valutazione. Se è difficile prevedere la reazione di Morsi, allo stesso modo non è chiaro quanto il fronte eterogeneo rappresentato da el-Baradei possa mantenere l’unità, né quanto sia sottoposto alla volontà dell’esercito, che, al momento, è l’unico attore capace di dettare tempi e modi della transizione. Un segnale importante, però, sarebbe cominciare a ripristinare la legalità proprio dalla sanzione dei gravi crimini commessi durante le proteste: secondo Human Rights Watch, infatti, almeno 91 donne sarebbero state molestate e violentate in totale impunità in piazza Tahrir, un numero al quale devono essere aggiunte le cifre di altre organizzazioni egiziane.

 

Beniamino Franceschini

Egitto: il giorno dell’ultimatum

Il Presidente egiziano si troverà oggi a dover replicare alle richieste di dimissioni giunte dalle opposizioni e dalle Forze Armate: in caso di risposta negativa da parte di Morsi, Tamarrud ha annunciato che attuerà pratiche di disobbedienza civile, mentre i militari intendono intervenire direttamente per guidare la fase di transizione.

 

IL CAIRO, 3 LUGLIO, ORE 17 – In Egitto oggi sarà un giorno particolarmente intenso e dagli esiti incerti: scadono, infatti, i due ultimatum lanciati a Morsi rispettivamente dal fronte d’opposizione di Tamarrud (che ha nominato el-Baradei come portavoce) e dalle Forze Armate. Da parte sua, il Presidente non ha accettato le richieste delle controparti, trovandosi nel frattempo alle prese con le dimissioni del Primo Ministro e di cinque membri del Governo, compresi quelli di Esteri e Difesa. Morsi ha avuto anche un colloquio telefonico con Obama, il quale si è detto sinceramente preoccupato, ma fiducioso nel processo di democratizzazione dell’Egitto. Tuttavia, se da un lato gli esponenti di Tamarrud hanno annunciato che dal pomeriggio di oggi cominceranno una serie di azioni di disobbedienza civile, dall’altro lato l’esercito ha preannunciato il proprio intervento diretto per risolvere la crisi attraverso un percorso guidato.

 

UN MODELLO TURCO? – La linea delle Forze Armate, accolta favorevolmente dalle opposizioni, ha incontrato, invece, la dura replica del fronte governativo, in particolare del ramo politico della Fratellanza Musulmana, che accusa i vertici militari di mirare al colpo di Stato. Secondo l’esercito, l’ultimatum deve intendersi non come una fondata minaccia di ingerenza armata, bensì come uno sprone per la rapida risoluzione della vicenda. Non è da escludersi, però, che si giunga a una situazione simile a quella della Turchia nel 1997, quando le Forze Armate costrinsero incruentemente il primo ministro Erbakan alle dimissioni, favorendo un riassetto delle dinamiche di potere nel Paese e una trasformazione del fronte dell’Islam politico. In Egitto è in atto una vicenda analoga, con uno scontro diretto tra l’esercito e la Fratellanza Musulmana per il governo della transizione ancora in corso dopo la caduta di Mubarak.

 

LUCI E OMBRE – In ogni caso, da stasera si assisterà in Egitto all’avvio di una nuova fase dai contorni non ancora del tutto delineati. L’obiettivo delle Forze Armate è persuadere Morsi alle dimissioni per avviare un processo di revisione di quanto realizzato nel Paese nell’ultimo anno e assumere il ruolo che Lorenzo Nannetti, de “Il Caffè Geopolitico”, ha definito di «kingmaker», vale a dire essere in grado di decidere a chi competa il controllo del potere. I sostenitori del Presidente e la Fratellanza Musulmana, però, potrebbero opporre una forte resistenza, fino ad accettare l’apertura di un fronte di scontro armato: l’incerta transizione, in questo senso, porterebbe in discussione addirittura la stessa unità dell’Egitto, considerato che all’impasse istituzionale deve essere aggiunta l’assenza di controllo in alcune aree del Paese, al punto che, come disse Alberto Negri in un’intervista al “Caffè”, già da aprile fonti diplomatiche parlavano non solo di una situazione opaca, bensì di «guerra civile alle porte».

 

Beniamino Franceschini

Economia maghrebina: vera “primavera araba”?

A due anni e mezzo dall’esplosione dei moti di protesta che hanno cambiato il volto politico e sociale del Nord Africa, proviamo a trarre un bilancio della situazione economica.

Croazia: la ventottesima stella è arrivata

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Concludendo un percorso iniziato esattamente dodici anni fa, dal 1° luglio la Croazia è Stato membro dell’Unione Europea, anche se alcuni osservatori fanno presente che, nonostante le vicende di un secolo di guerre, essendo stata la Croazia parte dell’impero austriaco, fosse già da considerarsi Europa a tutti gli effetti. Inevitabile, dopo un lasso di tempo così lungo, trarre conclusioni o anticipare previsioni, se non altro per il semplice motivo che Croazia ed Europa non sono più le stesse di dodici anni fa: non è solo la Croazia in grave affanno per la crisi economica e finanziaria, ma la stessa Unione è alla ricerca di soluzioni che comprendano tutti i ventotto Stati.

 

TAPPE E OSTACOLI – A parte le consuete riforme sociali ed economiche preliminarmente chieste dall’Unione Europea in vari settori, la Croazia ha dovuto affrontare anche difficoltà di altra natura. Un primo gruppo, legato al recente decennio balcanico, si collega all’azione svolta dal Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia che ha sede all’Aja. La Croazia ha collaborato con il Tribunale internazionale attraverso arresti ed estradizioni ed ha processato e condannato per crimini di guerra propri concittadini, anche se talvolta con sentenze giudicate miti o assoluzioni.

Inoltre, anche se ufficialmente non sono mai state richieste “epurazioni”, la necessità di un ricambio generazionale nella classe dirigente era auspicata soprattutto nell’esercito e nella polizia. Il nazionalismo croato – tradizionalmente molto forte – non ha mancato pertanto di trarne argomenti per alimentare la ”euro-xenofobia” e ostacolare sovente con manifestazioni di piazza l’azione di governo.

Altro gruppo di ostacoli veniva invece dalla vicina Slovenia, ex repubblica jugoslava consorella e già all’interno dell’UE, tenace nella difesa della propria posizione e che aveva sollevato numerose questioni: in primo luogo confinarie e di mare territoriale o riguardanti più semplicemente i conti correnti sloveni in Croazia. Solo all’inizio di aprile (e dunque appena tre mesi fa) il parlamento sloveno ha infine votato a favore del protocollo di adesione croato all’UE e dichiarato chiuso ogni contenzioso. Per l’ingresso nell’UE si è trattato dell’ultimo ostacolo rimosso, in quanto è condizione obbligatoria per l’adesione l’assenza di qualunque contenzioso con Stati membri.

 

LA SITUAZIONE INTERNA CROATA – A parte la comprensibile soddisfazione del Governo croato durante i festeggiamenti del 30 giugno a Zagabria, la situazione interna è molto difficile, soprattutto sotto il profilo economico. La sensazione di molti osservatori è che perduri anche un clima di euro-scetticismo, dimostrato ad esempio dalla scarsa affluenza alle urne in occasione delle recenti elezioni per designare i rappresentanti croati al Parlamento europeo. Il dato in sé sembra però destinato a restare ambiguo in quanto – più o meno in tutti i Paesi dell’area europea – i dati di affluenza alle urne sono tradizionalmente piuttosto bassi e il fenomeno si è intensificato dopo la crisi.

Dai crudi numeri la realtà croata che ne esce è la seguente: in cinque anni l’attività economica si è ridotta del 12%, la stima per il 2013 prevede un ulteriore anno di recessione e per il 2014 la crescita non supererà l’1%. Gli investimenti esterni sono calati del 4,5% e la disoccupazione ufficiale è oltre il 20%: prevedibile che con questi dati la vicina Slovenia abbia deliberato – secondo un meccanismo previsto dall’accordo di Schengen – di sospendere per due anni non rinnovabili i diritti connessi al “libero movimento dei lavoratori” temendo una sorta di invasione croata (analoga richiesta è stata avanzata dal governatore del Veneto Zaia al nostro Governo, condividendo timori simili). Anche l’export croato è debole e, nel momento in cui i rapporti con la zona dell’euro sono istituzionalizzati, si sono sentite voci di deprezzamento della kuna (la moneta croata) per favorire la competitività. Il rovescio della medaglia potrebbe diventare però l’inflazione e la riduzione del potere d’acquisto interno con altre più gravi conseguenze. A questo quadro poco rassicurante sul futuro, si aggiunge l’unica nota positiva: la piccola dote che l’UE concederà sotto forma di fondi strutturali e di coesione. La cifra è molto elevata e, benché non sia stata ancora stabilita con esattezza, potrebbe rappresentare un piccolo tesoro di almeno una decina di miliardi di euro erogabili tra il 2014 e il 2020. Molto pragmaticamente le autorità croate hanno sottolineato tuttavia che la Croazia dovrà in primo luogo cavarsela da sola completando le riforme rimaste incompiute. Per dare una spinta al settore industriale si considera infatti molto positivo il divieto imposto dalle norme anti trust dell’UE che non consentono ad esempio l’erogazione di contributi pubblici. Un altro settore che attende molto dall’UE e quello dell’istruzione e della ricerca: non stupirebbe affatto che scuole e università ricevessero parti consistenti della “dote” europea tanto attesa.

Anche il Presidente Napolitano era presente ai festeggiamenti  di Zagabria
Anche il Presidente Napolitano era presente ai festeggiamenti di Zagabria

 

IL TIMORE DELL’APERTURA DELLE FRONTIERE – Con l’eccezione delle coste albanesi e del Montenegro, l’Adriatico si avvia oggi a diventare europeo su entrambe le sponde. Le frontiere dell’Unione e conseguentemente quelle dell’area di Schengen compiono un significativo balzo verso sud, sia sul versante adriatico, sia nella parte interna, anche se questo movimento è interrotto dalla frontiera con la Bosnia che come uno scoglio rompe la linearità impone un confine “a saliente”. Questo andamento interrotto e tortuoso, che avrà fine solo con l’adesione di Bosnia, Albania e Montenegro, è già fonte di preoccupazione. Ci si chiede infatti quali siano le effettive capacità di controllo da parte croata di una frontiera europea marittima molto frastagliata (ad es. le isole della costa dalmata) e di una frontiera completamente montuosa come quella con la Bosnia. Sembra quasi, in questa fase transitoria, che si confermi il ruolo storico della Croazia come “limes”, come terra di frontiera e di passaggio obbligato, ruolo che del resto sancì per secoli la sua importanza nel quadro dell’impero d’Austria. Nonostante le difficoltà finanziarie dell’UE un accordo di cooperazione con altre forze di polizia sembra dunque inevitabile. Inoltre, poiché i dati sulla corruzione sembrano ancora elevati, un accordo tra le polizie in materia di controlli di frontiera diventerebbe perfino auspicabile.

 

UNA GEOPOLITICA DEGLI ANNIVERSARI – Varrebbe la pena, concludendo, di fare qualche osservazione sulle coincidenze di date che ruotano intorno a questo 1° luglio, perché siamo pur sempre nei Balcani, dove molte cose – a volte troppe di cui si è perso il significato – tornano a galla inaspettatamente. Sembra di trovarsi di fronte a una vera e propria “geopolitica degli anniversari”. Sono passati pochi giorni infatti dal 28 giugno, data che per i serbi rappresenta invece una molteplicità di ricorrenze. In primo luogo si tratta di una festività religiosa, il giorno di San Vito, ma è anche l’anniversario della battaglia di Kosovo Polje, quando nel 1389 i serbi furono sconfitti dagli ottomani, persero il Kosovo e dovettero abbandonare le sponde dell’Adriatico. Sempre il 28 giugno, correva l’anno 1914, fu commesso l’attentato contro l’arciduca Francesco Ferdinando ritenendo che la scelta della data della sua visita a Sarajevo fosse stata una provocazione voluta contro i serbi. Più recentemente Mitterand visitò Sarajevo nella stessa data, nel 1994 in pieno assedio, provocando in seguito tra la popolazione della città – e non solo – una delle maggiori delusioni sul ruolo politico dell’Europa, incapace di far cessare i massacri balcanici.

Per il prossimo 2014 la Commissione Balcani dell’Unione Europea (un organismo ad hoc presieduto all’epoca da Giuliano Amato) si era augurata che molti altri Stati potessero essere già membri dell’Unione, ma la Bosnia ha ancora un lungo cammino e altrettanto si può dire della Serbia.

In realtà queste date messe a confronto ricordano, a distanza di un secolo trascorso dalla Grande Guerra, come solo ora sia iniziata la metabolizzazione del suicidio europeo del 1914.

 

Giovanni Punzo

Egitto, piazza Tahrir 2013

A un anno dall’elezione di Morsi, l’Egitto torna in piazza, diviso tra la coalizione Tamarrud, contraria al Presidente, e quella Tagarrud, composta soprattutto da forze islamiste. Non si tratta, però, di una contrapposizione tra laici e religiosi, bensì di un movimento di protesta divenuto portavoce della profonda crisi economica del Paese e del malessere sempre più diffuso tra la popolazione.

 

LE PROTESTE – L’Egitto torna a infiammarsi a un anno dall’elezione di Mohamed Morsi: il Paese, infatti, è attraversato da una settimana dalle proteste di un ampio fronte che chiede le dimissioni anticipate del Presidente. A guidare le agitazioni sono i giovani di Tamarrud (“Disobbedienza”), un gruppo che ha colto di sorpresa i vertici egiziani, ispirando il movimento dei manifestanti e organizzando una petizione con l’obiettivo di raccogliere 15 milioni di firme contro Morsi. Ieri è stato il giorno del grande corteo delle opposizioni, dal quale è giunta la richiesta delle dimissioni del capo dello Stato entro domani e l’impegno, in caso contrario, di intraprendere azioni di disobbedienza civile, continuando nel contempo le proteste. Secondo il progetto proposto da Tamarrud, Morsi dovrebbe essere sostituito ad interim con il capo della Suprema Corte Costituzionale, mentre a un Governo provvisorio spetterebbe il compito di rivedere la Costituzione al fine di emendarla prima di convocare nuove elezioni. Da parte sua, il Presidente ha ribadito la legittimità del proprio mandato, mostrandosi disponibile a una revisione della Carta, ma accusando l’opposizione di essersi limitata nell’ultimo anno alle sole pratiche di ostruzionismo. Il fine settimana è stato caratterizzato anche da duri scontri, con un bilancio di sette morti (tra i quali uno studente statunitense), diversi casi di violenza sessuale, compreso lo stupro di una giornalista olandese, e varie sedi della Fratellanza Musulmana assaltate.

 

TAMARRUD VS TAGARRUD – La caduta di Mubarak e l’elezione libera di Morsi avevano convinto molti egiziani che il cambiamento del Paese fosse davvero in atto, tanto che, per quasi tutto il 2012, il Presidente aveva goduto di un buon sostegno popolare nonostante i risultati elettorali non gli garantissero un’ampia maggioranza. Tuttavia, la situazione in Egitto è cambiata radicalmente: le difficoltà economiche hanno bruscamente costretto la popolazione al risveglio dopo le speranze della rivoluzione, con la costante crescita di disoccupazione e prezzi, la riduzione dei flussi turistici, frequenti carenze di energia e casi di speculazione finanziaria sostenuti da capitali stranieri (soprattutto qatarioti). Il Governo, però, stretto tra necessità e risorse carenti, non è in grado di assumere provvedimenti per l’uscita dalla crisi, attirando le critiche di settori sempre più vasti dell’elettorato. In questo contesto è emerso il gruppo Tamarrud, un movimento sostanzialmente spontaneo che ha saputo mobilitare la popolazione più giovane attraverso contatti diretti e social network, e al quale si sono aggregati esponenti delle opposizioni, dagli islamisti moderati, ai movimenti di protesta già impegnati nelle manifestazioni di piazza Tahrir, passando per la componente di el-Baradei. A sostegno di Morsi, la Fratellanza Musulmana, alcune formazioni dell’Islam politico e dal salafismo (al-Asala, al-Watan e altre), nonché elementi di Jamaat al-Islamiya, hanno organizzato il fronte Tagarrud (“Imparzialità”). La contrapposizione tra laici e islamisti, però, non è la chiave di lettura dei fatti di questi giorni, poiché la vicenda è più articolata, al punto che al-Nour, il ramo politico del principale gruppo salafita egiziano, al-Dawa al-Salafiyya, ha deciso di non prendere posizione tra gli schieramenti. Attenzione, poi, al ruolo delle Forze Armate e di sicurezza, a sostegno di Morsi, ma formalmente neutrali.

 

ESITI INCERTI – Prevedere l’evoluzione delle proteste è piuttosto difficile, poiché come lo stesso fenomeno di Tamarrud è apparso all’improvviso, così gli esiti dello scontro tra manifestanti e forze governative potrebbero assumere rapidamente connotati diversi. Non è da escludere che si possa assistere a una radicalizzazione del confronto e, quindi, a un aumento del tasso di violenza, né che la “disobbedienza civile” indicata dalle opposizioni qualora Morsi non si dimettesse possa condurre a una dura reazione da parte del Governo. Tuttavia, al momento non è da escludersi nemmeno che, considerata la presenza di esponenti rilevanti a fianco di Tamarrud, gli schieramenti giungano a una fase di negoziazione. Per il momento non possiamo che osservare la vicenda istante per istante.

 

Beniamino Franceschini

Il terrorismo internazionale incontra la geopolitica (II)

Miscela StrategicaEsploriamo la dimensione operativa di Jemaah Islamiyah, la sua organizzazione militare e le tattiche di impiego.

Serbia e Kosovo ci provano?

L’accordo raggiunto tra  Serbia e Kosovo il 19 Aprile sembra aver aperto nuovi scenari per tutta la regione. Ma se da una parte il dialogo tra Belgrado e Pristina, con la mediazione di Bruxelles, continua per la fase dell’implementazione, da un punto di vista geopolitico mostra ancora delle difficoltà, soprattutto a livello diplomatico.

Jemaah Islamiyah, il terrorismo internazionale incontra la geopolitica (I)

L’appuntamento con Miscela Strategica propone un articolo in due parti realizzato da altrettanti autori su Jemaah Islamiyah, un gruppo islamista indonesiano attivo in tutto il Sudest asiatico.