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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Una poltrona per tre

Le elezioni presidenziali egiziane si avvicinano, con il primo turno il 23-24 maggio. Tra i dodici candidati, tre soltanto sembrano avere speranza di successo, e solo due di loro passeranno al secondo turno. In Occidente non si gioisce al leggere i nomi, tutti legati a gruppi e posizioni islamiche non sempre moderate, ma per l’Egitto votare è già di per sé un successo. Con i militari ancora al potere, riuscirà il nuovo presidente a diventare il campione del cambiamento?

VOGLIA DI VOTO – L’Economist riporta un interessante aneddoto riguardo al faccia a faccia televisivo dell’11 maggio scorso avvenuto tra due dei principali contendenti. In città, al Cairo, alcuni cittadini intervistati hanno dichiarato che le ragioni proposte dai due non erano la cosa di cui parlare: era più entusiasmante il fatto che, dopo decenni di dittatura, due candidati potessero discutere in TV su posizioni opposte e in libertà, prima di libere elezioni. Sta tutta qui l’eccezionalità dell’evento che il popolo egiziano sta per vivere: dopo la caduta di Mubarak, finalmente la possibilità di scegliere direttamente il capo dello stato. 

TRA SFIDANTI AI BLOCCHI E “SQUALIFICATI” – Tre sono i candidati più plausibili: Amr Moussa, ex-capo della Lega Araba, Abdel Moneim Aboul Fotouh, ex-membro della Fratellanza Mussulmana che si è “convertito” a una visione dell’Islam più riformista, e Muhammad Morsy, il candidato “di riserva” della Fratellanza stessa, dopo che il candidato principale, Khairat al-Shater, era stato escluso da una commissione elettorale nominata dall’esercito. Fuori gioco anche Omar Suleiman, ex-capo dei servizi di intelligence di Mubarak, considerato proprio l’uomo dei militari – e, mormorano i Fratelli, eliminato dalla corsa proprio per far sembrare l’esclusione di Shater imparziale. Nessuno dei candidati appare particolarmente allettante, né per l’Occidente né per la popolazione egiziana: Moussa appare il più liberale e meno legato agli aspetti religiosi, ma è giudicato troppo vicino al vecchio regime e per cercare i voti islamici ha cambiato posizioni più volte. Aboul Fotouh punta a un Islam riformista e molti islamici secolari lo appoggiano, ma al tempo stesso è appoggiato anche dai Salafiti e altri gruppi ultraconservatori: non è pertanto ancora chiaro pertanto quali saranno le sue posizioni. Morsy è invece la voce della Fratellanza, ma è giudicato poco carismatico rispetto al candidato escluso e probabilmente se eletto rischierà di essere solo un portavoce di posizioni di altri.

SORPRESE? – Attenzione però a dare a quest’ultimo la palma di vincitore anzitempo solo grazie al successo della Fratellanza nelle recenti elezioni parlamentari: proprio la difficoltà dei Fratelli a creare un’assemblea costituente, il dialogo continuo – e spesso visto come compromettente – con l’esercito e l’atteggiamento spesso un po’ prepotente di alcuni suoi esponenti dopo le elezioni ne ha minato la facciata di “integrità” che il gruppo si era costruito durante la dittatura. Se a questo si aggiunge come molte promesse pre-elettorali (“non concorreremo per più di un terzo dei seggi” e “non candideremo nessuno alla presidenza”) siano poi state ignorate (circa metà dei seggi, due candidati), si osserva come varie parti della società civile stiano rivedendo la propria valutazione dei Fratelli. Alcuni sondaggi – pur parziali e sicuramente non sempre affidabili – mostrano come il vantaggio delle elezioni si sia ora ridotto considerevolmente.

A OGNUNO IL SUO – Per ora basta però passare il turno, dopo il quale due soli candidati si sfideranno al ballottaggio il 16 e 17 giugno. E tutto per ora rimane aperto. Se Morsy rischia di scontare gli inaspettati problemi di popolarità della Fratellanza, anche Aboul Fotouh ha visto la sua popolarità calare proprio dopo il confronto televisivo con Moussa, che lo ha incalzato sulle incongruenze del suo programma e dei suoi sostenitori, così distanti tra loro. In molti temono che l’ex-Fratello Musulmano serva agli estremisti islamici semplicemente come “cavallo di troia” elettoralmente accettabile per prendere il potere. Lo stesso Moussa del resto soffre il fatto che dei nove candidati minori, molti hanno posizioni liberali che possono togliergli voti, rischiando di portarlo al terzo posto (e fuori dalla corsa). Tra i principali avversari in tal senso vi è Ahmed Shafiq, ex-premier dell’era Mubarak, troppo debole politicamente per vincere (ricorda troppo il vecchio regime) ma non per sottrarre consensi ai non-islamisti.

L’OMBRA LUNGA DEI MILITARI – Tutta questa sfida però nasconde un altro problema per l’Egitto: elezioni o no, quali poteri avrà il nuovo presidente? Le redini del paese sono ancora in mano all’esercito e come detto non esiste ancora un’assemblea costituente che possa creare una costituzione che stabilisca ruoli, compiti e prerogative; inoltre l’economia continua ad arrancare mentre gli investitori esteri rimangono in gran parte a osservare chi avrà la meglio. Il nuovo presidente avrà quindi un duro compito davanti a sé; ma chiunque vinca, se non ci saranno gravi incidenti o brogli, dovrà fare i conti con un popolo che sta sperimentando con sempre più gusto il sapore della democrazia. E che potrebbe non volerne più fare a meno.

Lorenzo Nannetti redazione@ilcaffègeopolitico.net

Dottor Stranamore a Teheran

La soluzione diplomatica della questione nucleare iraniana potrebebre essere alle porte con il doppio incontro Teheran-Baghdad in grado di sancire la svolta definitiva verso un approccio più razionale e meno dogmatico alla situazione attuale. Intanto nel mondo si traccia il bilancio della serie di eventi internazionali del week-end, con la linea economica per l'europa del G8 al vaglio di Bruxelles e la questione Afghanistan ancora sul tavolo a Chicago. Chissà che proprio in questi "7 giorni" il mondo non possa imparare come Stanley Kubrick "a non preoccuparsi e ad amare la bomba" anche se iraniana e probabilmente virtuale

EUROPA

Mercoledì 21 – Non si contano più i pranzi europei ormai noti per il loro livello informale in cui i capi di stato e di governo dell'UE sono chiamati a discutere le linee generali dell'azione del Consiglio Europeo presieduto da Herman van Rompuy. Il meeting di mercoledì avrà però il sapore della "prima volta" rappresentando il banco di prova a Bruxelles della nuova triade franco-italo-tedesca vista in azione a Camp David e Chicago. Se da una parte il nuovo Presidente francese François Hollande ha smentito le voci che davano per certo uno stravolgimento totale della politica europea di Parigi, dall'altra proprio Hollande sembra intenzionato a stringere un patto di ferro per la crescita con Mario Monti. La palla passa ora alla Germania, con la Grecia che galleggia veleggiando verso l'orizzonte incerto di nuove elezoni a giugno, riuscirà il timone dell'austerità a spostarsi di qualche grado verso una rotta meno pericolosa?

SERBIA"Da stasera, la Serbia ha un nuovo presidente". No, non si tratta del peggior incubo del premier uscente Boris Tadic, ma il risultato del ballottaggio elettorale di domenica, in cui il candidato conservatore Tomislav Nikolic ha di fatto scalzato il collega dal progetto per una nuova Serbia. Tadic non è riuscito a riconfermarsi a premier di Belgrado nonostante le intenzioni di voto gli attribuissero circa il 60% delle preferenze, neanche l'appoggio informale del partito socialista di Ivica Dadic è riuscito a sconfiggere la paura del salto nel vuoto verso Bruxelles. Quello che sembra aver influito di più nello stravolgimento delle previsioni delle urne sembra essere l'attuale politica economica dell'UE, i cui effetti sulla vita quotidiana sono ormai chiari anche ai cittadini dei c.d. "candidati". Quello di domenica è stato sicuramente "un referendum per l'Unione Europea", resta ora da vedere se la Serbia tornerà indietro sui suoi passi mettendo in discussione anche la linea morbida nei confronti della questione kosovara e delle minoranze in Bosnia.

AMERICHE

Lunedì 21 – Continua l'evento del NATO Summit, apertosi domenica con un focus sulla situazione afghana, occhi puntati dunque sull'incontro e la conferenza stampa del Presidente Obama e del suo collega di Kabul Karzai. L'intento, in parte raggiunto, era quello di distogliere l'attenzione dai recenti fallimenti delle trattative diplomatiche con la controparte talebana, Karzai e Obama hanno inoltre mostrato un fronte più compatto del solito sostenendo la bontà di fondo dell'intervento delle truppe ISAF e americane nella regione. Dubbi ed incertezze avvolgono invece l'accordo per la riapertura delle linee di rifornimento pakistane verso l'Afghanistan, l'unico vero motivo per cui il capo di stato di Islamabad, Asif Ali Zardari, è stato invitato a Washington. Obama ha chiarito ai suoi negoziatori che in caso di mancato accordo non sarà disposto ad incontrare ufficialmente Zardari, rendendo la missione a Chicago del Presidente ultra contestato in patria, un altro fiasco.

CUBA – Non bastava la tegola argentina alla voce "YPF" per il colosso petrolifero spagnolo Repsol, ora anche Cuba potrebbe rivelarsi meno promettente del previsto dopo che il primo lotto al largo della capitale si è rivelato privo di greggio e gas naturale. Come ha dichiarato il portavoce di Repsol "il pozzo di Repsol in Cuba non ha dato l’esito sperato e che stiamo procedendo nel chiudere ed abbandonare il lotto”. Le sorti delle trivellazioni spagnole a Cuba riguardano però anche l'ENI e quindi l'Italia dato che la piattaforma Scarabeo-9 utilizzata per le esplorazioni è parte di un accordo tra Saipem e Repsol che ne sancisce l'affitto da parte di quest'ultima per la cifra di 15 milioni di dollari al mese. Qualora le stime dei presunti giacimenti petroliferi al largo della costa cubana, le basi delle recenti aperture parziali nell'economia socialista dell'isola potrebbero subire un duro contraccolpo, mettendo in discussione il futuro della liberalizzazione avviata da Raùl Castro.

STATI UNITI-CINA – Il triste esilio dell'attivista fuggitivo Cheng Guangcheng sembra rappresentare l'esito della vicenda che ha messo a dura prova la tenuta della partnership di massima tra Washington e Pechino, in cui il ruolo della questione "diritti umani" resta sospesa. Cheng è arrivato nella tarda serata di domenica a Newark, in New Jersey, studierà a Manhattan presso la New York University dove ha annunciato che continuerà la sua battaglia per la giustizia e l'equità. Formalmente gli States escono vincenti dal confronto diplomatico con la Cina, portata alla ribalta delle cronache internazionali come attore insensibile alla causa dell'attivismo per i diritti umani, insensibilità se possibile aumentata dal fatto che il caso in questione riguardasse un non-vedente dalla nascita. Pechino d'ora in poi sarà ancora più accorta nel continuare a "lavare i panni sporchi in casa" visti i risultati delle temute ingerenze internazionali in questioni che competono alla sovranità territoriale.

AFRICA

CONGO – I fantasmi della guerra civile fanno il loro ritorno anche nella problematica provincia congolese del Kivu, dove i ribelli del CNDP sono tornati alle armi in seguito a voci e rumours a proposito di un'imminente consegna del loro leader Bosco Ntaganda alla CPI dove risulta tra i ricercati. Ntaganda era riuscito nel 2009 ad assicurare ai ribelli del CNDP un ruolo rilevante nell'esercito ufficiale congolese, inquadrati nelle truppe regolari avrebbero garantito la sicurezza della provincia di Kivu, diventando così una base istituzionale di potere. Quando ad Aprile il governo centrale ha minacciato di annullare lo stanziamento provinciale degli ex-ribelli la protesta è esplosa riattizzando le ceneri di un conflitto che risale ai primi anni '90. Secondo l'UNCHR più di 40 mila persone hanno abbandonato le loro case in seguito ai recenti scontri, che promettono di estendersi anche al territorio ugandese, usato dai ribelli come rifugio di ultima istanza.

GUINEA BISSAU – Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU e l'organizzazione regionale ECOWAS attendono le reazioni dei militari golpisti responsabili del colpo di stato in Guinea Bissau del 12 Aprile scorso. Riunitosi venerdì il massimo organo delle Nazioni Unite aveva approvato all'unanimità le sanzioni economico-diplomatiche alla leadership militare al potere proibendo loro spostamenti internazionali e promettendo ulteriori passi drastici tra cui l'embargo sugli armamenti. Proprio giovedì scorso l'Ecowas aveva dato inizio al dispiegamento di una forza regionale di 600 effettivi per la riforma del braccio militare e la gestione dell passaggio di potere verso una leadership civile. Anche il Segretario Generale Onu Ban Ki-moon è intervenuto sulla questione intimando ai militari di "tornare alle caserme, tenersi lontani da ogni coinvolgimento politico rispettando l'autorità civile e lo stato di diritto".

LIBIA – I risultati delle elezioni locali della culla della Primavera Araba libica potrebbero sancire il futuro dell'unità tra Cirenaica e Tripolitania, dopo il dibattito federalista che ha colpito la regione orientale e la città di Bengasi. Il Congresso della Cirenaica, la formazione politica che aveva dato il via alle polemiche sulla secessione, ha già promesso il boicottaggio delle elezioni politiche in programma il 19 giugno. I risultati delle comunali di Bengasi sono attesi per la fine della settimana, mentre il pensiero fisso dei votanti era rivolto al ritorno alla pace e alla tranquillità nella vita quotidiana, un lusso dopo la caduta di Gheddafi e l'imperversare delle milizie armate. Da Bengasi a Tripoli, dove domenica è deceduto Abdel Basset el-Megrahi, responsabile dell'attentato di Lockerbie del 1988, dove morirono 270 persone. Dubbi, complotti e incertezze hanno accompagnato il verdetto sull'ex agente dei servizi segreti libici, dopo che si erano levati dubbi sul testimone principale dell'accusa, ritenuto inaffidabile. 

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ASIA

Lunedì 21 – Torna l'incubo contaminazione/tsunami in Giappone, in una combinazione di eventi nefasti susseguitisi nel week-end, tra cui una serie di scosse telluriche con picchi di magnitudo 6.2 nelle regioni nord-occidentali, le stesse coinvolte dal disastro del 2011. Sempre nel week-end circa 330 mila persone si sono viste privare dell'acqua corrente nella zona di Tokyo dopo che nei sistemi di filtraggio di tubature e acquedotti sono state rinvenute concentrazioni allarmanti di formaldeide, sostanza tossica e potenzialmente letale. Grande attesa e sollievo per uno degli eventi astronomici più rari, circa 80 milioni di giapponesi potrebbero infatti godere dello spettacolo dell'eclissi anulare, il fenomeno che contrappone lòa luna al sole lasciando scoperta solo una sottile circonferenza della sfera solare. Da ben altra eclisse è invece colpita l'economia giapponese che ha festeggiato tuttavia la notizia di un'inversione di tendenza tale da permettere al PIL nazionale di raggiungere un picco di crescita del 4.2% su base annua.

CINA-FILIPPINE – Continuano questa settimana i negoziati tra le controparti di Pechino e Manila per la soluzione della controversia marittima per il controllo e la giurisdizione sulla tristemente famosa "Secca di Scarborough" la prima di una lunga lista di scogli, isolotti e banchi sabbiosi del Mar Cinese meridionale coinvolti in dichiarazioni plurime di sovranità. L'intento di Pechino è ormai chiaro anche agli osservatori filippini, che hanno evidenziato il tentativo sotterraneo di risolvere le varie questioni territoriali in via bilaterale invece che pervenire ad una conclusione concertata su base multilaterale come prescritto dagli accordi tra l'Asean e la Cina. Il testo di riferimento è proprio la Dichiarazione sul Codice di Condotta nel Mar Cinese Meridionale che richiederebbe la convocazione di un panel in cui tutti gli attori della regione marittima fossero rappresentati equamente, lasciando la Cina in minoranza rispetto al blocco più o meno compatto dell'ASEAN, appoggiato dagli Stati Uniti.

MEDIO ORIENTE

Lunedì 21 – Il Capo dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica Yukiya Amano s'incontrerà nella mattinata di lunedì con il negoziatore iraniano in materia nucleare Saeed Jalili, nel primo incontro del vertice dell'AIEA a Teheran dal 2009. La maggior parte delle fonti ha affermato che Amano non si sarebbe spinto in quel di Teheran se l'accordo per un nuovo round di ispezioni non fosse nell'aria. Il Ministro degli esteri iraniano Ali Akbar Salehi ha affermato che la visita è vista come un gesto di buona volontà dalla leadership di Teheran, nell'intento di scongiurare la morsa finale delle sanzioni economiche o addirittura l'ipotesi di uno strike preventivo. A conclusione del Summit G8 a Camp David, anche il Presidente americano Obama ha confermato la priorità dell'approccio diplomatico: "Samo tutti impegnati nel continuare con l'approccio delle sanzioni e della pressione in combinazione con le discussioni diplomatiche".

Lunedì 21 – Prosegue senza sosta l'esercitazione strategica di cooperazione di teatro Eager Lion 2012, un evento consueto organizzato dall'US Central Command in Giordania che quest'anno ha assunto proporzioni incredibili con forze e mezzi militari provenienti da 17 nazioni. Il "gioco" di quest'anno riguarda guerriglia asimmetrica, operazioni speciali, contro-insorgenza e risposta a situazioni di crisi ed emergenza. Oltre a permettere lo stanziamento di forze d'elite fino al 29 maggio nello scenario mediorientale, proprio ai confini della crisi siriana, l'evento permette al Regno di Giordania di assicurarsi contro possibili sconfinamenti delle truppe di Assad, come già accaduto in Turchia e Libano. Recentemente la Giordania è stata interessata da pesanti traffici di armi verso la Siria, mettendo alla prova lo status quo instabile dopo la Primavera Araba che ha provocato ad Amman la sostituzione del primo ministro e di parte del governo.

Mercoledì 23 – Dopo l'incontro di Teheran con Amano, il negoziatore iraniano per il nucleare Saed Jalili farà scalo a Baghdad, per il nuovo appuntamento con il negoziato che vede Cina, Francia, Germania, Regno Unito, Russia e Stati Uniti e l'Unione Europea da una parte e l'Iran dall'altra. L'Alto Rappresentante per la politica estera dell'UE Caterine Ashton coordinerà i lavori anche se nelle ultime settimane il flusso di notizie si è orientato più verso la soluzione diplomatica che verso i venti di guerra paventati da Gerusalemme. L'embargo totale di Bruxelles sul greggio iraniano è ormai alle porte, con la data fatidica fissata ai primi di luglio, sviluppi in senso positivo durante la settimana potrebbero però sbloccare la "pressione" prima dell'entrata in vigore.

Fabio Stella [email protected]

Sete di giustizia

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Da Bangkok – A due anni dal massacro, nessuna giustizia per le vittime del Maggio Rosso, l’incredibile ondata di proteste di piazza che sconvolse il Regno di Thailandia nella primavera del 2010. Circa cento vittime e più di mille feriti, il bilancio della discesa in campo dell’esercito, un italiano, il fotoreporter Fabio Polenghi, rimasto a terra vittima della sua voglia incrollabile di raccontare. E’ tempo di bilanci per le Camicie Rosse a Bangkok, mentre alla necessità di verità e giustizia il governo risponde offrendo amnistie per tutti

 

LA CAPITALE OCCUPATA – Il 19 maggio 2010 l’Esercito Reale Thailandese disperse definitivamente le camicie rosse dal centro di Bangkok. Per riportare l’ordine nella capitale assediata furono utilizzati carri armati, cecchini e soldati. Il prezzo, altissimo, fu di almeno 90 morti e circa 1300 feriti. Perse la vita anche il fotoreporter italiano Fabio Polenghi. E dire che solo due mesi prima le camicie rosse, in buona parte provenienti dal povero ma popoloso nordest del paese, erano entrate a Bangkok festanti e speranzose. Le camicie rosse avevano invaso la capitale in una serie di colorati e rumorosi caroselli per chiedere le dimissioni del primo ministro Abhisit Vejjajiva e l’indizione di nuove elezioni.

 

LUNGA VITA AL RE E AI MILITARI – Abhisit si era installato a capo del governo già due anni prima grazie ad un ribaltone organizzato dalla ‘mano invisibile’ delle gerarchie militari. A farne le spese era stato il governo guidato dal Partito del Potere Popolare, vicino alle camicie rosse ma inviso al complesso monarchico-militare. Fiduciose in una inevitabile vittoria politica in virtù del consistente seguito popolare, le camicie rosse erano decise a rimanere a Bangkok fino a quando il loro obiettivo non sarebbe stato raggiunto. Dopo aver dato vita, il 14 marzo, alla più imponente manifestazione nella storia thailandese, le camicie rosse occuparono alcuni luoghi simbolo di Bangkok, come la piazza dove si erge il Monumento alla Democrazia, adornato dalle sculture dell’artista italiano Corrado Feroci, e la zona di Ratchaprasong, il cuore commerciale della capitale.

 

MAGGIO ROSSO – Le trattative tra i leader delle camicie rosse e il governo andarono avanti per diverse settimane, mentre gli scontri tra dimostranti ed esercito si fecevano progressivamente piu intensi. Guidate dell’ex generale dell’esercito thailandese Khattiya Sawasdipol, conosciuto con il nome di Seh Daeng (Comandante Rosso), i leader delle camicie rosse promettevano di resistere fino alla vittoria. Seh Daeng, che sosteneva di poter sconfiggere i soldati con tattiche di guerriglia urbana, venne però ucciso da un cecchino mentre rilasciava un’intervista al New York Times. Più che una manifestazione di protesta, a Bangkok si assisteva oramai al preludio di una guerra civile o una vera e propria rivoluzione, tanto che molti osservatori descrissero la crisi come uno storico braccio di ferro tra il popolo e l’ammart (l’elite). Alla fine Abhisit, per nulla intenzionato ad abbandonare la poltrona di primo ministro e tornare alle urne, reagì dichiarando lo stato d’emergenza. Proibendo raggruppamenti di più di cinque persone, il decreto rendeva automaticamente fuorilegge la distesa di manifestanti radunata nella capitale, dando così il via libera all’intervento militare. E l’esercito intervenne, seppur ad un prezzo elevatissimo, sia in termini di vite umane, quasi cento vittime, sia in termini economici, con decine di edifici dati alle fiamme dalle camicie rosse in ritirata. Centinaia di manifestanti anti-governativi vennero incarcerati. Gli altri vennero impacchettati negli autobus e rispediti nelle campagne. Il governo iniziò la censura di giornali ‘rossi’, chiuse decine di radio e il blocco di migliaia di siti internet.

 

DUE PESI E DUE MISURE – I fatti del 2010 rappresentano uno dei capitoli più neri della storia del Regno di Thailandia, ma a due anni di distanza non un solo soldato o ufficiale responsabile della strage e’ stato individuate o imputato, ne’ tanto meno arrestato, processato, o condannato. La “giustizia” ha usato invece la mano pesante con i dimostranti: centinaia di camicie rosse – leader, militanti o semplici simpatizzanti – sono stati arresti con le accuse più disparate, dal danneggiamento di proprietà pubblica e privata all’ormai arcinota lesa maestà. Cinquantasette di loro si trovano ancora in prigione. Le camicie rosse parlano di “due pesi e due misure” mentre i settori filo-militari sostengono che la magistratura sia un’istituzione imparziale e che l’esercito abbia solamente svolto il suo dovere.

 

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POCO SPAZIO PER I DIRITTI – Nel report sulla situazione dei diritti umani nel mondo di Human Rights Watch (HRW) pubblicato nel 2011 si legge che “i Diritti Umani in Thailandia hanno subito un brusco e rapido deterioramentoe che “le autorità thailandesi hanno risposto con forza eccessiva alle proteste – a tratti violente – dei manifestanti. Fonte di particolare “preoccupazione” secondo HRW, è stata l’ostinazione del governo Abhisit nel “sostenere di rispettare i diritti umani mentre maltrattava i detenuti e portava avanti una vasta campagna censoria”. Le elezioni del luglio 2011 hanno sostituito il governo Abhisit con un governo di un altro colore, più vicino alle camicie rosse e da esse sostenuto, guidato dal partito Pheu Thai (Per i Thailandesi). Il nuovo primo ministro e’ Yingluck Shinawatra, sorella minore di Thaksin, ex primo ministro cacciato da un colpo di stato militare nel 2006 ma ancora idolatrato dai settori meno abbienti della popolazione.

 

IL PREZZO DELLA VERITA’ – Durante la campagna elettorale Yingluck e il Pheu Thai avevano promesso giustizia per le vittime della violenza del 2010. Nei primi mesi di governo pero il governo è apparso più impegnato a migliorare i suoi rapporti con gli esponenti del complesso monarchico-militare che a chiedere giustizia e a lavorare per ottenerla. Nel tentativo di promuovere una “riconciliazione nazionale” Yingluck ha stanziato due miliardi di baht (circa 50 milioni di euro) per le famiglie delle vittime delle violenze di quei mesi e ha proposto un’amnistia generale. Pur accogliendo con favore i risarcimenti economici, le vittime delle violenze si sono dichiarate non pienamente soddisfatte. Insieme ai soldi, molti vorrebbero anche giustizia. “I risarcimenti non saranno mai abbastanza per chi ha perso una persona cara” ha dichiarato Isabella Polenghi, sorella di Fabio, in una recente intervista al quotidiano thailandese The Nation. “La verità è la cosa più importante”

 

IL SANGUE DEI VINTI – Come già accaduto per altri episodi violenti nella storia del Regno della Thailandia, questo paese rischia nuovamente di cancellare con un colpo di spugna una intera pagina di storia. “Nonostante le ben documentate atrocità che ebbero luogo davanti a telecamere e testimoni oculari, non un soldato né un ufficiale sono stati indagati” ha dichiarato Brad Adams, direttore di Asia Human Rights Watch. Di fatto, un’amnistia generale significherebbe la libertà per le camicie rosse che si trovano ancora in carcere, alcune accusate meramente di reati di opinione, ma costituirebbe anche uno scudo definitivo per tutti gli individui responsabili degli abusi, della “forza eccessiva” e dei crimini di quei mesi. “I militari non dovrebbero essere al di sopra della legge continua Adams, “il governo deve perseguire i responsabili dei crimini, indipendentemente dal loro colore politico, per dare giustizia alle vittime e per porre fine al ciclo di violenza e impunità.”

 

LE VITTIME MERITANO GIUSTIZIA” – A due anni dal massacro, la volontà del governo Yingluck di cancellare con un’amnistia tutti i crimini, senza mostrare un vero interesse nell’accertare prima i fatti di quelle settimane, potrebbe essere visto da alcuni settori delle camicie rosse come un tradimento. In un video reso pubblico il 15 maggio di questo mese, le vittime e i familiari chiedono giustizia e avvertono che il fallimento nell’investigare e punire i responsabili degli abusi del 2010 rischia di trascurare una ferita ancora aperta. “Far passare una legge sull’amnistia per i seri abusi commessi dalle forze governative e dai manifestanti armati sarebbe un affronto per le vittime” sostiene Admas. “Le vittime cercano e meritano giustizia”.

 

 

Alessio Fratticcioli

In alto i pugni

Road to London – Nella nostra rubrica "E' solo un gioco?" torniamo a raccontarvi storie belle di sport, in cui le gesta eroiche degli atleti vanno ad intrecciarsi con la politica internazionale. Un binomio tante volte visto nella storia delle Olimpiadi, e che vogliamo presentarvi da qui fino ad agosto, quando inizierà la prossima edizione dei Giochi. Dopo Berlino 1936, si vola a Città del Messico, trentadue anni dopo, per un racconto dove si mescolano pugni chiusi, apartheid e pantere nere. Insomma, non diteci che non riconoscete questa foto… ma sapete cosa ci sta dietro?

È la notte del 16 ottobre 1968. Siamo a Città del Messico, per la diciannovesima edizione dei giochi olimpici. È da poco terminata la gara dei duecento metri piani. Con una rimonta strepitosa Tommie Smith, afroamericano, si assicura la medaglia d'oro davanti all'australiano Norman e al connazionale John Carlos, afroamericano anch'esso. I due atleti statunitensi aspettano da tempo l'occasione per poter stupire. Sembra che quel momento sia arrivato. Stupire, non facile in un Olimpiade come quella messicana e, più in generale, in un anno come il 1968.

OLIMPIADI E APARTHEID – Problemi di razzismo, che purtroppo si presentano sotto qualsiasi latitudine, scuotono la lunga vigilia olimpica. In febbraio a Grenoble, durante la decima edizione della rassegna invernale, il Presidente Brundage, lo stesso che diede l'assenso alla partecipazione della delegazione USA alla famigerata rassegna berlinese, tenta di far rientrare nel CIO il Sud Africa, espulso dal comitato alla vigilia dei giochi olimpici di Tokyo 1964. Non c'è posto per chi discrimina, apartheid e sport sono inconciliabili. Immediato e prepotente rimbomba il dissenso di molti paesi, primi tra tutti quelli del continente nero. In piena condanna contro un paese che «tratta i suoi atleti di colore come scimmie da vestire di velluto il giorno della festa, ma da ricacciare subito dopo nella foresta», 32 Paesi africani annunciano, 26 febbraio 1968, la loro volontà di boicottare qualora fosse concessa la partecipazione alla compagine sudafricana. Al coro si uniscono anche alcuni comitati olimpici europei, tra cui il CONI: “lo statuto olimpico non permette di invitare ai Giochi i concorrenti di nazioni che consentono distinzioni di razza e di religione.”

BLACK PANTHERS: WHAT WE WANT! – Nel frattempo, le rivolte studentesche impazzano in tutto il mondo. L'offensiva del Tet, il capodanno vietnamita, nel Gennaio 1968 non fa altro che aumentare il disappunto pubblico nei confronti della «sporca guerra» del Vietnam. L'obiettivo johnsoniano di politica interna di «raggiungere i neri e integrarli nel sistema politico urbano» non porta a concreti risultati. In un contesto sociale tanto movimentato il Black Panther Party,sorto nel 1966, si fa espressione, purtroppo non sempre pacificamente, dell'estrema ricchezza di fermenti della comunità afroamericana. Messe da parte le «estati calde» che incendiarono le città americane – New York e Los Angeles solo per citare le più importanti – e la morte del leader afroamericano Malcom X, tale ricchezza si trasfuse dal sociale in letteratura, arte, musica,politica. E, naturalmente, sport.

A PUGNI CONTRO L'OPPRESSIONE – Eccoci di ritorno ai nostri protagonisti: Smith e Carlos. Li abbiamo lasciati esultanti per la vittoria,è ora che ritirino la loro medaglia. Come anticipato, i due atleti afroamericani hanno intenzione di stupire. Non hanno ancora digerito gli assassini di Martin Luther King, premio Nobel per la pace quattro anni prima per la sua battaglia non violenta a favore dei diritti civili della gente di colore, e Robert Kennedy, candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti sensibile ai temi dell'uguaglianza sociale, avvenuti rispettivamente il 4 aprile e il 4 giugno 1968. In protesta a quanto avvenuto, alcuni candidati afroamericani della spedizione olimpica statunitense minacciano il boicottaggio. Su tutti, Smith e Lee Evans, formidabile quattrocentista. Ricordiamoci questo nome, ne sentiremo ancora parlare. A guidarli è un professore universitario, Harry Edwards: « l'oppressione cui i neri sono sottoposti negli Stati Uniti è grave come quella cui devono sottostare i neri sudafricani. È assurdo che atleti di colore debbano essere utilizzati come animali ammaestrati». La voglia di disertare è tanta, ma comunque inferiore a quella di stupire.

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IL COLPO DEL K.O. – È giunto il momento della premiazione. Una premiazione che nessuno dimenticherà più. Smith e Carlos si avviano verso il podio. È giunta l'ora di mettere in scena quanto preparato. Ci vuole tanto coraggio. La sera prima, in occasione della premiazione dei 100 metri piani, Jim Hines, loro compagno, non se l'è sentita. «Chiedo scusa. Non riesco». Ma per loro è diverso, sono in due.Consegna delle medaglie. Prima Smith, poi tocca a Norman. L'australiano, forse prevedendo l'importanza di quella premiazione, indossa una spilla simboleggiante la libertà per esprimere vicinanza ai rivali. Quindi Carlos, bronzo. È tutto pronto. Le note di Stars Spangled Banners risuonano nello stadio e i due afroamericani, di scatto, alzano al cielo il pugno guantato di nero, rivendicando dinanzi al mondo il «diritto all'autodifesa», motto delle Pantere Nere. I due dimostrano di non essere «animali buoni solo per correre» ma sanno bene che pagheranno a caro prezzo il loro gesto. Payton Jordan, capodelegazione Usa, minaccia i due atleti appena scesi dal podio e le conseguenze non tardano ad arrivare. Nella notte al villaggio olimpico scoppia una rissa gigantesca, ma Smith e Carlos sono già lontani: espulsi dal villaggio olimpico con effetto immediato.

DAL PUGNO AL BASCO – Ma le sorprese non sono terminate. Il giorno dopo è in programma la gara dei quattrocento metri piani. Ai blocchi di partenza si presenta, reduce dalla scazzottata notturna al villaggio olimpico e con un occhio nero, Lee Evans. Stravince, demolisce il record del mondo, ma non gli basta. Arriva il momento della premiazione. Ad affiancarlo sul podio ci sono James e Freeman. Neanche a dirlo, afroamericani. Si teme il bis del giorno precedente e,infatti, i tre si presentano a ritirare il simbolo di tante fatiche indossando il basco nero, emblema delle Black Panthers. Nessun pugno guantato questo volta, eppure accade qualcosa di particolare. Lee Evans non riesce a smettere di ridere: “ Pensavo mi avrebbero sparato, e allora mi sono imposto di ridere. È più difficile uccidere chi ride.

NON SOLO SMITH E CARLOS – Ma Città del Messico 1968 non è solo Tommie Smith e John Carlos. La rassegna messicana passerà alla storia come la prima che vide competere cecoslovacchi contro sovietici, in seguito all'intervento armato dell'Urss per reprimere la rivolta esplosa in primavera a Praga e, per la prima volta, tedeschi contro tedeschi. Fu la Germania dell'Est, convinta della propria supremazia sportiva (supremazia che tra l'altro verrà confermata dai medaglieri), a chiedere di poter partecipare separatamente durante una sessione del CIO svoltasi a Madrid, 1965. Ma fermenti e turbolenze non terminano qui. Pochi mesi dividono la rassegna olimpica dal maggio parigino e le proteste studentesche, scoppiate in ogni parte del mondo, giungono sino al sud America.

NELL'OCCHIO DEL CICLONE – In Messico, è la politica ultraconservatrice del presidente Gustavo Diaz Ordaz a provocare la rivolta. I miliardi di Pesos investiti nell'organizzazione dell'importante rassegna non riescono ad irretire la tensione sociale che culminerà, il 28 luglio 1968, a soli tre mesi dall'accensione della fiaccola olimpica, con la morte di 8 universitari. Nei giorni a seguire la situazione non migliora, tutt'altro. A poche ore di distanza migliaia di studenti, capitanati dal rettore Barros Sierra, sfilano per le vie di Città del Messico chiedendo, invano, al governo la destituzione di chi ha permesso che il massacro avvenisse e lo scioglimento del famigerato corpo speciale dei granaderos. Seguono proclamazioni di scioperi e disagi, ma nessuno poteva prevedere quel che accade il 3 ottobre: le forze dell'ordine intervengono per disperdere un affollato ritrovo studentesco in piazza delle Tre Culture, nel quartiere di Tlatelolco, sotto gli occhi inorriditi di giornalisti accorsi da tutto il mondo in vista della rassegna olimpica. In sole due ore, dalle sei alle 8 di sera, numerosi studenti perdono la vita. Quanti? Difficile rispondere con certezza. Poche decine secondo le autorità, tra i duecento e i trecento secondo la stampa internazionale.

LO SGUARDO OLTRE IL PODIO – L'Olimpiade messicana rappresenta, a detta degli storici, un «giro di boa per l'olimpismo moderno»,sicuramente alludendo alle sempre più strette implicazioni politiche dei giochi. E pensare che sarebbero potute passare alla storia come le olimpiadi mancate. Le turbolenze e i gravi incidenti che caratterizzarono i giorni immediatamente antecedenti alla rassegna rischiarono di provocare l'annullamento dell'Olimpiade. Fu l'ormai famoso Brundage,proprietario di un locale interdetto ai neri, a perorare, a tutti i costi, la causa olimpica. Se a Berlino fu Jesse Owens a rovinargli la festa, a Città del Messico ci pensarono i pugni neri di Tommie Smith e John Carlos, infilati nel costato dell'America razzista. «Il pugno chiuso, come dire solidarietà. Il capo chino e offeso. Niente scarpe, calze corte e nere, il simbolo della povertà e delle radici. La medaglia olimpica rappresenta molto per me, ma nella vita ci sono cose più importanti di una vittoria o di un primato». Questo è Tommie Smith, Come dargli torto?

Simone Grassi [email protected]

La primavera di Praga

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Il Paese mitteleuropeo presenta ancora buoni margini di crescita nonostante la crisi – La sua stabilità è dovuta allo stretto legame con la Germania, che garantisce ai prodotti uno sbocco su un mercato solido – Però crescono anche inflazione e disoccupazione – Praga è terreno fertile per le imprese italiane: Eni e Unicredit tra i primi investitori

 

Tratto da FIRSTonline

 

L’ECONOMIA REGGE – Il 2012 non è cominciato nel migliore dei modi per la Repubblica Ceca, rimasta orfana di Vaclav Havel. Scomparso il 18 dicembre 2011, Havel fu l’ultimo Presidente della Cecoslovacchia e il primo della neonata Repubblica Ceca: a lui si devono in larga parte i meriti di una transizione “morbida” dal socialismo all’economia di mercato e, soprattutto, di una scissione non cruenta con la Repubblica Slovacca, a differenza di quanto accaduto in ex-Jugoslavia. A vent’anni dalla separazione tra Praga e Bratislava, cosa rimane dello slancio verso lo sviluppo e la rapida crescita economica? I dati rivelano che l’economia di Praga è ancora in buona salute: nonostante la crisi, nel 2011 il Pil è cresciuto dell’1,7% mentre le previsioni per il 2012 parlano di un +0,8%. Numeri sicuramente non entusiasmanti ma che, in un contesto di grande difficoltà come quello europeo, non vanno giudicati negativamente. Andando più in profondità, si nota infatti come il tessuto economico ceco sia ancora vitale: la produzione industriale è cresciuta del 6,9% nel 2011 trainata dal settore automobilistico (seppur con una tendenza calante negli ultimi mesi dell’anno), mentre le esportazioni sono aumentate del 10,1%. Un vero e proprio boom che si spiega sostanzialmente in due modi. Innanzitutto, l’economia della Repubblica Ceca è legata a doppio filo con quella tedesca: questa relazione geoeconomica è fondamentale in quanto consente a Praga di avere uno stabile mercato di sbocco per i suoi prodotti e anche di essere un “hub” strategico per gli investimenti della Germania e dell’Austria. E poi, lo Stato mitteleuropeo non ha ancora adottato l’euro, a differenza della “sorella minore” Slovacchia: questo consente alle autorità di mantenere ancora una certa autonomia in tema di politica monetaria.

 

… MA NON MANCANO I PROBLEMI – A dispetto di queste statistiche lusinghiere, vi sono però altri indicatori non così positivi. A preoccupare è soprattutto l’inflazione, che a gennaio ha toccato il 3,5% (sfiorando il 10% nel settore dei beni alimentari), soprattutto a causa dell’aumento dell’IVA (al 14% dello scaglione che prima era al 10%) e del costo dell’energia. Un altro problema è rappresentato dalla disoccupazione, in crescita verso un livello del 10% soprattutto nelle regioni più periferiche e distanti da Praga: sintomo di un’economia duale (presente qui come in molti altri Paesi europei) il cui schema è difficile da modificare in maniera definitiva.

 

PROTESTE SOCIALI – In queste settimane, un certo fermento nella vicende politiche e sociali sta agitando le acque della Moldava, solitamente placida. Da una parte, infatti, ha fatto scalpore la repentina concessione dell’asilo politico a Oleksandr Tymoshenko, marito di Yulia, ex premier dell’Ucraina ora in carcere in patria (è stata condannata a sette anni di reclusione per abuso di potere). Tymoshenko è riuscito a rifugiarsi in Repubblica Ceca probabilmente in virtù di amicizie ed interessi nel settore imprenditoriale locale, dove le sue credenziali e frequentazioni non sono proprio cristalline. La Repubblica Ceca è un centro “rinomato” per il transito di “soldi sporchi” (le autorità finanziarie hanno stimato traffici per cento miliardi di corone (circa quattro miliardi di euro) e nella classifica di Transparency International per quanto riguarda il livello di corruzione si trova al 57esimo posto mondiale. Dall’altra parte, il Governo di Petr Necas, nella foto a destra (che ha sostituito Mirek Topolanek alla guida del Partito Democratico Civico) ha dovuto fronteggiare negli scorsi mesi le proteste degli studenti verso la riforma dell’università, che dovrebbe diventare a pagamento e affidare alle banche la gestione di un sistema di agevolazioni agli studenti sottoforma di “prestiti d’onore”. Le contestazioni non sono tanto verso l’imposizione di una retta, quanto verso la decisione di lasciare alle banche il compito di erogare finanziamenti agli studenti, quando lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto, secondo i manifestanti, attraverso lo stanziamento di fondi pubblici da fornire alle università.

 

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IL PANORAMA DEGLI INVESTIMENTI – Queste polemiche tuttavia non privano la Repubblica Ceca dell’immagine di Paese attrattivo per gli investimenti esteri. Praga è trentesima nel mondo per quanto riguarda la libertà economica secondo la classifica dell’Heritage Foundation-Wall Street Journal e agli ultimi posti in Europa per il costo del lavoro (9,68€ l’ora secondo Eurostat. L’Italia gestisce il 4% dell’interscambio commerciale complessivo della Repubblica Ceca (quindi sia in termini di import che export), mentre si trova in una posizione più arretrata per quanto riguarda gli investimenti (0,4% del totale). L’investitore principale è l’italiana Eni ed è leader nelle attività di produzione e raffinazione petrolifera, mentre per quanto riguarda il settore bancario è UniCredit, quarta banca del Paese con 57 filiali e assets per 11,7 miliardi di euro. A vent’anni dalla sua nascita, dunque, la Repubblica Ceca è ancora uno Stato giovane che non ha perso il suo dinamismo e la capacità di crescere e produrre. La crisi europea si fa sentire anche da queste parti: la dipendenza dalla Germania, la cui economia è ancora in buona salute, consente però di attutire parzialmente gli effetti negativi di questa congiuntura. Esistono indubbiamente ulteriori spazi per imprenditori italiani che abbiano le capacità – e in questo periodo anche il coraggio – per investire.

Il tempo stringe

I campi profughi in Sudan del Sud ed Etiopia sono ormai al collasso e l’UNHCR sta cercando di accelerare quanto possibile il loro ampliamento: oltre a interi villaggi in fuga dalla guerra, ci sono decine di migliaia di cittadini di Juba che stanno cercando di abbandonare i confini di Khartoum per tornare a casa. In Guinea Bissau, l’ECOWAS continua a temporeggiare, dichiarandosi pronta a inviare un contingente militare, ma attendendo il riscontro dei militari al potere nel Paese. In Algeria, il FLN del presidente Bouteflika vince le elezioni. I furti di petrolio in Nigeria. Il raid degli elicotteri europei contro le basi dei pirati in Somalia. Nuovo attentato in Kenya. Duecento miliardi di metri cubi di gas scoperti dall’Eni in Mozambico. La deforestazione in Congo e nell’Africa subsahariana

 

EMERGENZA RIFUGIATI IN SUDAN – Nell’area sudanese è sempre maggiore il numero dei rifugiati sia in transito verso Juba, sia in fuga verso l’Etiopia. Secondo l’UNHCR, dall’inizio di maggio sarebbero circa duemila i profughi giunti dal Nilo Blu nella regione etiope di Assosa, dove già sono presenti 35mila sfollati. I campi dello Stato dell’Unità, nel Sudan del Sud, hanno accolto in poche settimane 3.200 rifugiati provenienti dai Monti Nuba, mentre nella regione del Nilo Superiore l’ONU ha confermato la presenza di 70mila persone. In totale, secondo recenti stime dell’Alto Commissariato, sarebbero oltre centomila i sudanesi fuggiti verso i confini di Juba. A incidere in modo significativo sulle cifre è il rientro delle famiglie che si spostarono verso Khartoum durante la cruenta guerra civile ufficialmente terminata nel 2005: le statistiche dell’International Organization for Migration, infatti, riportano che, dall’ottobre del 2010 al maggio del 2012, almeno 376mila persone abbiano varcato la frontiera, ma è probabile che un altro milione di cittadini di Juba debba ancora mettersi in marcia. Di questi, tra i 10mila e i 15mila sono bloccati nello Stato del Nilo Bianco, in Sudan, in attesa delle chiatte che li trasporteranno verso il Sud Sudan per via fluviale.

 

GUINEA BISSAU: INCERTEZZA ECOWAS – La commissaria dell’ECOWAS per gli Affari politici, la Pace e la Sicurezza, Salamatu Suleiman, ha annunciato che un contingente internazionale composto da seicento tra soldati e poliziotti è pronto a intervenire in Guinea Bissau per facilitare il ritorno alla normalità. L’azione della Comunità è sostenuta sia dall’ONU, sia dall’Unione africana, ma ancora il progetto è subordinato alle trattative con i militari al potere nel Paese. Suleiman ha riferito che l’invio di truppe deve essere specificamente richiesto dalle Istituzioni locali, oppure approvato dalle stesse su proposta dell’ECOWAS, al fine di evitare ingerenze negli affari interni dei singoli Stati, così come ricordato dal presidente Alassane Ouattara la scorsa settimana riguardo al Mali. Tuttavia, il regolamento della Comunità economica dell’Africa occidentale prevede che il Consiglio dei capi di Stato e di Governo possa disporre un intervento armato senza l’autorizzazione dei Paesi interessati quando questi si trovino in condizioni di gravissima instabilità. Per il momento, quindi, sembra che, piuttosto che impossibilitata ad agire, l’ECOWAS sia prima di tutto riluttante a prendere una posizione decisa: il rischio, tuttavia, è di lasciar scivolare Mali e Guinea Bissau verso un abisso ancora peggiore.

 

ELEZIONI IN ALGERIA – La Corte costituzionale algerina ha confermato i risultati delle elezioni del 10 maggio scorso. A ottenere la vittoria è il Fronte di liberazione nazionale del presidente uscente Abdelaziz Bouteflika, che si aggiudica 221 seggi su 462, ai quali devono essere aggiunti i 70 parlamentari del partito alleato, il Rassemblement National Démocratique. Nella maggioranza, tuttavia, non mancano i dissidi, poiché, da un lato, è sempre più forte  l’opposizione interna al segretario Abdelaziz Belkhadem, dall’altro, molti militanti chiedono che il primo ministro sia un membro del FLN, anche a costo di rompere l’alleanza con il RND. L’esito delle consultazioni è stato contestato dai partiti islamici, soprattutto dalle tre compagini presentantisi nella coalizione dell’Alleanza verde.

 

FURTI DI PETROLIO IN NIGERIA – La Nigeria ha lanciato l’allarme per il costante furto di petrolio che potrebbe causare una vera e propria crisi fiscale nel Paese. Mentre Abuja concentra attenzione e risorse alla lotta contro Boko Haram, nel delta del Niger sta assumendo sempre maggiore rilevanza un fenomeno dalle dimensioni inattese: secondo Shell, infatti, nel 2011, la sottrazione di oro nero, tramite furto di barili, sequestro di navi o interruzione delle vie di trasporto, sarebbe costata 6 miliardi di dollari. Ad aprile, le esportazioni nigeriane sono ammontate a 1,85 milioni di barili il giorno, in calo rispetto a marzo e nettamente inferiore agli 1,96 milioni stimati per il mese. La Nigeria sta perdendo circa il 15% del petrolio estratto a causa dei furti, con una media di 150mila barili rubati al giorno. Il governo di Abuja ha dispiegato squadre delle forze di sicurezza nel tentativo di limitare il fenomeno, sottoponendo al contempo al Parlamento una serie di misure per compensare i danni subiti dal settore estrattivo e dalle casse dello Stato.

 

RAID EUROPEO IN SOMALIA – Per la prima volta, la missione dell’Unione europea in Somalia, “Atalanta”, ha lanciato un’offensiva sulla terraferma, colpendo per via aerea alcuni siti che accoglievano equipaggiamento dei pirati. Secondo la BBC, l’operazione sarebbe stata condotta tramite elicotteri sollevatisi da navi della coalizione e avrebbe raggiunto tutti gli obiettivi preposti, in particolar modo la distruzione di depositi di armi e munizioni. Il comandante della missione, il contrammiraglio Duncan Potts, ha specificato che nell’azione non sono state impiegate truppe di fanteria.

 

ANCORA SANGUE IN KENYA – Il Kenya è stato colpito da un nuovo attentato. Il 15 maggio, a Mombasa, tre uomini ai quali era stato vietato l’ingresso a un noto locale della città, il Bella Vista, hanno aperto il fuoco contro gli addetti alla sicurezza, scagliando poi una o due granate. Una donna del personale è morta in ospedale, mentre tre suoi colleghi restano tuttora in gravi condizioni. Nella giornata di mercoledì, la polizia ha comunicato di aver arrestato un sospettato, forse collegato al gruppo somalo al-Shabaab.

 

SCOPERTA DELL’ENI IN MOZAMBICO – L’Eni ha annunciato di aver scoperto al largo delle coste del Mozambico un giacimento che potrebbe contenere tra i 200 e i 300 miliardi di metri cubi di gas, a fronte di un potenziale complessivo della cosiddetta Area 4 stimato tra i 1.330 e i 1.471 miliardi di metri cubi. La società italiana opera nella regione con il 70% delle quote e la notizia è giunta proprio mentre l’Unione europea stava approvando la proposta di una joint venture tra BP, Chevron, Eni, Total e Sonangol (compagnia angolana) per la costituzione della società di estrazione e distribuzione Angola LNG.

 

PIAGA DEFORESTAZIONE IN CONGO – La problematica della deforestazione nella Repubblica democratica del Congo continua a preoccupare la comunità internazionale, nonostante una moratoria proibisca al governo locale di rilasciare nuove autorizzazioni per il disboscamento a uso industriale. Secondo Greenpeace, tale divieto sarebbe facilmente e costantemente aggirato attraverso la concessione di permessi per l’abbattimento di alberi a consorzi artigiani, i quali, in realtà, coprirebbero gli interessi di società più grandi. L’organizzazione ambientalista ha sollecitato Kinshasa affinché tale pratica sia evitata e le autorizzazioni approvate solo in virtù del rispetto di rigidi parametri di controllo.

 

Beniamino Franceschini

La Repubblica che non c’è

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L’Europa dell’Est è vasta e molti sono gli avvenimenti che coinvolgono i suoi Paesi ed anche attori esterni alla regione; ma c’è un luogo dove il tempo, almeno fino a pochi mesi fa, è sembrato fermarsi per circa due decenni, bloccando ogni sviluppo e permettendo soltanto il perdurare di atmosfere che sanno di sovietiche nostalgie. Vi portiamo in una nazione che non esiste. Benvenuti in Transnistria

I FIORI DEL MALE – Le dinamiche che hanno portato all’attuale situazione nacquero con l’instaurarsi del potere sovietico nell’area all’inizio degli anni venti, a seguito del quale la Transnistria smise di essere una regione autonoma dell’Ucraina e fu incorporata nella nascente Repubblica Socialista Sovietica Moldava. La Moldavia, come la Valacchia, sono i regni originari di quella che ora è la Nazione rumena e di conseguenza sono molti i punti di contatto tra le rispettive culture, a partire dall’idioma molto simile; i sovietici avviarono un processo di russificazione per cercare di soffocare l’idea spesso ricorrente di annessione alla Romania, senza tuttavia ottenere risultati stabili: i caratteri cirillici, introdotti nel ’24, vennero soppiantati dal ritorno dei caratteri latini alla fine degli anni ’80, quando la presa di Mosca sulla piccola repubblica si allentò.

IL GIOCO DELLE PARTI – Questo singolo caso è la dimostrazione lampante di come negli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica si avviò un processo di riscoperta delle proprie radici etnico-culturali che portò, tra gli altri fattori, il 27 agosto 1991, alla dichiarazione di indipendenza della Moldavia. Nacque così uno Stato che, ufficialmente, ancora comprende la regione transnistriana, ma con un problema: la Transnistria è a maggioranza etnica russa. e tale popolazione si volle tutelare dall’etnia rumeno-moldava dichiarando anch’essa l’indipendenza dopo una serie di proteste e iniziative cominciate dopo la decisione di eliminare il russo come lingua ufficiale dello Stato e andate avanti per anni. Iniziò così un conflitto che ancora oggi non è risolto.

L’ADDIO ALLE ARMI? NJET, SPASIBA – A difendere la minoranza russa ci pensò la 14° Armata Sovietica, già di stanza sul territorio e sotto il cui controllo vi era il più grande arsenale del “vecchio continente”, situato a Tiraspol (attuale capitale della regione). Fu un conflitto impari a causa dell’inesperienza del neonato esercito moldavo, che non riuscì a sedare le spinte secessioniste; si giunse così all’indipendenza de facto della ribattezzata Repubblica Moldava di Pridnestrovie, mai riconosciuta dalla grandissima maggioranza della Comunità Internazionale. Igor Smirnov divenne presidente della repubblica, furono creati un esercito ed una moneta, il rublo della Transnistria, e questa terra divenne una sorta di exclave russa; ad oggi poco è cambiato, ma all’orizzonte si intravedono possibili sviluppi.

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IL TRONO DI CARTA SCRICCHIOLA – Quali sono questi segnali di cambiamento? Uno su tutti è il risultato delle elezioni tenutesi nel dicembre scorso nel minuscolo Stato: Igor Smirnov, candidato anch’egli ancora una volta, è arrivato soltanto terzo dietro a Anatoly Kaminsky, il candidato del Cremlino, e al nuovo presidente Evgenij Shevchuk. Ciò che ha permesso l’elezione di questo “outsider” è stato il malcontento diffuso tra la popolazione, desiderosa di un nuovo corso che dia slancio ai negoziati sullo status del “Paese al di là del Nistro” e di una ripresa dell’economia, debolissima, in larga misura dipendente dai finanziamenti russi e ancora in larga parte fondata sull’agricoltura (nonostante un piccolo nucleo di industrie, paralizzate però dall’isolamento dello Stato). Il neo-presidente si destreggia ora tra continuità con la politica fino ad ora seguita e segnali di distensione con Moldavia e Occidente: in un incontro avvenuto a gennaio in Russia si è auspicato un ulteriore rafforzamento delle relazioni tra Tiraspol e Mosca, al contempo si ipotizza l’introduzione nel territorio del rublo russo a fianco di quello transnistriano.

DISTENSIONE SU ENTRAMBE LE SPONDE – Per quanto riguarda i segnali di distensione, in un’altra dichiarazione Shevchuk ha detto che è importante il dialogo con Kiev e Chisinau (capitale moldava) così da raggiungere l’agognato riconoscimento, permettendo magari al contempo un allentamento delle restrizioni ai passaggi trans-frontalieri per i cittadini e le merci transnistriane. Ed il momento per il rilancio del dialogo è certo favorevole: l’interlocutore principale, vale a dire la Moldavia, è recentemente uscito da una crisi istituzionale durata 917 giorni; tale è stato il periodo per il quale il seggio di presidente della repubblica è stato vacante a causa di una paralisi in parlamento, diviso tra comunisti e coalizione di centro-destra (attualmente al governo) impedendo di raggiungere il quorum di voti favorevoli alla nomina. Ma ora l’ex-presidente del consiglio superiore della magistratura, Nicolae Timofti, ha assunto il ruolo di Capo dello Stato moldavo e lo stesso Shevchuk avrà salutato l’avvenimento come un episodio di stabilizzazione importante per il rilancio dei colloqui di pace, stando a quanto ha tempo fa espresso: “Senza un presidente in Moldavia, il dialogo tra Chisinau e Tiraspol non può procedere”.

L’ANNO CHE VERRA’ – Dunque l’ipotesi del riavvio dei contatti tra governi e organizzazioni internazionali maggiormente interessati nella soluzione del caso non è del tutto da scartare. Il cosiddetto “gruppo 5+2” che coinvolge Moldavia, Transnistria, Ucraina, Russia ed OCSE più USA e UE come osservatori esterni, per riattivarsi e concludere con successo la propria missione, deve superare degli ostacoli non indifferenti: il primo è che la Russia ha sempre preferito la strada dei rapporti bilaterali, nei quali può far pesare maggiormente la propria opinione e tutelare più facilmente i propri interessi sulle rive del Nistro. Un secondo ostacolo è il dilemma sul destino di quei circa 1100 soldati russi che pattugliano il confine tra i due contendenti ed in sostanza garantiscono l’indipendenza del piccolo Stato secessionista; il ritiro di ogni forza militare (che opera sotto la supervisione dell’OCSE) dovrà essere ben studiato per evitare che il territorio cada definitivamente in mano alla criminalità organizzata, che in questi venti anni ha potuto coltivare comodamente i propri interessi e traffici internazionali.

NON APRITE QUELLA PORTA – Un altro problema sarà la gestione degli arsenali presenti nella regione, nonché di quei materiali “sensibili” che potrebbero finire nelle mani di organizzazioni terroristiche internazionali: ad esempio nel 2005 furono scoperti delle batterie di razzi Alazan con testate ad isotopi radioattivi, da allora sotto l’attenzione del Pentagono, che non ha però potuto far altro che constatare nel 2009 che alla cifra iniziale dei razzi ne mancavano dieci. La Transnistria è dunque ancora una terra che vive in un limbo tra un passato sovietico visibile in tutti i simboli dello Stato ed un futuro come Stato indipendente e sovrano; è una zona franca per reti criminali e terroristiche che dovrebbe vedere risolte le proprie dispute con la Moldavia quanto prima, perché nonostante il suo conflitto sia inserito tra quelli congelati dello spazio ex-sovietico, la situazione è incandescente.

Matteo Zerini [email protected]

Vent’anni… e non sentirli

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L’Europa dell’Est è vasta e molti sono gli avvenimenti che coinvolgono i suoi Paesi ed anche attori esterni alla regione; ma c’è un luogo dove il tempo, almeno fino a pochi mesi fa, è sembrato fermarsi per circa due decenni, bloccando ogni sviluppo e permettendo soltanto il perdurare di atmosfere che sanno di sovietiche nostalgie. Benvenuti in Transnistria

LE ORIGINI DEL CONFLITTO – Le dinamiche che hanno portato all’attuale situazione nacquero con l’instaurarsi del potere sovietico nell’area all’inizio degli anni venti, a seguito del quale la Transnistria smise di essere una regione autonoma dell’Ucraina e fu incorporata nella nascente Repubblica Socialista Sovietica Moldava. La Moldavia, come la Valacchia, sono i regni originari di quella che ora è la nazione rumena e di conseguenza sono molti i punti di contatto tra le rispettive culture, a partire dall’idioma molto simile; i sovietici avviarono un processo di russificazione per cercare di soffocare l’idea spesso ricorrente di annessione alla Romania, senza tuttavia ottenere risultati stabili: i caratteri cirillici, introdotti nel ’24, vennero soppiantati dal ritorno dei caratteri latini alla fine degli anni ’80, quando la presa di Mosca sulla piccola repubblica si allentò. Questo singolo caso è la dimostrazione lampante di come negli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica si avviò un processo di riscoperta delle proprie radici etnico-culturali che portò, tra gli altri fattori, il 27 agosto 1991, alla dichiarazione di indipendenza della Moldavia. Nacque così uno Stato che, ufficialmente, ancora comprende la regione transnistriana, ma con un problema: la Transnistria è a maggioranza etnica russa. La popolazione si volle tutelare dall’etnia rumeno-moldava dichiarando anch’essa l’indipendenza dopo una serie di proteste e iniziative cominciate dopo la decisione di eliminare il russo come lingua ufficiale dello Stato e andate avanti per anni. Iniziò così un conflitto che ancora oggi non è risolto. L’ARRIVO DELLA GLACIAZIONE – A difendere la minoranza russa ci pensò la 14°  Armata Rossa, già di stanza sul territorio e sotto il cui controllo vi era il più grande arsenale del “vecchio continente”, situato a Tiraspol (attuale capitale della regione). Fu un conflitto impari a causa dell’inesperienza del novizio esercito moldavo, che non riuscì a sedare le spinte secessioniste; si giunse così all’indipendenza de facto della ribattezzata Repubblica Moldava di Pridnestrovie, mai riconosciuta dalla grandissima maggioranza della Comunità Internazionale. Igor Smirnov divenne presidente della repubblica, furono creati un esercito ed una moneta, il rublo della Transnistria, e questa terra divenne una sorta di exclave russa; ad oggi poco è cambiato, ma all’orizzonte si intravedono possibili sviluppi.

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L’EFFETTO SERRA IN TRANSNISTRIA – Quali sono questi segnali di cambiamento? Uno su tutti è il risultato delle elezioni tenutesi nel dicembre scorso nel minuscolo Stato: Igor Smirnov, candidato anch’egli ancora una volta, è arrivato soltanto terzo dietro a Anatoly Kaminsky, il candidato del Cremlino, e al nuovo presidente Evgenij Shevchuk. Ciò che ha permesso l’elezione di questo “outsider” è stato il malcontento diffuso tra la popolazione, desiderosa di un nuovo corso che dia slancio ai negoziati sullo status del “Paese al di là del Nistro” e di una ripresa dell’economia, debolissima, in larga misura dipendente dai finanziamenti russi e ancora in larga parte fondata sull’agricoltura (nonostante un piccolo nucleo di industrie, paralizzate però dall’isolamento dello Stato). Il neo-presidente si destreggia ora tra continuità con la politica fino ad ora seguita e segnali di distensione con Moldavia e Occidente: in un incontro avvenuto a gennaio in Russia si è auspicato un ulteriore rafforzamento delle relazioni tra Tiraspol e Mosca, al contempo si ipotizza l’introduzione nel territorio del rublo russo a fianco di quello transnistriano; per quanto riguarda i segnali di distensione, in un’altra dichiarazione Shevchuk ha detto che è importante il dialogo con Kiev e Chisinau (capitale moldava) così da raggiungere l’agognato riconoscimento, permettendo magari al contempo un allentamento delle restrizioni ai passaggi trans-frontalieri per i cittadini e le merci transnistriane. Ed il momento per il rilancio del dialogo è certo favorevole: l’interlocutore principale, vale a dire la Moldavia, è recentemente uscito da una crisi istituzionale durata 917 giorni; tale è stato il periodo per il quale il seggio di presidente della repubblica è stato vacante a causa di una paralisi in parlamento, diviso tra comunisti e coalizione di centro-destra (attualmente al governo) impedendo di raggiungere il quorum di voti favorevoli alla nomina. Ma ora l’ex-presidente del consiglio superiore della magistratura, Nicolae Timofti, ha assunto il ruolo di Capo dello Stato moldavo e lo stesso Shevchuk avrà salutato l’avvenimento come un episodio di stabilizzazione importante per il rilancio dei colloqui di pace, stando a quanto ha tempo fa espresso: “Senza un presidente in Moldavia, il dialogo tra Chisinau e Tiraspol non può procedere”. QUELLO CHE VERRÀ – Dunque l’ipotesi del riavvio dei contatti tra  governi e organizzazioni internazionali maggiormente interessati nella soluzione del caso non è del tutto da scartare. Il cosiddetto “gruppo 5+2” che coinvolge Moldavia, Transnistria, Ucraina, Russia ed OCSE più USA e UE come osservatori esterni, per riattivarsi e concludere con successo la propria missione, deve superare degli ostacoli non indifferenti: il primo è che la Russia ha sempre preferito la strada dei rapporti bilaterali, nei quali può far pesare maggiormente la propria opinione e tutelare più facilmente i propri interessi sulle rive del Nistro. Un secondo ostacolo è il dilemma sul destino di quei circa 1100 soldati russi che pattugliano il confine tra i due contendenti ed in sostanza garantiscono l’indipendenza del piccolo Stato secessionista; il ritiro di ogni forza militare (che opera sotto la supervisione dell’OCSE) dovrà essere ben studiato per evitare che il territorio cada definitivamente in mano alla criminalità organizzata, che in questi venti anni ha potuto coltivare comodamente i propri interessi e traffici internazionali. Un altro problema sarà la gestione degli arsenali presenti nella regione, nonché di quei materiali “sensibili” che potrebbero finire nelle mani di organizzazioni terroristiche internazionali: ad esempio nel 2005 furono scoperti delle batterie di razzi Alazan con testate ad isotopi radioattivi, da allora sotto l’attenzione del Pentagono, che non ha però potuto far altro che constatare nel 2009 che alla cifra iniziale dei razzi ne mancavano dieci. La Transnistria è dunque ancora una terra che vive in un limbo tra un passato sovietico visibile in tutti i simboli dello Stato ed un futuro come Stato indipendente e sovrano; è una zona franca per reti criminali e terroristiche che dovrebbe vedere risolte le proprie dispute con la Moldavia quanto prima, perché nonostante il suo conflitto sia inserito tra quelli congelati dello spazio ex-sovietico, la situazione è incandescente.

Matteo Zerini

[email protected]

Faccia a faccia

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Entra nel vivo la campagna elettorale messicana. Settimana scorsa si è svolto il primo dei due dibattiti televisivi tra i quattro candidati alla Presidenza: tre esponenti dei partiti “tradizionali” più un potenziale “outsider”. In realtà, la corsa verso le urne sembra dominata dal conformismo e dalla difesa dell'attuale situazione politico-istituzionale. Direttamente da Città del Messico, vi proponiamo le impressioni e le sensazioni di chi vive la campagna elettorale osservandola dall'esterno 

UN DIBATTITO ATTESO, MA NOIOSO – Finalmente! Il primo dei due dibattiti televisivi tra i quattro candidati alla Presidenza del Messico, gli unici momenti in cui si confronteranno e si combatteranno faccia a faccia durante tutta la campagna elettorale. Atteso con ansia e alla fine boicottato dalla Federazione del “Futbol” messicana che non ha spostato l’orario della partita di ritorno dei quarti della Liguilla, per permetterne la piena visione, il dibattito è stato pensato e strutturato per essere noioso, spezzato, non dinamico, con primi piani fissi. Quattro candidati, un minuto e mezzo a testa per rispondere a domande estratte ma a conoscenza dei candidati, da un'urna su cinque tematiche. Una presentatrice che estraeva e leggeva le domande. Non ci sono giornalisti, non ci sono domande scomode. QUADRI L'OUTSIDER – E come previsto, il dibattito annoia. Poche parole, poche proposte, tanta retorica e poche idee. Alla fine spunta la semplicità di Gabriel Quadri (foto sotto) che si mostra un po’ cittadino che vive in Internet e un po’ venditore di illusioni televisive (quantomeno “originale” l'idea della privatizzazione delle carceri al fine di combattere il narcotraffico). Ignorato dagli altri candidati, Quadri ha potuto proporsi come l’anima liberale, imprenditore, ma anche consulente e funzionario pubblico, facendo quasi dimenticare che rappresenta il PANAL, partito cuscinetto di Esther Gordillo, presidente del Sindacato dei Lavoratori dell’Educazione, che da anni si oppone a una vera riforma educativa.

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I CANDIDATI “FORTI” – I veri contendenti al titolo di Presidente invece si sono affrontati a viso aperto, a volte ignorando le domande e continuando con il loro discorso. Josefina Vázquez Mota, candidata del Partido de Acción Nacional (PAN), ha accusato più volte Enrique Peña Nieto, esponente del Partido Revolucionario Institucional (PRI) e probabile vincitore di questa interminabile campagna, di corruzione, di non rispettare i compromessi, di non far funzionare la giustizia, tirando in ballo l’inefficacia delle indagini nel caso Paulette, bambina trovata morta in casa senza tracce del responsabile. López Obrador, candidato del Partido Revolucionario Demócrata (PRD), ha rincarato la dose di accuse di corruzione a Peña Nieto collegandolo con Arturo Montiel, ex governatore del Estado de México e dirigente del PRI, processato per corruzione e poi assolto, nonostante i documenti probatori presentati nel processo. Cosí López Obrador ha potuto proclamare il bisogno di cambio radicale, provocando Peña Nieto sul essere solamente una marionetta del gruppo di potere che è, secondo Lopez Obrador, la causa delle disuguaglianze in Messico. UNA CAMPAGNA ELETTORALE MEDIATICA – E mentre Peña Nieto cercava flebilmente di rispondere agli attacchi, la platea rimaneva attonita di fronte alla incompetenza dei candidati di presentare proposte concrete. Solo proclami e qualche annuncio da parte di Josefina e López Obrador. Peña Nieto invece ha mantenuto la sua fama di uomo televisivo ed è riuscito nella storica impresa di non dire come voleva realizzare i suoi infiniti compromessi che ha firmato dal notaio. È mancata poi dal dibattito una discussione attorno alla Presidenza di Felipe Calderón, né contro il suo operato né in sua difesa (da parte della Vázquez Mota, che è la candidata del suo partito).

Andrea Cerami (da Città del Messico) [email protected]

Al tavolo dei grandi

Afghanistan e Siria potrebbero rappresentare la coppia di parole più utilizzate durante i summit in agenda questa settimana a Chicago e Camp David dove membri NATO da una parte e G-8 dall’altra sembrano legare l’exit strategy dal primo ad una possibilità d’entrata in scena nella seconda. In realtà le cose sono molto più complicate di così, dato che l’attentato a Damasco della scorsa settimana sembra aver ammutolito il dibattito sul regime di al-Assad spostando l’attenzione sui gruppi jihadisti coinvolti sul campo, mentre in Afghanistan muore un altro talebano convertitosi alla pace di Karzai. In Europa se Atene piange, qualche lacrima si accenna anche a Berlino vista la pessima performance della CDU di Angela Merkel in Reno-Westphalia, mentre a Vienna si parla nuovamente di Iran, stavolta coi negoziatori di Teheran

 

EUROPA

Lunedì 14-Martedì 15 – Gli enigmatici negoziatori iraniani in materia di nucleare si incontreranno a Vienna con gli esperti dell’AIEA per dare un nuovo impulso alla collaborazione tra l’Agenzia dell’ONU e il paese del Golfo Persico col pallino della proliferazione. L’incontro fa parte del framework di iniziative che spingerà i negoziatori iraniani a Baghdad, il 23 Maggio per prendere parte ad una dele sedute del negoziato con i 5P del Consiglio di Sicrezza delle Nazoni Unite. Intanto promette di sollevare un polverone quanto mai puntuale il rapporto fornito dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana alla stampa internazionale, un documento di 6 pagine in cui vengono svelate le trame e le personalità segrete legate al programma nucleare di Teheran. L’episodio non può non ricordare ai nostri lettori più attenti la denuncia urbi et orbi dell’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz avvenuta nel 2002 sempre ad opera del CNRI. In realtà il documento non aggiunge nulla al già esiguo tavolo dei negoziati, dove l’Iran sembra aggiungere posti a tavola a seconda della sua voglia di guadagnare tempo prezioso.

GERMANIA – Dura sconfitta per Angela Merkel e la CDU nello stato federale del Reno-Westphalia in cui i cristiano-democratici hanno perso ben 9 punti percentuali rispetto ai risultati del 2010. Successo impressionante per i Social-Democratici che balzano al 39% e per i verdi che ottengono circa il 12% dei consensi. La regione rappresenta un’ottima previsione degli scrutini che aspettano la guida europea nella politica di austerità di Bruxelles l’anno prossimo, nelle elezioni politiche nazionali. Il Reno-Westphalia raccoglie più di un quinto degli elettori tedeschi, ha un’economia paragonabile a quella turca e un territorio più grande dei Paesi Bassi, tradizionalmente votato al centro sinistra moderato, probabile la scelta di una grande coalizione tra CDU e SPD, un’ottima approssimazione di quello che succederà a livello nazionale nel 2013. Sembra che l’epoca dell’indipendenza e del ruolo preminente in patria e all’estero sia finita anche per la CDU, ripetendo il destino infelice dell’UMP dello sparring partners europeo Nicolas Sarkozy.

GRECIA – Il no di Aleksis Tsipras segna il fallimento del tentativo di mediazione tra partiti intrapresa dopo lo stallo elettorale dal Presidente greco Karolos Papoulias, Syriza si è rifiutata di appoggiare anche in maniera informale una coalizione per la prosecuzione degli impegni finanziari internazionali. “Non cercano un accordo con noi, ci stanno chiedendo di essere loro partners in un crimine e noi non saremo loro complici” con queste parole cade ogni speranza salvare la Grecia dal destino ancora più oscuro segnato dal fallimento totale dell’appuntamento elettorale, in cui le ali estreme hanno trionfato sulla moderazione. Entro un mese i greci torneranno alle urne, mentre numerosi sondaggi indicano una vertiginosa ascesa dei partiti che si oppongono all’euro e al piano della troika. Mentre l’uscita della Grecia dall’Eurozona sembra lasciare sonni tranquilli nella leadership tedesca, diventa davvero difficile prevedere cosa accadrà ad Atene di qui a trenta giorni.

 

AMERICHE

Venerdì 18-Sabato 19 – E’ un Summit attesissimo quello del G8 di Camp David organizzato da Barack Obama per affrontare con i leader mondiali le questioni scottanti di politica ed economia. Ha già fatto scalpore la notizia dell’assenza di Vladimir Putin, rimpiazzato dal premier Medvedev, a causa delle impellenze per la formazione del nuovo governo russo. Barack e Vladimir, in una lunga telefonata, avrebbero concordato un incontro bilaterale al Summit G20 atteso in Messico a giugno. Sul tavolo dei negoziati non c’è solo la crisi economica internazionale, ma anche la ripresa delle trattative in tema ambientale in vista della Conferenza RIO+20, in agenda a giugno. Ampio spazio verrà riservato alla questione siriana, dove nemmeno la presenza di inviati e osservatori sembra garantire la sicurezza dei civili, così come i recenti avvenimenti in Africa occidentale ed orientale. Occhi puntati sull’esordio internazionale di Hollande, che minaccia il ritiro da Kabul, il vertice sarà anche il primo test per il trio inedito con Monti e la Merkel, chissà se le fratture europee emergeranno anche negli States.

Domenica 20 – Chicago si veste d’Atlantico con il Summit NATO pronto a riunire 28 capi di stato e di governo dei paesi membri chiamati a segnare il sentiero della lunga alleanza oltre il Summit di Lisbona del 2010. Oltre alla revisione della strategia nucleare e missilistica, che ha creato non poche tensioni tra Bruxelles e Mosca dopo il progetto di scudo balistico, rimane aperta la questione afghana, dopo la fatidica data del 2014 confermata dall’amministrazione Obama. I leader politici sono inoltre chiamati a discutere della tanto sventolata “smart defense“, la nuova strategia flessibile della NATO che sembra aver avuto la sua prima applicazione proprio tra le sabbie, le acque e i cieli della Libia nel 2011. La verità è che la NATO affronta a Chicago una nuova sfida per gestire le pulsioni e gli interessi dei singoli membri in modo da garantire il permanenere del legame strategico-difensivo tra i 28 paesi. La crisi economica e la revisione delle spese per la difesa nell’Eurozona rischia infatti di compromettere le capacità e la reattività di lungo periodo alle nuove sfide del sistema internazionale, solo una nuova dottrina d’impiego delle forze potrà garantire all’alleanza altri 63 anni di esistenza.

MESSICO – La polizia di Monterrey ha scoperto i resti di 49 corpi senza vita all’interno di sacche nascoste sul ciglio di un’autostrada della città, probabilmente vittime di una delle tante guerre di mafia ormai all’ordine del giorno tra i cartelli del narcotraffico. 18 dei cadaveri avrebbero inoltre subito la decapitazione e svariate mutilazioni come offesa all’onore dei defunti. Il fatto segue di pochi giorni l’incredibile scoperta di 9 cadaveri impiccati lungo un ponte di Nuevo Laredo e di altri 14 decapitati. Le autorità hanno interpretato i ritrovamenti come i segni tangibili del conflitto tra i “Los Zetas” e la Federazione di Sinaloa, il cartelo che fa capo al re dei ricercati Joachim “el chapo” Guzman. Nell’ultimo anno il Messico ha subito un’impennata di atrocità, attentati e omicidi, da cui nemmeno giornalisti, blogger e reporter sono stati risparmiati.

 

AFRICA

UGANDA – Sulle ali della legittimazione mediatica della campagna di social activism inaugurata dal movimento statunitense Invisible Children contro le teste del movimento ribelle del Lord Resistance Army, le forze ugandesi hanno arrestato Caesar Achellam durante scontri a fuoco nella vicina Reppublica Centrafricana. Il portavoce dell’esrcito nugandese si è detto fiducioso della cattura di Achellam affermando che “l’arresto del Gen. Achellam rappresenta un grande progresso poichè è un pesce grosso. La sua cattura condurrà sicuramente ad una lotta intestina per il potere tra i ranghi dell’LRA”. Il latitante strava tornando dal territorio della Repubblica Democratica del Congo quando è stato sorpresa da un’imboscata dell’esercito ugandese, cui partecipava da spettatore anche un reporter della Reuters. Se non possiamo ancora stabilire come verrà accolta la notizia dell’arresto del leader, quello che è certo è che Jospeh Kony è sempre più solo davanti alla caccia all’uomo condotta da 5000 soldati inviati dall’Unione Africana.

Lunedì 14Dopo averlo annunciato ripetutamente nel corso dei nostri appuntamenti settimanali, l’inviato cinese per portare Giuba e Khartoum al tavolo delle trattative negoziali si è finalmente mosso raggiungendo domenica la Capitale sudanese. In serata Zhong Jianhua si è diretto ad Addis Abeba, la sede degli incontri tra i negoziatori delle parti in conflitto per poi spostarsi in Sudan del Sud nella mattinata di lunedì. La mossa di Pechino rappresenta il tentativo di scongiurare il ricorso alla guerra aperta minacciando gli interessi economico-strategici cinesi nell’area, che spaziano dagli aiuti allo sviluppo, agli investimenti fino al petrolio. Il tutto giunge in seguito alle minacce di omar al-Bashir di mandare all’aria il piano per la pace del Consiglio di Sicurezza ONU e dal progressivo ritiro delle truppe dalle posizioni avanzate.

 

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ASIA

AFGHANISTAN – Arsala Rahmani, ex ministro per l’educazione del governo dei Talibani e ora membro dell’Alto Consiglio per la Pace è stato ucciso domenica da un’ignoto attentatore mentre si recava in auto sul posto di lavoro. L’omicidio è un duro colpo al porcesso di pace con la parte meno moderata dello spetro politico-ideologico dell’opposizione al Presidente Karzai, ricordando le modalità dell’uccisione del Capo dell’HPC Barhanuddin Rabbani, avvenuta in Settembre. L’ambasciata americana di Kabul ha descritto il fatto come una “tragedia” che mina alle radici l’attuale processo di definizione del futuro del paese, dopo l’uscita di scena del grosso delle truppe americane, fissato per il 2014.

COREA DEL SUD – Weng Jiabao si è detto preoccupato dall tendenze della situazione attuale in Asia Orientale, in cui diverse aree contese da uno o più attori rischiano di mischiarsi allle situazioni di crisi ormai cristallizzatesi come il programma nucleare nord-coreano. Il discorso antcipava i lavori di un summit trialterale tra Corea del Sud, Cina e Giappone per discutere delle novità in quel di Pyongyang, firmare un accordo per gli investimenti concluso in marzo dopo lunghe trattative iniziate nel 2007. Nelle scorse settimane test missilistici paralleli tra India e Cina avevavno confermato una volta ancora il tentativo delle due nazioni-regione di assicurarsi un deterrente strategico al passo dei tempi, mentre sul fronte marittimo continuava lo stallo diplomatico-militare tra Pechino e le Filippine in merito ai diritti su alcuni scogli in alto mare.

 

MEDIO ORIENTE

ISRAELE-PALESTINA – A volte i miracoli si manifestano dove meno ce li si aspetta, dev’essere stata questa la reazione della comunità internazionale davanti alla dichiarazione congiunta da parte del Premier israeliano Benjamin Netanyahu e il suo collega palestinese Abu Mazen. “Israele e l’Autorità Palestinese sono impegnate a raggiungere la pace e le parti sperano che uno scambio di lettere tra il Presidente Abbas e il Premier Netanyahu raggiunga tale obiettivo”. Il tutto avveniva a Ramallah, nel quartier generale dell’OLP dove Abbas e l’inviato israeliano Yitzhak Molcho hanno discusso a lungo, l’incontro era stato anticipato da una telefonata propiziatoria del segretario di Stato americano Hillary Rodham Clinton. L’accordo di governo tra il Likud e Kadima sembra aver dato ragione alle critiche rivolte dal neo leader Shaul Mofaz al collega Netanyahu, reo sospetto di aver minato le fondamenta del dialogo di pace. A conferma del cambio di comportamento del governo israeliano, Netanyahu ha ordinato lo sgombero di alcune case dell’insediamento illegale di Hebron, sottratte dai coloni ebrei ai palestinesi anche grazie alla complicità silenziosa dei contingenti locali delle Israeli Defense Force.

YEMEN – Non è sfuggito all’occhio vigile della Casa Bianca il peggioramento critico delle condizioni di sicurezza nell’ex impero del raìs yemenita Ali abdullah Saleh, sostituito dal suo vice Abd-Rabbu Mansour Hadi, chiamato a garantire la leadership strategica tra il paese e gli Stati Uniti. Nella giornata di domenica il consigliere del Presidente Obama in materia di contro-terrorismo John Brennan è giunto a San’a per confermare l’alleanza geostrategica tra i due paesi e per confermare l’appoggio ad Hadi nell’arduo compito di pacificare le forze di sicurezza yemenite divise tra fazioni etncihe in contrasto tra loro. Intanto i droni continuano la loro guerra invisibile, sabato è toccato a dieci militanti perire sotto i colpi dei gioielli della CIA, mentre. Sempre di sabato è la notizia dell’assalto a colpi di granate contro la casa del Ministro dell’Informazione Ali al-Amrani, mentre a San’a l’ambasciatore bulgaro in Yemen è riuscito a salvarsi da un tentato rapimento.

 

Fabio Stella

La prima sconfitta di Hitler

Road to London – Ritorna la rubrica "E' solo un gioco?", in cui vi raccontiamo storie belle di sport intrecciate a doppio filo con la politica internazionale. Da qui ad agosto, una serie di appuntamenti che avranno le Olimpiadi come comune denominatore, accompagnandoci così fino al grande evento di Londra. Si parte dal 1936: siamo a Berlino, dove il personaggio dei Giochi potrebbe non essere un atleta, ma Hitler stesso. Se non fosse che un tale di nome Jesse Owens…

Se le celebrazioni degli antichi Giochi Olimpici riuscivano a far sospendere tutte le guerre, la storia delle Olimpiadi dell'era moderna dimostra quanto la politica si sia insediata negli stadi e nelle palestre. «Lo sport è figlio della democrazia, ma contribuisce per proprio conto all'instupidimento della famiglia» era solito ripetere Karl Kraus, a riprova del fatto che tutto, sport compreso, è politica. Esiste un solo appuntamento nel corso del quale, tranne qualche dolorosa eccezione, tutti i popoli del mondo giocano davvero assieme. Ormai ci siamo. L'orologio digitale posto a Trafalgar Square scorre velocemente. Meno di 80 giorni ci dividono dalla XXX edizione dei Giochi Olimpici e, per la terza volta nella storia, Londra si agghinda per ospitare la più importante rassegna sportiva del mondo. In attesa di Londra, ripercorriamo allora i momenti più controversi che hanno caratterizzato la manifestazione sportiva per eccellenza.

L'idea di riportare in vita i Giochi, soppressi da quasi millecinquecento anni, venne ad un giovane barone francese, laureato in scienze politiche, Pierre de Fredy, Barone di Coubertin. Le Olimpiadi moderne risorgono dalle ceneri a Parigi, il 23 Giugno 1894. Da quel momento, la storia dei Giochi rispecchierà la storia del XX secolo. Nel corso degli anni, più volte il terreno sportivo è stato strumentalizzato e la grande vetrina olimpica utilizzata come cassa di risonanza per fini politici. Le Olimpiadi non sono un semplice appuntamento sportivo, sono molto di più. Dietro a quei cinque cerchi sport e politica si intrecciano, sino a diventare una cosa sola. Dietro a medaglie e successi si nascondono storie come quella di Jesse Owens, il primo a sfidare dinanzi al mondo l'idea di supremazia ariana; o come quelle di Tommie Smith e John Carlos, quelli del pugno chiuso, del pugno nero, della protesta razziale a Città del Messico '68. Solo 4 anni dopo, Monaco di Baviera, a tingersi di nero fu Settembre: messe da parte le eroiche imprese di Mark Spitz, le olimpiadi bavaresi si macchiarono del sangue di 9 atleti israeliani a causa di un attentato terroristico organizzato da un gruppo terroristico palestinese noto, appunto,come Settembre Nero. E ancora, in piena guerra fredda, i boicottaggi degli anni 80 quando il presidente Carter impedì alla nazionale statunitense di partecipare ai giochi in programma a Mosca in segno di protesta per l'aggressione sovietica in Afghanistan a cui fece eco il boicottaggio sovietico alle Olimpiadi di Los Angeles 1984. Per venire ai giorni nostri, ricordiamo tutti le polemiche riguardanti il Tibet e le violazioni dei diritti umani in occasione della rassegna pechinese del 2008.

L'OLIMPIADE DEL TERZO REICH – Di certo è tra le Olimpiadi che hanno fatto maggiormente parlare di sé. Berlino 1936: l'Olimpiade spettacolare, l'Olimpiade Hitleriana. L'Olimpiade politica per eccellenza. Ordine, maestose cerimonie, razzismo, svastiche, il tutto ripreso dalla videocamera più educata dell'epoca, quella di Leni Riefenstahl, la stessa che immortalò il congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga. L'assegnazione dei giochi a Berlino fu decisa nel 1931,mentre l'ombra Hitleriana, incombente sulla Germania,si scorgeva ancora solo vagamente. Quando, nel Gennaio di due anni dopo, il Presidente della Repubblica Paul von Hindenburg affidò la guida del governo a Hitler,l'ex decoratore di origine austriaca non era entusiasta della possibilità di ospitare i giochi olimpici. Adolf Hitler non aveva abitudini sportive. Nonostante nel Mein Kampf raccomandasse ai giovani tedeschi un'ora di addestramento fisico al mattino e una al pomeriggio, Hitler non vedeva di buon occhio la competizione sportiva: «È fuori discussione. Un Führer non può correre il rischio di essere battuto dai suoi seguaci in qualche competizione, compresa la ginnastica, o in giochi qualsiasi». Fu Joseph Goebbels, ministro della propaganda, a convincere Hitler della grande vetrina di cui disponeva la Germania per mostrarsi superiore. Ma intanto la follia nazista avanzava. Nonostante le garanzie tedesche al Comitato Olimpico per il rispetto dei principi di non discriminazione razziale nel '33 e nel '34, il 15 settembre 1935, a pochi mesi dalla rassegna sportiva, a Norimberga venivano emanate la leggi antiebraiche.

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BOICOTTARE BERLINO! – Una violenta campagna di opposizione ai giochi berlinesi si scatenò negli Stati Uniti. L'ostilità del governo americano alla partecipazione ai giochi fu capeggiata da Henry Morgenthau, Segretario al Tesoro di origine ebrea, e dallo stesso Presidente Roosevelt. I due, contrari alla prospettiva di offrire a Hitler una cosi importante vetrina propagandistica, minacciarono il boicottaggio, scongiurato solo dalla visita in terra tedesca di un proprio osservatore, Avery Brundage. La scelta non fu proprio felice: Brundage possedeva un lussuoso club a Chicago, rigorosamente interdetto alla gente di colore. Irriducibile conservatore, al rientro in patria l'osservatore rassicurò Roosevelt: «Noi possiamo imparare molto dalla Germania di Hitler». Roosevelt si convinse: “Gli Usa parteciperanno”. Per addolcire la pillola, l'establishment nazista mise a capo del comitato organizzativo un sospettato di ascendenti giudei, Theodore Lewald, e rinfoltì la forte squadra olimpica tedesca con la fiorettista Helena Mayer, che alle prime misure antirazziali aveva lasciato la Germania e si era rifugiata negli Stati Uniti. Marzo 1936. Le olimpiadi erano alle porte. In pochi mesi, la Germania hitleriana occupò la zona smilitarizzata della Renania e, parlando a Monaco, Hitler dichiarò che non ci sarebbe stata pace nel mondo sino a quando il nazionalsocialismo non si fosse diffuso su tutta la terra. Luglio 1936, immediata vigilia dei giochi olimpici. La Spagna, che tra le altre cose boicottò le olimpiadi optando per una Olimpiade del popolo interna in protesta contro il CIO per la non assegnazione dei giochi a Barcellona, fu scossa dalla guerra civile.  

PAINT IT BLACK – 1 agosto 1936. 4069 atleti, provenienti da 49 nazioni, sfilarono in un tripudio di svastiche. Occorreva esibire al mondo le straordinarie capacità organizzative tedesche e cosi fu: la cerimonia d'apertura delle Olimpiadi Berlinesi stupì il mondo. Nella tribuna d'onore dell'Olympiastadion, tra le teste coronate di mezz'Europa, Hitler attirò su di sé gli sguardi dei 110000 spettatori. «Tutto può fare il nostro Führer» echeggiava fiero l'Olympiastadion, fiore all'occhiello dell'architettura olimpica nazista. Ironia della sorte, proprio da quelle tribune che lo videro portato in trionfo solo qualche giorno prima, Hitler dovette assistere ad uno spettacolo che non gli piacque affatto. Ai blocchi di partenza della gara regina, i 100 metri piani, si presentò un ventiduenne studente universitario dell'Alabama, Jesse Owens. Lo chiamavano l' “antilope nera” per il colore della sua pelle. Non correva, volava. In 10'' e 3 si sbarazzò di qualsiasi avversario, anche del razzismo. A fine rassegna totalizzò 4 medaglie d'oro ma ciò, pare, non gli valse la stretta di mano del Führer. Non con quel colore della pelle. Si è romanzato tanto riguardo al mancato saluto tra Hitler e il formidabile atleta statunitense. Secondo la leggenda, un adirato Führer abbandonò frettolosamente la tribuna d'onore per non doversi congratulare con il rappresentante di una razza che le deliranti teorie naziste consideravano inferiore. Ad alimentare il mistero riguardo all'accaduto fu, in un primo momento, lo stesso Owens. «Hitler non mi ignorò– scrisse, chiudendo definitivamente la questione,qualche anno dopo lo statunitense nella sua autobiografia (Jesse, l'uomo che ha battuto Hitler)- quando passai il cancelliere si alzò in piedi, mi salutò con la mano e io risposi al saluto.»

L'IMPORTANTE E' SAPER PERDERE – La Germania dominò il medagliere, ma se c'è qualcosa che lo sport ci ha insegnato è che il risultato è spesso commisurato allo spessore umano di chi l'ha conseguito. Si può scegliere tra vincere da arroganti o perdere da gentiluomini. A Berlino ci fu un tedesco che non ebbe dubbi. Luz Long, grande saltatore di lungo tedesco, prima di vedersi sottrarre il primo posto da Owens, andò dall'americano e gli sussurò «dammi retta,conosco questa pedana come le mie tasche. Puoi qualificarti facilmente, basta dare inizio alla rincorsa un po più indietro.» L'antilope nera avrà sicuramente fatto suo il consiglio quando spiccò il volo verso gli 8,06 metri che gli valsero una delle 4 medaglie d'oro. Quando si ricordano le olimpiadi berlinesi, non si può non pensare a Jesse Owens. Ma in quella Olimpiade i fuoriclasse furono due. L'americano vinse tutto in pista, al tedesco Long bastò arrivare secondo per essere un vincente. Ad Owens probabilmente non si sarebbero mai aperte le porte dell'esclusivo club di Brundage, ma a Berlino gli si aprirono porte ben più importanti: quelle della leggenda.

Simone Grassi [email protected]

Sperdute, ma ambite

L’Australia è decisa a ritirarsi dalla missione internazionale nelle Isole Salomone, a lungo attraversate da una cruenta guerra civile. Tuttavia, senza il sostegno di Canberra, i piccoli Paesi del Pacifico meridionale non riusciranno a garantire il buon esito di un’operazione che, sin qui, ha raggiunto pochi degli obiettivi preposti. Se lasciate sole, le Salomone, ricche di metalli preziosi, rischiano sia di essere preda della Cina, sia di tornare nell’instabilità qualora i signori della guerra trovassero nuovo spazio per i traffici illeciti, favorendo il riacuirsi della lotta indipendentista dell’Isola di Bougainville contro la Papua Nuova Guinea

IL PIANO AUSTRALIANO – Il 25 aprile, durante la visita alle Isole Salomone, il ministro della Difesa australiano, Stephen Smith, ha annunciato di aver avviato un dialogo con il governo locale per il graduale ritiro dal Paese delle truppe di Canberra, impegnate con altri Stati dell’Oceania in una missione di peace-keeping. L’Australia, infatti, è il maggior contribuente della Regional Assistance Mission to Solomon Islands (RAMSI), un’operazione avviata nel 2003 per tentare di porre fine alla guerra civile nell’arcipelago. Secondo Smith, la missione ha raggiunto la maggior parte degli obiettivi preposti, cosicché è ormai necessario cominciare le consultazioni affinché il governo delle Salomone sia pronto al passaggio di consegne. Tuttavia, il ritiro del contingente internazionale, composto da Australia, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea e Tonga, non rappresenterà la conclusione della RAMSI: considerata l’inesistenza degli apparati militari e di sicurezza nel Paese, Canberra si è già impegnata ad assistere Honiara (la capitale delle Isole) con un Programma di cooperazione per la Difesa. Smith, comunque, ha specificato che ancora non sono state definite scadenze temporali, ma, con ampia probabilità, il ritiro comincerà nel 2003.

LA COALIZIONE PER LE SALOMONE – La missione RAMSI, denominata anche Helpen Fren, fu la risposta internazionale alla richiesta di aiuto da parte delle Salomone, stremate dalla guerra. All’inizio del 1999, infatti, il Paese fu attraversato dai duri scontri tra i gruppi di etnia Gwale, abitanti l’isola di Guadalcanal, e quelli provenienti dalla vicina Malaita. I primi avevano costituito l’Isatabu Freedom Movement, che agiva violentemente contro gli immigrati dalle altre isole, sostenuti, a loro volta, dagli armati del Malaita Eagle Force. Nonostante i ripetuti tentativi di pacificazione (tra i quali l’istituzione di una commissione per la riconciliazione) la corruzione della politica, dell’amministrazione e delle forze armate non consentiva il ritorno all’ordine. Nel 2003, infine, mentre il Paese era sull’orlo della bancarotta e nelle mani dei signori della guerra locali, il Governatore generale delle Isole, rappresentante della regina Elisabetta II, invocò un intervento internazionale, potere attribuitogli dalla Costituzione. Nel luglio dello stesso anno, quindi, la missione RAMSI fu approvata dal Parlamento delle Salomone: nel Paese sbarcarono 2.200 tra militari e poliziotti da Australia, Fiji, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea e Tonga, sotto la guida di Canberra. Dopo il 2006, anno segnato dalle diffuse e dure contestazioni dei risultati elettorali, altri membri del Forum del Pacifico meridionale inviarono truppe a sostegno dell’operazione, elevando il numero dei partecipanti a quindici.

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MISSIONE FALLITA? – La prospettiva del ritiro dalle Isole Salomone non offre certo spunti positivi per il futuro del Paese. Nell’arcipelago, infatti, mancano efficienti apparati di sicurezza, e difficilmente potranno essere costituiti entro un anno. Al momento, solo l’Australia ha dichiarato la volontà di ritirarsi dalla missione, con la Nuova Zelanda su una linea analoga, ma più cauta: il Forum del Pacifico, tuttavia, non avrebbe la capacità di gestire una situazione ancora complessa e lontana dall’ordine. La RAMSI non ha raggiunto, in realtà, tutti gli obiettivi preposti, e il rischio di un riacuirsi delle tensioni è molto probabile. In questo senso, soltanto l’impegno delle due potenze regionali, Canberra e Wellington, potrebbe consentire una maggiore linearità nella gestione della fase di pacificazione. Le tensioni sociali nelle Salomone restano del tutto irrisolte, il processo di disarmo soltanto accennato, e ancora la giustizia non ha attivato alcun procedimento contro molti dei responsabili delle violenze, anche a causa dell’elevato tasso di corruzione e dell’estrema frammentazione dello scenario politico.

LO SGUARDO LUNGO DELLA CINA – Terminare la RAMSI potrebbe significare lasciare il Paese nell’incertezza, in balìa di due dinamiche internazionali che non sono da sottovalutare. Da un lato, infatti, le Salomone, ricche di oro, rame e nichel, riconoscono solo il governo di Taiwan quale legittimo rappresentante della Cina, cosicché Pechino ha già intrapreso consistenti investimenti di vario genere, sia economici, sia finanziari, per l’avvio delle relazioni diplomatiche e della penetrazione nel Paese. Dall’altro lato, Honiara potrebbe vedere riaperti i contrasti con la Papua Nuova Guinea, sedati nel 2004, se, come alcuni segnali lasciano intravedere, ci fosse un riacuirsi dell’indipendentismo nell’Isola di Bougainville (geograficamente appartenente alle Salomone), con conseguente spostamento di molti rifugiati politici e riacquisto di potere da parte dei signori della guerra locali grazie al traffico di armi e migranti.

Beniamino Franceschini [email protected]