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Dagli Appennini… alle Ande (I)

Oggi vi proponiamo un viaggio in Sudamerica. “Il Caffè” ha intervistato il Professor Michel Levi, coordinatore del Centro Andino di Studi Internazionali dell’Universidad Andina “Simòn Bolivar” di Quito (Ecuador) sul tema dell’integrazione regionale nell’ambito della Comunità Andina delle Nazioni (CAN). Ecuador, Colombia, Bolivia, Perù e (fino al 2006) Venezuela: quali le potenzialità e le problematiche alla base del processo di integrazione economica e politica, nel quadro dello sviluppo impetuoso dell’America Latina? Scopriamolo nella prima parte di questa intervista

 

L’America Latina sta vivendo un periodo di grande fermento economico, politico e sociale. Negli ultimi anni hanno ripreso vigore anche i processi di integrazione regionale: tra di essi vi è la Comunità Andina delle Nazioni (CAN), che comprende Ecuador, Colombia, Bolivia e Perù. Paesi magari non di primissimo piano come Argentina e Brasile, ma che hanno un ruolo importante nella ridefinizione degli schemi politico-economici regionali. Ne abbiamo parlato con il Professor Michel Levi (foto sotto), coordinatore del Centro Andino di Studi Internazionali dell’Universidad Andina “Simón Bolivar” di Quito (Ecuador).

 

 

Qual è la situazione politica ed economica degli Stati membri della CAN? Si parla molto del “decennio dell’America Latina”, ma lo è davvero? La crescita economica si traduce in uno sviluppo stabile ed equo?

 

Prima di tutto vorrei ringraziare il “Caffè Geopolitico” per questa intervista su un argomento che non è trattato molto di frequente, dato che si parla soprattutto del ruolo del MERCOSUR e delle sue capacità in quanto processo di integrazione regionale, così come della nascita di altri processi regionali come UNASUR, ALBA e l’Alleanza del Pacifico. I paesi andini sono in un momento cruciale del loro sviluppo politico ed economico. I tassi di crescita elevati che si sono verificati negli ultimi cinque anni, in media compresi tra il 3 e il 5%, risultato di esportazioni di materie prime più elevate verso partner commerciali emergenti come la Cina, hanno generato una solida stabilità economica, che ha portato a nuove infrastrutture, miglioramenti nel reddito dei cittadini, un maggior dinamismo commerciale attraverso l’apertura di nuovi mercati diversi da quelli tradizionali, come nel caso dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America. Allo stesso tempo, sono stati adottati nuovi stili politici che hanno diviso le posizioni dei paesi membri della Comunità andina (CAN). Da una parte ci sono Colombia e Perù con posizioni che tendono verso l’apertura commerciale, grandi incentivi agli investimenti stranieri, opinioni convenzionali in materia di politica internazionale e la continuazione di modelli tradizionali in politica interna. Dall’altra parte vi sono invece la Bolivia e l’Ecuador che utilizzano uno stile differente attraverso quello che è stato definito il “socialismo del XXI secolo”, con misure protezionistiche nel commercio e verso gli investimenti esteri, mantenendo al tempo stesso un forte interesse per la promozione di politiche sociali interne che consentano un miglioramento della distribuzione del reddito e una maggiore partecipazione e accesso ai settori sociali che in genere non sono stati direttamente coinvolti nei processi decisionali di livello nazionale. In politica estera, i due paesi sono passati da concezioni tradizionali mantenute in passato ad un percorso di “conversione” per diventare attori rilevanti in posizioni alternative nelle sedi internazionali. In relazione alla situazione politica ed economica potrei dire che la regione andina ha subito un cambiamento strutturale importante negli ultimi dieci anni, nell’ambito del quale i processi di integrazione come la CAN devono essere ristrutturati nell’ottica di nuovi obiettivi completamente smarcati dalla visione funzionale di una struttura sovranazionale, principalmente a causa delle posizioni divergenti dei suoi membri a proposito dei disegni di sviluppo, cosa che ha portato alla nascita di nuovi attori come UNASUR, ALBA e l’Alleanza del Pacifico, in forma di processi regionali con diversi orientamenti e motivazioni, tanto nella loro concezione funzionale sia nella concezione quanto nella definizione dei propri obiettivi.

 

Io credo che sia a livello politico che economico si stia attraversando un decennio di cambiamento nella regione andina, anche se questo non deve essere necessariamente considerato “il decennio dell’America Latina”. Dobbiamo ricordare che il concetto di America Latina è un po’più ampio e ambizioso, che include Messico, America Centrale, Sud America e in maniera più marginale i Caraibi, sebbene non la si possa considerare come una regione funzionalmente strutturata, ma piuttosto come un gruppo di regioni con interessi e obiettivi ben definiti. Cosa unisce l’America Latina, almeno dal mio punto di vista, è una forte identità culturale comune, cosa molto diversa dal contesto di un processo regionale con interessi comunitari in materia economica e in parte politica, come nel caso dell’Unione Europea.

 

La crescita economica ha consentito agli Stati di avere una maggiore capacità di azione e di attuazione delle politiche adottate, che hanno migliorato la qualità della vita di molti dei suoi cittadini, ma i livelli di disuguaglianza che esistono nella regione sono ancora elevati pertanto il debito sociale persiste. Da questo punto di vista il miglioramento della stabilità istituzionale e politica nella maggior parte dei paesi andini, se adeguatamente sfruttata dai governanti per stabilire politiche statali a medio termine, porterà sicuramente ad uno sviluppo vero ed equo. Ma se questo argomento è sicuramente nelle mani di ciascuno dei paesi e dei loro governanti, discorso diverso va fatto per l’integrazione regionale o regionale, poiché in questo caso le competenze sono piuttosto limitate.

 

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La Comunità Andina delle Nazioni (CAN) è tra le più vecchie organizzazione di integrazione commerciale in Sud America. Quali sono i principali risultati ottenuti nel corso degli anni e quale il suo “stato di salute” al giorno d’oggi?

 

In realtà la più antica organizzazione di integrazione commerciale è l‘Associazione latino-americana di libero scambio (LAFTA) – che si è trasformata negli anni Ottanta nell’Associazione Latinoamericana di Integrazione (ALADI) – dalla quale ha avuto origine la CAN come risposta dei Paesi andini ad obiettivi regionali troppo ambiziosi rispetto ai risultati ottenuti. Tuttavia la CAN è il processo di integrazione regionale più antico, nel contesto specifico di quei processi che si sono basati sul modello della Comunità Economica Europea (CEE). Si può dire che, dopo essere passati attraverso varie fasi di crisi che hanno portato alla creazione della Comunità andina a metà degli anni Novanta, ci sono stati indubbiamente risultati tangibili del processo. Uno dei più visibili, più commentati dagli specialisti, è lo sviluppo del commercio intra-regionale che, pur non raggiungendo i livelli dell’Unione europea, nonostante i limiti sia economici che istituzionali della regione andina, è stato notevole.

 

Secondo le statistiche rilevate nel 2011 il commercio intra-regionale è cresciuto di 174 volte con un tasso di crescita medio annuo del 13,1% rispetto al 1969 (quando fu creato il Patto andino), con la particolarità che il il 74% delle merci scambiate nella regione sono manufatti. Nonostante gli scambi intra-regionali siano ancora solo l’8% del totale delle esportazioni verso il mondo nel 2010 – che si rivolgono ancora ai mercati tradizionali, come l’Unione Europea (15%) e Stati Uniti (29%) – i livelli di apertura commerciale a cui sono pervenuti individualmente Paesi come Colombia e Perù cambieranno sicuramente profondi cambiamenti nella struttura del commercio nella regione. Proprio il fatto che la differenza di politiche commerciali che mantengono la Colombia e il Perù, a fronte di quelle adottate da Bolivia e Ecuador, sono ciò che provocano una rottura della struttura del commercio e dello sviluppo politico della CAN, che attualmente portare a ripensare la struttura e gli obiettivi istituzionali.

 

In effetti, un altro risultato della CAN è stato quello di definire una complessa rete istituzionale con ambiziosi obiettivi politici, commerciali e di sviluppo, degni di una struttura con un elevato livello funzionale. Per come è stata progettata la struttura dall’accordo di Cartagena modificato nel 1996, definita negli obiettivi e meccanismi del trattato, l’obiettivo prefissato è la creazione di un processo sovranazionale di integrazione regionale, nel quale confluiscano politiche comuni in settori quali le relazioni internazionali, il commercio, lo sviluppo economico e sociale. Per raggiungerli è necessario un trasferimento di competenze dai paesi membri alla struttura della comunità, che permette di attuare politiche comuni definite: tuttavia ciò non è stato possibile perché gli interessi particolari degli Stati in queste aree hanno superato gli obiettivi fissati dal trattato. La prospettiva commerciale e politico/istituzionale descritta qui brevemente ci permette di definire sommariamente lo stato di salute della CAN, senza però poter dare una visione del futuro a medio termine. In ambito commerciale le cifre mostrano interessanti sviluppi; tuttavia, una volta spezzata la dinamica del processo per la differenza nelle visioni di sviluppo economico e di apertura dei paesi membri, tale crescita potrebbe essere a rischio negli anni a venire, in mancanza di nuove iniziative per approfondire l’integrazione del commercio, che è in sostanza il meccanismo che tiene in piedi il processo andino.

 

Inoltre, per quanto riguarda il quadro istituzionale, è chiaro che la CAN è il principale forum intergovernativo per lo scambio di esperienze dei paesi membri. Da questo punto di vista credo che sia un importante forum per il dialogo e necessario per affrontare problemi comuni relativi ad aspetti quotidiani che normalmente non potrebbero essere trattati con meccanismi come vertici presidenziali o riunioni ministeriali di alto livello. Questo scambio rafforza il rapporto tra i governi dei paesi membri e, dall’altro, permette loro di generare iniziative comuni in settori specifici quali lo sviluppo dei confini, il turismo, il trasporto aereo, la cooperazione tra autorità, le statistiche, l’ambiente. Infine, credo che la CAN abbia un ruolo interessante per quanto riguarda la gestione della cooperazione internazionale a livello regionale. Da questo punto di vista, se i paesi membri stabilissero iniziative comuni in settori specifici, come quelli di cui sopra, la CAN potrebbe essere un attore importante per la realizzazione e la gestione di strumenti per la cooperazione tecnica e finanziaria per lo sviluppo di progetti regionali andini e anche a livello dell’UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane), con livelli di efficienza che potrebbero superare quelli degli Stati considerati singolarmente.

 

(I. Continua)

 

Davide Tentori

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Cinquanta (e più) sfumature di grigio

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Un Caffè americano – Le posizioni in politica estera dei candidati non influenzeranno in maniera determinate l’intenzione di voto, almeno per l’elettore medio americano. Però determineranno sicuramente, nei prossimi quattro anni, il ruolo e il comportamento degli Stati Uniti nello scenario globale. Quali sono realmente le differenze di approccio alle relazioni internazionali di Obama e Romney e quali conseguenze comportano? Non tutto è bianco o nero

 

DENTRO I PARTITI, OLTRE I PARTITI – Delineare l’impostazione della politica estera americana non è scontato. All’interno di ciascun partito si confrontano scuole di pensiero molto diverse tra loro. Le convinzioni dei candidati presidenti e la scelta dei loro consiglieri e degli uomini-chiave dell’amministrazione, sono tutti elementi che rispecchiano un equilibrio nel rapporto di forze dell’establishment di partito. Se si pensa solo ai candidati alle primarie repubblicane si possono incontrare, a grandi linee, le diverse anime del Grand Old Party (GOP). Ron Paul, vicino agli isolazionisti, Newt Gingrich, allineato ai neoconservatori del primo mandato di Bush (jr), Jon Huntsman, ex ambasciatore in Cina ed ex governatore dello Utah su posizioni più realiste, e Mitt Romney che, da candidato presidente, ha dovuto prendere in considerazione tutte queste posizioni, così distanti tra loro. E lo stesso vale per il Partito Democratico. Obama ha dovuto trovare dei compromessi tra l’ala liberal e il grande centro, che è riuscito a conquistare nelle elezioni del 2008, tra i fautori di un interventismo umanitario e quelli di un più attento internazionalismo multilaterale. Non è tanto il partito che detta le linee di politica estera quanto le scuole di pensiero, del tutto trans-partitiche, che, a seconda del momento storico e del loro grado di influenza, indirizzano l’agenda presidenziale. È indicativo il fatto che il primo Segretario della Difesa dell’era Obama sia stato il repubblicano Robert Gates, lo stesso che aveva concluso il secondo mandato di Bush. Perciò, anche Obama e Romney non si distanziano molto da questa logica. Semplificando molto, l’attuale presidente è più vicino all’idea di un internazionalismo, per così dire, moderato mentre il candidato repubblicano sostiene un ruolo più assertivo della politica americana, abbastanza vicino all’idea di eccezionalismo americano come intesa da Bush. Ma non tutti sanno che i maggiori esponenti del neoconservatorismo (colonna portante del primo mandato di Bush) provenivano dalle file del partito democratico, e si rifacevano all’idealismo wilsoniano.

 

 

LA VERA SFIDA – Tra le maggiori sfide in campo internazionale che il prossimo presidente dovrà affrontare, la più difficile, secondo quanto dichiarato da Henry Kissinger in un’intervista al Washington Post, sarà quella del budget, o meglio, di come armonizzare gli obiettivi di politica estera ai tagli al bilancio federale, alcuni dei quali già effettuati dal Congresso e altri in programma. I due pilastri della proiezione di una potenza verso l’esterno sono tradizionalmente lhard power e il soft power. Il primo pilastro riguarda la capacità militare e il dispiegamento di forze all’estero. Il dipartimento della difesa subirà un ridimensionamento della spesa pari a 487 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni (come indicato dal Budget Control Act, passato al Congresso nel 2011) e un possibile taglio ulteriore di altri 600 miliardi di dollari, su cui si deciderà all’inizio del prossimo anno (se confermato tagli effettivi per circa il 20% del budget). Riguardo tale aspetto i candidati sembrano avere visioni abbastanza discordi tra loro. Obama predilige il supporto alla democrazia e ai movimenti che la sostengono, piuttosto che una promozione attiva dei valori democratici (tipica del modello Bush). Anche l’uso della forza si adegua a questa impostazione, e un suo secondo mandato sarebbe in linea con quanto fatto fin ora. Il concetto di Leading from behind (si sta ripetendo in Siria ciò che è già successo in Libia) rimarrebbe centrale. Inoltre, la riluttanza nell’inviare forze convenzionali sul campo, porterebbe a un ulteriore incremento delle operazioni su piccola scala delle Forze Speciali, di un aumento sostanziale delle missioni degli arei pilotati a distanza per bombardare Afghanistan, Pakistan, Yemen e, secondo necessità, altri teatri operativi e lo sviluppo dei cyber-attack sarebbe lo sbocco naturale del confronto, per esempio, con l’Iran (Stuxnet e Flame per citare due casi di worm usati per spiare e riprogrammare computer). Romney, ha dichiarato, in un discorso al Virginia Military Institute che è responsabilità del presidente utilizzare la grande potenza americana per dar forma alla storia, sostenendo inoltre che è la strategia che deve guidare il budget e non viceversa. Vorrebbe, nel caso fosse eletto, spendere il 4% del Pil americano per la difesa (incrementando la spesa in questo settore di circa 2.100 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni). Il candidato repubblicano cercherebbe un confronto più diretto con le potenze rivali e di stabilire un ruolo chiaro di leadership del “mondo libero” da parte degli Stati Uniti. Eserciterebbe una chiara deterrenza nei confronti di Mosca (definita l’antagonista numero uno), Pechino (che verrebbe dichiarata manipolatrice monetaria il primo giorno di presidenza), Teheran (verso cui sarebbe disposto anche a un’azione militare per impedire la costruzione dell’arma atomica) e Pyonyang. Anche riguardo la situazione in Siria e la questione palestinese, Romney, a differenza di Obama, preferirebbe portare gli Stati Uniti a una responsabilità più diretta nella gestione. Sarà però necessario valutare quanto il clima della campagna elettorale abbia influito realmente sull’opportunità politica di queste dichiarazioni.

 

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NON COSI’ SOFT – Il secondo pilastro, non meno importante, riguarda gli aiuti allo sviluppo. Rappresenta il braccio operativo dal lato civile ed economico. È durante la presidenza Bush che gli aiuti allo sviluppo diventano strutturalmente parte della politica estera. Infatti, la US Agency for International Development è stata inclusa nel Dipartimento di Stato, per facilitarne il suo utilizzo. Il presidente Obama, in un suo eventuale secondo mandato, farebbe molto affidamento su questo strumento, poiché altamente funzionale alla sua politica poco invasiva. Il condizionamento degli aiuti economici a standard politici è poco visibile ma, allo stesso tempo, influenza i processi decisionali di parecchi governi. Per l’anno fiscale 2013 il Dipartimento di Stato ha chiesto 51,6 miliardi di dollari per garantire la sicurezza nazionale e lo sviluppo. In particolare 33,7 miliardi di dollari sono stati chiesti per programmi di assistenza, sviluppo economico, tutela dei diritti umani. Rispetto al 2012 i fondi saranno ridotti dello 0,5%, e concentrati soprattutto nel quadrante AfPak che assorbe circa 7 miliardi di dollari (voci di spesa maggiore “rule of law” e “counterterrorism”), e nel Medio Oriente-Nord Africa, dove verrà creato un nuovo fondo di supporto economico alle popolazioni “che hanno chiesto riforme e governi in grado di attuarle” (così recita la richiesta ufficiale del Segretario Clinton) di circa 770 milioni di dollari (che si aggiungono ai 9 miliardi già richiesti).

 

Anche Romney cercherà di sfruttare il peso degli aiuti allo sviluppo per indirizzare la propria politica estera. Innanzitutto vorrebbe affiancare a questo tipo di aiuti (che dopo l’undici settembre sono stati indirizzati perlopiù verso l’assistenza agli Stati alleati e all’antiterrorismo) un consistente contributo per il settore privato e il commercio; in particolare rivolgendosi all’America Latina, con il programma Campaign for Economic Opportunity in Latin America (per sfruttare al meglio i recenti accordi commerciali con Colombia e Panama), e all’Africa, con il fine di creare un ambiente economico adeguato per la crescita. Inoltre sembra che l’intenzione del candidato repubblicano sia quella di una riforma della gestione degli aiuti stessi, così da creare un sistema speculare a quello del dipartimento della difesa, ossia unificando piattaforme, analisi e pianificazione strategica per “comandi regionali”, affidandone la gestione alla diplomazia, e riequilibrando così il gap tra la presenza militare (ben organizzata e con un margine di manovra ampio) e la presenza civile, spesso più frammentata e disorganizzata.

 

Romney e Obama sfrutterebbero al massimo le risorse messe a disposizione, sia dal lato della difesa che dal lato diplomatico. La presenza potrà essere più o meno visibile, i missili sganciati da un aereo comandato a distanza o lanciati da una torpediniera, i fondi allo sviluppo utilizzati più in Egitto o in Giordania. Ma il futuro Presidente degli Stati Uniti difficilmente rinuncerà a determinare le sorti del mondo nei prossimi quattro anni.

 

Davide Colombo

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Terrasanta e Primavera araba

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Quattro chiacchiere sulla Terrasanta e sulla Primavera Araba: due incontri a Bologna, di ritorno da un viaggio in Medio Oriente, per chiarire dubbi e provare a comprendere la complessità di due temi sempre caldi. Il Caffè vi invita a due chiacchierate serali, non mancate!

 

Il nostro Lorenzo Nannetti presenta due incontri a Bologna:

 

Israeliani e Palestinesi

Le ragioni di un conflitto, i problemi attuali, noi e la Terrasanta

Lunedì 22 ottobre 2012, ore 20.30

 

La primavera araba

Cause di una rivolta, democrazia e islamismo, la Siria, il dilemma dei cristiani

Lunedì 29 ottobre 2012, ore 20.30

 

Per informazioni: [email protected]

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Locandina: clicca qui

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Mali… francesi

La Francia starebbe per inviare due droni per il pattugliamento in Mali, mentre tre aerei leggeri sono stati forniti al Burkina Faso. Alcune fonti anonime sostengono che Washington abbia incaricato Parigi di seguire la crisi dell’Azawad, ma Hollande sarebbe ormai incerto sull’opportunità di un’azione militare. In Somalia, cala l’intensità degli scontri, però si registra l’uccisione del sedicesimo giornalista da gennaio. Khartoum avvia i negoziati di pace con alcune formazioni del Nord Darfur. Gli islamisti di Zanzibar chiedono la secessione dalla Tanzania. In Nigeria, Boko Haram attacca una città e causa trenta morti. In chiusura, cinque brevissimi “sorsi” dal resto dell’Africa

 

AEREI FRANCESI IN MALI – Secondo fonti anonime interne al ministero della Difesa francese riportate dall’Associated Press, Parigi potrebbe inviare due droni per sorvegliare il nord del Mali e raccogliere dati in vista di un futuro intervento militare. Gli UAV non sarebbero armati, poiché la Francia dispone soltanto di modelli da osservazione e ricognizione. Oltretutto, secondo il governo di Bamako, in questi giorni centinaia di guerriglieri islamisti sarebbero giunti nell’Azawad da tutto il Maghreb, sebbene i tuareg abbiano negato una tale situazione. Lunedì prossimo, a Parigi arriverà l’Assistente per l’Africa del Segretario di Stato americano per concordare quanto la fonte anonima ha definito «l’incarico alla Francia ad assumere ruolo di leader nella crisi». Le truppe transalpine nella regione (Ciad, Costa d’Avorio, Gabon e Senegal, più forze speciali non dichiarate) sarebbero già state mobilitate, ma, secondo alcuni analisti, Parigi avrebbe anche assunto alcuni contractor. Il presidente Hollande, comunque, dopo l’atteggiamento incerto dell’estate, sarebbe ora contrario a un intervento armato con coinvolgimento diretto della Francia: tra motivi, la presenza di ostaggi francesi in mano ad Aqim e l’impegno formale assunto a Dakar e Kinshasa per la fine della Françafrique. Quel che è certo, è che tre aerei leggeri sono stati forniti al Burkina Faso per il pattugliamento frontaliero. Da parte sua, l’Unione Europea ha dichiarato di avere in programma l’invio di una missione civile per l’addestramento di tecnici.

 

AGGIORNAMENTI DALLA SOMALIA – Se, da un lato, si registra una tregua negli scontri tra al-Shabaab e le truppe somalo-keniote, dall’altro lato, Chisimaio continua a essere un campo di battaglia. Nonostante, infatti, non siano stati segnalati combattimenti nell’ultima settimana, lunedì 22 un ufficio pubblico è stato il bersaglio di un attentato condotto mediante l’impiego di bombe a mano: ancora non si conoscono né gli autori, né il numero di eventuali vittime. Allo stesso modo, restano ignoti gli assassini del giornalista Ahmed Farah (foto sotto), conosciuto come Ahmed Sakin, ucciso il 24 ottobre a Las Anod, città già contesa tra Puntland e Somaliland, e tuttora sotto il controllo di quest’ultimo. Il bilancio dei giornalisti vittime di attentati nel 2012 sale così a 16. Nel frattempo, il presidente somalo, Hassan Sheikh Mohamud, ha incontrato sia il Gruppo dei Paesi Donatori, per discutere il coordinamento delle risorse riservate alle aree liberate, sia il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi, la cui visita a Mogadiscio non era stata annunciata, e con il quale ha tenuto un incontro a porte chiuse. Nella conferenza stampa congiunta, Hassan Sheikh e Terzi hanno comunicato che l’Italia manterrà i propri impegni in Somalia, rafforzando anzi la cooperazione in materia di pirateria. Tuttavia, non c’è stato alcun riferimento ad altri temi, anche se, considerata la natura e lo svolgimento del meeting, è probabile che la discussione sia stata ben più ampia.

 

TENUI SEGNALI DI PACE DAL SUDAN – Il governo di Khartoum e una fazione del Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza (MGE) del Darfur hanno tenuto una serie di negoziazioni segrete a Doha tra il 17 e il 22 ottobre, concluse con l’accordo a intraprendere i negoziati di pace – come recentemente richiesto dall’ONU – dal 22 novembre. Secondo l’esecutivo sudanese, i colloqui avranno lo scopo di cessare le ostilità in Nord Darfur, favorendo l’integrazione politica dei gruppi dissidenti che vorranno sottoscrivere il documento approvato a Doha. L’MGE, tuttavia, ha ricordato che quanto emerso dalle trattative di ottobre, nonostante sia un passo positivo, debba essere preventivamente sottoposto alla propria assemblea.

 

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TURBOLENZE A ZANZIBAR – Nell’isola di Zanzibar è esplosa la terza forte protesta dall’inizio dell’anno contro il governo. A guidarla sono gli islamisti dell’associazione Uamsho, sorta nel 2001 e capace do attirare i militanti delusi dal Civic United Front, il principale partito d’opposizione ora in coalizione di governo con gli (ex) avversari, e i giovani disoccupati. Uamsho ha accusato il governo di aver rapito il capo del movimento, Sheik Farid Hadi, cogliendo poi l’occasione per minacciare ritorsioni contro i cristiani. Gli islamisti pretendono che Zanzibar torni a essere indipendente, interrompendo l’unione col Tanganica in vigore dal 1964. In merito, l’International Crisis Group ha lanciato un serio allarme, ricordando che la secessione di Zanzibar potrebbe essere lo sprone per altri movimenti indipendentisti dell’Africa orientale, dal Kenya al Mozambico.

 

STRAGE IN NIGERIA – La Nigeria ha vissuto una nuova settimana di sangue per opera dei terroristi di Boko Haram: nella città di Potiskum, nello Stato di Yobe, gli islamisti hanno dato alle fiamme interi edifici, ingaggiando un duro scontro a fuoco con le forze di sicurezza e causando la morte di almeno 30 persone in due giorni. A Maiduguri, invece, Boko Haram avrebbe ucciso un civile cinese.

 

Beniamino Franceschini

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Fracking, istruzioni per l’uso

Inizia questa settimana un focus sul fenomeno che da qualche anno a questa parte sta rivoluzionando la geopolitica energetica globale: il fracking. Cos’è e quali impatti può avere nello scenario mondiale: nuovi equilibri geopolitici, i rischi ambientali.

 

LA TECNICA – Nel corso degli ultimi anni l’intero comparto energetico globale, e in particolare quello del gas naturale, sta vivendo una vera rivoluzione tecnologica il tutto per l’impiego intensivo di una tecnica di estrazione che, pur non essendo nuova, è diventata ora economicamente vantaggiosa: il fracking. L’hydraulic fracturing, detto più semplicemente fracking, esiste fin dagli anni ’30 ma solo recentemente ha vissuto una nuova era grazie all’elevato prezzo del gas che ne ha reso conveniente lo sfruttamento. Essa permette l’estrazione di idrocarburi (principalmente gas) tramite la fratturazione di rocce porose che, in condizioni normali, non permetterebbero l’estrazione stessa. In pratica nel terreno vengono immesse grandi quantità di acqua che poi, mischiata ad agenti chimici, di fatto “aprono” le fessure tra le rocce per permette un rilascio di maggiori quantità di risorsa naturale lì intrappolata. Lo sviluppo di questa tecnologia sta avendo un duplice effetto sulle riserve mondiali di gas, in quanto si vanno via via scoprendo numerosi giacimenti non convenzionali un tempo inesplorati e per nulla considerati nelle stime mondiali di risorse ancora potenzialmente a disposizione.

 

NUOVI GIGANTI ENERGETICI – A questo va aggiunto un altro forte fattore di discontinuità: la distribuzione dei giacimenti non convenzionali. In sostanza, come si evince dalla figura (FONTE: BP, International Energy Agency), le risorse non convenzionali di gas (shale gas) sono dislocate in aree non coincidenti con quelle convenzionali e questo di fatto sconvolgerebbe il Risiko esistente. Gli Usa e l’intera America settentrionale si potrebbero imporre come un nuovo gigante dell’energia, ma al loro fianco anche nuovi protagonisti potrebbero emergere sullo scacchiere: la Cina (che secondo molti siede sui più grandi giacimenti non convenzionali del mondo) e alcuni stati del Sud America, in primis l’Argentina.

 

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L’AMBIENTE – All’estrazione di gas non convenzionale si sta però opponendo, in maniera sempre più decisa, la protesta di molte parti di società civile che vedono nel fracking una tecnica troppo invasiva perché sia applicata in maniera sostenibile. Negli USA sono ormai moltissime le segnalazioni di eventi catastrofici, in particolare terremoti o falde acquifere compromesse dai composti chimici iniettati nel terreno. In tutti i casi esponenti della società civile e associazioni ambientaliste tendono ad associare tali fenomeni a questa tecnica, in contrapposizione all’industria che invece nega il legame e ne promuove i vantaggi economici. Attualmente il dibattito è molto acceso, tuttavia non si è ancora riusciti ad avere elementi scientifici sicuri che avvalorino l’una o l’altra teoria, cosa che ha portato alla creazione di legislazioni molto diverse nei vari stati e, nel caso degli USA, anche all’interno della stessa federazione. L’Unione Europea ha lasciato libertà di pensiero ai vari stati, cosa che ha portato alcuni stati a bandire questa pratica: è il caso della Francia (si vedano le dichiarazioni del presidente Hollande) e della Bulgaria, mentre altri, come lo stato di New York e la Germania, stanno prendendo tempo in attesa di ulteriori accertamenti.

 

Giorgio Giuliani

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Vi votiamo così

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Un Caffè americano – Prima di concentrarci sulle maggiori differenze ideologiche e programmatiche dei due candidati in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, è utile ripassare il funzionamento del sistema elettorale americano e la struttura dei partiti, con un occhio di riguardo al pubblico cui i candidati si rivolgono. Che differenze, inoltre, corrono tra USA e Italia?

 

COME VIENE ELETTO IL PRESIDENTE? – Si sa che il Presidente degli Stati Uniti non è eletto dal parlamento come in Italia, ma dalla popolazione. Meno noto è che l’elezione avviene in due momenti: nel primo, a Novembre, gli elettori votano i “grandi” elettori, che poi, a Dicembre, eleggono il presidente seguendo le intenzioni di voto in base alle quali sono stati scelti. Bastano 270 voti (su un totale di 538 grandi elettori) per assicurarsi la Casa Bianca, che, dato che il numero di grandi elettori di uno stato dipende dalla sua popolazione, corrisponde agli undici stati più popolosi, quali California, Texas, New York, Florida. Questo spiega perché si possa essere eletti anche senza la maggioranza, come Bill Clinton nel 1996 che ottenne il 49% del voto popolare ma il 70% dei voti del collegio elettorale, o addirittura con meno voti dello sfidante, come George W. Bush nel 2000, che ottenne 271 grandi elettori ma oltre 100.000 voti in meno rispetto ad Al Gore. D’altra parte, se uno stato è già fortemente orientato a sinistra, come la California, o a destra, come il Texas, convincere la minoranza conta poco, dato che basta il 50% dei voti in uno stato per ottenere tutti i suoi grandi elettori. È per questo che la campagna si gioca in quei pochi stati dalla tradizione altalenante: i cosiddetti “swing states”, quali l’Ohio che ha votato a sinistra nel 2008, a destra nel 2004 e 2000, a sinistra nel 1996 and 1992, diventati le mete preferite per i comizi oltre che per le incessanti pubblicità elettorali.

 

PARTITI E IDEOLOGIE – Il sistema americano è dominato da sempre da due partiti, i Democratici (rappresentati dall’asinello) e i Repubblicani (il Grand Old Party, GOP, che si identifica nell’elefante). Non bisogna lasciarsi fuorviare da colori e terminologia, perché i primi sono chiamati “liberali” e dipinti in azzurro ed i secondi “conservatori” e dipinti in rosso. Non essendoci un terzo polo, ed assente la storia socialista europea, repubblicani e democratici convergono naturalmente verso il centro, proponendo politiche in genere più moderate di quelle associate in Italia alla sinistra o alla destra. Ma per capire appieno le differenze principali tra piattaforme politiche bisogna mettersi nei panni dell’ americano medio. Cresciuti in un clima fortemente individualistico, gli americani in genere non vedono di buon occhio lo stato federale, avversandone l’intrusione nelle scelte private e morali, se sono democratici, e nelle attività economiche ed imprenditoriali, se sono repubblicani. Questa forma di individualismo si manifesta con coerenza anche in tempi difficili, quando badare a se stessi è considerato meglio che dipendere dallo stato. L’ idea del “sogno americano”, in base al quale chi lavora duro va avanti e prospera, permea tutte le classi sociali, dalla più ricca alla più povera, anche se, contrariamente a quanto si immagina, la mobilità sociale in America non supera quella europea. Il divario crescente tra ricchi e poveri ed il peso della crisi economica hanno portato negli ultimi anni una riflessione sul sistema economico e governativo, emersa con i movimenti “Occupy Wall Street” ed il Tea Party che propongono soluzioni opposte per risollevare il 99%.

 

TEMI CALDI – In questo clima, i due partiti politici mirano ad ottenere il supporto della classe media (la fetta maggiore di voti) con programmi che seguono diverse filosofie. Da un lato i democratici sono più vicini all’idea di stato sociale europeo, intesa come responsabilità del governo a fornire una rete di salvaguardia in caso di necessità (non per ridurre le ineguaglianze economiche esistenti, ma per garantire un’eguaglianza di opportunità come punto di partenza), e non escludono l’intervento statale nelle attività economiche, senza però toccare libero mercato e concorrenza. Dall’altro, i repubblicani prediligono uno stato più snello con meno regole all’iniziativa privata ma anche meno responsabilità, lasciando le attività di assistenza alle comunità civili o religiose, e considerano iniquo versare allo governo più di quanto si riceve, tanto più che ciascuno è fautore della propria fortuna ma anche della propria sfortuna. I repubblicani sono inoltre socialmente più conservatori, per esempio in materia di famiglia (con l’opposizione al matrimonio tra persone dello stesso sesso) e religione e, a differenza dei democratici, vorrebbero che lo stato garantisse questi valori. A proposito di religione, va detto che gruppi religiosi e politica vanno abbastanza d’accordo in uno degli stati più religiosamente eterogeneo e praticante del mondo occidentale. Romney, candidato mormone, si attende i voti della sua comunità, e, come repubblicano quelli degli evangelici, da sempre associati alla destra come cattolici e soprattutto ebrei sono prevalentemente a favore dei democratici. E dalla religione il passo è breve alla regolamentazione delle scelte anticoncezionali e dell’interruzione volontaria di gravidanza (soprattutto quando è il governo a pagare per la copertura sanitaria), temi non solo a cuore degli elettori, ma, a differenza dell’ Italia, molto presenti anche nella retorica elettorale dei candidati. Oltre ad avere il sostegno dell’elettorato urbano e con elevati livelli d’istruzione, i democratici sono preferiti dalle minoranze etniche: il 95% della popolazione afro-americana ha votato e voterà in massa Obama, non necessariamente perché è il primo presidente nero, ma perché è un presidente democratico (Al Gore ottenne il 90% dei voti della comunità afro-americana, e Kerry l’88%). Stessa cosa per la comunità latino-americana, che costituisce un importante 15% e più dell’elettorato negli stati chiave, vicina a Obama per le scelte in materia sociale e di immigrazione. Giovani e donne propendono per Obama, come nel 2008, mentre i pensionati emergono dai sondaggi come più conservatori.

 

CHI FINANZIA? – Per dare qualche numero, Obama e Romney hanno già spesso più di un miliardo e mezzo di dollari in due per la loro campagna elettorale. Queste spese vanno a finanziare l’acquisto di spazio televisivo per le pubblicità, gli spostamenti dei candidati, consulenti elettorali e sondaggi, l’organizzazione degli eventi e la presenza sul territorio. Ma da dove vengono tutti questi soldi? Come in Italia, partiti e candidati hanno diritto a contributi statali e rimborsi elettorali, ma poiché accettare fondi statali comporta limiti ai contributi privati, sia Obama che Romney hanno declinato, per la prima volta nella storia delle elezioni presidenziali, i contributi governativi ed iniziato la corsa alle donazioni private. Obama batte Romney nel numero di donatori che hanno dato meno di 200 dollari alla sua campagna elettorale (55% contro 22%, sul totale dei contributi individuali) mentre Romney batte Obama per i contributi ai super-PACs (110 milioni contro 50), i comitati speciali che sostengono i partiti ma gestiscono le spese indipendentemente da loro, con la convenienza di poter raccogliere fondi illimitati da ciascun contribuente. Tra i maggiori donatori, Romney pesca prevalentemente tra impiegati di banche ed istituti finanziari e assicurativi (Goldman Sachs, Bank of America, Morgan Stanley) mentre Obama tra affiliati ad importanti università (Harvard, Stanford, Columbia, Berkeley), e grosse aziende (Google, Microsoft). Lobbysti ed attivisti contribuiscono lautamente, e se è difficile quantificare quanto i creditori abbiano guadagnato dai loro investimenti elettorali, gli interessi sono chiari nel campo delle fonti di energia tradizionali, del settore medico e farmaceutico, agricolo e difesa (a maggioranza per Romney) e delle energie rinnovabili, telecomunicazioni, sindacati (a maggioranza per Obama). Indicativo, per Obama, il calo notevole di fondi ricevuti da Wall Street, che lo aveva sostenuto nel 2008. E adesso che è chiaro come pensano e come votano gli Americani, non resta che vedere come le loro convinzioni reagiranno alla campagna incessante dei due candidati.

 

Manuela Travaglianti

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Senza via d’uscita

“Che tu possa vivere in tempi interessanti” recita una antica maledizione cinese augurando al nemico periodi di crisi senza uscita, ma l’arguta osservazione sembra applicarsi allo stato attuale delle relazioni internazionali, permanentemente “interessanti” a piu’ di vent’anni dalla fine della Guerra Fredda. Il Libano torna a tremare sotto i colpi della guerra civile in Siria, mentre Israele si prepara al peggio, l’Europa si prende una pausa dopo gli incontri di venerdì scorso mentre tutto il pianeta si prepara per godersi l’ultimo e attesissimo dibattito tra Obama e Romney

 

EUROPA

UE-CINA – “Nessuno ha bisogno ora di una guerra commerciale, ma non ci tratterremo dal sanzionare cio’ che dobbiamo”, con queste parole il Commissario per il Commercio dell’UE Karel De Gucht ha delineato la strategia per il futuro delle azioni di anti-dumping e concorrenza sleale nei confronti di Pechino. Il commercio tra le due aree e’ raddoppiato dal 2003 giungendo fino a 428 miliardi di euro nel 2011 facendo della Cina il primo partner commerciale di Bruxelles e dell’UE la seconda destinazione per le merci cinesi. Come anticipato da De Gucht nel suo ultimo libro, “la sfida di Pechino è quella di accaparrarsi una grossa fetta della torta della produzione a valore aggiunto”.

 

UE-INDIA – “L’India e l’Unione Europea sonoconvinte di potere concludere un accordo commerciale al piu’ presto possibile” ha annunciato il nuovo Ambasciatore indiano presso Bruxelles, Dinkar Khullar, nel presentare le credenziali al Re Alberto II. Le trattative per la conclusione di un accordo sul commercio tra le due entità hanno avuto inizio nel 2007, subendo una serie di contraccolpi politico-diplomatici in seguito a varie dispute commerciali nel settore farmaceutico e in quello automobilistico. L’India rimane uno tra i più attivi partner economici dell’UE, la questione irrisolta dell’accordo non ha in alcun modo scoraggiato il fluire di prodotti a basso costo soprattutto nel campo IT.

 

UE-MALI – Sembra che l’Unione Europea abbia scelto il Mali come nuovo terreno ultra-insidioso per testare il livello di coordinamento delle forze armate dei suoi membri, visto che intende supportare gli eserciti dell’ECOWAS nella riconquista del terreno guadagnato dai ribelli islamici. Jean Yves Le Drian, Ministro francese della difesa si è detto pronta ad intervenire entro una settimana con il supporto delle forze spagnole già presenti nella regione per la missione Eucap Sahel, sotto il comando del Colonnello della Guardia Civìl Francisco Espinosa. La missione avrà tre direttive principali: la ricostruzione dell’esercito nazionale maliano, un cuscinetto di forze africane per impedire ulteriori conquiste da parte dei ribelli e infine la riconquista dei territori occupati e delle città in cui si applica da mesi la sharìa.

 

AMERICHE

Lunedì 22 – Ci siamo, è giunta l’ora del dibattito conclusivo tra i due pretendenti al trono della Casa Bianca, mentre il punteggio è fermo su un pari 1 a 1 dopo le prime due serie di frecciate faccia a faccia. Stavolta tocca alla politica estera rivestire la sala della Lynn University di Boca Raton, Florida, che ospiterà il rendez-vous abituale tra Mitt Romney e Barack Obama. Con il primo a proporre una nuova naval policy per la costruzione di 15 navi da guerra all’anno invece delle attuali 9/10 e il Presidente uscente a sostenere il miglioramento in termini di capabilities e non di numeri, inutile negare che con la questione sicurezza in Libia, ci sarà ben poco spazio per indagare le diverse strategie del futuro americano.

 

Lunedì 22 – Nato come viaggio inaugurale per 289 cadetti della marina argentina e 13 invitati, “l’odissea della Libertà attraverso l’Atlantico si è scontrata contro le onde diplomatiche del mar ghanese rimanendo incagliata nelle pieghe della giustizia internazionale. Creditore per 218 milioni di euro nei confronti del Governo Argentino, il fondo d’investimenti NML ha chiesto la confisca della nave scuola della marina di Buenos Aires presso il Tribunale di New York, costringendo imbarcazione ed equipaggio alla fonda nel porto di Tema. Mentre il Governo argentino ha ordinato l’evacuazione immediata al personale della nave, il Ministro degli Esteri tenterà di portare la questione all’attenzione delle Nazioni Unite, anche se a mantenere l’ultima parola sulla vicenda sarà ancora il giudice ghanese che ha ordinato il sequestro cautelativo.

 

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ASIA

PACIFICO? – Dopo mesi burrascosi trascorsi tra i venti di dispute diplomatico-territoriali, il Mar Cinese Meridionale continua a tremare sotto gli scafi delle marine impegnate in dimostrazioni ed esercitazioni militari. Con la USS George Washington giunta nelle acque del pacifico per pattugliare i disordini tra Pechino e Tokyo sul fascicolo Diaoyu/Senkaku, anche uno dei punti caldi geopolitici per eccellenza, ovvero Singapore, si offre quale mediatore d’eccellenza nella questione più scottante per i membri dell’ASEAN. “Spero vivamente che si giunga alla conclusione di un accordo su un codice di condotta sul Mar Cinese Meridionale” ha augurato il Primo Ministro Lee Hsie Loong ad un mese dall’appuntamento a Phnom Penh con il Summit ASEAN. Intanto a confermare la strategia del “tutti contro Pechino”, una delegazione del governo vietnamita è stata accolta a bordo della USS George Washington per discutere delle rivendicazioni di Hanoi sulle isole Spratly e Paracel.

 

NORD COREA – Nemmeno la Cina, dopo Corea e Giappone si dimostra immune al gene schizofrenico dello sviluppo asiatico, che fa del paese colpevole di imitazione o violazione di proprietà intellettuale, la vittima futura dei nuovi pvs. Così il gruppo Xiyang, uno dei più grandi conglomerati di miniere cinesi, ha denunciato la condotta fraudolenta del governo di Pyongyang che avrebbe permesso lo sfruttamento di alcune regioni ricche di ferro solo per il tempo necessario a sottrarre le relative tecnologie e conoscenze. Il gruppo Xiyang ha più volte richiesto un risarcimento di 31.2 milioni di dollari per le attività illegali condotte dal governo nei siti ora sequestrati dalle autorità locali. Nonostante i ritardi e le varie incomprensioni, Pechino continua a spingere il nuovo leader Kim Jong Un verso la via di Deng Xiaoping, anche se secondo Piao Guanjie, della China Academy of Social Sciences “c’è una grossa discrepanza tra ciò che la Nord Corea si aspetta da Pechino e ciò che Pechino realmente concederà”.

 

PAKISTAN – Dopo una due gironi diplomatica a dir poco impegnativa, l’inviato speciale statunitense Marc Grossman ha concluso la sua visita in Pakistan riconfermando “l’importanza del contributo pakistano al processo di stabilizzazione politica in Afghanistan”. Ebbene sì, proprio il paese sull’orlo del collasso religioso-identitario rimane l’unico piedistallo sul quale forgiare il futuro del pantano che da ormai 11 anni intrappola il grosso del dispositivo militare a stelle e strisce. Il tutto mentre sembra ormai scontato il successo del prossimo leader populista acclamato a furor di popolo da estremisti e moderati, l’enfant prodige della politica pakistana, Imra Khan. Senza dubbio c’è bisogno di un bel pizzico di fantasia per immaginare le fondamenta di uno stato costruito al confine di una polveriera sul punto di esplodere.

 

MEDIO ORIENTE – NORD AFRICA

LIBANO – Indicato a più riprese come la prima tappa del fall-out catastrofico della guerra civile siriana, anche il Libano ha pagato il suo tributo di sangue e tranquillità perduta all’altare della lotta contro il regime di Bashar al-Assad. Dopo essersi speso durante tutti questi mesi per cercare vie di rifornimento sicure alle prime linee dell’Esercito Libero, Wissan al-Hasan, Capo dell’Intelligence di Beirut ha perso la vita in un attentato nel pieno centro della città. Tutti i sospetti ricadono ovviamente sul trio delle meraviglie Hezbollah-Iran-Siria, in grado di portare a termine qualsiasi tipo di eliminazione fisica direttamente o indirettamente in Libano. Tuttavia a pagarne le conseguenze è in primis il governo locale, entrato in crisi a causa delle accuse di negligenza e ancora in bilico con il destino del premier Mikati nelle mani del Presidente Suleiman.

 

LIBIA – Ad un anno di distanza dall’uccisione del capostipite, il Clan Gheddafi perde il più giovane e forse il più accanito degli eredi al trono perduto di Libia. Khamis Gheddafi sarebbe infatti rimasto vittima di scontri armati tra sostenitori del vecchio regime e fazioni armate fedeli al nuovo governo presso la roccaforte “verde” Bani Walid. Educato secondo i principi militari di un’Accademia della Federazione Russa e ideatore nonchè padre spirituale della temutissima 32esima Armata, Khamis è stato per mesi l’incubo dei misuratini assediati durante la guerra civile. Ancora incerta invece la sorte di un’altra figura legata la precedente governo, il portavoce del Colonnello ed ex Ministro degli Esteri Moussa Ibrahim, catturato secondo alcune fonti, ancora in libertà secondo la sua stessa voce in un post poco attendibile pubblicato su Facebook a smentita delle notizie.

 

ISRAELE – 3 settimane, 3500 uomini dell’esercito americano, 1000 dalle forze armate israeliane e 38 milioni di dollari, queste le cifre maestose di Austere Challenge 12, un costosissimo gioco a due tra Washington e Gerusalemme. Con l’obiettivo di mettere alla prova e testare sul campo l’efficacia della risposta balistica israeliana ad attacchi contemporanei da Siria, Iran e Striscia di Gaza, l’esercitazione militare contribuisce ad innalzare la volatilità di un contesto già impregnato dell’odore acro della polvere da sparo. “Questi esercizi sono parte di un programma concordato di attività per cercare di aumentare la cooperazione e l’interoperabilità tra le due armate. La preparazione di AC12 è iniziata due anni fa e non può essere in alcun modo considerata quale risposta a specifici eventi della regione” riporta il comunicato stampa con cui si è aperta l’iniziativa.

 

Fabio Stella

r[email protected]

Nobel o non Nobel, questo (non) è il problema

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Sette giorni dopo, al di là delle opinioni di ciascuno, non è tanto importante stabilire se il Nobel per la Pace assegnato all’Unione Europea sia o meno meritato. La vera questione inizia ora, dal primo vertice post-Nobel in poi: sarà in grado l’Europa di guardare avanti, cogliere le opportunità della crisi e crescere nella sua integrazione? Sarà vera Unione, o solo presunta? La posta in gioco è alta, e non riguarda solo l’economia, ma anche e soprattutto le grandi tematiche al centro dell’assegnazione del Nobel

Diritti… e rovesci

La vicenda del fondatore di Wikileaks Julian Assange, confinato nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, costituisce un affascinante intreccio tra norme del diritto internazionale, prassi diplomatiche e questioni geopolitiche. Vediamo come, da una parte, la richiesta di asilo da parte di Assange si collochi nel panorama giuridico e, dall'altra, quali sono i reali interessi del Presidente ecuadoregno Correa

LA VERITA’ – Chi è Julian Assange? Un paladino della trasparenza e della libertà di informazione, vittima di una campagna persecutoria da parte degli Stati Uniti, oppure un vero criminale meritevole di essere perseguito? E l’Ecuador di Rafael Correa è uno Stato davvero interessato a difendere tali diritti oppure è mosso da calcoli puramente politici e propagandistici? Vediamo innanzitutto di ricapitolare ciò che è accaduto nelle ultime settimane.

I FATTI –  Tutti conoscono Julian Assange, fondatore di Wikileaks, il sito internet che da alcuni anni pubblica notizie e  comunicazioni “riservate” tratte da documenti governativi, soprattutto degli Stati Uniti, a proposito di questioni diplomatiche spesso “scottanti”. Assange, cittadino australiano, è stato accusato da due donne svedesi di violenza sessuale mentre si trovava a Stoccolma; nel frattempo, però, il fondatore di Wikileaks si era spostato a Londra, dove le autorità britanniche hanno deciso che dovesse essere estradato in Svezia per essere processato. Per sfuggire all’estradizione, Assange si è così rifugiato presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra chiedendo e ottenendo asilo politico, giustificato dal timore che l’estradizione a Stoccolma non sarebbe stata altro che l’anticamera verso un successivo trasferimento negli USA, dove le autorità intendono procedere contro di lui per aver divulgato una mole di documenti riservati. Ed è così che Julian Assange si trova confinato nell’ambasciata del Paese sudamericano da giugno, dalla quale ha fatto ad agosto una rapida comparsa che ha però fatto il giro del mondo: un discorso di pochi minuti affacciato su un terrazzino durante il quale ha attaccato duramente gli Stati Uniti dichiarando di essere un perseguitato politico.

UN PO’DI DIRITTO… – Le autorità britanniche in un primo momento erano giunte a minacciare l’ambasciata ecuadoregna che avrebbero fatto irruzione all’interno dell’edificio se non avessero consegnato loro il ricercato. Successivamente, però, hanno dovuto fare marcia indietro: chi conosce un po’di diritto internazionale, sa infatti che le sedi delle ambasciate straniere godono dell’extraterritorialità ed accedere al loro interno senza un’autorizzazione è più o meno equivalente ad un’invasione, e quindi ad un atto di guerra. L’asilo politico viene invece concesso in base alla Convenzione di Ginevra del 1951, la quale prevede che gli individui in fuga da un Paese nel quale rischierebbero di essere perseguitati ingiustamente per le loro convinzioni ideologiche, politiche o religiose, debbano essere accolti in uno dei Paesi firmatari di tale convenzione. La Convenzione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche del 1961 ha disciplinato la concessione del diritto d’asilo, stabilendo però che esso può essere concesso solo sul territorio nazionale e non nelle ambasciate. Solo le nazioni latinoamericane hanno adottato un’applicazione estensiva della convenzione (vi ricordate il precedente di Manuel Zelaya, presidente spodestato dell’Honduras, che si era rifugiato nell’ambasciata brasiliana?), e così si spiega l’azione di Quito. Dunque, anche se l’asilo politico di Assange non è riconosciuto dal diritto internazionale, il Regno Unito non può comunque violare l’extraterritorialità dell’ambasciata ecuadoregna.

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E DI ROVESCIO – Questi i fatti e le regole che li disciplinano. Quali sono però le motivazioni reali? I piani dell’analisi sono due. Il primo è quello relativo al giudizio sull’operato di Julian Assange e di Wikileaks: la domanda che ci si deve porre è se sia giusto rendere noti ai cittadini tutte le documentazioni relative alla diplomazia degli Stati sovrani in nome di una assoluta trasparenza e di un diritto all’informazione che ogni società democratica dovrebbe avere. Si parla di “open diplomacy” come di un processo che si è diffuso con la nascita delle organizzazioni multilaterali e che consiste in una maggiore trasparenza e condivisione, con i Parlamenti nazionali, della politica estera di uno Stato sovrano. Ma è giusto che si sappia proprio tutto? Pensiamo per esempio al caso delicato in cui un Governo si trova a negoziare con dei terroristi per il rilascio di alcuni ostaggi: si tratta di una fattispecie in cui la segretezza è logicamente d’obbligo. Il secondo piano è invece relativo alla posizione assunta dall’Ecuador. Difficile pensare che la decisione adottata dal Governo di Rafael Correa non sia dettata dall’ostilità antiamericana che è uno dei minimi comuni denominatori dei Paesi del Sudamerica che sono amministrati da esecutivi di sinistra (dal Venezuela di Chávez alla Bolivia di Evo Morales). Con un gesto così plateale, che ha peraltro ricevuto l’approvazione degli altri membri dell’ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe), Correa vuole probabilmente ottenere la leadership politica del blocco di queste nazioni, approfittando della debolezza interna di Chávez, alle prese con problemi di salute ed elezioni dalle quali è uscito vincitore in maniera non così scontata come in passato. Infine, alcune considerazioni sulla questione della difesa della libertà di espressione da parte dell’Ecuador: è stato proprio il Governo di Correa ad aumentare il controllo sul potere giudiziario e ad ottenere che tre giornalisti di un quotidiano a lui ostile fossero condannati a tre anni di carcere (anche se poi sono stati graziati). Insomma: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Sta di fatto che il problema della libertà di stampa e di espressione in Sudamerica è ancora presente in molti Paesi, nonostante gli enormi progressi in campo sociale ed economico avvenuti negli ultimi anni. Non solo in Ecuador, ma anche in Venezuela, in Argentina e nel più democratico Cile (ricordate le repressioni delle manifestazioni studentesche nel 2011) c’è ancora strada da compiere su questo fronte.

Davide Tentori [email protected]

Colpo di coda

Le truppe somale e keniote proseguono l’offensiva contro al-Shabaab: la liberazione di Chisimaio non è ancora definitiva, poiché gli islamisti sono riusciti a compiere una serie di attentati a obiettivi militari e civili. L’ONU approva una risoluzione per il Mali: UA ed ECOWAS hanno 45 giorni per elaborare un piano, ma, con ampia probabilità, non si agirà prima del 2013. In Sudan del Sud, i rappresentanti degli Stati comprendenti Abyei e Heglig temono che la demilitarizzazione imposta dal trattato di fine settembre si volga a favore di Khartoum. Un rapporto dell’ONU accusa l’Uganda di complicità con i ribelli di M23. Il presidente del Mozambico sollecita un intervento diplomatico in Guinea-Bissau. In chiusura, un racconto africano sull’origine della guerra

IL COLPO DI CODA DI AL-SHABAAB – In Somalia continua l’operazione su ampia scala che mira alla definitiva sconfitta militare di al-Shabaab. Dopo la riconquista di Chisimaio, l’esercito somalo, insieme con le truppe dell’Unione Africana, in prevalenza keniote, hanno cominciato l’assalto alle roccaforti ribelli nel Medio Giuba, assumendo il controllo dei villaggi attorno a Gelib, città strategica posta sulle principali direttrici di comunicazione tra la regione e Mogadiscio. A Chisimaio, però, la situazione non è ancora sotto controllo, poiché i miliziani di al-Shabaab, che resistono in alcune zone della periferia, hanno organizzato vari attentati con ordigni esplosivi, oltre ad agguati contro i militari dell’AMISOM. Oltretutto, nonostante il comandante del contingente nel Medio Giuba, il generale Ismail Sahardid, abbia prontamente respinto le accuse, alcune fonti giornalistiche hanno riportato casi di saccheggio da parte delle forze regolari ai danni della popolazione e, addirittura, l’uccisione fortuita di una donna. Nel resto della Somalia, allo stesso modo, non cessano le violenze: domenica, nei pressi di Baidoa, i guerriglieri di al-Shabaab hanno preso di mira un convoglio militare, causando due morti, mentre, lunedì, cinque decessi sono stati registrati durante duri scontri tra islamisti ed esercito in diversi quartieri di Mogadiscio. La giornata più tragica è stata martedì 16, da un lato con i combattimenti sulla strada tra Baidoa e la capitale – addirittura sono state usate artiglieria pesante e mitragliatrici – riguardo al cui bilancio ancora non si hanno notizie, dall’altro con i 12 morti in un’imboscata a Belet Uen, a 300 km da Mogadiscio, condotta anche mediante l’impiego di mezzi blindati da parte di al-Shabaab.

L’INTERVENTO IN MALI FORSE NEL 2013 – Sebbene le Nazioni Unite abbiano approvato venerdì 12 ottobre una risoluzione proposta dalla Francia per un intervento in Mali, difficilmente gli attori incaricati dell’elaborazione del piano esecutivo, ossia ECOWAS e Unione Africana, agiranno entro la fine dell’anno. Il motivo principale è che i Paesi della Comunità dell’Africa Occidentale hanno posizioni differenti sull’operazione, ma, soprattutto, sono restii a investire le risorse economiche e umane necessarie, tanto che, secondo alcune stime, qualora la missione fosse avviata in questa settimana, i militari mobilitati sarebbero solo tremila, quanti quelli previsti dal progetto regionale di giugno. Secondo la risoluzione, UA ed ECOWAS dovrebbero inviare all’ONU entro 45 giorni «raccomandazioni dettagliate e attuabili», sulle quali basare un secondo atto del Consiglio di Sicurezza. Proprio i tempi indicati contribuiscono a diffondere l’opinione circa un’ulteriore proroga dell’azione in Mali. La Francia ha promesso un sostegno logistico quanto più ampio possibile, mentre l’Unione Europea dovrebbe fornire almeno 150 addestratori militari. Più distaccata, invece, è stata la reazione degli Stati Uniti, poco propensi ad assumere impegni internazionali vincolanti nella regione: da Washington è giunta certo soddisfazione per l’approvazione della risoluzione, ma, sul piano materiale, non si è andati oltre un vago appoggio logistico. Il 19 ottobre, comunque, a Bamako si incontreranno i delegati di ONU, Unione Africana, Unione Europea ed ECOWAS, al fine di individuare una «strategia coerente», una linea guida comune per la certezza dei tempi imposti dalla risoluzione.

CRITICHE ALL’ACCORDO TRA KHARTOUM E JUBA – Il 27 settembre scorso, Sudan e Sud Sudan hanno trovato un accordo per la ripresa della cooperazione in campo petrolifero. Lungo la frontiera tra i due Paesi, inoltre, sarà costituita, su entrambi i lati, una zona cuscinetto estesa per 10 km e lunga 1800 km. Tuttavia, ancora non è stata trovata una soluzione alla contesa di Abyei, poiché, sebbene l’ONU abbia già stabilito l’inevitabilità di un referendum per il futuro status della città, tra Khartoum e Juba non v’è concordia circa il metodo di registrazione degli aventi diritto al voto, per la maggior parte nomadi. La conclusione del trattato ha sollevato molte polemiche in Sudan del Sud, al punto che, il presidente dell’African Union High Level Implementation Panel (AUHIP), nonché già capo di Stato sudafricano, Thabo Mbeki, ha duramente contestato i mezzi d’informazione per l’errata presentazione dell’accordo all’opinione pubblica. Da qualche giorno, infatti, diverse manifestazioni in Sud Sudan hanno criticato il patto. A Juba, sono sfilati manifestando rappresentanti di Bahr el-Ghazal e dell’Unità, gli Stati che comprendono Abyei e Heglig, chiedendo che le loro regioni siano sottratte dalla zona demilitarizzata: secondo gli scettici, escludere la presenza delle Forze Armate sudsudanesi, equivarrebbe a riconoscere in qualche modo le pretese di Khartoum.

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L’ONU: «ANCHE L’UGANDA DIETRO M23» – Secondo il Gruppo di Esperti del Consiglio di Sicurezza ONU, oltre al Ruanda, anche l’Uganda starebbe sostenendo i ribelli di M23 contro il governo di Kinshasa. In un rapporto confidenziale reso pubblico martedì 16 ottobre, gli inviati delle Nazioni Unite avrebbero riportato che «[truppe ugandesi e ruandesi] abbiano congiuntamente operato con gli insorti nel luglio 2012 per prendere il controllo dei maggiori centri nel Rutshuru Territory e della base congolese di Rumangabo». Dopo che il presidente del Ruanda, Paul Kagame, ha respinto formalmente le accuse durante l’incontro di settembre a New York con l’omologo del Congo, Joseph Kabila, adesso anche l’Uganda ha negato il proprio coinvolgimento nella vicenda. Recentemente, Yoweri Museveni, in qualità di Presidente della Conferenza Internazionale della Regione dei Grandi Laghi (ICGLR) aveva organizzato un vertice per riprendere la discussione circa le tre proposte di intervento militare nel Congo orientale, ossia una forza regionale col sostegno dell’Unione Africana, un contingente interno alla Missione ONU per la stabilizzazione del Congo (MONUSCO), con l’ampliamento del mandato internazionale, oppure un’operazione dei caschi blu in attesa di ulteriori sviluppi. Gli scontri tra i soldati di Kinshasa e gli insorti di M23 guidati dal generale Bosco Ntaganda durano ormai da aprile, e hanno costretto oltre 300mila persone alla fuga.

GUINEA-BISSAU: NUOVO INVITO AL DIALOGO – Il presidente del Mozambico, Armando Guebuza (foto), parlando in veste di presidente della Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese (CPLP), ha riportato l’attenzione sulla situazione della Guinea-Bissau, il cui governo è stato abbattuto da un golpe militare in aprile. «Sosteniamo il popolo della Guinea – ha detto Guebuza – e faremo quanto in nostro potere per donargli nuovamente la pace». Il Presidente ha sollecitato la comunità internazionale a non dimenticare la Guinea, ricordando che le Nazioni Unite hanno già disposto l’invio di una missione diplomatica congiunta con UA, ECOWAS e CPLP per elaborare raccomandazioni e suggerimenti. Guebuza, tuttavia, ha respinto l’ipotesi della presenza militare internazionale, definendo invece prioritari «il dialogo e il potente meccanismo della costruzione del consenso».

Beniamino Franceschini [email protected]

Rimandato… a novembre (II)

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Un Caffè Americano – Prosegue il nostro viaggio verso le elezioni USA. Eccovi la seconda parte dell’articolo sulle politiche economiche di Obama

 

(Segue. Rileggi qui la prima parte)

 

OCCUPAZIONE – Sul piano dell’occupazione, il programma elettorale del 2008 prometteva anche 150 miliardi di dollari in investimenti per la creazione di business (e posti di lavoro) verdi. Gli interventi portati a termine dal governo Obama includono investimenti in energie pulite, lo sviluppo di mezzi di trasporti a basso impatto ambientale e iniziative per aumentare l’efficienza energetica, quali l’ammodernamento della rete elettrica nazionale. Tuttavia, secondo Environment America, una coalizione di gruppi ambientalisti, dall’inizio del 2009 gli investimenti totali in “green economy” hanno raggiunto 78,61 miliardi di dollari, una cifra ben lontana dalla promessa iniziale. Gli impegni elettorali sono stati invece mantenuti con riguardo agli assegni di disoccupazione per il 2009, che sono stati parzialmente detassati e la cui durata è stata estesa negli stati con più alti tassi di disoccupazione. Oggi, tuttavia, i tassi di disoccupazione restano alti (7.8% a ottobre 2012, dopo aver toccato un picco del 10% a ottobre 2009) e molti si domandano se livelli di spesa pubblica come quelli previsti dall’“American Recovery and Reinvestment Act” (831 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2019) siano sostenibili senza una ripresa più incisiva. Gli oltre 230.000 posti di lavoro creati sin dal 2009 nel comparto auto, un’industria resuscitata grazie ad una serie di prestiti governativi quando Mitt Romney, dalle pagine del New York Times gridava di lasciarla fallire, potrebbero non bastare come simbolo della validità della politica economica di Obama.

 

ISTRUZIONE – Nella campagna elettorale 2008, la scuola occupava un posto d’onore. E l’istruzione è la sfera in cui Obama ha mantenuto il maggior numero di promesse. Nell’ambito dello stimolo economico, l’amministrazione in carica ha istituito un sistema di prestiti agli stati che riformano il sistema educativo, ad esempio rimuovendo di ostacoli per la fondazione di “charter schools” (istituti pubblici d’istruzione primaria e secondaria che grazie all’autonomia operativa garantiscono risultati pari a quelli delle scuole private, senza imporre rette annuali  che normalmente ammontano a decine di migliaia di dollari). Il fondo a favore delle riforme per la scuola, per il quale il Congresso ha stanziato più di 5 miliardi di dollari, ha supportato anche programmi di “mentorship” insegnante-alunno per ridurre il tasso di abbandono scolastico e l’assunzione di nuovi insegnanti di matematica e di scienze per favorire la diffusione di curricula ingegneristici e tecnologici. Per gli studenti universitari, invece, il bilancio degli interventi ë meno definitivo. Se inizialmente i democratici avevano promesso la detraibilità di 4.000 dollari per ogni studente al college, vincoli di budget non hanno concesso di salire oltre i 2.500 dollari, appena 700 dollari in più dell’era Bush. Inoltre, sebbene studi suggeriscano che la percentuale di studenti che si iscrive al college dopo il diploma di scuola media superiore ë cresciuta dal 34,9% nel 2005 al 41,4% nel 2009, è incerto se l’effetto possa essere attribuito alle iniziative del governo democratico. E’ probabile, infatti, che i risultati di questi interventi si vedano nei prossimi anni. Certo è che, eliminando nel 2010 i contributi alle finanziarie private, che speculavano sui fondi pubblici proponendo a studenti sprovveduti prestiti universitari a tassi quasi predatori, Obama ha liberato fondi che hanno consentito di aumentare i prestiti e i sussidi federali per aiutare le famiglie a pagare le altissime rette dei college americani.

 

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IMMIGRAZIONE – In ambito sociale, uno dei principali talloni d’Achille di Obama è la mancata riforma della legge sull’immigrazione. La comunità ispanica, che negli Stati Uniti rappresenta il gruppo etnico a maggior crescita demografica (il tasso di crescita dal 2000 al 2010 ë stato del 43% quattro volte superiore alla media nazionale del 9,7%), accusa Obama di non aver mantenuto le promesse, soprattutto per quel che riguarda l’approvazione del “Dream Act”, la legge che consentirebbe agli immigrati clandestini di ottenere un permesso di soggiorno permanente (la green card), purché abbiano meno di 35 anni, non abbiano precedenti penali, siano entrati illegalmente negli Stati Uniti da minori, e abbiano conseguito un diploma di scuola superiore. Messo alle strette durante un’intervista su Univision, il principale canale ispano-americano, poche settimane fa Obama si è scusato con la comunità latina, attribuendo l’impossibilità di approvare una riforma completa sull’immigrazione alla drammatica crisi economica che ha segnato gran parte del suo mandato, ma anche al mancato appoggio dei Repubblicani, in particolare del suo ex avversario presidenziale John McCain, che in precedenza aveva sostenuto il “Dream Act”. Nonostante l’insoddisfazione espressa verso la politica sull’immigrazione, il voto della comunità ispanica a Romney appare improbabile. Dopo tutto, Romney ha appoggiato il governatore repubblicano dell’Arizona quando questi, nell’agosto scorso, si è rifiutato di fornire documenti ai giovani che si qualificavano per il “Dream Deferred Action”, una versione ridotta del DREAM ACT che si estende ai giovani fino ai 31 anni e che consente loro di ottenere un permesso di lavoro (ma non la green card).

 

CONCLUSIONI – Agli occhi dei suoi sostenitori, Obama ha fatto ciò che era possibile dato lo scenario economico in cui si è trovato a operare e che è il risultato di anni di deregolamentazione dei mercati portata avanti dai Repubblicani. Secondo i suoi critici, la politica economica di Obama, fondata su ampi interventi di spesa pubblica di stampo Keynesiano, è destinata a fallire perché va contro i principi di libertà individuale e auto-realizzazione che permeano il tessuto sociale ed economico americano e porta a un aumento del debito pubblico. Resta da vedere da che parte stia la maggioranza degli elettori.

 

Esther Leibel

Le vie della seta sono infinite

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Torniamo ad occuparci di Asia centrale, sulla quale lo scorso giugno, in occasione del dodicesimo vertice della Shanghai Cooperation Organisation (SCO), sono tornate a riflettere le luci della ribalta internazionale. Facciamo il punto della situazione, per capire cosa corre lungo le nuove vie della seta in questo periodo, e cosa aspettarci nel futuro

 

LA MADRE PATRIA CHIAMA – L’Asia Centrale, considerata di importanza geostrategica fondamentale già agli inizi del XX secolo da uno dei sacri fondatori della geopolitica, Halford Mackinder, dopo il crollo dell’URSS, grazie alla propria posizione privilegiata e alle ricche riserve energetiche, è entrata velocemente nelle mire delle principali potenze mondiali.  Nonostante le cinque repubbliche ex sovietiche abbiano sulla carta ottenuto da tempo l’indipendenza politica dalla madre Russia, nella maggior parte di esse il governo di Mosca esercita ancora un ruolo fondamentale. La Federazione Russa, attraverso massicci investimenti nel settore energetico e la dipendenza di questi paesi dalla vendita delle proprie armi, manterrà ancora a lungo una forte influenza politica nella regione, ma la sua centralità, almeno dal punto di vista economico, sta lasciando spazio a nuovi attori internazionali.

 

FINO A SAMARCANDA LI GUIDERA’ – Primo tra questi è l’Unione Europea, che sino al 2010 ha rappresentato il primo attore commerciale dell’Asia Centrale. L’UE spinta dall’esigenza di diversificare i propri canali di approvvigionamento energetico, dopo la dissoluzione dell’URSS ha tentato di allacciare legami sempre più stretti con le cinque repubbliche, riportando in auge la storica ”Via della Seta” che per secoli rappresentò l’unico collegamento tra Oriente ed Occidente.  Anche gli Stati Uniti, nel tentativo di stabilire la loro presenza strategica nella regione, si sono riallacciati all’immaginario collettivo dell’età dell’oro di Samarcanda e con il lancio della “Nuova Via della Seta”, hanno cercato di sviluppare il potenziale centroasiatico attraverso l’istituzione, non ancora riuscita, di un’area di libero scambio e la costruzione di reti di comunicazione e infrastrutture energetiche. Una cooperazione incentrata anche sul tema della sicurezza, che dovrebbe coinvolgere le cinque repubbliche centroasiatiche nel ritiro delle truppe dall’Afghanistan, in cambio di un risarcimento economico e la promessa americana di lasciare parte dell’equipaggiamento militare utilizzato su suolo afgano ai loro eserciti.

 

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TRA I DUE LITIGANTI… – Dal 2010 la Cina, non solo ha soppiantato l’Unione Europea diventando il primo partner commerciale dell’Asia Centrale, ma ha anche scalzato il primato statunitense di maggior consumatore al mondo di energia, anticipando di gran lunga anche le più ottimistiche previsioni. Il crescente bisogno di energia ha così spinto anche l’Impero di Mezzo ad incamminarsi lungo l’antica Via della Seta. Le riserve energetiche centroasiatiche hanno infatti fornito alla Cina un’opportunità unica di diversificare i propri canali di approvvigionamento energetico nazionale, strategia necessaria per contrastare l’attuale precarietà della sicurezza energetica cinese, determinata dal transito obbligato di tre quarti delle proprie importazioni petrolifere attraverso lo stretto di Malacca e l’infestato Golfo dell’Aden.  Sono queste le ragioni alla base della progressiva penetrazione nell’affollato scacchiere centroasiatico del governo di Pechino, che come le altre grandi potenze mondiali si sta cimentando nell’impresa di ricostruire, in questo caso a suon di gasdotti e oleodotti, l’antica Via della Seta. I massicci investimenti nelle infrastrutture energetiche, in particolare nei più ricchi Kazakistan e Turkmenistan, stanno garantendo al paese un ruolo di preminenza nello scenario centroasiatico, infastidendo non poco le mire di riconquista russe.

 

SEI PERSONAGGI IN CERCA DI STABILITA’ – Nonostante siano in competizione dal punto di vista economico per le ricche riserve di idrocarburi, Russia e Cina si trovano a cooperare nella regione centroasiatica sul piano della sicurezza nel quadro della SCO, un’organizzazione internazionale composta oltre che da queste ultime, da quattro delle cinque repubbliche dell’Asia centrale ad eccezione del Turkmenistan. Tale organizzazione, promossa dalla Federazione Russa come una possibile risposta alla NATO, è considerata dalla Cina un valido strumento per sconfiggere i “tre mali” (separatismo, terrorismo ed estremismo) e tenere così sotto controllo le spinte indipendentiste degli Uiguri, abitanti della regione autonoma cinese dello Xinjiang, attraverso cui le pipeline cinesi sono destinate a transitare. Ancora, la scelta di conferire all’Afghanistan lo status di paese osservatore durante l’ultimo summit della SCO va letta come un chiaro tentativo di promuovere un approccio cooperativo alla sicurezza tra questi paesi, anche attraverso il rafforzamento dei legami economici e commerciali. E’ nel quadro di questa organizzazione che probabilmente Cina, Russia e le quattro repubbliche dell’Asia Centrale stanno ponderando di affrontare insieme l’instabilità che, con il ritiro delle truppe dall’Afghanistan dal 2014, si irradierà quasi inevitabilmente dal territorio afghano verso i loro confini. Mentre le maggiori potenze mondiali si proiettano in Asia Centrale, accalcate come i personaggi sul palcoscenico di una commedia pirandelliana, a ricostruire, ciascuna a suo modo, la propria personalissima Via della Seta, diventa sempre più arduo delineare il futuro di questa regione, tanto importante quanto instabile, senza quell’ordine fondamentale in cui ogni tassello possa trovare la sua piena e significativa collocazione.

 

Martina Dominici

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