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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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E il meglio deve ancora venire?

Un Caffè americano – Come oramai ben sappiamo, dopo una lunga notte elettorale, Barack Obama è stato riconfermato presidente degli Stati Uniti  con 332 voti elettorali, il sostegno di quasi tutti gli stati in bilico ed un margine di vittoria a livello nazionale di 3 punti percentuali. Cosa c’è dietro questa vittoria e cosa dobbiamo attenderci dai prossimi quattro anni?

 

¡ VIVA OBAMA ! – Gli Americani hanno rinnovato il contratto ad Obama, ma si ritrovano con una nazione che a prima vista pare spaccata in due, con il 50% dei voti a sinistra ed il 48% a destra: i risultati finali, dopo il conteggio dei voti in Florida, dicono 332 voti elettorali per Obama con tre punti percentuali di differenza su Romney. Eppure, scavando tra i vari gruppi dell’elettorato, le preferenze politiche per l’uno o l’altro candidato emergono in maniera inequivocabile. Obama si è infatti imposto con decisione come il presidente dell’America giovane, metropolitana, femminile, ed etnicamente diversa, riconfermando e rafforzando il trend del 2008. La sua vittoria consegna una mappa politica che sottolinea i cambiamenti demografici degli ultimi anni, mostrando l’importanza crescente del voto delle minoranze latino-americane, che costituiscono circa il 10% dell’elettorato a livello nazionale, ma percentuali ben più importanti in alcuni stati chiave, quali il Colorado (20%), la Florida (23%), la California (38%), il Texas (39%). Tra loro, tre elettori su quattro hanno sostenuto Obama, in aumento rispetto al 2008, contenti degli sforzi legislativi a favore dell’immigrazione. Gli aiuti statali al settore automobilistico durante la crisi hanno assicurato il voto dell’Ohio, uno tra gli stati chiave, e la promozione della flessibilità e parità retributiva sul posto di lavoro e della copertura sanitaria per le spese mediche per maternità e contraccezione, hanno contribuito a solidificare il voto delle donne.

 

UNA CAMPAGNA PORTA-A-PORTA (E COMPUTER-A-COMPUTER) – Dal punto di vista mediatico, l’immagine agguerrita a difesa degli interessi della classe media, delle minoranze etniche e sociali, dei nemici della patria, accompagnata dalle critiche alla coerenza ideologica dello sfidante, ha certamente giovato ad un presidente minacciato da un elevato livello di disoccupazione e scarsa crescita economica. Secondo i precedenti storici, infatti, le circostanze economiche attuali avrebbero spinto decisamente gli elettori verso lo sfidante del candidato attualmente in carica: il fatto che non sia successo rende la vittoria di Obama (o la sconfitta di Romney, a seconda di come lo si voglia leggere) ancora più rimarchevole. Ma la vittoria di Obama è anche la vittoria della tecnologia elettorale. La potente macchina politica democratica ha cambiato il modo di fare campagna elettorale: se il fine è rimasto quello di incoraggiare gli elettori ad andare a votare, ed a votare in una certa direzione, i modi per identificare i (potenziali) sostenitori sono ormai sofisticatissimi. Volontari e non hanno meticolosamente contattato porta a porta o per telefono milioni di persone. E seguendo il principio che pubblicità televisive e comizi contano, ma messaggi e visite personalizzate contano ancora di più, il quartier generale democratico ha raccolto ed analizzato milioni di informazioni disponibili online, dagli introiti familiari alle spese al supermercato, che hanno poi permesso non solo di trovare gli elettori e corteggiarli con messaggi tagliati su misura sui loro interessi, ma anche di calcolare le probabilità  con cui avrebbero reagito a tali messaggi e, quindi, di disegnare gli scenari di voto possibili. Che a quanto pare si sono rivelati accuratissimi.

 

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E ADESSO? – I prossimi quattro anni si profilano ricchi di continuità ma anche di nuove sfide. I vertici della politica estera, tesoro, difesa e giustizia (H. Clinton, Geither, Panetta e Holder) probabilmente cambieranno, ma difficilmente le linee programmatiche verranno sovvertite. Il secondo mandato consente, in primo luogo, di mantenere e rafforzare le riforme fatte durante il primo, prima tra tutte la riforma sanitaria, che sarà implementata completamente nel giro di pochi anni. Tra gli altri punti fermi, una possibile riforma del sistema educativo e certamente una riforma dell’immigrazione, che sarà probabilmente sostenuta anche dal partito repubblicano, desideroso di guadagnarsi le simpatie delle minoranze. Anche se negli ultimi mesi l’ economia ha mostrato segni di ripresa costante, ed il mercato immobiliare è nuovamente in crescita, il deficit va risanato e a camere divise potrebbe essere necessario scendere a nuovi compromessi fiscali, inclusi tagli alla spesa pubblica. Sono anche previsti investimenti nella produzione di energie tradizionali e rinnovabili sul suolo americano per diminuire la dipendenza dall’estero, ed una diminuzione dei costi legati alla politica estera e militare. E come hanno raccomandato entrambi i candidati nei loro discorsi post-elettorali, la cosa più importante adesso è che l’America ritrovi l’unità per far fronte alle sfide che l’attendono.

 

Manuela Travaglianti

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Erasmus da Rottamar?

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Quanti di voi sanno la storia del Progetto Erasmus, vero e proprio strumento di “relazioni internazionali”? Quello che è diventato quasi un punto fermo della carriera universitaria delle ultime generazioni di studenti, soprattutto quelli più interessati a conoscere il mondo attorno a noi, vive un momento di forte difficoltà, dato che sono a rischio i fondi necessari per sostenerlo. Affrontiamo queste tematiche insieme ad un personaggio davvero speciale…

 

SENZA FONDI– Chi vuole liquidare l’Erasmus? Il destino del programma di scambio universitario è legato all’ardua trattativa in corso a Bruxelles tra il Parlamento Europeo, che ha approvato le correzioni al bilancio necessarie a salvarlo, e il Consiglio europeo dei ministri. La trattativa, gestita da un apposito Comitato di Conciliazione, si è conclusa il 9 novembre con un nulla di fatto. Nel frattempo, una lettera firmata da più di 100 personalità dell’Unione Europea ha raggiunto le scrivanie dei capi di Stato e di governo dell’Ue, per richiamare la loro attenzione sul rischio di una prossima fine del programma. Non c’è nulla di segreto, o di illegale, in queste manovre di correzione. Semmai, c’è da chiedersi come si è arrivati a questo punto. Tutti gli allarmi scattati nell’ultimo mese sono derivati dalla mancata rettifica di una parte del progetto di bilancio UE redatto dalla Commissione nel luglio scorso. Ora che il Parlamento ha votato contro i tagli, manca solo l’approvazione del Consiglio. Ma i governi nazionali, ancora adesso, vorrebbero risparmiare risorse preziose, lasciando scoperta una parte delle borse Erasmus per il 2012. La storia di Erasmus, spesso celebrata nel segno della concordia tra Stati europei, è da sempre frutto di difficoltà innumerevoli. Tra differenze legislative, ostruzionismo delle università, colpi di mano di capi di Stato e di giovani studenti, le vicende che hanno portato alla partenza di 3.244 studenti nel 1987 (Dati Dg Eac) sono ancora disperse tra fonti varie e documenti più o meno ufficiali. Ne abbiamo discusso un sabato mattina a Bruxelles, nella casa di quello che è considerato come uno dei “fondatori” del programma.

 

LENARDUZZI E ADONNINO – Domenico Lenarduzzi (foto), pensionato, è direttore generale onorario della Commissione. Diventato capo divisione per la cooperazione europea nell’educazione, dal 1982 al 1993, Lenarduzzi è tra gli ispiratori del primo documento riguardante un “programma di scambi tra università”, da cui nasceranno, oltre all’Erasmus, anche Comett, Petra, Youth for Europe, Lingua, Eurotecnet e Force. Nel 1984, il Consiglio Europeo di Fontainebleau incarica un Comitato speciale presieduto da Pietro Adonnino, europarlamentare del PPE, di individuare alcune proposte per incrementare il senso di appartenenza degli europei alla CEE. Il testo finale, “L’Europa dei cittadini” (su CVCE.EU il testo integrale in francese) presentato al successivo Consiglio di Milano del giugno 1985, conterrà, tra le altre cose, la proposta della bandiera a 12 stelle, la giornata per l’Europa, un inno comune, la patente, il passaporto e la carta sanitaria europea. Ma è sullo scambio di studenti che si scatena la battaglia più difficile. “È imperativo – sono le parole con cui si apre il capitolo 5 – coinvolgere la gioventù nella costruzione europea”. Si chiede perciò, al Consiglio Europeo, di “mettere in pratica un programma interuniversitario europeo di scambio e di studio, allargando questa opportunità a una porzione significativa della popolazione studentesca”. “Porzione significativa” che Jacques Delors fisserà al 10% degli universitari, ma che non sarebbe mai stata raggiunta. Tra le cause, Lenarduzzi denuncia lo scarso importo della borsa di studio, che ancora oggi non supera, in media, i 250 euro mensili. Nello stesso rapporto, viene già delineato a grandi linee il futuro sistema di crediti universitari (Ects: European Academic Credit Transfer System), per permettere il riconoscimento di esami e titoli di studio da un paese all’altro. Il rapporto Adonnino diventa il testo di riferimento per un’idea che avrebbe cambiato la vita di quasi tre milioni di studenti universitari europei.

 

IL VUOTO GIURIDICO –Prima di Erasmus non esistevano programmi di scambio – ricorda Lenarduzzi – Le università più antiche facevano rete tra loro, per tagliare fuori le ultime arrivate. Il rettore di Siena non voleva saperne di quello di Firenze. Fatta eccezione per alcuni dottorati, i titoli di studio non erano riconosciuti all’estero”. Quello che nel 2012 è dato per scontato, lo scambio di conoscenze e “cervelli” tra centri di ricerca, negli anni Ottanta è ancora un progetto futuristico. “Fu la Danimarca uno dei primi paesi a opporsi – ricorda Leonarduzzi – I danesi, per salvaguardare l’indipendenza culturale nei riguardi di Svezia e Norvegia, temevano di perdere il controllo sul sistema d’istruzione nazionale. Difesero il loro ‘no’ a lungo, facendo appello ai Trattati di Roma”. “L’Erasmus – continua Lenarduzzi – è stato creato nel vuoto giuridico. I Trattati di Roma del 1957 non prevedevano nessuna forma di scambio tra gli studenti europei”. Solo nel 1992, infatti, l’educazione comunitaria dei giovani otterrà un articolo ad hoc, il 126, nel Trattato di Maastricht. “Consumatori” privilegiati del mercato unico, i giovani non erano mai stati chiamati in causa da Bruxelles prima degli anni Ottanta, se si eccettua un programma marginale destinato allo scambio di qualche migliaia di giovani lavoratori. Per l’Italia, invece, l’ostacolo principale rimane il valore legale della laurea. Prima di Erasmus, per laurearsi era obbligatorio seguire tutti i corsi in un’Università nazionale. “L’Italia non si è mai opposta al progetto. Ha seguito a ruota gli altri paesi, dopo aver adattato la propria legislazione”, spiega Lenarduzzi.

 

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LA SENTENZA GRAVIER – Nel 1985, una sentenza della Corte di Giustizia Europea viene in aiuto a quanti cercano di dare una base giuridica allo scambio di studenti. Françoise Gravier, una studentessa francese iscritta all’Accademie di Belle Arti di Liegi, in Belgio, si vede imporre dalla legge belga una soprattassa di iscrizione, destinata agli studenti stranieri. La Corte di Giustizia, interpellata, dà ragione alla Gravier. Far pagare a uno studente straniero una soprattassa costituisce, secondo la Corte, una discriminazione in base alla cittadinanza, vietata dall’articolo 7 del Trattato. Del pari, viene esteso al “caso Gravier” il diritto a ricevere una formazione “professionale” equivalente a quella dei cittadini belgi (diritto riconosciuto dall’articolo 128). Che la formazione “artistica” sia anche “professionale” appare ai più come una piccola forzatura. Ma è anche la spia degli ostacoli preparati dai legislatori nazionali.

 

UNA “TROVATA” DI FRANCK BIANCHIERI – Alla fine del 1986 la Commissione ritira improvvisamente il suo appoggio all’Erasmus, per protestare contro la proposta del Consiglio di limitare gli scambi ai professori”, continua Lenarduzzi. Una controproposta che distrugge il principio stesso di far partecipare alla costruzione europea anche i giovani, e che determina un ritardo di altri 18 mesi. Per vincere le ultime resistenze, è fondamentale l’appoggio degli studenti e di François Mitterand al progetto. Lenarduzzi racconta con fare divertito la “trovata” di Franck Bianchieri, fondatore di AEGEE, una delle prime organizzazioni studentesche internazionali. Bianchieri (scomparso il 30 ottobre scorso), a quell’epoca “un giovane intelligente e sfrontato”, come lo descrive Lenarduzzi, sa che il presidente Mitterand riceve i principali attori della società civile il mercoledì a pranzo. Sfruttando le sue conoscenze nella cerchia dei consiglieri del presidente, gli fa trovare a tavola sedici studenti di diverse nazionalità. Mitterand, evidentemente colpito dall’incontro, si impegna pubblicamente a favore di Erasmus, e la conferenza di Roma del 15 giugno 1987 sancisce l’inizio del progetto per undici Paesi.

 

CAMICIA DI FORZA –Quello di Bianchieri è stato un vero colpo di mano, oggi irrealizzabile”, ammette Lenarduzzi. “Se anche riuscissi a convincere un capo di Stato ad appoggiare il mio progetto, dovrei aspettare il prossimo decennio per metterlo a bilancio”. Un problema, quello della programmazione troppo rigida, che Lenarduzzi non esita a definire “una camicia di forza”. “Quando veniva il turno di una nuova presidenza del Consiglio dell’UE, i capi di Stato venivano a chiedermi consiglio su come fare bella figura durante il mandato – rivela – Potevo così mettere l’accento su questo o quel problema, convincere gli uni e gli altri ad appoggiare l’Erasmus. I ministri dell’istruzione italiani, in particolare, non avevano la minima nozione della cultura degli scambi. Adesso, anche con argomenti ‘forti’, è impossibile far passare un nuovo progetto prima del tempo”.

 

 

LE ULTIME FRONTIERE DA ABBATTERE – Per Lenarduzzi, le ultime difficoltà economiche che hanno reso incerto l’avvenire di Erasmus dipendono dal fatto che “quelli che sono chiamati a decidere non hanno ancora compreso la necessità di dare ai propri cittadini una dimensione europea. Se non fossi un pensionato, prenderei il mio bastone di pellegrino e andrei a far rete con chi è più sensibile al ‘problema’”. Ripercorrendo le complesse vicende degli anni ottanta, se ne ricava un piccolo insegnamento: “non sono i testi giuridici a far la differenza, ma gli uomini che vogliono impegnarsi. Ora tutti parlano di ‘educazione, educazione’. Ma ancora non si è capito che, in un continente povero di materie prime, la risorsa più importante su cui investire rimane il capitale umano”.

 

Jacopo Franchi

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La ricerca della stabilità

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Nelle ultime settimane, mentre tutto il mondo ha seguito con affiatamento le elezioni presidenziali americane che hanno visto trionfare il Presidente Obama, in Cina sono continuati i ferventi preparativi per l’apertura del 18° Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), appena iniziato, durante il quale si assisterà al ricambio della dirigenza politica, chiamata a guidare l’Impero di Mezzo almeno per i prossimi cinque anni

 

NON HO L’ETÀ – Dopo la lunga guida del Grande Timoniere Mao, che più o meno direttamente tirò le fila del potere nella Repubblica Popolare Cinese per quasi trent’anni, il suo successore, Deng Xiaoping cercò di stabilire una serie di regole che disciplinassero la successione del potere in Cina. Prima tra queste fu l’introduzione del congedo forzato dalle più alte cariche del Partito per sopraggiunti limiti di età, valido deterrente all’ascesa di leader carismatici che potessero imporre troppo a lungo la propria linea politica, come nel caso di Mao Zedong. Fu così che l’età di pensionamento dei membri del Politburo e del Comitato Permanente del Politburo, il cuore del potere politico cinese, iniziò gradualmente a diminuire fino a stabilizzarsi, in occasione degli ultimi due Congressi del Partito (rispettivamente nel 2002 e 2007) attorno ai 68 anni di età. Considerando, quindi, come requisiti il limite di età e un’effettiva e comprovata esperienza di governo maturata a livello locale e nazionale, è chiara la motivazione per cui la rosa dei possibili candidati alle prossime elezioni risulti così ristretta e perché le nuove nomine appaiano così scontate.

 

LA NUOVA COPPIA – Il primo a venir sostituito sarà Hu Jintao, attuale Presidente della Repubblica Popolare Cinese, il quale sembra però destinato a rimanere in carica per altri due anni come capo della Commissione Militare Centrale, prima di lasciare definitivamente il posto al nuovo eletto. Con ogni probabilità la sua posizione verrà occupata da Xi Jinping, attualmente membro del Comitato Permanente e vice presidente della Commissione Militare stessa. Xi Jinping nacque negli anni Cinquanta da Xi Zhongxun, un eroe della Lunga Marcia nonché fondatore del Partito Comunista Cinese. Durante la Rivoluzione Culturale, il padre fu allontanato da Mao e a Xi Jinping toccò la sorte di molti suoi giovani coetanei: costretto alla rieducazione nelle campagne venne mandato in un remoto villaggio dello Shaanxi, dove per sette lunghi anni visse in una cava. Una volta abbandonata la vita bucolica, diventò membro del Partito con il quale iniziò la sua lunga carriera politica che lo condusse negli anni Ottanta a governare l’Hebei, poi il Fujian, la ricca provincia dello Zhejiang, fino a diventare capo del Partito a Shanghai. Il secondo a dover lasciare la propria posizione sarà l’attuale Primo Ministro Wen Jiabao, recentemente accusato dal New York Times di aver favorito l’arricchimento della sua famiglia durante il proprio mandato. La poltrona di nonno Wen verrà probabilmente occupata da Li Keqiang, altro membro del Comitato Permanente e attuale vice-premier cinese, grande sostenitore delle politiche della passata amministrazione e noto ai più per le proprie posizione riformiste.

 

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IN POLTRONISSIMA – Non meno importanti, durante il Congresso dovranno essere riassegnate 7 delle 9 poltrone che attualmente compongono il Comitato Permanente del Politburo, la vera stanza dei bottoni dell’Impero di Mezzo, sebbene indiscrezioni non confermate rivelino il desiderio dell’uscente dirigenza cinese, e in particolare della fazione alla quale appartiene il Presidente Hu Jintao, di ridurne il numero a 7. All’interno del Partito Comunista Cinese, infatti, sono da sempre presenti delle fazioni in lotta, che sono andate proliferando con l’avvio delle riforme economiche e la conseguente moltiplicazione degli interessi all’interno della stessa Cina. E’ proprio nella dialettica tra queste fazioni che gli analisti più fiduciosi identificano il trampolino di lancio per un futuro modello di democrazia intra-partitica. Tra le fazioni in competizione, forse le più note sono quelle la cui condizione di appartenenza è determinata dall’origine all’interno della classe politica dei suoi membri. Il grande scontro vede contrapporsi i taizidang, noti come “principini rossi” in quanto figli dell’aristocrazia comunista che ha affiancato Mao Zedong durante la rivoluzione, ai tuanpai, leader provenienti dalla base del Partito che si sono formati all’interno della Lega della Gioventù comunista. Alla prima fazione, oltre all’uscente Primo Ministro Wen Jiabao e al futuro Presidente Xi Jinping sono riconducibili Wang Qishan, attuale vice premier con delega agli affari economici, energetici e finanziari e Yu Zhengsheng, attuale segretario del Partito per la Municipalità di Shanghai, entrambi in lizza per occupare le poltrone vacanti del Comitato Permanente. Mentre tra le fila della seconda fazione, oltre a Hu Jintao e l’attuale vice premier Li Keqiang ritroviamo altri possibili futuri membri del Comitato Centrale come Wang Yang, segretario del Partito della provincia del Guangdong, Li Yuanchao, direttore dell’Ufficio Organizzativo del Partito, e Liu Yunshan, direttore dell’Ufficio Propaganda.

 

LA STABILITÀ PRIMA DI TUTTO – La costante presenza del termine wending, che nella lingua cinese esprime il concetto di stabilità, all’interno degli slogan coniati dai leader cinesi presenti e passati, quali Mao, Deng, Jiang e lo stesso Hu Jintao, è solo una riprova dell’importanza che tale concetto abbia sempre rappresentato nelle linea politica del Partito. Il mantenimento di un ambiente politico e sociale stabile è la condizione necessaria per garantire lo sviluppo economico e il benessere della popolazione cinese, sulla quale attualmente si fonda la legittimità del potere del Partito stesso. Forse nel caso cinese, più che l’indice di gradimento dei vari candidati, come ci si aspetta in genere dalle elezioni politiche, sarà proprio la ricerca del giusto equilibrio tra le fazioni in campo a determinare la ricetta vincente per la stabilità di un Paese, in cui i saggi da sempre insegnano che quando si assume un alimento non bisogna chiedersi se piace, ma a che cosa farà bene.

 

Martina Dominici

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Rafael Corre(a) ancora

A febbraio gli ecuadoriani andranno al voto per eleggere il loro nuovo Presidente della Repubblica. In pole position il leader uscente, Rafael Correa, che attraverso un intenso programma di riforme sociali – una versione meno “estrema” del socialismo di matrice chavista – ha ottenuto risultati importanti. L’opposizione sembra frammentata ma vuole giocare comunque le proprie carte

 

ECUADOR, SI VOTA – Il prossimo 13 febbraio si svolgeranno le elezioni presidenziali in Ecuador. In questi giorni si è fatto avanti colui che potrebbe rivelarsi il principale oppositore di Rafael Correa, l’attuale presidente e candidato -anche se non ancora ufficialmente- ad ottenere un secondo mandato. Si tratta di Guillermo Lasso, di professione banchiere,votato all’apertura commerciale. Lo slogan di Lasso è la lotta contro la povertà, la promozione del lavoro, della sicurezza, della libertà d’espressione e la lotta contro la corruzione. Afferma che l’attuale Presidente non è quello del 2006, quando vinse la sua prima competizione elettorale, in riferimento alla crisi di fiducia che attraversa la Presidenza con le classi popolari. Negli ultimi mesi Rafael Correa infatti è stato oggetto di una dura contestazione da parte della classe contadina che si oppone ai progetti di sfruttamento delle risorse minerarie promossi dal governo. Correa ha cercato di calmare gli animi sostenendo che la gestione progressista del paese, ispirata alla teoria del socialismo del Secolo XXI (il cui principale esponente è Hugo Chávez) non è in discussione ma che la rivoluzione deve adeguarsi  alle esigenze dell’economia moderna.

 

I SUCCESSI DI CORREA – Ciononostante non sarà facile “detronizzare” Rafael Correa dal posto di Presidente della Repubblica. Il suo bilancio infatti include risultati significativi. Dal 2006 ad oggi ha più che triplicato la spesa sociale (salute, educazione). Inoltre ha implementato iniziative popolari come il buono di sviluppo umano per le famiglie più povere, il Banco Nacional de Fomento, una nuova istituzione bancaria che presta credito alle famiglie a tasso agevolato del quale beneficiano attualmente 60.000 famiglie, o ancora il buono per la casa che ha favorito 200.000 famiglie. Il rapporto debito pubblico/PIL del 22% è il più basso mai fatto registrare dal paese.

 

CE LA PUO’ FARE? – Gli ultimi sondaggi vedono il Presidente ottenere un’approvazione del 55%, la più elevata tra i dirigenti del continente, cosa che gli consentirebbe una vittoria al primo turno. Correa non sembra soffrire quindi della crisi che colpisce solitamente le amministrazioni uscenti mentre addirittura è sopravvissuto ad un tentativo di “golpe” tentato dalla polizia nazionale nel 2010. La sua posizione appare comunque meno solida che nel 2006 quando lanciò una grande riforma conclusa con l’approvazione di una nuova Costituzione, un processo di rinnovamento che rivaluta i diritti delle classi indigene, la protezione ambientale, l’accesso a educazione e salute per i più poveri. La coalizione di sinistra, la sponda dalla quale proviene Correa, ha però preso le distanze dall’attuale leader e presenterà una candidatura indipendente nella figura di Alberto Acosta, ex uomo forte del partiro Correista Alianza Popular. Inoltre la opinione pubblica di Rafael Correa è stata deteriorata dalla crisi che ha visto due giornalisti del “Universo”, una nota testata ecuadoriana, condannati per calunnia per poi essere graziati dal Presidente, e la chiusura di sei università private nel quadro di un progetto presidenziale che pretende aumentare il livello dell’educazione superiore eliminando le istituzioni che non rispettino alti standard di qualità.

 

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L’OPPOSIZIONE – È su questo che si appoggia Guillermo Lasso nella sua corsa al palazzo presidenziale. Non è un caso che per compagno di viaggio nella contesa elettorale abbia scelto come vicepresidente candidato, il rappresentante indio Auki Tituaña, il primo individuo originario di una minoranza etnica ad accedere alla carica di sindaco in Ecuador. La mossa di Lasso sembra diretta a conquistare il voto popolare che è stato un bacino di Correa durante l’intera durata della sua gestione, anche se però la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador ha espulso Tituaña al momento di conoscere la sua scelta di alleanza con la destra. Nella stessa direzione va la proposta di Lasso di aumentare il buono di sviluppo da 30 a 50 dollari per famiglia. Alcuni analisti però sostengono che l’utilizzo di strategie già appartenenti alla corrente Correista non gli permetteranno di vincere il duello. Inoltre, Lasso dovrà fare i conti con una opposizione divisa, che oltre al candidato di sinistra Acosta, vede sul fronte più conservatore (quello prossimo a Lasso) non meno di atri tre candidati credibili come l’ex presidente Abdalá Bucaram, Lucio Gutiérrez, che i sondaggi accreditano come principale contendente di Lasso con rispettivamente il 16% di preferenze contro 22%, e Alvaro Noboa, l’uomo più ricco del Ecuador. A ben vedere, ci sono differenze sostanziali tra i due contendenti. Guillermo Lasso ha dichiarato apertamente che cercherà d’aumentare il commercio con il maggior numero di paesi. Si intravede il colore del suo gioco, con un riferimento chiaro alla ripresa dei negoziati con gli USA quanto alla sottoscrizione di un Trattato di Libero Scambio, una opzione sulla quale Correa aveva posto il veto a favore di una politica protezionista basata sul controllo dell’inflazione e la protezione dei posti di lavoro. Secondo le ultime stime della Banca Centrale Ecuadoriana, la crescita del paese si aggira attorno al 5%, una delle più dinamiche del continente, in aumento di 8 punti dall’anno scorso. Il dato che però più importa è che la crescita sia stata spinta dall’aumento del settore privato produttivo, principalmente la pesca e la piscicoltura, la costruzione, che nell’ultimo periodo hanno registrato un aumento dell’1,48% mentre il settore petrolifero, l’asset principale del paese, solo del 0,14%.  L’opzione di Correa di non far dipendere l’economia del paese unicamente dalla produzione di greggio la dice lunga sulla sua visione di sviluppo considerando che ha negoziato davanti all’ONU un compenso per non sfruttare, ed evitare quindi il conseguente danno ambientale, i giacimenti petroliferi del Parque Yasuni, dichiarato Riserva della Biosfera dall’UNESCO. In cambio Quito dovrebbe ricevere 3.600 milioni di dollari dalla Comunità Internazionale, l’equivalente della metà dei profitti che si ricaverebbero dall’estrazione dei circa 800 milioni di barili che si stima giacciano al di sotto di questo territorio situato nei pressi della foresta amazzonica.

 

IL RAPPORTO PROBLEMATICO CON GLI USA – Nel caso di una probabile rielezione di Rafael Correa pesa comunque la spada di Damocle rappresentata dalla scadenza nel 2014 delle preferenze commerciali con gli USA delle quali Quito gode nel quadro della CAN per accedere al mercato statunitense e la brusca discesa che hanno sperimentato gli investimenti stranieri negli ultimi anni. Non è un segreto che un cambio al timone venga auspicato internazionalmente, specie da quei paesi che vedono di mal occhio l’amicizia di Correa con il presidente venezuelano Hugo Chávez, con il quale -insieme al boliviano Evo Morales- forma parte del movimento riformatore d’ispirazione marxista che si è installato nel subcontinente nell’ultimo decennio.

 

Gilles Cavaletto (da Santiago del Cile)

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Cinque per quattro (more years)

Alcune brevi note sulla vittoria di Obama, dalla demografia degli elettori, fino alla politica internazionale, passando per il valore della riforma sanitaria, la ripresa dell’economia e l’impatto mediatico dell’uragano Sandy. Cinque domande per i prossimi quattro anni

 

CHI SONO STATI GLI ELETTORI DI OBAMA? – Secondo i primi dati, Obama avrebbe ricevuto ampio sostegno dalle minoranze – sempre meno minoritarie – schieratesi con i democratici senza ombra d’incertezza. Basti pensare che hanno votato per il Presidente il 69% degli ispanici, il 74% degli asiatici e il 93% degli afroamericani (tuttavia, l’affluenza di questi ultimi è del 13%). Quanto ai bianchi, l’apprezzamento è stato quasi al 70% per Romney. Altro apporto significativo è stato quello delle donne, in particolar modo non sposate, che avrebbero scelto Obama per circa il 60%, mentre gli uomini avrebbero tendenzialmente preferito il repubblicano (45%). Tra i giovani, Obama sembrerebbe aver perso qualche consenso, ma si mantiene tra il 60% e il 65%, mentre gli over 64 hanno gradito di più Romney (51%). Riguardo alle comunità religiose, si è parlato molto dell’appoggio dei cattolici per Obama (55%), però è necessario prestare attenzione fino a quando non si avranno dati certi, poiché si potrebbe rischiare una sovrapposizione tra alcune etnie e i fedeli della Chiesa. Comunque, secondo le stime, Romney avrebbe dalla propria la schiacciante maggioranza dei protestanti, soprattutto delle comunità evangeliche, mentre il Presidente avrebbe conquistato il 70% degli ebrei (-8% rispetto al 2008). Le cifre proposte, tuttavia, sono ancora provvisorie.

 

QUAL È STATO IL RUOLO DEL NUOVO WELFARE DI OBAMA? – La demografia degli elettori democratici è connessa anche alla contestata riforma sanitaria voluta da Obama: queste elezioni per molti sono state una sorta di referendum sull’ampliamento del welfare negli Stati Uniti, al punto che l’argomento è stato al centro del dibattito dei candidati. Per esempio, alcune considerazioni nelle quali il repubblicano sosteneva di non volersi interessare di quei cittadini che attendano l’assistenza dello Stato hanno nociuto a Romney. È assai probabile che vi sia una correlazione tra la persistenza del favore concesso dalle minoranze a Obama e le misure per l’accesso più diffuso alla sanità, considerato che il sistema statunitense esclude i meno abbienti da molti dei servizi per la salute.

 

I SEGNALI DI RIPRESA ECONOMICA HANNO FAVORITO IL RISULTATO? – Obama è l’unico leader occidentale che ha assistito al dirompere della crisi economica ed è riuscito a mantenere il proprio incarico. Berlusconi, Brown, Sarkozy e Zapatero, sebbene in momenti e per cause diversi, sono usciti dalla scena con pesanti accuse circa la gestione dell’emergenza. L’economia è stata l’altro grande tema della campagna elettorale – addirittura è stato chiamato in causa Marchionne – e spesso lo scontro ha riguardato quale modello fosse migliore per il riavvio della produzione e dei consumi. Non è un caso che uno degli swing State fosse proprio l’Ohio, nel quale la componente operaia e industriale è molto forte. Alcuni segni di ripresa si sono cominciati a vedere, con 171mila nuovi posti di lavoro creati e una crescita prevista del PIL del 2%, nonostante non tutti gli osservatori siano concordi nel ritenere che questi dati siano stati a vantaggio di Obama. A incidere, piuttosto, potrebbe essere stata la concezione pragmatica che l’interruzione del corso del Presidente sarebbe potuta essere controproducente: meglio garantire ai progetti di Obama una continuità su due mandati.

 

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QUALI SONO STATE LE CONSEGUENZE DELL’URAGANO SANDY? – Sulle elezioni ha senz’altro inciso il passaggio dell’uragano Sandy sulle coste orientali degli Stati Uniti, a fine ottobre. Per alcuni giorni, la campagna elettorale è stata sospesa, cosicché anche i candidati hanno evitato dichiarazioni o interventi politici sull’argomento. Il contesto ha senz’altro costituito un vantaggio per Obama, il quale, di fronte all’opinione pubblica, non appariva come un concorrente alla Casa Bianca, bensì come il Commander-in-chief, che, trascendendo dal ruolo di Presidente, diviene la guida della Nazione. La leadership di origine militare – adattata all’emergenza – ha unito gli statunitensi attorno alla propria massima carica, sintesi del Paese. Di per sé, la costa nord-orientale è presidio dei democratici, ma, quest’anno, sono stati in bilico New Hampshire, Pennsylvania, Virginia e North Carolina, tutti, tranne l’ultimo, conquistati da Obama: l’uragano Sandy ha senz’altro creato condizioni favorevoli al Presidente. In merito, il sindaco di New York, Bloomberg, ha dichiarato che, fintanto che non si abbiano prove circa un collegamento tra l’uragano spintosi fino al New England e i cambiamenti climatici, sia importante supportare il Presidente, poiché sensibile ai temi ambientali.

 

PER CHI PARTEGGIAVA LA POLITICA INTERNAZIONALE? – La maggior parte della comunità internazionale sosteneva Obama. Da un lato, il Presidente – riprendendo il ruolo di Commander-in-chief – è riuscito a eliminare Osama bin Laden, dall’altro è stato capace di ripristinare un dialogo con il mondo islamico che era stato perduto negli anni precedenti. La politica estera americana sin qui non ha avuto una grande pervasività, mostrando anzi incertezze e contraddizioni, in primo luogo sulla Primavera araba. Gli Stati Uniti stanno affrontando un periodo di retrenchment, un ripiegamento militare e diplomatico a livello globale giustificato con l’emergenza economica, sebbene del tutto allineato con il riassesto degli equilibri geopolitici mondiali: Washington sta concentrando le risorse nell’Oceano Pacifico, considerato nel lungo periodo lo scenario prioritario, l’inevitabile scacchiere di scontro con la Cina. Bisogna considerare, inoltre, che Obama è l’unico presidente dal 1989 a non aver avviato un nuovo conflitto militare, limitandosi ad amministrare le operazioni precedenti. Più ambigui, invece, i rapporti con Israele e, in particolar modo, con Netanyahu: non è un mistero che il Primo Ministro preferisse Romney, per la maggiore propensione a mantenere toni minacciosi con l’Iran. In questo senso, Obama ha sempre preferito evitare scontri diretti con le altre potenze, privilegiando il controllo delle posizioni e spostando gli obiettivi principali del proprio mandato nel contesto interno. Una notazione sul petrolio: il calo dei prezzi precedente le elezioni è stato un chiaro segnale di posizionamento del mercato in favore di Obama. In Europa, gli apprezzamenti erano tutti per il Presidente: considerato il rapporto altalenante tra Washington, Bruxelles e i singoli Paesi, si preferivano le tenui aperture di Obama alla rigidità liberista di Romney.

 

Beniamino Franceschini

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La geopolitica del fracking

Prosegue il nostro focus sul fenomeno fracking. In quest’articolo approfondiamo quanto sconvolgenti possano essere gli impatti di questa rivoluzione per l’equilibrio geo-energetico globale. L’autosufficienza americana e la fobia russa: le due facce della stessa medaglia

 

LE NUOVE POTENZE – Lo sviluppo del fracking sta comportando l’affacciarsi sullo scenario energetico mondiale di nuovi soggetti un tempo in secondo piano. Grazie allo sviluppo della nuova tecnica, alcuni stati, prima in pesante deficit energetico, si stanno imponendo come nuovi leader mondiali dell’energia: è il caso di Stati Uniti e, in prospettiva, Cina.

 

Considerando il solo gas naturale, gli Stati Uniti sono diventati in pochissimo tempo uno dei massimi produttori di gas mondiale e, proprio al centro della campagna elettorale, si trova il dibattito sull’indipendenza energetica del paese: un tema considerato utopistico qualche anno fa e che oggi, sviluppando adeguatamente le risorse non convenzionali, potrebbe trasformarsi in realtà.

 

Se gli USA sognano l’indipendenza energetica, anche la Cina può sorridere dato che siede sul più grande giacimento di gas non convenzionale del mondo (1.275 bilioni di piedi cubi tecnicamente recuperabili contro gli 862 statunitensi – stima US Energy Dept.) e, proprio su queste basi, il governo cinese ha pianificato, nel Dodicesimo piano quinquennale per l’energia, di arrivare a soddisfare nel 2020 il 6% della propria domanda di gas con risorse cinesi non convenzionali: niente male per un paese alla continua ricerca di energia per sostentare la sua galoppante crescita. Tuttavia va detto che la Cina è ancora indietro rispetto a tali progetti di sviluppo, avendo appena adesso approvato i primi contratti di esplorazione. Serviranno dunque ancora anni perché lo shale gas possa diventare un serio fattore che cambi gli equilibri energetici del paese.

 

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I VECCHI “REAZIONARI” – Di fronte a questa ondata di risorse non convenzionali, tutti i vecchi signori dell’energia (dall’OPEC alla Russia) si trovano in grossa difficoltà perché vedono intaccata quella che era la loro enorme sfera di influenza.

 

In particolare in Russia parecchia eco stanno suscitando le voci di una possibile esportazione del gas americano e addirittura della scoperta di giacimenti non convenzionali in Europa orientale. Queste due notizie, già di per sé destabilizzanti, unite possono risultare davvero scioccanti per l’intero sistema economico e politico di una nazione che ha passato gli ultimi 2 decenni (la cosiddetta era Putin) a costruire la propria strategia di lungo periodo sull’energia e che oggi vedrebbe quantomeno ridimensionato il suo ruolo di serbatoio energetico europeo e mondiale.

 

E’ un ridimensionamento che lo Zar vuole evitare a tutti i costi: da qua le voci, non del tutto confermate ma assolutamente logiche, che vedono la Russia, e il suo braccio energetico Gazprom, dietro le proteste anti-fracking in Bulgaria che hanno poi portato alla sospensione delle licenze per perforare orizzontalmente sul territorio bulgaro.

 

Del resto il nuovo boom energetico statunitense sta già influenzando le strategie russe: Mosca ha deciso di fermare lo sviluppo del giacimento gigante di gas di Shtokman, nel mare Artico, poiché gli alti costi coinvolti, uniti alle previsioni di abbassamento dei prezzi di gas, lo avrebbero fatto diventare non conveniente.

 

Ad oggi non è ancora possibile definire come si ridisegnerà lo scacchiere energetico globale, di certo il sistema di potere mondiale che verrà fuori da questa rivoluzione sarà diverso da quello attuale e, come in ogni rivoluzione, i “vecchi reazionari” lotteranno per non cedere il passo.

 

Giorgio Giuliani

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Per un pugno di voti

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Anche se l’uragano Sandy ha sconvolto le vite degli americani della costa est, sottraendo agli onori della prima pagina gli ultimi giorni della campagna presidenziale, nel giorno delle elezioni gli elettori s’interrogano su quale scenario si profilerà per gli Stati Uniti qualora sia riconfermato Obama oppure Romney riesca a guadagnare una vittoria che fino a pochi mesi fa sembrava un traguardo irraggiungibile

 

Tra la crisi economica che continua a far sentire i suoi effetti nefasti e le preoccupazioni legate alle spese per la ricostruzione post uragano (circa 50 miliardi di dollari, secondo quanto stimato il 1 novembre da Eqecat, un’agenzia specializzata nell’analisi di eventi catastrofici), i riflettori in questo momento sono rivolti sull’economia e le proposte che i due candidati hanno avanzato per riportare in pista il paese.

 

IL PIANO DI OBAMA – Dalle pagine del sito liberal Saloon.com, l’opinionista Alex Pareene sostiene che l’economia migliorerà in ogni caso, anche se molto lentamente. Moody’s ha dichiarato che nei prossimi quattro anni, si creeranno 12 milioni di nuovi posti di lavoro. Il Congresso, che tiene in considerazione gli effetti del “fiscal cliff”, la manovra che dall’1 gennaio 2013 porterà a un aumento delle tasse per lavoratori e imprese, oltre che a un taglio delle spese per la difesa e per il programma Medicare, sostiene che i nuovi posti di lavoro saranno solo sette milioni. La Federal Reserve prevede una crescita del PIL ma tassi di disoccupazione ancora elevati, rispetto agli anni prima della crisi. Risolvere il problema dei mutui insoluti potrebbe essere una delle prime iniziative del secondo mandato di Obama. Per cominciare, la Casa Bianca ha suggerito che potrebbe licenziare Edward DeMarco, l’odiato direttore della Federal Housing Finance Agency, il quale ha aiutato più le banche che i cittadini in difficoltà sui mutui. Un’altra questione che sta molto a cuore agli americani è quella delle tasse. Dalle pagine di Forbes l’opinionista Peter Ferrara si scaglia contro la proposta di Obama di eliminare la maggior parte dei tagli e degli incentivi introdotti da Bush figlio nel 2001 e 2003. Obama sostiene che una politica fiscale che favorisce le aziende e i redditi più alti, insieme a un’eccessiva deregolamentazione dei mercati finanziari, sono stati tra le maggiori cause della crisi del 2008. Tuttavia, la posizione dei repubblicani è che i tagli alle tasse favoriscono l’espansione economica perché incoraggiano consumi e investimenti: proprio quello di cui gli Stati Uniti hanno disperatamente bisogno. Per quanto riguarda la deregulation, Ferrara identifica l’origine della crisi dei mutui nella “National Home Ownership Strategy”. Annunciata dal presidente Clinton nel giugno 1995 con l’intento di favorire l’acquisto di prime abitazioni, tale politica ha dato luogo a una serie d’interventi che hanno rilassato oltremisura i criteri utilizzati dalle banche per concedere mutui.

 

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IL PIANO DI ROMNEY – Nei dibattiti televisivi e negli spot elettorali, Romney insiste sull’incapacità di Obama di portare il paese fuori dalla crisi economica. I risultati conseguiti negli ultimi quattro anni, afferma il candidato repubblicano, sono stati del tutto inadeguati e il programma per la rielezione, che si snoda sulle stesse linee, rischia di portare ad una recessione. Ma secondo Alex Pareene, se Romney dovesse vincere, le conseguenze del suo programma economico sarebbero catastrofiche. La più popolare (o populista) tra le proposte di Romney per rilanciare l’economia è di rendere permanenti i già citati tagli alle tasse introdotti da Bush. Un’altra priorità è ridurre la pressione fiscale per le imprese dal 35 al 25%. Ma per far quadrare il budget, saranno necessari dei tagli e questo è il punto su cui la campagna di Romney è più controversa e carente. Romney promette di smantellare “Obamacare”, la riforma sanitaria che ha esteso il diritto all’assicurazione medica a milioni di americani che ne erano privi. Anche il programma Medicaid, che fornisce copertura sanitaria alle famiglie a basso reddito, e che rischia di portare il paese in bancarotta, dovrà essere riformato. Lo scenario più probabile è che Romney lo consegni nelle mani dei singoli stati che, verosimilmente, cercheranno di spendere il meno possibile. In sintesi, sotto Romney si profila uno scenario in cui le spese per la difesa e i tagli alle tasse avranno la precedenza sulle spese per l’assistenza sanitaria e i sussidi di disoccupazione. Gli elettori, esasperati da una crisi che dura da oltre quattro anni, si trovano di fronte ad una scelta critica. Devono decidere se fidarsi di Romney che promette una ripresa immediata senza dire da dove preleverà i soldi per stimolare l’economia, oppure rinnovare il mandato a Obama, che richiede altri sacrifici, ma prospetta una crescita più organica e sostenibile. Il responso, assolutamente imprevedibile, lo avremo tra pochissimi giorni.

 

Esther Leibel

The time has come…

Inutile tentare di distrarre l'attenzione mediatica dall'appuntamento clou della settimana, che è comunque destinata ad aprirsi e chiudersi nel segno delle elezioni statunitensi dopo una campagna elettorale infinita e stremante per i candidati. L'opposizione siriana ritenta il passo dell'unione politica per dare linfa vitale ai ribelli schierati sul campo mentre in Laos va in scena il nono meeting euroasiatico

EUROPA

Mercoledì 7 – La Commissione Europea è chiamata a rilasciare le sue previsioni di “crescita” del prodotto interno lordo, disoccupazione ed economia pubblica dell'UE per il periodo 2012-2014, mentre la crisi economico finanziare continua a stringere la sua presa sugli indicatori base. L'appuntamento autunnale con la conferenza stampa in questione della Commissione Europea è solo uno dei tre periodi di analisi economica dell'UE, cui si somma l'appuntamento invernale di Febbraio e quello primaverile. L'ingrato compito di annunciare “le sorti regressive” dell'area euro, spetteraà dunque al Commissario Ollie Rehn, ormai assurto a simbolo del rigore di Bruxelles.

SCOZIA – Herman Van Rompuy offre una sponda di salvezza a Londra, nel dibattito senza capo ne' coda a proposito della secessione scozzese tramite referendum in programma per il 2014. In una sessione di Q&A su youtube, il Presidente del Consiglio Europeo ha dichiarato “Nessuno ha niente da guadagnare dal separatismo nel mondo di oggi che a prescindere dal fatto che piaccia o meno, è effettivamente globale”. A tale argomento inoppugnabile, l'eurocrate ha poi aggiunto “Abbiamo davanti a noi così tante sfide superabili solo grazie all'unione delle nostre forze che il separatismo non può esserci d'aiuto. La parola del futuro è Unione. Parole da leader su una questione infinitesimale rispetto agli impegni di Bruxelles, speriamo che tale coraggio da leone si mostri anche davanti alle gelosie nazionalistiche nell'arena dell'integrazione europea.

AMERICHE

Martedì 6 – Il dado è tratto, il countdown per le elezioni americane è ormai agli sgoccioli e anche la campagna per gli stati in bilico dovrà cessare per il consueto silenzio elettorale alla vigilia della battaglia finale. A Mitt Romney va senza dubbio il merito di aver saputo riempire il vuoto lasciato dalle primarie con la sconfitta dell'estremista illuminato Rick Santorum, avvicinandosi allo spauracchio del pareggio negli stati decisivi per la vittoria. Barack Obama da parte sua ha vissuto di rendita, utilizzando la politica estera iper-realista e la riforma del sistema sanitario quali scudi alle critiche per lo stato dell'economia. A parlare sono quindi stati gli scandali fiscali della compagnia del magnate repubblicano e gli endorsement dei grandi nomi dei media come Murdoch e Bloomberg. Agli elettori restano le briciole dell'incertezza, dopo quella che passerà alla storia come la campagna presidenziale più costosa della storia degli States.

CUBA – Si sta rivelando un'incredibile meteora il sogno petrolifero tanto ambito dall'ala riformista di Raul Castro in una Cuba dove il greggio sembrava l'unico freno alla crisi energetica. In un annuncio pubblico di sabato, le autorità dell'isola hanno dichiarato il fallimento del terzo sondaggio sperimentale al largo del Golfo del Messico. La delusione però non riempe solo i palazzi del potere de l'Avana ma anche Caracas, che puntava forte sullo sviluppo energetico dell'alleato cubano. Già altri due tentativi quest'anno, uno da parte dell'ispanica Repsol, l'altro in cooperazione tra Petronas e Gazprom hanno rivelato l'inesistenza di fonti significative dal punto di vista commerciale. 

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ASIA

Lunedì 5-Martedì 6 – Si apre oggi a Vientiane, capitale laotiana, il nono Asia-Europe Meeting, l'incontro tra Oriente e vecchio Occidente tenutosi per la prima volta nel 1996 passando rapidamente da 26 a 48 paesi partecipanti. Con il tema “Amici per la Pace, Partners per il Benessere” l'appuntamento sarà un'occasione unica per dare rilievo globale alle varie questioni regionali ed internazionali scoppiate negli ultimi mesi nel Bacino del Pacifico. Grande attesa per il faccia a faccia ufficiale tra Cina e Giappone dopo le vicissitudini sulle Diaouyu/Senkaku e sul fascicolo “Myanmar”, paese sul quale Cina e Blocco occidentale continuano a lottare a colpi d'investimenti ed aperture.

MYANMAR – Per l'industria del sottosviluppo, il Myanmar rischia di diventare una tappa imprescindibile dopo l'incredibile riforma economica che rompe gli indugi per gli investimenti stranieri nel paese controllato dai militari. Libertà di fondare compagnie 100% straniere, salvaguardia delle stesse dall'esproprio, astensione fiscale per i primi 5 anni e tasse dimezzate sui profitti derivanti dall'export, queste le ricette del miracolo made in Pyinmana. Infine, a conclusione delle 4 rivoluzioni di dengxiana memoria, ecco servito anche l'accordo tra Governo e VISA per l'apertura dei circuiti di credito nel paese, un passo necesario per spingere sulla leva preziosa del turismo.

MEDIO ORIENTE

Lunedì 5-Giovedì 8 – Centinaia di rappresentanti delle più disparate e lontane fazioni politico-indentitarie siriane si sono riuniti domenica a Doha dove per 5 giorni tenteranno di dar vita e sostanza al dopo Bashar al-Assad, mentre nel paese infuria la guerra civile. Sempre domenica i ribelli hanno continuato la manovra d'assalto alla base aerea di Taftanaz, da cui decollano jet e elicotteri lealisti con cui il regime domina i cieli. Un'esplosione ha quindi seriamente danneggiato l'Hotel Dama Rose di Damasco ferendo gravemente almeno 7 persone. Il governo israeliano ha lamentato da parte sua nel week-end la violazione da parte di tre tank dell'esercito siriano della zona demilitarizzata delle alture del Golan, territorio conteso al confine tra i due stati. Dopo una tregua nemmeno abbozzata e l'ennesimo fallimento di mediazione a guida ONU e Lega Araba, la Siria è nuovamente nel caos.

IRAN – Quando la scelta ricade tra burro e cannoni e i venti di guerra soffiano senza sosta, il dilemma è in realtà una domanda retorica, almeno in terra iraniana. Nonostante le condizioni strazianti dell'economia di Tehran, le Guardie Rivoluzionarie hanno inaugurato una nuova base navale a ridosso delle tre isole in disputa con gli EAU nello Stretto di Hormuz. Il controllo su Grande Tunb, Piccola Tunb e Abu Musa, questi i nomi delle isole contese, diventa sempre più materia scottante, mentre il Presidente Mahmoud Ahmadinejad sarà chiamato a comparire in parlamento per riferire della gestione dell'economia pubblica e del rial in questo periodo di crisi nera.

Fabio Stella [email protected]

L’invincibile Hugo (II)

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Seconda parte della nostra analisi sulla realtà venezuelana all’indomani della rielezione di Hugo Chávez. Cosa resta di questo lungo periodo al governo del leader di Caracas, e quali le prospettive per il prossimo mandato? Se in politica interna la forza del Presidente bolivariano è per il momento ancora inconfutabile, in politica estera rimangono dubbi sulla scelta degli orientamenti e l’opportunità di alcune “amicizie” scomode

 

IL CHAVISMO, UN REALTÀ COMPOSITA – Negli anni, Chávez si è contraddistinto per grandi dosi di populismo, un’attenzione sicura ai temi sociali, ma a discapito del rispetto delle forme democratiche, un notevole interventismo, spesso maldestro in economia, con frequenti espropri d’imprese private e fughe d’investitori internazionali; un controllo assoluto dei mezzi di comunicazioni pubblici (leggendari i suoi programmi Aló Presidente, trasmessi per ore e ore dalle catene pubbliche unificate), una feroce retorica antiamericana (che convive con importanti flussi commerciali, il greggio venezuelano è esportato soprattutto negli Usa), un notevole attivismo internazionale, particolarmente penetrante in America Latina (mediante l’ALBA), eterodosso e più sterile fuori dalla regione (alleanze anti – sistema con Iran, Bielorussia, Zimbabwe, Corea del Nord). Chávez s’è ripromesso di sostituire Fidel Castro come leader alternativo, mentre è divenuto la stampella del comunismo cubano mediante la generosa assistenza economica, che ha sostituito per L’Avana quella di Mosca.

 

La domanda dunque è: cosa resterà di tutto questo nel nuovo mandato?

 

UNA GESTIONE ECONOMICA INSUFFICIENTE – È chiaro che la gestione economica del chavismo non può essere considerata soddisfacente: la necessaria diversificazione dell’economia venezuelana non è avvenuta: petrolio e derivati continuano a monopolizzare la bilancia commerciale, senza che altri settori produttivi vengano sviluppati. Anzi, possiamo dire che la dipendenza dal petrolio è probabilmente aumentata. Il continuo agire a colpi d’espropri, controlli e interferenze nel funzionamento del mercato ha ridotto al minimo l’efficienza economica, giungendosi al paradosso che in un paese con enormi risorse potenziali al di là dell’oro nero, sono venuti spesso a mancare alimenti e energia. Gli investitori esteri vengono scoraggiati e lasciano il paese temendo l’incertezza giuridica imperante: questo non aiuta di certo a diversificare e sviluppare l’economia in beneficio della popolazione. In conclusione, questo trend, alimentato dalla vocazione alla rottura e al confronto permanente, pare difficilmente sostenibile, e richiederà per forza correzioni, anche se per il petrolio non si prevedono riduzioni di prezzo in futuro (ma anche su un’economia mono-prodotto come la venezuelana la crisi si è fatta sentire eccome).

 

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LA DIPLOMAZIA DEL PETROLIO E NUOVI SCHEMI D’INTEGRAZIONE REGIONALE – La diplomazia petrolifera di Chávez, tesa a fare del paese un nuovo leader alternativo dell’America latina e del Sud, sostituendo Cuba, non è stata priva di successi: Caracas ha preso il posto di Mosca come finanziatore di Cuba, ma soprattutto ha avviato nuovi processi d’integrazione regionale, come ALBA e Petrocaribe  che hanno rimescolato abbastanza le carte nella regione (vedasi anche: http://stefanogatto.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=120%3Anouvi-venti-dintegrazione-in-america-latina&catid=37&lang=it). I primi due sono fondati essenzialmente sulla fornitura di petrolio a basso prezzo e favorevoli condizioni di pagamento a paesi e interlocutori “amici” (ad esempio, municipi di sinistra nei paesi i cui governi non sono in sintonia con il chavismo).

 

Il Venezuela è anche molto attivo in UNASUR, la comunità di nazioni sudamericane che, sotto la leadership brasiliana, ha cominciato a pesare parecchio nella regione (si pensi alle deposizioni contestate di Zelaya in Honduras e di Lugo in Paraguay, e alla fermezza in proposito da parte di UNASUR e in conseguenza di buona parte della comunità internazionale, in una chiara dimostrazione di libertà dal pensiero di Washington). La nascita di CELAC, comunità dei paesi americani che esclude Stati Uniti e Canada e che vuole progressivamente emarginare l’OEA, istituzione contestata, a lungo vista come succube a Washington e ultimamente alla ricerca di una nuova identità e credibilità con il suo segretario generale Insulza, è un’altra dimostrazione degli effetti dell’attivismo venezuelano.

 

Importantissima anche l’entrata del Venezuela nel Mercosur, materializzatasi a seguito della sospensione del Paraguay dal blocco successiva alla deposizione di Lugo: il Mercosur è un blocco di per sé in crisi, ma che potrebbe essere revitalizzato dall’ingresso, per altro problematico in termini tecnici, del Venezuela e del suo petrolio. L’attivismo regionale di Chávez continuerà a dipendere essenzialmente dai corsi del petrolio, che lo alimenta, e dalla salute del presidente, che non gli permetterà di mantenere il ritmo frenetico degli ultimi anni. Interessante però notare come alla profonda caratterizzazione ideologica di certi schemi (ALBA, Petrocaribe) si associ poi un notevole pragmatismo economico – strategico (Mercosur).

 

La retorica anti – americana, già indebolita dall’elezione di Obama, si manterrà in parte: di fatto, l’amministrazione democratica non tende assolutamente nessun ponte a Caracas. Ma non potrà non temperarsi ulteriormente in caso di rielezione di Obama, che pur senza riservare un interesse eccessivo all’America Latina, adotta un approccio costruttivo nei confronti di quei paesi che si dimostrano più attivi nella dimensione economico – sociale. E sia con Obama che con Romney gli Usa riscopriranno in parte l’importanza dei rapporti economici con una regione poco colpita dalla crisi globale e in franca crescita. Chávez potrà difficilmente sostenere l’immagine dell’orco a stelle e strisce.

 

La diplomazia “provocatrice” globale di Chávez ha già perso alcuni tasselli (Gheddafi) e molti altri sono indeboliti (Iran, Bielorussia, Cuba). L’alleanza “tutti contro gli Usa” porta pochi dividendi e tanti grattacapi: risentirà per forza dell’indebolimento fisico di Chávez, di quello dei suoi partner, quasi tutti molto anziani, e dell’isolamento che essa suppone, nonchè degli scarsissimi risultati concreti.

 

CONCLUSIONI – In conclusione, Chávez si è dimostrato una volta di più imbattibile nell’ambito politico interno, anche se forse per la prima volta dal suo avvento è apparsa un’alternativa con possibilità reali di succedergli. Il chavismo rimane un efficace collante all’interno del paese, potendo poggiare su un ragguardevole consenso. Il suo futuro senza Chávez rimane però molto oscuro, e nei prossimi anni le condizioni di salute del leader rimarranno il fattore – chiave. Probabile però che il chavismo non possa sopravvivere senza il suo carisma. Alcuni aspetti dell’ideologia chavista possono mostrare la corda sul piano internazionale, ma gli effetti della sua azione sugli equilibri latinoamericani non vanno affatto trascurati: il Venezuela è divenuto un attore di peso nelle Americhe. Chávez è personaggio complesso e contraddittorio, che attira le reazioni più disparate e radicali: ma la sua consistenza politica in patria è notevole e la sua influenza internazionale assolutamente da non sottovalutare nè tantomeno dileggiare.

 

Stefano Gatto

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L’invincibile Hugo (I)

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La nuova rielezione di Chávez apre la prospettiva che resti vent’anni alla presidenza del Venezuela, dal 1998 al 2019. Un periodo che avrà marcato profondamente la storia del paese andino e avuto anche importanti influenze sugli equilibri latinoamericani, nei quali il Venezuela bolivariano di Chávez ha influito moltissimo in questi anni, portando vere novità

 

UNA VITTORIA PIÙ CHIARA DEL PREVISTO – Le attese elezioni presidenziali venezuelane si sono concluse con una vittoria del presidente uscente Hugo Chávez più netta del previsto, anche se storicamente si tratta di un’affermazione meno ampia delle precedenti (1998, 2000 e 2006, cui va aggiunta la vittoria nel referendum derogatorio del 2004, che può essere assimilato a un’elezione presidenziale).Con questa vittoria, Chávez si assicura vent’anni di presidenza, dalla prima elezione nel 1998 al 2019, quando scadrà questo suo quarto mandato. Anche se il mistero rimane sul suo stato di salute: il cancro che l’ha colpito nel 2010, curato a Cuba, sembrerebbe essere sotto controllo, ma è impossibile essere sicuri che Chávez sopravviva per tutta la durata di questo nuovo mandato. Non è impossibile che muoia presidente, confermando ciò che molti esponenti dell’opposizione hanno sempre asserito: che Chávez non avrebbe mai lasciato il potere. La vittoria di Chávez è stata, come detto, più ampia di quanto si prevedesse: l’opposizione, unita nella Mesa de Unidad  Democrática (MUD)  attorno al giovane candidato Henrique Capriles (39 anni) ha ottenuto un risultato molto migliore rispetto al 2006, quando il candidato unico dell’opposizione fu l’allora governatore di Zulia Manuel Rosales (32% dei voti in quell’elezione). Capriles, emerso come candidato da un processo di primarie molto opportuno (una divisione delle opposizioni avrebbe consegnato una facile vittoria a Chávez), ha ottenuto il 44.25%, circa sei milioni e mezzo di voti, mentre Chávez il 55.13%, poco più di otto milioni di voti. L’unità dell’opposizione non è però stata sufficiente a sconfiggere la potente macchina del chavismo, che tra l’altra si è imposta in ben 22 dei 24 stati che compongono il paese, compreso lo stato di Miranda, governato fino a pochi mesi fa da Capriles. L’opposizione pensava d’essere vicina alla vittoria, ma Chávez si è dimostrato ancora una volta imbattibile, nonostante la malattia e la difficile situazione economica del paese che, nonostante il peso del petrolio (95% delle esportazioni) paga una gestione erratica, statalista e inefficiente da parte del governo di Chávez, che tra l’altro fa di tutto per scoraggiare gli investimenti esteri.

 

UN PAESE CHE RIMANE PROFONDAMENTE DIVISO – I dati dimostrano però che gli elettori appartenenti alle classi sociali più umili, circa l’80% della popolazione in un paese con grandissime diseguaglianze sociali, rimangono in buona parte attratti dalle politiche di Chávez, imperniate sulle Misiones, programmi di politica sociale redistributiva che, finanziate dai proventi petroliferi, hanno avuto reali effetti, contribuendo a migliorare gli indicatori sociali e a ridurre in certa misura le disuguaglianze. Le classi sociali meno abbienti rimangono quindi molto legate a Chávez, mentre le classi a reddito più elevato confermano il loro schieramento con l’opposizione. Ma il sistema politico venezuelano, radicalmente polarizzato sin dai tempi dell’entrata in politica dell’ex-militare (1998) e del crollo del sistema di partiti tradizionali (AD e COPEI) che aveva governato il paese prima d’allora, sembra comunque incapace di superare la profonda bipolarità, con chiarissima caratterizzazione socio –economica, che lo contraddistingue.

 

UNA PARTECIPAZIONE ELETTORALE IN CRESCITA – Da segnalare l’importante aumento della partecipazione elettorale, che all’80.56% colloca il paesi su livelli di partecipazione inauditi tra i paesi a simile livello di sviluppo e rari in America Latina: nel 2012 hanno votato 15 milioni di persone, contro 11.8 milioni del 2006 (74.7%). Ebbene, sembra che proprio Chávez riesca a captare il voto della maggioranza dei nuovi elettori, che sono anche il frutto delle imponenti campagne di censimento e identificazione portate avanti negli anni dall’amministrazione governativa chavista, che anziché aspettare che i cittadini non censiti (circa un 20% della popolazione dei quartieri più miseri) prendessero l’iniziativa di richiedere documenti, ha organizzato sistematiche campagne mobili in tali quartieri. Il progressivo aumento nel numero dei votanti è anche il risultato, legittimo, di quelle campagne: assieme ai funzionari dello stato civile, si muovono anche medici, infermieri e maestri, contribuendo a allargare lo spazio sociale venezuelano, una dimensione che era stata totalmente trascurata dai partiti tradizionali dell’epoca pre – Chávez e che rimane in buona parte inaccessibile ai movimenti politici d’opposizione, di connotazione tipicamente “borghese”. Il voto maggioritario dei meno abbienti, che sono di per sé maggioranza, compensa l’insoddisfazione di quelle forze ed elettori che si sono progressivamente allontanati da Chávez, il quale comunque sente da parte sua l’usura di quattordici anni al potere, esercitato perdi più in modo molto autoritario. Ma il sistema politico venezuelano rimane profondamente diviso e classista, su questo non c’è dubbio: se il Chávez attuale è il più debole di sempre, rimane comunque comodo vincitore in elezioni sufficientemente trasparenti.

 

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ELEZIONI CORRETTE, UN SISTEMA SBILANCIATO – Su questo punto bisogna fare chiarezza, a causa di tante accuse proferite in passato: il sistema elettorale venezuelano è valido, in linea con gli standards internazionali e per certi versi molto avanzato: le urne elettroniche usate nel paese ne fanno uno dei sistemi più avanzati tecnologicamente e pur non risultando del tutto impeccabile, le frodi e manipolazioni che l’opposizione ha denunciato per anni non sono di per sé possibili. Non esistono dubbi sul fatto che la giornata elettorale si svolga regolarmente, né che Chávez disponga d’una maggioranza fisiologica nel paese. Il sistema rimane però profondamente squilibrato in materia d’equità nell’accesso ai mezzi d’informazione (l’opposizione non ha accesso alla televisione pubblica, i media privati sono appannaggio dell’opposizione) e di uso a fini politici delle strutture amministrative. L’amministrazione venezuelana è completamente asservita al chavismo, e non esiste nel paese il concetto di “neutralità”: tutti i funzionari pubblici devono vestirsi di rosso nei mesi di campagna, e devono votare e far votare le loro famiglie per il partito al potere. Tali forme d’intimidazione non sono certo segni d’una democrazia matura, ma anche tenendo conto di queste gravi anomalie, Chávez è oggettivamente maggioritario nel paese, piaccia o no all’opposizione.

 

L’OPPOSIZIONE AVANZA, MA NON SFONDA – Sono dati preoccupanti per l’opposizione l’affermazione di Chávez su tutto il territorio nazionale o quasi, e il limitato aumento di consensi rispetto alle elezioni parlamentari del 2010, nella quali i partiti di Chávez e quelli dell’opposizione avevano in pratica “pareggiato” attorno ai cinque milioni e mezzo di voti (vedi http://stefanogatto.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=118%3Ala-elezioni-politiche-venezuelane&catid=37&lang=it), anche se uno sbilanciatissimo sistema elettorale aveva “regalato” al blocco governativo una maggioranza di seggi del tutto inadeguata alla ripartizione dei voti (98 a 65). E comunque poco importa, perché l’Asamblea Nacional governa per decreto, avendo concesso al presidente una delega permanente per poter farlo. Nell’espletamento del proprio potere, il chavismo risulta quindi una forzatura dei normali modi democratici, anche se non nel consenso, che è reale. Per tornare al raffronto tra i dati elettorali del 2010 e del 2012, si noterà come la candidatura unica di Capriles non abbia attirato che 1.3 milioni di voti in più rispetto alle elezioni parlamentari del 2010, mentre quella di Chávez quasi tre milioni in più: dei quattro milioni di elettori in più tra il 2012 e il 2010, tre quarti li ha presi Chávez, solo un quarto Capriles. Questo significa che la presenza di Chávez come candidato ha un’enorme valenza elettorale, che non necessariamente si manifesta in sua assenza, e che rimane quindi parecchio da fare all’opposizione per scalfire questa forte base elettorale.

 

UN CHÁVEZ DALLA SALUTE INCERTA – Il discorso cambierebbe sicuramente in caso di sparizione del presidente dalla vita politica per l’aggravarsi della sua malattia: in tutti questi anni, Chávez non ha mai indicato chiaramente un delfino. Il suo regime è troppo personalista per farlo. Tra l’altro, la costituzione venezuelana prevede che in caso si morte o impedimento del presidente nel corso dei primi quattro anni del suo mandato, sono necessarie nuove elezioni: il vice presidente completerebbe il mandato solo nel caso che l’impedimento avvenisse negli ultimi due anni. Nel corso delle frequenti assenze di Chávez dal paese durante la sua malattia, egli si è premunito di suddividere il potere, senza trasmetterlo al vice presidente nella sua integralità. E usando in abbondanza procedimenti di firma elettronica per evitare di delegare. Adesso, il vice presidente Elías Jaua sfiderà Henrique Capriles nelle elezioni per il posto di governatore di Miranda, in quello che sarà un test politico di prima grandezza per il leader dell’opposizione che, uscito rafforzato dalla tornata elettorale, anche grazie alla sua pronta accettazione dei risultati, sarebbe molto indebolito in caso di sconfitta nel proprio stato, riaprendo la contesa interna all’opposizione temporaneamente chiusa dalle primarie. Nel frattempo, Chávez ha nominato vice presidente e possibile successore il ministro degli esteri Nicholas Maduro, uno dei politici più strettamente legati alla sua linea ideologica. Maduro succederà a Chávez? È presto per dirlo. Anche se il chavismo senza Chávez rimane un’incognita.

 

(I. continua)

 

 

Stefano Gatto

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Due cuori e una Casa Bianca

Barack e Michelle Obama, Mitt e Ann Romney. Ma anche Barack Obama e Joe Biden e Mitt Romney e Paul Ryan. Quali sono le coppie e le aspiranti coppie più potenti degli Stati Uniti? Uno sguardo più vicino alle storie ed i valori incarnati dai protagonisti della politica americana

 

BARACK E MICHELLE – Di Barack si è detto tutto e il contrario di tutto: che è nato alle Hawaii e che è nato in Kenya, che è cristiano e che è mussulmano, che è felicemente sposato e che è sull’orlo del divorzio. Perché queste versioni contrastanti sulla vita privata di un Presidente? Perché famiglia e morale sono importantissime per gli americani, alla ricerca di un capo di stato in cui potersi identificare e che porti avanti i valori a loro vicini. Tanto che un editoriale della rivista Time sostenne nel 2008 che tra ciò che avrebbe potuto allontanare le simpatie da Obama vi fosse non l’essere nero, ma l’essere troppo intellettuale e quindi distante dalla vita reale. Ma chi è veramente Barack Obama? Nato alle Hawaii, da madre americana e padre keniota emigrato grazie ad una borsa di studio, Obama è cresciuto alle Hawaii ed Indonesia (dove la madre si trasferì con il secondo marito indonesiano), poi trasferito a New York, per studiare scienze politiche a Columbia, a Boston, per prendere la laurea in giurisprudenza, approdando infine a Chicago, per lavorare come organizzatore di comunità, avvocato e professore di diritto costituzionale, prima di essere senatore dell’Illinois tra il 1997 ed il 2004. A Chicago, Barack incontra Michelle, avvocato nello stesso studio legale, cresciuta nel quartiere nero della città e volata a Princeton ed Harvard per studiare sociologia e legge. Oggi Michelle è in aspettativa dal suo lavoro come vice-presidente per gli affari esterni del policlinico universitario di Chicago (che fruttava il doppio dello stipendio di Barack come senatore) per fare a tempo pieno la First Lady. First Lady che, negli Stati Uniti, non ha puramente un ruolo istituzionale e mondano, ma è solita scegliere una o più cause specifiche da portare avanti durante il mandato del marito. Se Hillary Clinton ha tentato di riformare il sistema sanitario, e Laura Bush ha portato avanti i diritti delle donne e l’istruzione infantile, Michelle si è distinta per il suo impegno a favore delle famiglie militari e contro l’obesità infantile, che negli USA affligge un bambino su sette. E a parte essere una delle donne più popolari d’America, la grintosa Michelle è anche un’icona della moda, indossando in giro per il mondo i tagli e colori decisi di giovani stilisti americani. Non può mancare alla prima famiglia americana il classico amico a quattro zampe: Bo Obama, un cane acqua portoghese che vanta foto ufficiale ed accesso illimitato allo studio ovale. Tenute discretamente fuori dai riflettori sono le due figlie Malia a Sacha, che tutta la nazione ha visto crescere a vista d’ occhio.

 

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GLI ASPIRANTI: MITT E ANN – E mentre Barack e Michelle festeggiano i loro 20 anni di matrimonio, Mitt e Ann si impegnano per prendere il loro posto. Se Obama era considerato lontano dalla gente comune come intellettuale, Mitt Romney lo è come imprenditore finanziario miliardario, tanto che durante la campagna elettorale la moglie Ann ha provato ad umanizzarlo sottolineando la sua verve umoristica e raccontando che da sposini cenavano sull’asse da stiro in mancanza di un tavolo in cucina. Educato ad Harvard con una laurea in giurisprudenza ed un MBA, seguiti a due anni di proselitismo in Francia come missionario per la chiesa mormone di cui fa parte, Mitt Romney è figlio dell’ex-governatore del Michigan ed ex-presidente della casa automobilistica American Motors, ed ha co-fondato Bain Capital, compagnia di investimento privata di successo. Dal 2002 al 2007 è stato governatore del Massachusetts, distinguendosi per la sua riforma sanitaria simile al provvedimento approvato poi da Obama a livello nazionale, ma anche per lo slittamento verso posizioni più conservatrici, soprattutto sui temi sociali, verso la fine del mandato e in concomitanza con il suo primo tentativo alla presidenza nel 2008 (quando fu battuto alle primarie da John McCain). Di sua moglie Ann, Mitt ha detto che fa il lavoro più importante al mondo: la mamma. E infatti i due, sposati giovanissimi quando lei aveva appena 19 anni, hanno cresciuto cinque figli e hanno diciotto nipotini. All’impegno da mamma, Ann, tennista e cavallerizza assidua, ha aggiunto quello in varie attività di volontariato e gruppi religiosi. Se da First Lady del Massachusetts Ann è stata piuttosto in disparte, come First Lady degli Stati Uniti si proporrebbe di portare avanti campagne di sensibilizzazione per la sclerosi multipla ed il tumore al seno, malattie che ha entrambe combattuto personalmente con successo.

 

GLI “SPOSI” ISTITUZIONALI – A parte le mogli, presidente ed aspirante presidente hanno anche un importante compagno istituzionale, consigliere e potenziale sostituto. Ma lungi dall’essere una personalità a immagine del Presidente che sarebbe chiamato a sostituire in caso di destituzione, malore o morte, il Vice-Presidente è spesso una figura complementare volta a formare una squadra a tutto tondo, soprattutto agli occhi degli elettori. Basti guardare ai più recenti vicepresidenti, selezionati per le loro competenze (come per Joe Biden, scelto per affiancare in politica estera un giovane Obama), carattere, come fece McCain nel 2008 scegliendo una sconosciuta ed effervescente Sarah Palin con la speranza di ravvivare l’ entusiasmo della base, o programmi, come Romney con Ryan, scelto per relazionarsi e raccogliere il sostegno dell’ importante componente della destra del Tea Party. L’ impegno vero e proprio varia poi a seconda delle personalità.

 

Manuela Travaglianti

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Dagli Appennini… alle Ande (II)

Continuiamo la nostra chiacchierata con il Professor Michel Levi dell’Università Andina di Quito. Affrontiamo ora temi di attualità come la visione dei Paesi sudamericani della crisi europea e lo stato (o meglio, lo stallo) dei negoziati commerciali tra la CAN e l’UE. Con un’occhiata finale sul caso Assange, che ha visto l’Ecuador di Rafael Correa spendersi in prima persona per concedere asilo al fondatore di Wikileaks

 

Seconda parte

 

Parliamo di Venezuela. Nel 2006 il Paese governato da Hugo Chávez ha lasciato la CAN per fare richiesta di ammissione nel MERCOSUR (vi è entrato ufficialmente nel mese di luglio 2012). Chi sono i vincitori e vinti in questa dinamica? Che cosa ha determinato questa decisione: le divergenze politiche con la Colombia o ragioni più profonde di tipo economico?

 

Il ritiro del Venezuela dalla CAN è una decisione rispettabile che un Paese ha assunto in funzione dei propri interessi economici e geopolitici. Dal mio punto di vista è una delle poche decisioni politiche sostanziali che sono state prese in seno alla CAN negli ultimi dieci anni, ma purtroppo lo scopo non è stato quello di rafforzare il processo di integrazione, bensì di indebolirlo. Credo che la motivazione risieda negli interessi particolari del Venezuela, in particolare quelli del suo governo attuale, che potenzialmente avrebbe potuto mantenere nell’avanzare del processo di integrazione. In realtà il governo venezuelano è stato limitato nella sua capacità di avere un ruolo più importante nel processo andino, così dopo aver misurato i propri interessi e gli obiettivi geopolitici, ha deciso di rafforzare la struttura di propria creazione (l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America, ALBA) e di presentare richiesta di adesione al Mercosur, nel quale potrebbe diventare un player importante dinanzi a paesi di grandi dimensioni economiche come il Brasile e l’Argentina. Vale a dire che il Venezuela ha strategicamente suddiviso le scelte politiche ed economiche per scommettere su un processo regionale come l’ALBA e un processo di integrazione regionale nel caso del Mercosur. Da questo punto di vista non ci sono né vincitori né vinti, in quanto non è una competizione, ma semplicemente un insieme di interessi di un paese in funzione della regione a cui appartiene, cioè il Sudamerica. Nello stesso contesto, nemmeno le relazioni a volte complicate con la vicina Colombia sembrano essere state una “miccia” per prendere una decisione su base regionale, ad eccezione delle differenze originatesi nel quadro della CAN dopo l’autorizzazione da parte del Consiglio presidenziale andino di negoziare trattati di libero scambio con gli Stati Uniti d’America e l’Unione europea su base individuale o di gruppo, che sono stati la ragione ufficiale per forzare l’uscita del Venezuela dal gruppo andino.

 

Spostiamoci ora dall’altra parte dell’Atlantico. Qual è il l’opinione di questi paesi sulla crisi dell’Unione europea? Qual è lo stato dei negoziati tra l’UE e questi Stati?

 

Si tratta di due questioni molto diverse quindi prima di tutto mi riferirò alla crisi e successivamente ai negoziati commerciali con l’Unione europea. In un continente come il nostro, che ha vissuto molte crisi negli ultimi decenni, guardare il contesto della crisi in Europa, ci porta a riflettere su alcune questioni, come ad esempio la necessità e l’efficacia della vigilanza sul settore finanziario, o il contesto della creazione di un unico sistema monetario tra i diversi paesi, con economie asimmetriche; oppure anche cose più concettuali, nel campo di applicazione di ciò che significa “crisi” per i cittadini europei, a fronte di ciò che significa per i cittadini sudamericani o africani. Mentre nel Sudamerica degli anni Ottanta e Novanta la tendenza è stata la deregolamentazione del settore finanziario per dare una maggiore apertura e possibilità di coinvolgere il settore privato nello sviluppo economico dei paesi, nei primi decenni del 2000 si è fatto ritorno a schemi di controllo, più o meno limitati in paesi come la Colombia e il Perù, e più o meno forti in paesi come Bolivia, Ecuador e Venezuela. Il cambiamento di visione e di obiettivi in ​​materia di regolamentazione degli anni Duemila è radicato nelle terribili crisi economiche e finanziarie che nella nostra regione hanno causato la deregolamentazione dei mercati finanziari, che ha portato al fallimento di paesi, come lo stesso caso dell’Ecuador che dovuto adottare un meccanismo di “dollarizzazione” per uscire dal problema o l’Argentina, dove i cittadini hanno affrontato il congelamento dei conti bancari e dei propri risparmi, con una terribile perdita di valore della moneta nazionale. Guardare la crisi europea in questo contesto, con nazionalizzazioni bancarie, Stati in bancarotta come la Grecia o l’Islanda, crollo finanziario in Spagna, Portogallo e Italia … ci dà un senso di dejà vu, come se le lezioni del passato in paesi piccoli non si potessero utilizzare nei paesi più sviluppati. Inoltre, uno degli interessi principali degli Stati sudamericani con la creazione dell’UNASUR, è stata intraprendere i passi per consentire a medio termine di avere una moneta unica circolante nella regione. Da questo punto di vista, la crisi europea ci ha dato le linee guida per comprendere la complessità di mantenimento di una politica monetaria comune, senza integrarla con altre politiche comunitarie come la politica fiscale o economica per disciplinare le asimmetrie tra i diversi Stati. Infine, è chiaro che il concetto di crisi dell’Unione Europea è completamente diverso da quello trovato in altre regioni del mondo. Infatti, in società con una vasta classe media che hanno un reddito relativamente elevato rispetto a quello delle stesse classi medie in altri paesi al di fuori dell’UE, “crisi” probabilmente significa ridurre la quantità di risparmio mensile, o forse non trascorrere le vacanze all’estero, spendere meno in beni come abbigliamento, pasti al ristorante, gite o altre spese simili. La crisi per le classi medie sudamericane comporta invece minimizzare i costi per cibo, casa, la necessità di cercare alternative lavorative complementari per guadagnare il reddito necessario, oppure pagare di più per i servizi pubblici e privati ​ … e di vacanze, manco a parlarne! Questi parametri ci danno un assaggio di quello che vuol dire “crisi” sotto diversi punti di vista e, soprattutto, come il vostro peso è diverso in Europa, in Sud America o in Africa. Per quanto riguarda i negoziati commerciali con l’Unione Europea, vediamo che salvo quelli su base bilaterale, come nel caso del Messico e Cile, e al momento attuale in Colombia e Perù, che hanno avuto come obiettivo il rafforzamento dei processi di integrazione regionale esistenti nella regione, (CAN e MERCOSUR) non hanno avuto successo dal mio punto di vista perché i processi sudamericani non sono sufficientemente consolidati come blocco in grado di condurre negoziati con una sola voce. La diversità degli interessi in seno alla CAN, per esempio, ha causato una rottura netta tra i suoi paesi membri che si trovano ora in due chiare tendenze: una che cerca totale apertura al commercio internazionale attraverso la firma di accordi di libero scambio con la maggior parte di un certo numero di paesi, e un altro completamente chiuso a qualsiasi trattativa, cosa che colpisce non solo la loro sovranità nazionale, ma a medio termine potrebbe essere un ulteriore ostacolo a causa delle asimmetrie a livello di sviluppo economico. Nel MERCOSUR invece, l’interesse di entrare nel mercato europeo senza restrizioni, in particolare con i prodotti agricoli, così come l’approccio finalizzato a che la UE smantelli le sovvenzioni che mantiene alla sua agricoltura attraverso la Politica Agricola Comune (PAC), sono stati uno dei “sassolini nella scarpa” della negoziazione, che rimane stagnante da diversi anni. In breve, credo che in questo decennio debba essere chiaramente definita la posizione dei paesi sudamericani di fronte ai negoziati commerciali con l’UE, e allo stesso modo anche quest’ultima dovrebbe ripensare le sue condizioni negoziali, se vuole mantenere un contatto diretto con i mercati dell’altro lato dell’Atlantico. In ogni caso è chiaro che in questo disaccordo il vincitore è la Cina, che mettendo in pratica il famoso detto “non importa di che colore è il gatto, l’importante è che catturi il topo”, continua a fare affari con chiunque.

 

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L’ultima domanda si allontana un po’dal tema di questa intervista, ma si riflette nell’attualità diplomatica. Dato che lei è ecuadoregno, come vede la questione di Julian Assange e Wikileaks? Si riferisce solamente alla retorica contro gli Stati Uniti Governi latinoamericani di sinistra o ci sono ragioni più profonde?

 

Il caso Assange è singolare. Dal mio punto di vista ha distolto l’attenzione dall’aspetto fondamentale all’accessorio… cioè, il problema principale di Wikileaks è il fatto di aver portato alla luce le comunicazioni segrete della diplomazia degli Stati Uniti e di averle distribuite tra tutti gli attori internazionali che sono nominati, in una forma o nell’altra, in tali documenti. L’attuale asilo diplomatico che l’Ecuador ha concesso ad Assange cerca di proteggerlo dalla possibile estradizione che il governo svedese potrebbe attivare, su richiesta del governo degli Stati Uniti d’America. Tuttavia la richiesta di comparire davanti a un tribunale in Svezia, si riferisce ad un presunto tentativo di violenza sessuale, cosa che non ha alcun rapporto diretto con la questione Wikileaks ed è stata considerata come uno stratagemma preparato per incriminarlo ed in un secondo momento estradarlo verso gli Stati Uniti. Il mio punto di vista personale è che questo caso consente una relazione “costi-benefici” sia per Assange che per il governo ecuadoregno, nella misura in cui dà visibilità a quanto di più vario si possa immaginare, come ad esempio: Wikileaks, la persecuzione, la libertà di stampa, un paese amico impegnato per la libertà, l’imperialismo, asilo presso le ambasciate, l’estradizione, la pena di morte… Sicuramente entrambe le parti possono trarre grandi vantaggi con la visibilità e la diversità degli argomenti che porta questo caso. Penso che la retorica che si pone nel caso di specie, è comunque un modo che ci ha permesso di rivelare l’esistenza di una legislazione britannica arbitraria e contraria al diritto internazionale, che è stato anche enunciato delicatezza poco diplomazia britannica, un fatto che ha portato gli stessi diplomatici britannici a protestare contro il proprio governo per il terribile “errore” che il suo uso ha portato alla comunità internazionale. Al di là di questo, penso che alla fine Assange dovrà andare in Svezia per essere giudicato nel processo per cui è imputato, ma questa volta sotto il controllo e la protezione di un paese amico che gli ha concesso diritto d’asilo, l’Ecuador. Ora Assange non è più solo, ma ha un paese al quale si può rivolgere, se i suoi diritti sono stati violati, e lo Stato, a sua volta, ha la capacità di attivare i meccanismi delle organizzazioni internazionali in tutto il mondo.

 

Davide Tentori

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