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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Un paese sull’orlo di una crisi di nervi

Ad ormai cinque mesi dal ritiro statunitense dal Paese, l'Iraq si presenta al mondo come uno Stato diviso e costantemente sull’orlo di una guerra civile. A fomentare le forti tensioni interne hanno influito sia le violenze contro le comunità curde, sciite e cristiane da parte di alcune frange sunnite, sia la decisione presa, lo scorso dicembre, dal Premier sciita Nouri al-Maliki di spiccare un mandato di arresto contro il Vice Presidente iracheno, il sunnita Tareq al-Hashemi. Questo evento, in particolare, ha prodotto di fatto un rapido deterioramento del quadro politico interno e ha fatto riaffiorare, in tutta la sua gravità, l'irrisolta questione etnica in una fase della vita pubblica del Paese ancora di transizione politica

LA POLITICA SUL FILO DI LANA – L'arresto di al-Hashemi ha prodotto un immediato boicottaggio delle riunioni ministeriali e delle sedute parlamentari da parte della componente sunnita di Iraqiya, la quale ha scatenato una forte crisi di governo. L'iniziativa del blocco sunnita nasceva in risposta all'azione del Premier sciita al-Maliki di voler accorpare nella sua figura istituzionale le funzioni ad interim della difesa, degli interni e della sicurezza nazionale, scatenando, di conseguenza, violente reazioni nel Paese. Attualmente la crisi politica viene considerata ufficialmente rientrata allorquando Iraqiya, alla fine di gennaio, ha deciso di interrompere il boicottaggio riprendendo ad alcune sedute parlamentari e, agli inizi di febbraio, ricominciando a partecipare anche agli incontri ministeriali di governo. La fine del boicottaggio, però, non è dovuta al raggiungimento di un obiettivo, bensì alla sua inefficacia in quanto questa forma di ostruzionismo politico rischiava di produrre ulteriori fratture nella coalizione sunnita, rimanendo essa di fatto totalmente esclusa dai processi decisionali nazionali.

STABILMENTE IN BILICO – In realtà, lo scontro che si gioca tra lo schieramento sciita di al-Maliki e il blocco sunnita guidato dall'ex Primo Ministro Iyad Allawi paralizza da mesi qualsiasi negoziazione politica e nonostante la parziale apertura di Iraqiya verso il Premier, lo scontro è destinato a durare a lungo e con esiti imprevedibili per il futuro del fragile Iraq, qualora non verranno trovati i giusti compromessi tra i tre blocchi etnico-politici del Paese. Non c’è da stupirsi, dunque, che la tale crisi politica si ripercuota inevitabilmente anche nella vita pubblica interna incrementando così una nuova stagione di violenze. Come ha fatto notare il Ministero degli Interni iracheno, anche se i livelli di violenza nel Paese sono in costante calo dal 2007, la situazione politica interna potrebbe peggiorare sensibilmente nel corso del 2012 e favorire dunque un pesante clima di scontro sociale.

DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE? – Il nodo centrale di questa crisi politico-istituzionale risiede nella Costituzione e, più precisamente, nella questione delle autonomie e nella gestione dei proventi del petrolio. L'attuale carta costituzionale, ratificata nel 2005 e frutto dell'accordo fra le comunità sciite e curde, prevede un assetto spiccatamente federale dell'ordinamento statuale e contraria all’istituzione di un governo centrale forte, soluzione sostenuta all’epoca dalla rappresentanza sunnita. In particolare, l’art. 1 della Costituzione sancisce in maniera esplicita e assolutamente non equivocabile il principio federale del “nuovo” Iraq. A rafforzare tale orientamento subentrano, nello specifico, gli artt. dal 112 al 118 che stabiliscono che per la creazione di nuove regioni o di un governatorato autonomo sia sufficiente un referendum popolare senza alcuna interferenza da parte del governo centrale. Inoltre, la Costituzione irachena prevede una netta divisione dei poteri tra autorità centrale ed autonomie: ad esempio, l’art. 110 suddivide gli ambiti di intervento nei quali il governo centrale può esercitare un potere assoluto (difesa nazionale, finanza, politica doganale ed esteri), mentre ai commi 1 e 5 dell’art. 117 vengono stabilite le responsabilità esclusive del governo regionale per tutto ciò che riguarda l’autorità giudiziaria, esecutiva e legislativa esercitata in ambito nazionale. Infine, le materie come sanità, educazione, infrastrutture e sicurezza sono gestite in maniera “concorrente” fra governo centrale ed autonomie locali.

NERO SU BIANCO – Ma il tema più scottante rimane lo sfruttamento delle risorse naturali sancito agli artt. 108 e 109. Ufficialmente il petrolio e gas sono di proprietà del popolo iracheno e i loro proventi devono essere distribuiti in modo equo e in base alla distribuzione degli abitanti in tutte le parti del Paese. La disputa sulla gestione delle risorse, concentrate nel Nord curdo e nel Sud sciita è, infatti, tra le cause principali dell’instabilità tra il governo federale di Baghdad e il Governo Regionale del Kurdistan Iracheno (KRG), entità federale autonoma il cui status gli consente di avere un proprio esercito, un servizio di intelligence e proprie istituzioni e che rivendica per sé i diritti sull’esportazione del petrolio presente nel proprio sottosuolo dal momento che, tuttora, gli è vietato commerciare autonomamente e legalmente il proprio oro nero. Proprio il problema dell'accentramento/decentramento dei poteri congiuntamente alla gestione delle rendite del petrolio – che rappresenta per l'Iraq il 95% delle entrate statali e il 70% del PIL – ha scatenato la crisi politica tra al-Maliki e al-Hashemi e tra governo centrale di Baghdad e autonomie locali.

TUTTI CONTRO TUTTI – In questa prospettiva si inserisce lo scontro tra le diverse etnie del Paese. Infatti, i sunniti di Iraqiya accusano il Premier di una gestione autoritaria del potere favorevole alla sua comunità sciita e funzionale all’Iran. Al-Maliki accusa, invece, Iraqiya e i sunniti di voler spaccare il Paese per favorire una gestione dello Stato sullo stile ba'athista, mentre, a loro volta, il blocco sciita e sunnita denunciano le volontà dei curdi iracheni di gestire autonomamente i proventi del petrolio in modo da creare un vero e proprio Stato autonomo che mira alla indipendenza e, dunque, alla disgregazione dell'attuale Iraq. Pertanto il quadro generale del Paese si presenta molto frammentato. Innanzitutto, bisognerà trovare un buon accordo tra le etnie in modo da superare l'attuale crisi politica che, anche se attualmente rientrata, è pronta a riesplodere in tutta la sua violenza rischiando nuovamente una paralisi politico-istituzionale. In secondo luogo, sarà importante scardinare le spinte indipendentiste dei curdi iracheni che acuiscono ulteriormente i problemi interni al Paese Infine, sarà utile mediare tra le diverse istanze delle tre comunità in modo da garantire un futuro di stabilità e progresso per un Paese appena rinato dalle ceneri della guerra contro Saddam Hussein. Giuseppe Dentice [email protected]

Di nuovo insieme

Con una mossa a sorpresa, il premier israeliano Benjamin Netanyahu forma un governo di unità nazionale con il suo ex-compagno di partito Shaul Mofaz, ora alla testa di Kadima spiazzando sia i partiti religiosi e più nazionalisti sia chi comunque sperava in elezioni anticipate. E’ una risposta ad alcuni dei temi più spinosi dell’agenda israeliana e non si tratta solo di Iran

 

VETI – Non è solo una particolarità italiana: anche in Israele a volte il governo viene bloccato da veti contrapposti. Era questa la situazione recente, dove la maggioranza guidata dal premier Netanyahu e dal suo partito Likud doveva infatti fare i conti con i partiti religiosi e Con una mossa a sorpresa, il premier israeliano Benjamin Netanyahu forma un governo di unità nazionale con il suo ex-compagno di partito Shaul Mofaz, ora alla testa di Kadima spiazzando sia i partiti religiosi e più nazionalisti sia chi comunque sperava in elezioni anticipate. E’ una risposta ad alcuni dei temi più spinosi dell’agenda israeliana e non si tratta solo di Irannazionalisti di destra (Shas, United Torah Judaism, Habayit Hayehudi e soprattutto Israel Beitenu di Avigdor Lieberman) che lo sostenevano, uniti nel difendere uno status quo che penalizzava Gerusalemme sia sul fronte economico interno sia su quello diplomatico internazionale. Vista la situazione, la notizia che il paese sarebbe tornato presto alle urne con elezioni anticipate non aveva sorpreso nessuno.

 

VECCHI COMPAGNI – Netanyahu ha invece spiazzato tutti con una mossa che allontana le elezioni e apre nuovi spazi di manovra per il governo, che sarà ora formato dai due principali partiti del paese. L’accordo raggiunto potrà sembrare strano, ma non lo è affatto. Chi osserva la politica israeliana da anni ricorderà infatti che Shaul Mofaz era egli stesso originariamente un membro del Likud ma aveva poi seguito Sharon nella fondazione del partito Kadima. Ministro dei trasporti durante il governo Olmert, aveva poi perso solo di misura da Tzipi Livni nelle primarie del partito del 2008. Kadima si era poi confermato il primo partito del paese, ma era rimasto isolato e non aveva potuto formare un governo, lasciando il campo a Netanyahu. Ora invece la vittoria di Mofaz ha permesso un’intesa tra i due vecchi compagni di partito. Certo non si può parlare di amicizia: i due si sono insultati fino a pochi giorni fa. Ma forse l’occasione si è rivelata troppo utile per rifiutarla.

 

QUALI CONDIZIONI? –  Nessuna possibilità di “fusione” in vista: i due partiti rimangono con identità separate. Ma i punti di contatto ci sono. Netanyahu rimane fedele a un suo vecchio cavallo di battaglia: l’eliminazione progressiva dei privilegi degli Haredim (gli studenti di teologia che non pagano tasse e non prestano servizio militare) perché considerati un peso per l’economia nazionale che li sovvenziona senza averne ritorni. In particolare “Bibi” vuole iniziare con l’eliminazione della Legge Tal, che permette appunto agli Haredim di non servire nell’esercito. Attualmente solo chi ne fa espressamente richiesta diventa soldato. Impossibile ovviamente far passare una simile misura quando si è strettamente dipendenti dai partiti religiosi – che di quella legge sono garantisti; ma tutto cambia se la maggioranza si poggia ora anche su Kadima, che ha le stesse opinioni del Likud al riguardo. Altre misure da sempre ipotizzate ma mai realizzate per gli stessi motivi si rendono ora possibili: la riduzione dei privilegi alle yeshiva (le scuole religiose), lo sgombero di alcuni insediamenti illegali ordinato dell’Alta Corte Israeliana (i partiti più nazionalisti avevano invece richiesto che fossero resi legali per legge). In cambio Kadima avrebbe chiesto una ripresa dei negoziati con i Palestinesi, cosa che necessariamente dovrà passare come minimo da un congelamento degli insediamenti di coloni: impossibile farlo prima, quando erano al governo proprio i partiti che rappresentano questi ultimi.

 

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ISRAELE E IL MONDO – Proprio quest’ultima mossa potrebbe permettere a Israele di recuperare un po’ di terreno sulla scena internazionale, dove lo stallo sui negoziati aveva portato il paese a una situazione di maggiore isolamento. Difficile dire se si arriverà a qualcosa di concreto – l’Autorità Nazionale Palestinese rimane molto scettica e diffidente nei confronti di un premier che ha mostrato ben poca disponibilità al dialogo negli ultimi anni – ma può essere la mossa giusta per riavvicinarsi alle richieste USA.

 

QUALCHE INCONGRUENZA – Qualcosa però non torna del tutto. Il nuovo governo si basa sì su Likud e Kadima, ma il Ministro degli Esteri è ancora Lieberman (foto a destra) e due partiti religiosi (Shas, United Torah Judaism) ne fanno ancora parte. Si avrà davvero un cambiamento o verrà tutto ancora bloccato? I margini per una svolta ora sicuramente ci sono, ma qualche analista preferisce anche puntare lo sguardo all’Iran.

 

IRAN SI’, IRAN NO – In effetti la questione iraniana sta prendendo una brutta piega per Israele: gli USA si dicono pronti alla difesa di Israele, ma non altrettanto ad attaccare l’Iran. Anzi, recenti indiscrezioni parevano indicare un possibile avvicinamento nel dialogo tra Washington e Teheran, su posizioni però lontane da quelle di Gerusalemme. Questo, a sua volta, potrebbe far propendere Israele per attaccare da soli e un governo di unità nazionale potrebbe risultare l’unico capace di mantenere unito il paese in una tale eventualità. Inoltre la riapertura del dossier palestinese potrebbe, nelle speranze israeliane, far tornare gli USA sui propri passi.

 

Lorenzo Nannetti

[email protected]

L’astro nascente del Sudamerica

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Conosciuta ai più per la produzione di cocaina, i rapimenti delle FARC e la violenza dei narcos, la Colombia sta vivendo in questi ultimi anni di una crescita economica sostenuta. Ciononostante, i problemi tradizionali rimangono: buona parte della popolazione vive tuttora al di sotto della soglia di povertà, narcos e guerriglia sono comunque attivi e la politica ferma del governo non si fa scrupoli nell’usare metodi illegittimi. La situazione dei diritti umani nel paese rimane comunque insoddisfacente

UN’ECONOMIA IN SALUTE – La Colombia è attualmente il quarto Paese dell’America Latina in termini di PIL, dopo giganti come Brasile, Messico e Argentina. Negli ultimi anni il PIL ha continuato a crescere: +4,4% nel 2010, +5% nel 2011, con stime simili per gli anni a venire. Gli investimenti esteri sono in aumento, totalizzando 15 miliardi di dollari nel 2011, a fronte di meno di un miliardo nel 2001. Lo sviluppo dei settori minerario e petrolifero ha in parte contribuito alla crescita di un’economia comunque in salute: la Colombia produce oggi 800.000 barili di petrolio al giorno, e l’impennata dei prezzi dell’oro ha dato un forte impulso all’estrazione del metallo. L’estrazione è talmente redditizia che i cartelli della droga hanno avviato imprese minerarie in varie regioni del paese.Inoltre, la crescita ha permesso al nuovo presidente Juan Manuel Santos di disporre di maggiori risorse economiche. Data la diminuzione dei livelli di criminalità, frutto della politica di “sicurezza democratica” messa in atto dall’ex presidente Uribe, Santos ha dato il via ad una politica fondata sulla “prosperità democratica”, con l’obiettivo di risolvere almeno in parte le sperequazioni di questo paese: in Colombia il 45 % della popolazione vive tuttora al di sotto della soglia di povertà, ed il paese è il secondo Stato più diseguale dell’America del Sud con un indice di Gini pari a 0,56. LA VIOLENZA –  Generalmente, la Colombia è indicata come uno dei Paesi più pericolosi al mondo: la microcriminalità e l’azione congiunta di narcos, guerriglia, esercito e gruppi paramilitari hanno da sempre fatto balzare il paese ai vertici delle classifiche di violenza e criminalità mondiale. La Colombia odierna rimane sicuramente un Paese pericoloso: solo nel 2011 ci sono stati oltre 13.000 omicidi. Rimanendo in America Latina, l’unico paese con un tasso di omicidi superiore è il Venezuela: anche il Messico funestato dalla violenza dei cartelli della droga ha un tasso di omicidi inferiore. Ciononostante, se si raffronta questo dato con il trend storico del Paese i progressi sono evidenti: nel 2001 i morti furono oltre 27.000, più del doppio dell’anno appena trascorso. Lo stesso Presidente Santos ha ricordato in più occasioni questo successo: il 2011 è stato infatti l’anno con il minor numero di omicidi degli ultimi 27 anni. L’effetto sulla percezione della sicurezza in Colombia è stato sicuramente notevole, e premia gli sforzi del governo in questo senso. Chiaramente la strada da percorrere è ancora molta, ma al di là delle legittime polemiche sui metodi impiegati la politica ferma di Uribe e del suo successore sembra aver portato i suoi frutti. D’altro canto la violenza politica e quella statale rimangono inquietanti, e impediscono di parlare della Colombia come di un paese pacificato e pienamente democratico: Amnesty International ha denunciato oltre 3000 casi di civili uccisi dall’esercito e spacciati per guerriglieri. La violenza politica non è da meno: nelle elezioni del 2011 sono stati assassinati 41 candidati, e non si contano i casi di minacce, aggressioni e violazioni dei diritti umani. La Colombia rimane uno dei paesi più pericolosi al mondo per sindacalisti e giornalisti.

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LE FARC – Direttamente collegato alla violenza è il ruolo delle FARC ed il conflitto tra il movimento e l’esercito. Giova ricordare che l’attuale presidente Santos era ministro della Difesa del governo Uribe, e deve la sua candidatura prima e l’elezione poi anche alla sua politica contro le FARC. Le operazioni Felix e Scacco, che portarono rispettivamente all’uccisione del numero due delle FARC Raul Reyes e alla liberazione di Ingrid Betancourt, sono ottimi esempi della politica condotta da Santos: poco spazio per la negoziazione e massiccio uso di fonti di intelligence e mezzi militari. Il fatto che l’operazione Felix si sia concretizzata in un bombardamento aereo su territorio ecuadoriano e abbia scatenato una violenta crisi diplomatica tra Colombia, Ecuador e Venezuela testimonia come Santos non abbia mai impiegato guanti di velluto contro le FARC. L’omicidio del leader Alfonso Cano del novembre scorso conferma che l’orientamento governativo è prettamente militare: proprio Cano era considerato un fautore del dialogo, tanto da aver portato avanti numerose trattative per la liberazione di ostaggi in mano alle FARC. Va detto che numerosi uomini di punta delle FARC sono morti negli ultimi anni per la pressione governativa, ma il movimento ha comunque continuato la propria azione rimpiazzando i vertici dal basso. Il nuovo leader, Timochenko, uomo della linea dura, oppositore del dialogo propugnato da Cano, ha infatti rinnovato la sfida al governo colombiano ed escluso ogni possibilità di dialogo. Francesco Gattiglio [email protected]

Il puzzle afgano tra incastri difficili e pezzi mancanti

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Se si vuole valutare attentamente la situazione afgana e trarne indicazioni su come l’Italia si debba comportare di conseguenza, è necessario tenere in conto che l’Afghanistan è una realtà complessa inserita in un contesto, se possibile, ancor più complicato. Le diverse etnie presenti sul territorio e non sempre in sintonia tra loro, i vicini che si giocano sul campo afgano una partita che influirà sulla loro posizione nello scacchiere mondiale e le decisioni che sono state prese e saranno prese dalle forze della missione ISAF determineranno il futuro di questo Paese

 

Articolo pubblicato in occasione della Conferenza/Dibattito “L’Italia e il mondo nuovo”, @LiquidLab – Firenze, Novoli 10 maggio ore 10-13 – http://www.liquidlab.it/eventi/litalia-e-il-mondo-nuovo/

 

PUZZLE ETNICO – Nel 1880 l’Emiro di ferro, Rahman Khan, salì al potere cercando di imporre in tutto l’Afghanistan la sua legge e di evitare fastidiosi e inutili intermediari, che da sempre erano il perno della vita politica afgana, attorno al quale ruotava il potere centrale. Eliminò figure assimilabili a governatori di regioni e provincie, anziani che costituivano i consigli dei villaggi e dei vari gruppi sparsi sul territorio. Nei suoi quindici anni di governo dovette affrontare una cinquantina di rivolte popolari e uccise approssimativamente centomila persone. Il risultato fu, ad ogni modo, un deciso indebolimento delle autonomie regionali e un accentramento delle decisioni politiche a Kabul.  La questione dell’equilibrio tra potere centrale e autonomie locali è uno dei problemi che ci si pone nel valutare la stabilità passata, odierna e futura del Paese, se non addirittura la sua sopravvivenza. Esiste una composizione etnica molto variegata dei 30 milioni di afgani. Più del 40% è di etnia Pashtun concentrati a sud e a est, oltre ad alcune enclave situate nel nord del Paese. Gli altri maggiori gruppi etnici sono i Tagiki locati nel nord-est e a ovest (intorno ad Herat), gli Uzbeki nel nord-ovest e il popolo Hazara nel centro dell’Afghanistan. Secondo l’antropologo Thomas Barfield le varie etnie non sono solidali tra loro, anche se durante le guerre civili che hanno caratterizzato la storia afgana le linee di demarcazione sono state tracciate più dalla condizione socio-economico-culturale che dalla provenienza etnica (per esempio sia nel 1929 che nel 1978 si sono contrapposti gli ambienti urbani più riformisti e quelli rurali più conservatori). Il caso talebano è parzialmente differente perché legato all’origine rurale ma principalmente Pashtun del movimento. La domanda che ci si pone è “per mantenere il Paese stabile è meglio avere un potere centrale forte oppure un sistema di autonomie che mitighino i contrasti trai diversi gruppi sul territorio?”. Sicuramente la differenza culturale, religiosa, sociale ed economica non ha un effetto coesivo, anche se molti studiosi sono più preoccupati dei Paesi confinanti e della loro ingerenza piuttosto che della questione etnica in sé.

 

VICINI DI CASA – In un articolo di Michael Hart pubblicato sul National Interest, ufficiale della Royal Air Force britannica, è descritto in maniera dettagliata il probabile impatto dei Paesi che circondano l’Afghanistan sul destino di quest’ultimo. I Paesi aventi maggiori contatti etnici, culturali, religiosi ed economici sono Iran, Pakistan, India e parzialmente Turchia, Russia e Cina. L’Iran ha sempre giudicato l’Afghanistan governato dai talebani come una seria minaccia per la propria sicurezza. Teheran non ha mai fatto mistero di avere numerose truppe dislocate sul confine afgano e di aver sostenuto economicamente e militarmente l’Alleanza del Nord. Inoltre ha la possibilità di sfruttare la sua influenza sulla comunità sciita e sulla provincia occidentale di Herat e nella regione centrale di Hazarajat. Infine l’Iran è diventato territorio in cui numerosi afgani arrivano come rifugiati, e questo sicuramente potrebbe essere una leva politica che Teheran può utilizzare con Kabul per essere ascoltato. Sul Pakistan si potrebbe aprire un’analisi infinita, se si considerano le relazioni a dir poco travagliate di quest’ultimo con gli Stati Uniti. In questa sede basti pensare ai contatti tra i talebani afgani e i servizi di intelligence pakistani (ISI), i quali sarebbero ben contenti di trovare un Afghanistan meridionale e orientale dominato dalle forze talebane e fortemente influenzato dall’ISI. Anche l’India è molto interessata alla sorte dell’Afghanistan per diversi motivi. Innanzitutto con una sua presenza in territorio afgano accerchierebbe il rivale storico pakistano. Realisticamente si potrebbe appoggiare alle popolazioni uzbeke e tagike per contrapporsi ai talebani e alla minoranza separatista Baluci, fortemente presente in Afghanistan, per agire contro il Pakistan. Inoltre potrebbe porre un freno ai militanti del Kashmir che si addestrano proprio in territorio afgano (Lashkar-e-Taliba per citare un esempio). Turchia e Russia hanno interesse nell’affermarsi come potenze dominanti nell’area, sfruttando i loro collegamenti con Uzbeki e Tagiki e la loro influenza politica (soprattutto russa). Infine la Cina vede l’Afghanistan come una miniera da cui importare le materie prime di cui ha estremamente bisogno e cercherà di utilizzare la minoranza degli Ugiuri in Badakhshan a proprio vantaggio. Ad ogni modo si è cercato di indirizzare positivamente l’influenza dei Paesi vicini avviando il “processo di Istanbul”, scaturito dalla conferenza di inizio novembre 2011 sulla sicurezza e cooperazione “In the heart of Asia”, il cui obiettivo dichiarato è la stabilizzazione e la cooperazione nella regione.

 

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DOTE OCCIDENTALE – Pensando al futuro dell’Afghanistan non si può prescindere dalle decisioni che verranno prese dalla NATO e dai suoi partner nella missione ISAF. In un articolo apparso lo scorso settembre su Foreign Affairs, David Rodriguez, a capo dell’International Security Assistance Force Joint Command tra il 2009 e il 2011, sintetizza bene i principi che sottendono l’azione ISAF degli ultimi anni in Afghanistan. Ci sono quattro principi guida, secondo Rodriguez, che hanno portato la missione internazionale sulla buona strada.

 

–      Il primo è l’utilizzo di un approccio solido e concreto, partendo dalla creazione e rafforzamento delle autorità locali e dalla promozione di una buona governance sin dai livelli più bassi.

 

–      Il secondo è la concentrazione delle operazioni nelle aree chiave, riducendo il dispiegamento di forze sui due terzi del territorio che non includono i più importanti centri commerciali, le principali strade di collegamento e le zone più densamente popolate.

 

–      La terza linea guida riguarda la razionalizzazione degli sforzi, da incanalare unicamente nel raggiungimento degli obiettivi della coalizione.

 

–      L’ultimo è la considerazione dell’uccisione di civili, della criminalità organizzata e della corruzione all’interno dell’apparato istituzionale afgano come pericolosi per la stabilità del Paese al pari della presenza talebana sul territorio.

 

Negli ultimi due anni sono state organizzate diverse conferenze tra i ministri degli esteri dei Paesi NATO e di quelli facenti parte della missione ISAF con lo scopo di determinare i diversi passaggi, che dovrebbero portare al ritiro dei contingenti stranieri dal territorio afgano e all’affidamento della sicurezza interna alle forze militari e di polizia afgane. Per la missione guidata dalla NATO la data fondamentale resta il 2014. Sia a livello ufficiale che in tutti i think tank si ragiona in termini pre-2014 e post-2014. Nei fatti il processo di transizione è già stato avviato. Si tratta sostanzialmente di creare condizioni tali da non permettere che l’Afghanistan diventi uno stato fallito non appena la maggior parte dei contingenti internazionali lascerà il Paese. Le conferenze di Londra (gennaio 2010), Tallinn (aprile 2010) e quella più importante di Kabul (luglio 2010) si sono occupate principalmente della fase di Inteqal (parola che in lingua dari significa transizione). È stato avviato il cosiddetto “processo di Kabul” che complessivamente si occupa di diversi temi tra cui economia e questioni sociali, ma soprattutto determina il passaggio di responsabilità della sicurezza del Paese alle forze locali. Il compito principale delle forze NATO-ISAF è diventato quello di affiancare e addestrare i militari e gli agenti di polizia (attualmente circa il 95% delle unità afgane è affiancato da forze della coalizione). Una volta che il grosso delle truppe internazionali si sarà ritirato sorgeranno i problemi maggiori. Tra tutti la gestione delle piccole unità rimaste sul territorio per continuare l’addestramento e l’attività di consulenza. Infatti si renderà necessaria la concentrazione delle forze solo nei grossi centri perché i costi e l’amministrazione di team, formati da poche persone, sparse in tutto il Paese sarebbe pressoché impossibile. Inoltre sorge il grosso problema, per Kabul, di come mantenere un grosso esercito e corpo di polizia. Secondo studi della Banca Mondiale le uscite supereranno le entrate nei prossimi dieci anni di circa il 25% (circa 7 miliardi di dollari l’anno), considerando la previsione ottimistica di un tasso di crescita dell’economia afgana di circa il 5-6% l’anno. Sono questi alcuni dei temi che saranno discussi il 20 di maggio durante la conferenza di Chicago che, insieme a quella di Bonn del dicembre 2011, occupano i rappresentanti dei vari Paesi ad elaborare strategie che vanno ben oltre il 2014, cercando di tracciare un quadro di lungo periodo realistico che porti ad un Afghanistan stabile, sicuro e sviluppato.

 

LA POSIZIONE ITALIANA – Il nostro Paese ha chiaramente partecipato alla missione rimanendo nei contorni dell’ISAF, stabiliti in sede NATO. Quello che si è fatto e quello che si farà non si discosta quindi molto dalle indicazioni rese note più volte dal segretario Rasmussen. L’Italia ha però affrontato la missione con l’impronta tipica della sua proiezione verso l’esterno. Oltre alla cooperazione allo sviluppo, incentrata soprattutto sulla creazione di infrastrutture e la fornitura dei servizi essenziali alla popolazione (assistenza sanitaria e scolastica su tutto), uno degli aspetti più rilevanti è stato il contributo delle forze italiane alla sicurezza e all’ordine pubblico. Rispetto ad altri contingenti, l’impiego dei 4.200 militari italiani ha consentito di sfruttare un background socio-culturale unico nel panorama militare, che da sempre caratterizza le missioni italiane all’estero. La presenza dell’Arma dei Carabinieri, in particolare di unità come la CC Trainig Unit-Adraskan, la Police Operational Mentoring Liaison Team situata a Herat e il numeroso personale dislocato nei vari centri di addestramento della polizia afgana sta ottenendo risultati di grande rilievo. Infatti il pattugliamento in piccole unità ha reso la presenza italiana meno invasiva e l’abitudine dei carabinieri ad essere il primo e principale contatto con la gente ha permesso un più agevole inserimento all’interno del tessuto sociale afgano, consentendo inoltre di creare un rapporto di fiducia irrinunciabile, dato l’obiettivo di collaborare con le forze locali per la costruzione di un apparato di sicurezza valido ed efficiente. Solo dopo l’incontro a Chicago del 20 maggio si conosceranno più in dettaglio gli impegni militari italiani in Afghanistan dopo il 2014. Per ora l’Italia partecipa al percorso di transizione formando e addestrando i militari e i corpi di polizia afgani e garantendo la sua presenza sul territorio per contribuire attivamente alla sicurezza di infrastrutture, villaggi e città.

 

Per ciò che concerne il lato civile dell’impegno italiano nel Paese è necessario considerare da un lato la cooperazione allo sviluppo e dall’altro le opportunità per le imprese italiane. Se si guarda agli scambi commerciali e agli investimenti diretti esteri l’Italia non è posizionata molto bene. I dati ufficiali del Ministero dello Sviluppo Economico segnalano una perdita di posizioni e quota di esportazioni verso l’Afghanistan a fronte di un piccolo aumento nella posizione relativa alle importazioni da quest’ultimo verso l’Italia. Per quanto riguarda il valore dell’interscambio tra Italia e Afghanistan, si è passati da 36,2 milioni di euro del 2009 (di cui 36 milioni è l’export dell’Italia) ai 26,5 milioni del 2010 (di cui 25,9 milioni è l’export italiano) per attestarsi a 28,4 milioni nel 2011 (con 27,3 esportati dall’Italia). I settori di maggior interesse sono sicuramente quello energetico (Eni, Enel e Terna sono coinvolti in vari progetti) e delle infrastrutture, quello agroalimentare e quello relativo all’estrazione e alla lavorazione del marmo dalle ricche cave afgane. Solo per citare alcuni esempi Enel e Terna hanno “illuminato” lo stadio di Herat, Eni si è interessata della costruzione di due centrali termoelettriche e più in generale al progetto Tapi, il gasdotto che andrà a collegare Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India; l’impegno italiano è sottolineato anche dalla partecipazione alla costruzione dell’aeroporto internazionale di Herat (un terminal è stato inaugurato lo scorso anno intitolandolo al Cap. Ranzani) e ad alcune strade di collegamento. Le opportunità economiche sono state sostenute politicamente sia dal governo Berlusconi che dall’attuale governo Monti. Nel 2011 il ministro dello sviluppo economico, Paolo Romani, ha compiuto diversi viaggi in Afghanistan, accompagnando alcune delegazioni di imprese italiane e di rappresentanti di Confindustria: la visita più importante è stata quella dell’aprile 2011 in cui Romani ha incontrato il suo omologo Shahrani e il governatore di Herat, Daub Saba. L’attuale governo ha firmato il 26 gennaio di quest’anno, alla presenza del presidente Monti e del presidente Karzai, un accordo di partenariato e cooperazione di lungo periodo tra Italia e Afghanistan. Il trattato è il primo di una serie che il Presidente afgano sottoscriverà con diversi governi europei, in ottica di garantire l’afflusso di capitali e merci per la ripresa e lo sviluppo economico del Paese centroasiatico. Lo slogan con cui il presidente Karzai sta promuovendo il suo tour è “garantire sicurezza per favorire lo sviluppo e garantire sviluppo per favorire la sicurezza”. Un circolo virtuoso che ci si augura non venga spezzato.

 

Una ‘road-map’ verso la pace?

L’Unione Africana, sostenuta da una risoluzione ONU, propone a Khartoum e Juba una roadmap per la composizione delle controversie, ma il Sudan avanza le proprie rimostranze. In Mali gli islamisti di Ansar Dine hanno cominciato a distruggere le tombe dei santi, tentando di imporre la shari’a, nonostante la popolazione minacci la rivolta. Continua la situazione di stallo in Guinea Bissau: la missione diplomatica ECOWAS, infatti, è fallita, e ormai la via delle sanzioni è inevitabile. L’eco delle elezioni francesi in Africa. Scontro tra Burundi e Human Rights Watch. Il senegalese Makhtar Diop alla vicepresidenza della Banca Mondiale. Le biotecnologie in Kenya. La stregoneria in Uganda. In chiusura, che cos’è l’IGAD

LA ROADMAP PER KHARTOUM E JUBA – Dopo il rapido aumento della tensione delle settimane scorse, tra Sudan e Sud Sudan arriva qualche tiepido segnale di distensione. L’Unione Africana, infatti, ha proposto una roadmap con la quale si indica ai due Paesi un limite temporale di tre mesi per riprendere il dialogo, con il sostegno di altri Stati del continente, dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD) e del Consiglio di sicurezza ONU. Khartoum, tuttavia, ha comunicato di accettare il pronunciamento dell’Unione Africana soltanto in via preliminare, ritenendo che alcune delle richieste siano irrealizzabili e penalizzanti. In particolar modo, secondo il governo sudanese, il limite massimo di tre mesi non sarebbe sufficiente nemmeno a organizzare gli incontri necessari, mentre il coinvolgimento dell’IGAD rappresenterebbe un tentativo di intromissione da parte di Paesi terzi non neutrali, ma, soprattutto, dell’Uganda, sostenitrice del Sudan del Sud. In merito, è intervenuto anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il quale, tramite una risoluzione del 2 maggio, ha richiamato Juba e Khartoum affinché accettino la roadmap dell’Unione Africana, aggiungendo l’inderogabile ritiro delle truppe dai territori di confine entro una settimana e la cessazione di ogni campagna propagandistica tesa a favorire il conflitto. Il Consiglio di sicurezza, inoltre, ha specificato che, qualora i due Paesi non rispettassero i termini definiti, le Nazioni Unite interverranno sulla base dell’art. 41 della Carta, ossia adotteranno misure specifiche, non militari, per costringere Khartoum e Juba al dialogo. Nel frattempo, comunque, una delegazione parlamentare sudanese si è recata in Uganda allo scopo di incontrare la speaker del Parlamento, Rebecca Alitwala Kadaga, e aprire un tavolo laterale di discussione.

ISLAMISTI IN AZIONE IN MALI – Il gruppo islamista Ansar Dine sta procedendo a un’intensa opera di imposizione della shari’a nel nord del Mali e, in particolar modo, nella città di Timbuctu. Venerdì 4 maggio, alcuni ribelli hanno assaltato e bruciato la tomba di Sidi Mahmoud Ben Amar, un santo venerato dalla popolazione locale il cui mausoleo è parte del sito classificato dall’UNESCO quale patrimonio dell’Umanità. Ansar Dine ha intrapreso una campagna di sistematica distruzione delle reliquie preislamiche o, comunque, non conformi al dettato shariatico. Mentre l’UNESCO si è detta preoccupata e ha lanciato un appello affinché la comunità internazionale intervenga al più presto, tra la popolazione, secondo il parlamentare El Hadj Baba Haidara, sta crescendo un forte sentimento di rivolta che potrebbe sfociare violentemente qualora gli islamisti attuassero le minacce lanciate contro altri siti sacri.

ECOWAS: LINEA MORBIDA IN GUINEA BISSAU? – L’ECOWAS ha annunciato che le trattative con la giunta militare al potere in Guinea Bissau sono andate fallite, cosicché l’imposizione di sanzioni diplomatiche, economiche e finanziarie si è resa ormai inevitabile. La Comunità dell’Africa occidentale aveva posto ai golpisti un ultimatum per l’apertura, entro settantadue ore, di un tavolo di mediazione che definisse le tappe del ritorno alla normalità del Paese nell’arco di un anno. Tuttavia, la posizione dell’ECOWAS si è molto attenuata rispetto ai propositi iniziali, e il motivo risiederebbe, secondo i documenti ufficiali, nel rischio che la situazione in Mali, ritenuta più instabile di quella in Guinea, possa subire un rapido peggioramento, cosicché la Comunità si troverebbe costretta ad agire su due fronti, esponendosi eccessivamente. Questa linea, avallata dal pronunciamento del presidente Alassane Ouattara riguardo alla necessità di anteporre lo sviluppo generale della regione all’ingerenza negli affari interni dei singoli Paesi, mostrerebbe, secondo Massaer Diallo, capo dell’Istituto di studi politici e strategici di Dakar «una riluttanza a rispettare la democrazia».

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LE ELEZIONI FRANCESI IN AFRICA – Le consultazioni presidenziali francesi hanno avuto, come prevedibile, grande eco anche in Africa, soprattutto in relazione alle comunità emigrate su suolo transalpino. La maggior parte dei consensi, sia tra i votanti, sia tra gli osservatori, è stata per François Hollande, considerato che Nicolas Sarkozy non gode di ampie simpatie nel continente nero. In molti africani, tuttavia, prevale la sensazione che i rapporti tra la Francia e l’Africa non subiranno reali modificazioni, anche se, in base a quanto riportato da varie testate, la speranza maggiore è che Parigi inverta la rotta di alcune direttrici, in particolar modo riguardo al sostegno ad alcuni contestati capi di Stato, primo fra tutti l’ivoriano Alassane Ouattara. In questo senso, la mancanza di precedenti contatti significativi tra Hollande e l’Africa è vista con ottimismo. SCONTRO TRA BURUNDI E HUMAN RIGHTS WATCH – Il ministro degli Interni del Burundi, Edouard Nduwimana, ha imposto a Human Rights Watch di annullare la conferenza stampa del 2 maggio nella quale sarebbe stato presentato un rapporto sull’inatteso aumento degli omicidi politici nel 2011. Il rappresentante del governo non ha motivato la propria decisione, limitandosi a far riferimento al comportamento «sovversivo» e «mosso da notoria malafede» dell’organizzazione, alla quale è stata anche ordinata l’immediata interruzione della distribuzione del rapporto alle Autorità e alla stampa. La decisione del ministro Nduwimana ha colto di sorpresa molti osservatori, poiché, nonostante la costante tensione nel Paese, il Burundi è sempre disponibile a ospitare conferenze e iniziative internazionali. UN AFRICANO VICE-PRESIDENTE DELLA BANCA MONDIALE – Il senegalese Makhtar Diop è il nuovo vicepresidente della Banca mondiale con delega all’Africa. Già ministro delle Finanze di Dakar, Diop vanta quasi venticinque anni di incarichi prestigiosi, tra i quali solo alcuni sono quelli di direttore della Banca mondiale in Brasile, Eritrea, Kenya e Somalia, nonché di presidente del consiglio dei ministri delle Finanze dell’Unione monetaria dell’Africa occidentale. BIOTECNOLOGIE IN KENYA – Il Kenya beneficerà di una donazione di 3 milioni di dollari da parte della Fondazione Bill e Melinda Gates per intraprendere ricerche approfondite sulle biotecnologie. I fondi, destinati allo Open Forum for Agricultural Biotechnology in Africa (OFAB), tuttavia, hanno già destato le perplessità di molti scettici che ritengono il Kenya ancora incapace di gestire correttamente nuove biotecnologie. LA RIPRESA DELLA STREGONERIA IN UGANDA – Secondo il giornale filogovernativo ugandese “The New Vision”, la crisi economica avrebbe condotto anche la popolazione delle classi più elevate a un ritorno diffuso alle pratiche di stregoneria, al fine di trovare lavoro, migliorare la posizione o danneggiare la concorrenza. Il sondaggio riporta che, nonostante le pratiche magiche siano reato penale dal 1957, più del 65% degli intervistati ha ammesso che la stregoneria sia una pratica diffusa sui posti di lavoro. Beniamino Franceschini [email protected]

Un Caffè con Wen Jiabao

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Oggi, 16 maggio, a due passi dal Duomo, il nuovo evento del Caffè Geopolitico: alla Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina, un incontro in cui si parla di Wen Jiabao, PCC e politica dell’immagine cinese. Per iscrizioni: [email protected]. Vi aspettiamo numerosi!

 

La Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina ed il Caffè Geopolitico organizzano il seminario

 

Quando l’Oriente si tinse di rosso. La lezione di Qianlong: Wen Jiabao, il PCC e la costruzione di una nuova immagine morale del leader

 

Milano, 16 maggio (ore 17.30), Via Clerici 5

 

Stefano Cammelli, autore di “Ombre cinesi” e “Storia di Pechino”, presenta un’analisi dell’operato e della figura di Wen Jiabao e della dirigenza del PCC attraverso un’analisi storico-antropologica della stampa di partito e dei documenti ufficiali del Consiglio di Stato. L’emergere di una vera e propria “politica dell’immagine” costruita attraverso media, giornali ed episodi si spinge fino alla costruzione di vere e proprie leggende del mondo contemporaneo. Continuità e cesure del linguaggio del potere in Cina.

 

La relazione verrà seguita da una tavola rotonda alla quale interverranno: Francesco Boggio Ferraris, Responsabile Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina; Thomas Rosenthal, Responsabile Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina; Dolores Cabras, Coordinamento di redazione Cina e Asia Orientale, Il Caffè Geopolitico. Modera Alberto Rossi, Presidente de Il Caffè Geopolitico.

 

Per informazioni e iscrizioni: [email protected], tel. +39 02 72 000000, sito della Fondazione Italia Cina.

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Sanzioni e misfatti

Caffè Geoeconomico – Apparentemente i Sauditi si stanno “svenando” per sostenere l’offerta di petrolio, e abbattere il prezzo. L’esito appare quasi nullo, o controproducente, eppure il prezzo del petrolio deciderà molto probabilmente della guerra o della pace nel Golfo Persico, da qui ai prossimi mesi – tra giugno e novembre. Ecco i possibili scenari, tenendo conto delle elzioni presidenziali negli Stati Uniti che incombono

LA FINESTRA DI OPPORTUNITÀ – Esiste una finestra di opportunità ben definita per una guerra americana sull’Iran, delimitata all’incrocio tra le coordinate della campagna presidenziale e quelle dell’entrata in vigore delle sanzioni economiche. Le presidenziali naturalmente sono a inizio novembre, con la campagna elettorale che entra nel vivo a partire dalla fine di agosto. Dopo le elezioni il presidente recupera piena sovranità e autonomia dalle pressioni di lobbies e potenze alleate (soprattutto se al secondo mandato, e corroborato da una maggioranza conforme in Congresso). I due mesi iniziali di una campagna militare sono d’altra parte i più favorevoli al presidente, un periodo (presumibilmente) troppo breve perché errori strategici o geopolitici (o, più prosaicamente, scompensi del bilancio federale) possano rivelarsi agli occhi dell’opinione pubblica, ma anche l’arco di tempo ideale perché la mobilitazione ideologica della “nazione in guerra” possa dispiegarsi nel massimo consenso al “comandante in capo”. Non crediamo molto invece in una (sempre più) mitica finestra tecnica, o soglia di immunità del programma nucleare persiano: quella linea rossa è stata più volte tracciata, slittata in avanti, anticipata, sfumata in nuvola probabilistica, ridefinita con la nettezza di un rasoio dai servizi segreti usa e occidentali, al punto che questo esercizio di intelligence cozza ormai con l’intelligenza. Si può anzi ritenere che in un certo modo la soglia nucleare (il concetto deve a sua volta essere definito) sia stata in realtà già superata. Le coordinate sono due: a) Che Teheran sia già pervenuta o no all’arricchimento di una sufficiente quantità di uranio per ottenere una bomba, il know how, il sapere scientifico  e ingegneristico per arrivare a questo obbiettivo è stato pienamente incorporato nel patrimonio intellettuale del paese, che nessun omicidio mirato potrà obliterare. b) Bomba o non bomba, prima che il paese possa dotarsi di un arsenale nucleare comparabile a quelli delle potenze regionali (Israele, Pakistan, Turchia tramite NATO), o comunque utile alla deterrenza, e a una eventuale proiezione egemonica, serviranno molti anni, forse decenni. I TEMPI DELLA CRISI, LA REALE POSTA IN GIOCO – In altre parole, la “soluzione giapponese” è già tra noi, e le recentissime esternazioni del capo dello stato maggiore israeliano Gantz ne sono autorevolissima conferma. Sostiene Gantz che “la leadership iraniana è composta da persone molto razionali” e che “è vero che Teheran procede passo dopo passo verso una condizione in cui sarà in grado di decidere se dotarsi della bomba (…) ma questa decisione non è stata ancora presa. Credo che sarebbe un colossale errore, e non penso che gli Iraniani vorranno farlo”. In un altro passaggio cruciale Gantz ha anche chiarito che il 2012 non è necessariamente l’anno decisivo, anche per una eventuale operazione militare preventiva. I tempi dettati dalla questione del nucleare iraniano sono dunque molto diversi da quelli, drammaticamente stringenti, della narrazione prevalente sui media. “Soglia di immunità”, “finestra di opportunità” sono in effetti espressioni, proxy, del vettore di pressione politico/propagandistica esercitato da Israele e da una parte di establishment Usa sull’amministrazione Obama. Israele del resto è pur consapevole che lo spettro del nucleare persiano è destinato a turbare i sonni delle petromonarchie del golfo, più che i propri, che si tratta di una complessa partita geopolitica per l’egemonia regionale e in ambito OPEC. ISRAELE E ARABIA SAUDITA: PRESSIONI SU WASHINGTON – La linea di Israele in realtà è tutt’altro che definita, nell’establishment militare (e dunque nell’intelligence) prevale una forte diffidenza, se non resistenza, al blitz aereo. Il peso dei militari è naturalmente cruciale a Gerusalemme, ma non potrebbe costituire un veto, qualora un redde rationem nel governo dovesse esprimere una chiara volontà di procedere. Esiste una direttrice di pressione politica e diplomatica (pro-intervento militare) ben più nitida e – allo stato – forse più dirimente dello stesso Israele, nei confronti dell’amministrazione Obama: quella Saudita (o del GCC-Consiglio di Cooperazione del Golfo). Il vettore politico di Israele si dispiega attraverso il canale delle relazioni culturali, mediatiche e politiche tra Stati Uniti e Israele. La direttrice saudita si avvale, molto probabilmente, di un’altra leva, il prezzo del petrolio. Uno strumento di pressione estremamente potente, ancorchè indiretto e dunque dagli esiti (geo)politici non immediatamente controllabili, e che può essere manipolato nell’ombra. Le coordinate da tenere presenti sono in questo caso quelle energetiche (o energetico-finanziarie, trattandosi di futures del petrolio), quelle macroeconomiche, e naturalmente il connesso trend nei sondaggi elettorali per le presidenziali. Tendono tutte a convergere su uno scenario molto preoccupante. La chiave è nel giro  di vite delle sanzioni, deciso tra dicembre (negli Usa) e fine gennaio (UE), in grado di stabilire un pericolosissimo link tra andamento dell’economia (soprattutto Usa) e crisi iraniana – una connessione che ha qualche fondamento reale, ma ampiamente manipolabile (e a nostro parere manipolata) nel suo snodo finanziario – dove si può creare o moltiplicare un nesso sanzioni/prezzo del greggio – e, più a valle, nella sua lettura mediatica.

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LE SANZIONI, UN GIOCO PERICOLOSO – Le sanzioni sono già da tempo considerate, nel mainstream mediatico, la fonte del forte rialzo nelle quotazioni del petrolio a partire da gennaio, e la correlazione (che non è in sé causazione) è effettivamente piuttosto evidente: i futures sul Brent (la qualità di greggio europeo che costituisce il riferimento di prezzo per il 70% circa del traffico globale) oscillavano tra i 105$ e i 110$ negli ultimi mesi del 2011, hanno decisamente guadagnato quota (110/115) nel mese di gennaio, dopo un importante round di sanzioni Usa, e sono schizzate sopra i 125 tra Febbraio e Marzo, dopo la decisione sulle sanzioni UE. Peraltro, dato il cambio relativamente debole dell’euro, per l’Eurozona questi livelli superano i massimi toccati (in dollari) nel luglio 2008. Le sanzioni europee non entreranno in vigore prima di luglio, ma i mercati scontano almeno parte di esse, e d’altra parte si tratta di una data di riferimento, la diversificazione delle forniture è già in corso. Si deve pure considerare che nel frattempo gli Usa serrano ulteriormente le proprie misure sull’Iran, che importanti acquirenti e alleati di Washington (Corea del Sud, Giappone), pur non vincolandosi a decisioni formali, stanno a loro volta tagliando drasticamente l’import energetico da Teheran e – soprattutto – che, con l'estromissione in marzo degli istituti iraniani dal sistema di regolazione globale SWIFT (sotto controllo UE), le banche iraniane devono trovare nuovi e complicati canali finanziari per gestire il proprio traffico di idrocarburi.La creatività finanziaria notoriamente ha pochi limiti, e sistemi alternativi sono allo studio, in parte già in atto, e rimane aperta la strategica falla svizzera (Berna non aderisce alle sanzioni, e la gran parte delle grandi trading house di petrolio e materie prime ha sede nella Confederazione). Sono sviluppi che recano sgradevoli presagi – un Iran che impara a fare a meno del petrodollaro può gettare un seme pericoloso per gli Usa, nell’inquieto Golfo Persico; la Svizzera ha il dente avvelenato con il presidente che l’ha costretta a venir meno al suo leggendario segreto bancario – ma è soprattutto il drastico rialzo dei prezzi petroliferi negli ultimi mesi che mina alle fondamenta la credibilità e la sopravvivenza politica di Obama. Nel mese di aprile il trend si è solo moderatamente invertito, attualmente siamo appena sotto quota 120. La correzione potrebbe continuare nelle prossime settimane, ma il ribasso pare dovuto solo in parte all’apertura dei rubinetti sauditi – Riyad ora pompa al ritmo record di circa 10 milioni di barili al giorno, ma questo significa che la sua preziosa capacità di riserva è stata pesantemente intaccata – mentre incide sicuramente il rallentamento dell’economia mondiale e in particolare l’incupirsi delle prospettive dell’Eurozona; nel terzo trimestre, inoltre, la domanda americana  attraversa regolarmente una fase di contrazione o rallentamento, per riprendere con forza all'inizio dell'estate (e attenzione alla domanda estiva degli stessi Sauditi e GCC); a fine primavera diverse raffinerie riprendono le attività, dopo la sosta annuale per le revisioni tecniche.  Soprattutto, non è il picco, il dato puntuale della giornata o della media settimanale, che conta, bensì l'andamento medio a trimestre e ad anno, la persistenza del prezzo al di sopra di una certa soglia, e attualmente siamo al record assoluto di prezzi sopra soglia dei 100$. Tutto questo mina, corrode le basi di una ripresa economica (reale, come quella statunitense, o immaginaria – come nella UE). Sull’altro fronte, l’economia Usa ha già dato segni chiari di rallentamento rispetto a una ripresa che appariva comunque anemica. In particolare a marzo si è quasi interrotta la serie di dati moderatamente positivi sul fronte dell’occupazione, pochi giorni fa il dato trimestrale sulla produzione di beni durevoli ha confermato le inquietudini. LA TRAPPOLA SCATTA IN ESTATE – Ecco l’incubo di mezza estate: se il prezzo del petrolio va fuori controllo le sanzioni diventano un fucile con la canna puntata contro chi le ha volute – l'Iran recupera dai prezzi più alti le perdite dovute al taglio delle importazioni (o meglio, alle vendite a sconto a Cina e India), l'Occidente entra in crisi energetica. Una crisi energetica che sarà targata mediaticamente Iran, o meglio: crisi con l'Iran. Sarà inevitabile ricordare che su nove recessioni negli Stati Uniti del dopoguerra, otto si sono verificate successivamente a rialzi record dei prezzi energetici. Naturalmente dalle sanzioni non si torna indietro, non possono essere revocate senza aver conseguito almeno un parziale ma oggettivo successo. Si può solo andare avanti. A quel punto – l'estate, quando la campagna presidenziale comincia veramente – la pressione israeliana (se davvero Israele avrà deciso di volere la guerra) sarà all’acme, e combinata in maniera esiziale con quella del fronte interno, i Repubblicani, con cui il premier israeliano Nethanyau ha strettissimi rapporti. Naturalmente accuseranno il presidente di aver sbagliato tutto, aperto all'Iran la strada verso l'investitura nucleare, e precipitato l'America in una nuova recessione (o una jobless recovery, che è politicamente la stessa cosa) per le scelte attendiste verso l'Iran. Se nel frattempo l'economia Usa avrà cambiato di segno, da una lenta ma solida ripresa a una quasi-stasi fragile ed esposta, come ora sembra, la posizione del presidente si sarà fatta insostenibile. A quel punto Obama avrà di fronte a sè due strade: a. rimanere fedele all'ispirazione della sua piattaforma 2008, con cui vinse le elezioni (nel frattempo il mondo è un po' cambiato, d'altra parte), e al Nobel per la Pace ricevuto un anno dopo, ascoltare le raccomandazioni di gran parte dell'establishment della Difesa (che diffida di una facile soluzione militare) e della gran parte degli analisti geopolitici e strategici, e andare incontro a una sconfitta elettorale di dimensioni epocali, tali da compromettere le possibilità dello stesso Partito Democratico negli anni a venire. Una tempesta perfetta in cui al fallimento economico (proprio o ereditato, poco importa) si somma l'opposizione della lobby ebraica e lo smacco in politica estera. b. cedere alla tentazione dell'attacco aereo limitato, confidando nella capacità della marina di assumere rapidamente il controllo del Golfo e delle sue vitali arterie petrolifere, incassare il sicuro dividendo elettorale della guerra, e forse anche un calo del prezzo del petrolio (con un piccolo aiuto della connection Sauditi-JP Morgan). Lo stesso establishment iraniano pare guardi a questa eventualità con (qualche) favore. Ma in guerra si sa come si entra, non come (e se) si esce. Andrea Caternolo [email protected]

Luce nuova a Parigi, buio pesto ad Atene

Come sarà l’Europa senza uno degli interpreti del duo Merkozy? Questa è la domanda all’indomani della sconfitta di Sarkozy da parte del Monsieur Normalité Hollande, in una sfida che ha riportato il Partito Socialista al potere dopo 17 anni di attesa. Se da una parte la sinistra torna a sperare in Grecia le urne hanno sancito un verdetto differente: il fallimento della democrazia di Atene, con l’ingresso di reazionari di varia matrice in Parlamento e la caduta dei consensi dei partiti pro-Eurozona. Anche a Damasco si vota stamane, meglio non esprimersi in materia, potremmo rischiare di sembrare sarcastici, dove il sarcasmo è l’ultima delle preoccupazioni

 

EUROPA

Lunedì 7 –François Hollande è il settimo Presidente della Repubblica Francese, dopo aver battuto l’eclettico Presidente uscente Nicolas Sarkozy, con circa 5 punti percentuali di scarto. Nonostante la rimonta dell’uomo che ha cambiato la concezione della massima carica dello stato, dopo ben 17 anni di dominio dell’UMP, il Parti Socialiste abbia guadagnato la vetta insormontabile. Il voto francese, oltre a pesare sui mercati, dovrà necessariamente essere speso saggiamente a Bruxelles, mettendo in crisi l’asse franco-tedesco con la cancelliera Angela Merkel, così come la politica miope di austerità ad oltranza condotta dalle massime cariche dell’Eurozona. Che ne sarà del Fiscal Compact? Con chi si alleerà il nuovo Presidente? Ma soprattutto, dove andrà l’Europa con la fine del blocco Merkozy?

Lunedì 7 – Il passo da parigi e Belgrado non è mai stato così breve, dato che anche in Serbia le elezioni presidenziali anticipate rischiano di segnare il cammino verso l’allargamento dell’UE. Il voto di domenica rischia così di diventare un referendum sulla politica di normalizzazione della Repubblica di Serbia condotta dal 2004 da Boris Tadiæ e dal Partito Democratico. Nonostante le fratture che ancora colpiscono la popolazione serba dopo la guerra intestina decennale, a Tadiæ va riconosciuta la capacità di gestire in maniera pragmatica situazioni di tensione e conflitto, dalla secessione montenegrina, alla questione kosovara, passando per l‘adesione all’UE. Nella convinzione della “necessità di mostrare la distanza tra i criminali di guerra e i cittadini”, Tadiæ ha presenziato ad ogni forma di anniversario scomodo, come il genocidio di Srebrenica, mettendo la faccia nella dura e controversa caccia ai ricercati epr crimini di guerra. Contro tale linea moderata si erge Tomislav Nikoliæ, conservatore e nazionalista, leader del Partito del Progresso Serbo (SNS), che nel 2008 aveva ottenuto al primo turno il 40% dei consensi, perdendo poi al ballottaggio. Molto probabile dunque la sfida all’ultimo voto nel ballottaggio del 20 Maggio.

Lunedì 7 – “Comunque vada, sarà un disastro” è questa la frase ad effetto che emerge dai commentatori greci sulla domenica alle urne, nonostante l’ora d’aria concessa pochi giorni fa dalle agenzie di rating che hanno alzato il giudizio sul debito di Atene da junk a “CCC”, con uno sforzo immane. In realtà i dati sembrano confermare il pronosticato default dermocratico vista la vittoria risicata, ma insufficiente dei popolari di Nuova Democrazia, mentre i socialisti del PAOK, lasciano il secondo gradino del podio ai più intransigenti di Syriza che ottengono 50 seggi in Parlamento. Battesimo del seggio anche per i nuovi colonnelli dell’estrema destra di Alba Dorata, poco più in là nello schieramento immaginario, gli estremisti del LAOS e di DRASI. Chissà cosa s’inventerà Antonis Samaras, il leader della ND, dato che gli impresentabili di Alba Dorata rifiutano qualsiasi alleanza e un pactum sceleris con il PASOK sembra sempre più impossibile. Quello che è certo è che l’alba di lunedì ad Atene, sarà nera più che dorata.

 

AMERICHE

STATI UNITI – La campagna elettorale per le presidenziali di novembre è ufficialmente iniziata in pompa magna con i due mega-eventi propagandistici presenziati dal Presidente Barack Obama in Ohio e in Virginia nel week-end. Forward è invece il nuovo slogan scelto dai sostenitori del politico che ha rivoluzionato la comunicazione elettorale 4 anni fa, non c’è più spazio per il cambiamento e la speranza, dato che ormai l’obiettivo è lo scontato second term. Nello stesso senso è da intendere l’apertura fatta domenica dal vice di Obama, Joe Biden per quanto riguarda le nozze omosessuali, introdotte mesi fa nello stato di New York. Saltando da uno schieramento all’altro, sembra finita l’epoca d’oro del G.O.P. in cui il dibattito era ingolfato dalle primarie repubblicane etutte le luci erano puntate sullo scontro Romney-Santorum. La verità è che l’ondata del mormone miliardiario sembra diventata una bassa marea di calma piatta, pronta a seguire senza sbalzi la corrente verso la riconferma di Obama.

ARGENTINA – Cristina Fernández de Kirchner sembra sempre più intenzionata a sfruttare l’onda lunga di un consenso popolare incontrastato, vista la reazione di giubilo universale con cui è stata accolta la nazionalizzazione di YPF, la controllata di REPSOL per lo sfruttamento del gas argentino. Miguel Galuccio è stato nominato Presidente della compagnia per la quale aveva già lavorato in precedenza, l’elezione sarà confermata il 4 giugno dagli azionisti della YPF. Intanto ha fatto scalpore la lunga citazione di un articolo del Premio Nobel per l’economia Paul Krugman per il NYT proprio nella cerimonia dell’incoronazione di Galuccio da parte della Presidenta argentina, presa da Krugman quale esempio della gestione energetica oculata. I 208 voti a favore contro i 32 contrari e le 5 astensioni sembrano confermare la condivisione da parte del Parlamento argentino, del Krugman pensiero sull’operato del governo nella faccenda YPF, lasciando la Presidenta libera da avversari per ancora molto tempo.

VENEZUELA – L’incredibile vicenda mediatica della malattia di Hugo Chávez sembra ormai pronta ad uscire di scena una volta per tutte, mentre la nebbia si fa sempre più fitta sulle elezioni presidenziali di ottobre. Dopo il consueto ping pong tra Caracas e L’Havana per sottoporsi agli infiniti cicli di chemioterapia, il Presidente venezuelano è stato recentemente costretto alla psicoterapia, a causa di una depressione che l’avrebbe recentemente colpito. Nonostante i sentimenti contrastanti che legano l’hombre de hierro all’opinione pubblica, la popolazione sembra ormai contrita al capezzale del Presidente mentre la stampa locale sembra diventata una raccolta di prognosi e bollettini medici. La verità è che la leadership politico-militare di Caracas sembra incapace di proporre una soluzione di continuità allo strapotere di Chávez, anche grazie alle epurazioni cicliche che hanno diradato gli avversari più promettenti.

 

AFRICA

Martedì 8 – Scadenza imminente per l’ultimatum dato dall’Unione Africana a Giuba e Khartoum per riprendere in maniera effettiva i negoziati, mentre il termine ultimo per raggiungere una soluzione negoziale della vicenda è fissato tra tre mesi. C’è ancora tempo invece per i circa 12.000 sud-sudanesi assembrati nella periferia di Khartoum, cui è stato intimato il ritorno in patria entro il 20 Maggio. Il Consiglio di Sicurezza è intenzionato a lasciare la patata bollente al braccio regionale dell’AU, nonostante i continui suggerimenti della stampa internazionale ad un possibile ruolo mediatore di Pechino, alleata delle due parti in conflitto. Intanto sul fronte diplomatico, si fa sempre più insostenibile la figura ingombrante del Presidente sudanese Omar al-Bashir, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e ora rispedito al mittente da Joyce Banda, neo-nominata Presidentessa del Malawi. Rifiutandosi di accogliere al-Bashir al meeting dei capi di stato dell’AU in programma a luglio, Joyce Banda ha affidato il nodo gordiano all’organizzazione regionale, che deve ora sciogliere la questione dell’immunità diplomatica, alla luce dell’incriminazione di Charles Taylor.

Giovedì 10 – Elezioni parlamentari in Algeria, l’ormai unico stato rigidamente laico dopo la Primavera Araba del 2011 che ha sconvolto la scena politica del Nord Africa e del Medio Oriente. La coalizione che guida il paese da quasi quindici anni vede come Capo di Stato e leader morale Abdelaziz Bouteflika, del FLN, mentre il Primo Ministro Ahmed Ouhaya del Partito Nazionale per la Democrazia gestisce il sistema di sicurezza soffocante che opprime la società algerina dal 1992. Nonostante la sospensione “di facciata” dello stato d’emergenza che perdurava dal colpo di stato contro il Fronte di Salvezza, resta il sentimento di sconforto e avversione nei confronti di Bouteflika, l’ultimo dei rais della regione ancora al potere dopo la caduta di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. Impossibile percepire la fine del tunnel per il popolo tunisino, grazie al lavoro minuzioso delle forze di sicurezza, che controllano ogni aspetto della vita quotidiana, lasciando la democrazia sospesa in un limbo inaccessibile.

EGITTO – Due buone notizie ci portano nell’Egitto del dopo-Tahrir, travolto da crisi diplomatiche e continue proteste per la conduzione della vita politica da parte della contestata giunta militare del Feldmaresciallo Tantawi. Innazitutto hanno riaperto domenica l’Ambasciata e i Consolati dell’Arabia Saudita, dopo la fine dei contrasti per le proteste contro l’arresto di un attivista egiziano per i diritti umani . L’Ambasciatore saudita Ahmed Abdel Aziz Qattan ha parlato di una crisi transitoria e risolvibile in via bilaterale, annunciando il rilascio di circa 7000 visti per viaggi spirituali verso La Mecca e Medina. Finisce anche l’incubo delle 15 donne arrestate per gli scontri davanti al Ministero della Difesa, in seguito all’assalto da parte di uomini ben equipaggiati e in borghese contro i manifestanti accampati da giorni. Tra le varie vicissitudini di questo periodo di transizione, un’unica certezza permane nel panorama politico egiziano, la presenza scomoda dei militari al potere. Sbaragliate le varie candidature forti per le presidenziali, Il Cairo potrebbe confermare il legame inscindibile tra carriera mlitare e sfera politica, un filo conduttore che risale a figure storiche come Nasser, Sadat e lo stesso Mubarak.

 

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ASIA

Lunedì 7 – Tappa a Nuova Delhi per il tour orientale del Segretario di Stato Clinton, dopo gli incontri scottanti in Cina, dove impazzava lo scandalo di Cheng Guangcheng e in Bangladesh dove tra attentati e sparizioni misteriose, la Grameen Bank di Mohamed Yunus resta senza Presidente. Il viaggio in India di Hillary Clinton ha un obiettivo ben preciso, confermare la partnership strategica per la deterrenza anti-cinese nel Pacifico Orientale e ottenere il taglio definitivo delle importazioni di greggio da Teheran, vitali come quelle cinesi per la sopravvivenza del regime degli Ayatollah. La dura legge del negoziato impone che a concessione richiesta si risponda con un’offerta vantaggiosa, chissà che non si passi dal settore energetico a quello militare, viste le recenti vicissitudini riguardo ai ravvicinati test balistici indo-cinesi. La verità è che la questione iraniana continua ad occupare il pensiero strategico della leadership statunitense a causa delle alleanze con i partner regionali nel Golfo, mentre lo sguardo di lungo periodo si è da tempo spostato dal Medio Oriente al Pacifico Orientale.

GIAPPONE – Sembra un sogno per la popolazione giapponese, invece il paese è per la prima volta da 42 anni a questa parte libero dal nucleare, o almeno dalla produzione energetica delle sue centrali. Lo shut-down fa però parte di un complesso programma di test incorciati e ristrutturazioni concordate dal Ministero per l’Energia e le varie EPCOs (elecrtic power companies) per portare il comparto produttivo nucleare nel terzo millennio dopo il disastro di Fukushima. L’evento ha però ridato ossigeno ai movimenti di opposizione civile nati intorno ai temi ambientali o contro la presenza militare americana, soprattutto a Okinawa. “Sayonara Genpatsu“, “addio, centrali nucleari” è lo slogan che campeggia inogni piazza giapponese, rendendo vana ogni possibilità di riavvio in tempi brevi di alcuni dei più vetusti tra i 50 reattori.

CINA – Sembra troppo scontata la fine della vicenda personale dell’attivista cinese Cheng Guangcheng, cui Joe Biden in persona ha promesso un visto per gli States esteso ai suoi famigliari, dopo l’accordo strappato dalla Clinton in visita a Pechino. Per la leadership del PCC, l’intrigo diplomatico conferma le preoccupazioni mai decadute che la questione dei diritti umani venga utilizzata quale cuneo inoppugnabile per giustificare intrusioni deprecabili nella sovranità nazionale. Se tanta e tale è stata la reazione alla fuga rocambolesca dai domiciliari di uno sconosciuto ribelle non vedente, quale sarà la reazione mediatica internazionale di fronte ad un’eventuale fiammata della questione tibetana? Questa domanda retorica sembra ora il nuovo mantra da appendere nelle stanze dei bottoni di Pechino in vista del labile cambio di leadership in vista per Weng Jiabao e Hu Jintao.

 

MEDIO ORIENTE

Lunedì 7 – Ritorna all’apice la farsa politica dell’apertura del regime di Bashar al-Assad alla democrazia, con il popolo siriano, o quello che ne rimane, chiamato alle urne per eleggere i 250 seggi di un Parlamento fantasma nella presente crisi intestina. Gli scontri ormai si estendono dal confine turco alla frontiera con l’Iraq, senza alcuna soluzione di continuità mentre neanche il team di 300 osservatori ONU sembra fermare le forze di sicurezza siriane. Nonostante le continue defezioni, il cui dato è ultimamente in rialzo, bisogna purtroppo ammettere che il legame insolubile tra braccio armato e mente politica sembra essere uno dei caratteri comuni nel contrasto alla Primavera Araba. Sembra che siano ben 7.195 i candidati registratisi per i 250 seggi disponibili, raccolti in 7 formazioni nate in seguito al referendum di febbraio. Il premier turco Erdogan chiede l’aiuto di Allah per un regime-change a Damasco, il Ministro degli Esteri saudita continua a spingere per gli aiuti militari ai ribelli mentre gli Stati Uniti sembrano sempre più lontani da un intervento “umanitario” considerato troppo rischioso.

ISRAELE – Al voto prima di Washington, questo l’imperativo elettorale per Benjamin Netanyahu dichiarato apertamente alla nazione in un discorso tenuto domenica, dove ha confermato l’intenzione ben nota di anticipare l’appuntamento con le urne. La decisione giunge poco dopo il cambio di leadership dell’opposizione e nel momento di minor rischio per il LIKUD, fissando a settembre le elezioni Netanyahu vuole così condizionare l’appoggio statunitense ad un possibile strike israeliano contro il programma nucleare iraniano. Con la riconferma in tasca, la leadership dei conservatori può quindi dedicarsi anima e corpo alla definizione dello sguardo oltre i confini nazionali, dove non è solo Teheran a preoccupare, vista l’escalation degli scontri in Siria. Sia i laburisti che KADIMA e lo stesso Yesh Atid si sono detti favorevoli ad un governo di coalizione guidato da Netanyahu, non ci resta che attendere Settembre quindi per conoscere il futuro d’Israele.

YEMEN – E’ una guerra sporca quella condotta dai droni della CIA in Yemen e dai reparti anti-terrorismo dell’esercito locale, anch’esso armato, addestrato e supportato direttamente da Washington. Il paese, dove nulla è realmente cambiato dopo la fine dell’impero di Ali Abdullah Saleh. Due militanti jihadisti uccisi, tra cui Fahd al-Qasaa uno degli organizzatori dell’attentato all’ammiraglia statunitense USS Cole del 2000, dove morirono 17 marinai americani, il bilancio dell’ultimo volo dei famigerati droni. Intanto si fa sempre più certa la sorte dei due cittadini di origine belga arrestati un mese fa all’aeroporto di San’a perchè sospettati di condurre atti terroristici, dalle trattative in corso col governo di Bruxelles, sembra che sia emersa la volontà di rimandarli in patria per essere sottoposti a processo.

 

Fabio Stella

From Paris with love

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Dopo due settimane di dibattiti televisivi, sondaggi sugli indecisi e cabale in grado di spostare i voti dell’estrema destra all’estrema sinistra, e viceversa, è arrivato il gran giorno delle elezioni presidenziali francesi. Con un Sarkozy in rimonta nei sondaggi, e un Hollande troppo sicuro per non lasciar presagire la fregatura dell’ultimo minuto, i parigini si sono svegliati sotto un cielo di nuvole basse per andare a scegliere il loro settimo presidente della storia della Quinta Repubblica. Tra di loro, i famosi “indecisi”, i bistrattati elettori di Marine Le Pen, i “moderati” di François Bayrou, i verdi di Eva Joly e i fedeli compagni di Jean-Luc Melanchon. Alla fine, però, l'ha spuntata Hollande. Ecco la cronaca di una giornata fondamentale per la Francia da chi l'ha vissuta in prima persona

TRA SPERANZE E DELUSIONI – Il mio percorso nella capitale in attesa degli exit poll comincia a piazza della Bastiglia, dove già una doppia fila di camion e furgoni per le riprese televisive sta rallentando il traffico davanti all’Opéra. La piazza è il luogo storico di festa per i socialisti, a partire dalla vittoria di François Mitterrand nel 1981, finora l’unico del PS ad essere stato eletto all’Eliseo. Il tempo di bere un caffè, e un cameriere indiano commenta: “stanno preparando la festa, questa sera arriverà qui the president”, in un’alternanza di francese e inglese che lascia poco spazio al pessimismo. Un responsabile della sicurezza, invece, è più cauto: “stiamo preparando la festa per Hollande, ma stanno facendo lo stesso a piazza della Concorde, nel caso vincesse l’altro”. Dalla Bastiglia alla Concorde ci sono appena quindici minuti e una stessa linea di metropolitana. Mi affaccio all’uscita, vicino ai giardini delle Tuileries, e ammiro le transenne che circondano uno spiazzo vuoto. A poca distanza, alcuni camion per le riprese televisive, che ospitano i giornalisti semiaddormentati. “Il nostro compito è rimanere qui fino alle 21:30. Se non succede nulla, riprenderemo il nulla. E’ un messaggio lo stesso”, commenta un operatore. Mi lascio alle spalle la piazza popolata da turisti ignari, dopo aver scattato un paio di foto a tre furgoni pieni di impalcature smontate. Hai visto mai che.. Di militanti sarkozisti, alle quattro del pomeriggio, nemmeno l’ombra.

NELLA TANA DEL LUPO – Tutt’altra atmosfera a rue de Solferino. La via del quartier generale del Partito Socialista è contesa a metà tra i primi manifestanti che in attesa e le troupe televisive del mondo intero. Al mio arrivo, catturo i sospiri di una madre: “che nostalgia! Tutto questo mi ricorda quella sera con Mitterand..”. “Chi?”, chiede la figlia, poco più che adolescente. “Fa nulla, non puoi saperlo..”. Fuori dai cancelli, alcuni militanti gettano magliette con lo slogan “Le changement, c’est maintenant” che ha ispirato tutta la campagna di Hollande, e spille firmate. Ne ricevo una sulla fronte, mentre sto parlando con due ragazze che non hanno votato per Hollande, non credono nella sua vittoria e, in definitiva, “siamo passate di qua per caso”. Quando i risultati saranno annunciati le due scompariranno, quasi per un misterioso contrappasso, in un mare di magliette rosse e palloncini. In mezzo alla folla, che continua a crescere, incontro Céline, francese, e Ophelie, di madre tedesca, di 28 anni, in compagnia di Dalila, 31 anni, algerina di origine. Tutte e tre hanno votato per Hollande, e si dichiarano “militanti”. “Hollande ha rimesso in primo piano l’interesse per la Repubblica – dice Dalila – Sarkozy ha deviato troppo verso la destra”. La segue a ruota Céline, che sbotta: “non ne possiamo più di veder le persone messe le une contro le altre”. Confidano nella vittoria del loro paladino, anche se Ophelie confessa: “quello che farà la differenza saranno i voti di Bayrou (leader del MODEM, partito di centro, arrivato al 9,1% il primo turno), ma anche i valori umanisti che Hollande rappresenta”. Il centrista Bayrou aveva avuto tra i suoi seguaci, nel primo turno del 2007, anche Bruno, 29 anni, autista di origini portoghesi: “al secondo turno nel 2007, invece, avevo votato per Sarko, per le belle promesse che aveva fatto”. E’ fiducioso nella vittoria di Hollande, e crede che “anche in Italia aspettano questo momento, nemmeno voi volete passare il resto dei vostri giorni nell’austerità”. Dal nuovo presidente, mi confida che “spero in una revisione delle pensioni. Per alcuni lavori, i più pesanti, non si può arrivare a 42 anni di contributi. Sarei disponibile a pagare un po’ di più, per lavorare di meno”. Bruno racconta le sue origini, di quella “nonna arrivata dal Portogallo” in cerca di un avvenire migliore in Francia, e scompare nella folla con un ultimo augurio: “voglio sentirmi fiero di essere francese, e non avere paura quando esco di casa”.

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UN'ATTESA LOGORANTE – Il tempo scorre implacabile sulla testa dei manifestanti. Alle ore 17, la prima trasmissione riprodotta sul megaschermo fissa la partecipazione al 71,96%. Arrivano in quei momenti anche Mikael, francese di 41 anni, sua moglie Dominique, 38, originaria della Martinica, e il loro bambino. Mikael non si sbilancia, prevede solamente che “la lotta sarà serrata fino in fondo”. Per Dominique, la giornata riveste una connotazione simbolica: “Hollande probabilmente non farà grandi cose, ma ha saputo ridare speranza alle persone in un momento difficile, di grave crisi economica. Se Sarkozy venisse rieletto, sarebbe due volte peggio per noi”. “Speranza”, una litania che nel campo socialista si ripete come se fosse una formula magica. “Sento un grande vento di speranza. E’ la prima volta che scendo in piazza per un’elezione – dichiara Géraldine, 37 anni, dopo aver infilato una maglietta rossa – E’ grazie a Sarkozy che la politica è entrata a far parte della mia vita. La mia prima manifestazione, a settembre 2010, l’ho fatta per protestare contro la sua politica dell’immigrazione”. Più precoci sono state Sophie e Morgane, due diciannovenni studentesse di Scienze Politiche: “Hollande pensa di più ai giovani” dice Sophie, che ha appena votato per la prima volta nella sua vita. Morgane, che si dichiara non essere “contro la destra” a priori, dice di aver votato alla sua prima elezione “contro Sarkozy”, e di sperare dal nuovo presidente un programma in favore degli alloggi studenteschi, delle pensioni, e in grado di attaccare lo spinoso problema della disoccupazione giovanile. “Perché noi di Sciences Po un lavoro lo avremo, ma quelli che escono da altre scuole saranno completamente scollegati dal mondo del lavoro”. Prima di scomparire anche loro nell’effervescenza generale, Morgane conclude: “ho votato per la sinistra anche per difendere il diritto all’eutanasia”.

LA FINE DEI GIOCHI PER SARKO' – Sono le 18:40, e le prime indiscrezioni dei media belga e francofoni lasciano poche speranze al presidente uscente. Faccio ancora in tempo a catturare un’ultima testimonianza, quella di Anaïs, studentessa di giornalismo e stagista a Jol Press: “nel 2007 ho votato Bayrou, poi mi sono interessata di relazioni internazionali e volontariato, e da li mi sono avvicinata alla sinistra. Due giorni fa ho sentito in metro un bambina di 4 anni che raccontava a sua madre di come i compagni di classe le avessero detto: ‘ma sei araba? Allora mangi la carne halal’. Ero sconvolta, fino a pochi anni fa nessuno faceva questi ragionamenti, tantomeno i bambini”. Lo sbilanciamento verso la destra, la perdita di credibilità, lo stile arrogante, il distacco dalle difficoltà economiche dei meno abbienti, il disinteresse verso i giovani, la politica d’austerità e la riforma delle pensioni, queste sembrano in definitiva, confrontate sul terreno, le deficienze della politica di Sarkozy nei cinque anni del suo mandato. Un periodo che sembra volato via, quando il conto alla rovescia si ferma sulle 20:00 e la notizia del trionfo di Hollande viene confermata in via ufficiale. I risultati cambieranno nella notte, con Hollande al 51,67% e Sarkozy fermo al 48,33%. La fiumana si riversa in piazza della Bastiglia. All’altezza del ponte di Sully, la vista di alcuni manifestanti dell’Ump mi fa temere il peggio. Per fortuna lo “scontro” si riduce a chi grida più forte, con gli sconfitti che intonano “on est dans la merde..!”. A mezzanotte la piazza accoglie il nuovo presidente, trentun anni dopo Mitterand, che chiederà di “essere giudicato per due impegni principali: giustizia e gioventù”. Solo ora, in mezzo alla folla entusiasta che occupa ogni superficie libera, non importa se verticale o orizzontale, mi ricordo di un cameriere indiano, che aveva indovinato ore prima la cabala vincente.

Jacopo Franchi (testo e foto) [email protected]

L’Italia alla fiera dell’Est

Qual è la proiezione geopolitica del nostro Paese verso Est? Se verso Sud il Mediterraneo costituisce un prezioso “collante” tra la nostra penisola e il Nord Africa, l’Adriatico è invece una cerniera con la regione balcanica. Qui sono fioriti numerosi progetti di cooperazione politica e strategica. Ma, andando via via più a Est, anche economica: Stati come Polonia, Slovacchia e Romania sono esempi di come l’Italia sia in grado di essere protagonista all’estero in termini di investimenti e di esportazioni

 

Articolo pubblicato in occasione della Conferenza/Dibattito “L’Italia e il mondo nuovo”, @LiquidLab – Firenze, Novoli 10 maggio ore 10-13 – http://www.liquidlab.it/eventi/litalia-e-il-mondo-nuovo/

 

UN INTERESSE GEOPOLITICO NATURALE – Se il Mediterraneo rappresenta una regione naturale per la proiezione geopolitica dell’Italia, a causa della sua posizione centrale all’interno del bacino che congiunge Europa e Africa settentrionale, anche l‘Europa dell’Est non è da meno. La parte orientale del Vecchio Continente, che dal confine di Trieste si estende fino al limite con la Russia, costituisce un’area molto vasta e di sicuro interesse strategico per il nostro Paese, non soltanto meramente geopolitico (soprattutto per quanto riguarda i Balcani) ma anche economico (in particolare per quanto riguarda i Paesi recentemente entrati nell’Unione Europea e che hanno attirato ingenti investimenti esteri). Dalla cooperazione politica a quella economica, dunque, passando per le questioni geostrategiche e militari, l’Europa dell’Est si caratterizza per essere un asse prioritario della dimensione internazionale italiana. Del resto, la posizione di Roma è sempre stata, almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, con un occhio rivolto ad Est: dopo aver vissuto negli anni immediatamente successivi al conflitto il ruolo di “ago della bilancia”, la scelta di far parte dello schieramento occidentale durante la Guerra Fredda non ha fatto perdere, anzi ha ulteriormente rafforzato, il ruolo dell’Italia come fondamentale baluardo al di qua della Cortina di Ferro, sfruttando la conformazione morfologica che ne ha fatto una naturale “portaerei del Mediterraneo”.

 

LA COOPERAZIONE CON I BALCANI – Per ragioni eminentemente geografiche, i Balcani sono la regione nella quale la presenza italiana è più attiva a livello istituzionale, con iniziative di cooperazione politica e strategico-militare. Innanzitutto, il nostro Paese ha giocato un ruolo molto importante nel promuovere l’adesione all’Unione Europea di Stati come la Slovenia, la Bulgaria e la Romania, ed in questo ultimo periodo di ulteriori candidati come Croazia, Montenegro e Serbia. Lo status ufficiale di candidato alla membership è stato concesso a Belgrado proprio nello scorso febbraio e il Presidente del Consiglio Mario Monti ha dedicato una delle sue visite ufficiali all’estero proprio alla Serbia.

Per quanto riguarda le iniziative strategico-militari, anche in questo caso l’intervento attivo dell’Italia si è rivelato importante per pervenire all’allargamento dei confini della NATO con Albania e Croazia nel 2009 (che da Alleanza Atlantica ha spostato il proprio baricentro verso il Mediterraneo, grazie a questi nuovi inserimenti). Inoltre, a livello bilaterale e non multilaterale, l’Italia ha espresso il suo impegno in prima linea istituendo partenariati strategici con Serbia e Albania e dei Comitati di Coordinamento che si riuniscono periodicamente con Croazia e Slovenia.

 

Di primaria importanza è anche la partecipazione italiana alle seguenti missioni militari di stabilizzazione:

  • KFOR (Kosovo Force), sotto l’egida della NATO, seconda presenza dietro la Germania con 1032 militari;
  • EULEX, missione in Kosovo composta da forze civili sotto l’egida dell’Unione Europea, di cui l’Italia è il maggior contribuente con circa 140 unità (Polizia, Giustizia, Dogane);
  • UNMIK (United Nations Interim Administration in Kosovo), sotto il cappello dell’ONU;
  • EUFOR Althea, (NATO), missione di stabilizzazione in Bosnia dove è ancora presente un contingente italiano;
  • Delegazione Italiana di Esperti”, iniziativa bilaterale con l’Albania volta all’addestramento e alla formazione delle Forze Armate locali.

 

Con i Paesi dell’area sono presenti anche diverse iniziative nel quadro della cooperazione allo sviluppo, attraverso le quali l’Italia eroga finanziamenti volti al sostegno di settori specifici delle economie balcaniche, come agricoltura e piccole e medie imprese manifatturiere.

L’Italia ha anche contribuito ad istituire nel 2000 con i Paesi dell’area balcanica l’Iniziativa Adriatico-Ionica, all’interno della quale vengono effettuati periodici incontri interministeriali (round tables) nei settori dello sviluppo delle PMI, del turismo, cultura e cooperazione interuniversitaria, ambiente e protezione dagli incendi.

 

Per quanto riguarda invece le relazioni con i Paesi dell’Est mitteleuropeo, i rapporti sono meno stringenti in ambito della cooperazione politico-strategica. Tuttavia esistono due iniziative significative a cui l’Italia prende parte:

  • InCE (Iniziativa Centro-Europea), nata nel 1989 e comprendente oggi 17 Paesi (Balcani e Mitteleuropa), i cui obiettivi sono rafforzare la cooperazione tra i membri, il processo di trasformazione economica, sociale e legislativa, la partecipazione al processo di integrazione europea;
  • il Consiglio degli Stati del Mar Baltico, del quale l’Italia fa parte come osservatore partecipando attivamente ad alcuni progetti.

 

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LA COOPERAZIONE ECONOMICA – Se la cooperazione in ambito politico e militare è fondamentale per garantire all’Italia una proiezione geopolitica quantomeno nelle regioni limitrofe e per aumentare il proprio spazio di sicurezza esterna, le relazioni economiche sono indubbiamente altrettanto, se non maggiormente importanti, per garantire sbocchi alle nostre imprese in termini di esportazioni e di investimenti. I mercati dell’Est europeo sono particolarmente attrattivi verso i capitali esteri per tre motivi essenziali:

  • i nuovi membri dell’Unione Europea hanno potuto beneficiare in questi anni di ingenti finanziamenti comunitari provenienti dai Fondi Strutturali e di Coesione a favore delle regioni più svantaggiate, che sono stati impiegati soprattutto per la realizzazione di opere infrastrutturali che hanno attratto grandi gruppi del settore (per l’Italia, ad esempio, Italcementi oppure Ansaldo Breda);
  • i Paesi dell’Est hanno adottato regimi fiscali decisamente favorevoli alle imprese, con aliquote molto basse che oscillano generalmente tra il 10% e il 20%;
  • il costo del lavoro è generalmente molto basso e questo permette di risparmiare ulteriormente sui costi (in Bulgaria, che è lo Stato con il PIL pro capite più basso dell’UE, il salario medio è di appena 330 euro al mese).

In alcuni casi, poi, quest’ultima condizione viene ulteriormente rafforzata dalla disponibilità di manodopera e di capitale umano qualificati, come ad esempio in Polonia e Slovacchia.

 

TRE CASE STUDIES – Polonia – La Polonia è uno dei Paesi più interessanti dell’Est europeo: non soltanto è cresciuto e continua a crescere in maniera significativa, ma costituisce un mercato interno molto ampio in termini di produzione e di consumo. Varsavia è il decimo “cliente” del nostro Paese in termini di esportazioni: i beni maggiormente acquistati sono macchinari e componentistica, prodotti chimici, siderurgici e, ovviamente, automobili. A questo proposito, non si può non citare la Fiat come principale azienda italiana in termini di investimenti: lo stabilimento di Tychy è strategico per la casa automobilistica torinese, che dal 1993 al 2007 ha consolidato un capitale investito di 1,2 miliardi di euro. Marcegaglia, Indesit, Brembo, Agusta Westland e Gruppo Astaldi sono le altre grandi aziende italiane ad investire in Polonia, mentre per quanto riguarda il settore bancario UniCredit controlla dal 1999 Banca Pekao, il principale gruppo creditizio polacco con oltre cinque milioni di clienti e novemila filiali diffuse su tutto il territorio. Da sottolineare anche il potenziale energetico della Polonia, che possiede dei ricchi giacimenti di shale gas ancora inesplorati e che potrebbero aprire scenari inattesi nell’ottica di una maggiore autonomia energetica dal gas naturale in arrivo dalla Russia.

 

Slovacchia – Sembrerebbe essere la “sorella povera” della Repubblica Ceca, in realtà è diventate negli ultimi anni un “hub” strategico per gli investimenti esteri. Membro dell’Eurozona (a differenza di Praga), il che potrebbe essere dannoso in questa congiuntura per l’impossibilità di svalutare in chiave competitiva la propria moneta, Bratislava ha rapporti intensi con l’Italia, è il nono fornitore della Slovacchia in termini di importazioni, con una crescita della domanda nel primo semestre del 2011 del 24% (dati ICE). Per quanto riguarda invece gli investimenti diretti esteri, il nostro Paese è al quarto posto per lo stock di capitali fatti affluire in Slovacchia dal momento della sua indipendenza (2,99 miliardi di euro dal 1993 al 2010, sebbene la tendenza degli ultimi anni veda una diminuzione dei flussi di IDE in arrivo dall’Italia). Tra le imprese che hanno maggiori interessi a Bratislava mancano i nomi delle grandi multinazionali nostrane, a parte Enel,  ma si segnalano comunque grandi gruppi del settore metalmeccanico e dell’energia. Decisamente importante è la presenza nel settore finanziario di UniCredit, che costituisce il quinto gruppo bancario nel Paese con 85 filiali e asset per oltre quattro miliardi di euro.

 

Romania – Bucarest si trova tuttora ad un livello arretrato rispetto agli esempi di cui sopra, però rappresenta comunque un caso di successo nell’esperienza dell’integrazione europea. Per quanto riguarda le nostre imprese, le più attive in termini di IDE sono quelle che agiscono in settori ad alta intensità di lavoro, per via della disponibilità di manodopera a basso costo, come assemblaggio e componentistica, ma anche i grandi gruppi infrastrutturali che qui trovano terreno fertile a causa dei finanziamenti erogati dai Fondi comunitari. Due esempi su tutti: Ansaldo Breda sta attendendo l’esito di una commessa da 1,5 miliardi di euro per il raddoppio della centrale nucleare di Cernavoda, mentre Astaldi ha da poco vinto un appalto da 60 milioni per la realizzazione di un tratto dell’autostrada Bucarest-Costanza (finanziata, guarda, caso per l’85% dal Fondo di Coesione).

 

CONCLUSIONI – L’Italia può ancora giocare un ruolo da protagonista nelle relazioni internazionali? La risposta può essere positiva per quanto riguarda le regioni facilmente raggiungibili dal proprio raggio d’azione geopolitica, quindi Balcani (soprattutto) ed Europa Orientale sono due aree sulle quali la nostra diplomazia dovrebbe puntare in maniera decisa per consolidare la propria posizione. La presenza in termini di cooperazione politica e difensiva ha fatto dell’Italia un interlocutore privilegiato degli Stati dell’ex-Jugoslavia, mentre la Mitteleuropa riserva ancora un buon potenziale in termini di investimenti esteri. La recente rivitalizzazione dell’ICE (Istituto per il Commercio Estero) potrebbe fornire l’occasione per creare un importante “trait d’union” istituzionale tra diplomazia e relazioni economiche.

 

Davide Tentori

Italia e Mediterraneo: nuove sfide da affrontare con coraggio

La “Primavera Araba” ha cambiato il volto della sponda meridionale del Mar Mediterraneo tanto da costringere il mondo, ma soprattutto l’Europa, a rivedere le proprie relazioni con essa. Non sfugge a tali logiche l’Italia che anzi, per la sua posizione geografica, si trova ad essere uno dei paesi che più da vicino deve fare i conti con la nuova situazione geopolitica. Volendo individuare i punti principali di quella che è la nuova realtà, non possiamo prescindere da tre aspetti fondamentali: i rapporti bilaterali, la sicurezza internazionale e le prospettive di sviluppo

 

Articolo pubblicato in occasione della Conferenza/Dibattito “L’Italia e il mondo nuovo”, @LiquidLab – Firenze, Novoli 10 maggio ore 10-13 – http://www.liquidlab.it/eventi/litalia-e-il-mondo-nuovo/

 

UNO O TANTI? – Inutile illudersi del contrario: per quanto possa risultare ostico da accettare, il fatto di poter trattare con un solo interlocutore risulta più facile del farlo con tanti. I regimi dittatoriali che reggevano Tunisia, Libia ed Egitto costituivano paradossalmente le migliori interfacce per paesi come il nostro, poiché non rendevano necessario districarsi tra le complessità politiche e sociali di tali paese: bastava prendere accordi con la fazione dominante e questo assicurava che l’interscambio commerciale, gli accordi energetici o gli investimenti potessero godere di stabilità e, di solito, anche un lungo periodo di validità. Ovviamente a patto di “sorvolare” sui problemi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani…

 

Ora che invece non è più possibile contare sugli accordi passati, risulta necessaria un’accurata opera diplomatica per ricostruire (a volte quasi da zero) la rete di contatti che sono necessari per conservare gli interessi nazionali.

 

–          Cercando di allontanare il marchio di “amici del passato regime”, ed evitare così di essere ostracizzati. Fortunatamente i nuovi governi/coalizioni sanno di avere bisogno di investimenti esteri e questo facilita la conferma degli accordi precedenti o la stipula di nuovi che garantiscano entrambe le parti. L’esempio della Libia è emblematico: comprendendo che il regime di Gheddafi era comunque finito, l’ENI ha preferito finanziare il governo di transizione di Bengasi durante la guerra civile, guadagnandosi così un ruolo privilegiato anche nel periodo post-conflitto.

 

–          Essendo disposti a qualche sacrificio (economico) pur di restare presenti: gli investimenti esteri sono necessari, certo, ma pensare che i nuovi governi possano accettare ogni condizione non è realistico. Soprattutto nel caso si desideri mantenere una posizione preesistente, per le grandi aziende può essere conveniente a lungo termine rinegoziare gli accordi in maniera più tutelante per il paese ospitante: i ricavi a breve termine possono ridursi, ma questo fornisce un incentivo in più per avere la propria permanenza garantita.

 

–          Comprendere i nuovi rapporti di forza tra le parti: impossibile sperare di mantenere una collaborazione attiva col sud del Mediterraneo senza capire come è cambiata la scena politica. Sarebbe infatti un errore legarsi solo al più forte, soprattutto se farlo significa favorire un gruppo che si teme in futuro possa diventare ostile; meglio un approccio più studiato che fornisca un appoggio a chi può fornire qualche garanzia in più su un futuro sviluppo democratico e libertario.

 

SICUREZZA – Un’altra triste verità è che i regimi, con la loro brutalità, garantivano però stabilità e, sostanzialmente, partner più affidabili per il mantenimento di condizioni di pace. Una possibile causa di apprensione per il nostro paese riguarda infatti la possibilità che alcuni gruppi rivoluzionari, più legati a ideologie estremiste –  possano ora avere mano libera per espandersi, organizzarsi e colpire anche in Europa.

 

In un’Europa che deve affrontare una forte crisi economica e finanziaria, anche le spese per la difesa non possono evitare tagli. Eppure basterebbero partnerships più forti che permettano di razionalizzare le spese privilegiando progetti comuni e la costituzione di forze d’intervento davvero comunitarie. In questo tuttavia la difesa europea rimane nei fatti divisa (poche partnership transnazionali, competizione tra le industrie militari, moltiplicazione di progetti differenti con scopi simili) e così anche la politica estera che la guida, sottomessa agli interessi nazionali, spesso contraddittori, di ogni paese.

 

L’Italia ha l’opportunità comunque di proporsi come protagonista e intermediario privilegiato con il sud del Mediterraneo, sfruttando non solo la sua posizione ma anche i suoi contatti e perfino il fatto di aver mantenuto per anni una politica di amicizia con molti che per quanto criticabile nei modi, ha anche concesso di non inimicarsi nessuno. Allo stesso modo il nostro paese rimane – incredibile dictu – uno di quelli con una maggiore capacità di proiezione nel “vicinato”, oltre ad essere stato una base di partenza e supporto fondamentale per il conflitto in Libia. Mantenere e promuovere questo ruolo significa acquisire un’importanza strategica che pochi partner europei possono offrire al nostro posto.

 

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DEMOCRAZIA = LIBERTA’? – In realtà però ogni discorso deve basarsi su una considerazione di base. Le rivoluzioni arabe hanno sì permesso di iniziare un processo di democratizzazione, ma esso non necessariamente coincide con le nostre speranze. Democrazia non implica infatti necessariamente politiche libertarie o rispetto dei diritti umani quali noi gli intendiamo, soprattutto se la maggioranza della popolazione negli stati rivoluzionari propende – democraticamente – per dare il potere a gruppi legati a ideologie più estremiste (in particolare dal punto di vista del rapporto religione-vita sociale).

 

Quindi in definitiva ogni prospettiva di collaborazione, così come di difesa comune, non può prescindere da come il processo democratico in quei paesi si svilupperà. Piuttosto che rimpiangere i “bei tempi andati” (che “bei” forse in fondo non erano) risulta invece importante intraprendere politiche di supporto dei gruppi politici più moderati, favorendone la partecipazione al potere e dunque scongiurando che dalla dittatura si passi a regimi anche meno tutelanti – per noi e per le popolazioni stesse. In quest’ottica si possono ancora impiegare le armi della pressione diplomatica e degli investimenti che per i governi in formazione rimangono fondamentali. Se questo avviene e un dialogo costruttivo rimane possibile, ecco che allora tutti i progetti di difesa comune dei confini meridionali e le questioni economiche possono  partire da posizioni più favorevoli. Meglio dunque prevenire… che curare!

 

Lorenzo Nannetti

[email protected]

La guerra (telecomandata) al terrore

A solo un anno dal targeted killing dell’uomo che ha costretto Washington a mettere piede nel pantano afghano, gli States sembrano intrappolati in un altra guerra, stavolta segreta, molto simile all’impegno silenzioso proprio contro l’occupazione sovietica in Afghanistan negli anni ’80. In Yemen accantonato il raìs Saleh, niente sembra essere cambiato, con il suo vice, nonchè uomo di Washington, al-Hadi a vigilare sulle divisioni etnico-claniche delle forze di sicurezza nazionale, divise tra seguaci e oppositori dell’ex despota. Inutile dire che il Golfo di Aden continua ad essere un vero e proprio punto strategico per la flotta e gli interessi geopolitici degli Stati Uniti e che i loro gioielli telecomandati continueranno a colpire ancora a lungo

 

IL GATTOPARDO A SAN’A – “Bisognava che tutto cambiasse, perchè tutto restasse com’era” con queste parole 50 anni fa Tomasi de Lampedusa delineava la tendenza conservatrice del Risorgimento italiano, ignaro che quella frase sarebbe diventata la migliore descrizione per la strategia americana per la transizione yemenita. Dopo la deposizione dell’odiato dittatore Ali Abdullah Saleh, artefice dell’unificazione tra nord e sud del paese e fautore della partnership strategica con Washington, l’opposizione riunitasi in un fronte comune ha riconosciuto Abd Rabbih Mansur al-Hadi come legittimo successore. Nessuna scelta poteva essere più gradita a Foggy Bottom e a Langley, i quartieri generali del Dipartimento di Stato e della CIA, toccati da vicino dalla labile situazione yemenita, sull’onda lunga della Primavera Araba del 2011.

 

IT’S NOT JUST OIL, STUPID – Il patto di sangue tra il governo di San’a e gli Stati Uniti non si giustifica solamente con la necessità di controllare la strozzatura più importante del Mar Rosso, la via di comunicazione marittima che porta dal Mediterraneo al Golfo Persico e quindi al prezioso oro nero. Lo stretto che collega il Mar Rosso al Golfo di Aden e quindi all’Oceano Indiano, conosciuto con il nome rassicurante di Porta del Lamento Funebre(in arabo Bab-el-Mandeb) separa lo Yemen da Gibuti, lo pseudo-protettorato francese, in quel lembo di mare definito come la culla del commercio globale. Il liberoscambio è da sempre il pilastro dell’ideologia dell’engagement a stelle e strisce, tanto idolatrato da giustificare la rottura dell’isolazionismo statunitense durante la Prima Guerra Mondiale e la nascita dell’Impero americano. Naturalmente quei 30 chilometri di acqua salata vanno tutelati da qualsiasi minaccia o blocco navale, per capire la gravità di tali azioni basta pensare alla serrata dello stretto di Suez praticata nel 1967 dall’Egitto di Nasser, quando la guerra dei sei giorni contro Israele era ormai alle porte.

 

ATTENTI AL DRONE – Nonostante il patto d’acciaio in corso tra i due governi, le rispettive popolazioni non capiscono né condividono le ragioni alle basi della partnership, gli uni fedeli allo spirito islamico di rivalsa contro l’imperialismo americano, gli altri preoccupati delle spese esorbitanti di un eventuale Piano Marshall mediorientale. In questi casi gli Stati Uniti hanno sempre optato per una presenza mimetizzata o nascosta, ad esempio in Arabia Saudita i circa 500 consiglieri militari stazionano in una base lontana dai centri abitati, al confine con l’Iraq. In Yemen, l’impegno militare americano consiste nello stazionamento periodico di navi di superficie e portaerei nel porto di Aden, dove nel 2000 la USS Cole è stata vittima di un attentato. Negli ultimi tempi invece la CIA, la casa madre dei gioiellini telecomandati, ha optato per la presenza invisibile ed intermittente dei famigerati droni, aerei senza pilota per la sorveglianza e il bombardamento chirurgico in scenari di crisi. Col nome tecnico di UAV (unmanned aerial vehicules), i nuvoi gioelli tecnologici del comparto militar-industriale rappresentano la materializzazione della soluzione all’ingresso dei media nella guerra e alla soglia ormai inesorabile di sopportazione di perdite umane nei conflitti.

 

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LA NUOVA MANIA DELLA CIA – Proprio come l’oppio afghano o il più sconosciuto qat yemenita, i droni si stanno trasformando in un vero e proprio stupefacente per gli ufficiali di Langley che ne hanno sostenuto la superiorità in termini costi-benefici persino rispetto ai caccia-bombardieri. Anche il Presidente Obama da parte sua ha più volte approvato e lodato l’impiego nei cieli di mezzo mondo dei velivoli senza pilotaCome ogni ingresso tecnologico negli apparati conservatori, anche gli UAV hanno causato lo scompiglio tra le fila di esercito, aviazione e marina, tutti impauriti di vedersi relegati a ruoli marginali in vista della definitiva deumanizzazione della guerra. La dura verità tuttavia è che se a livello tattico, ovvero in occasioni particolari e circostanziate, i droni rappresentano un’ottima alternativa alla presenza sul campo di battaglia, a livello strategico, nelle grandi campagne aeree, perdono gran parte della loro utilità. Ecco le ragioni del loro impegno additivo nelle aree tribali pakistane del Waziristan, dove proliferano i nuovi talebani, e nello Yemen meridionale nella regione di Abyian, dove il movimento Ansar al-Sharìa regna sovrano. Dal 2009 ad oggi, solo nello Yemen del sud, sarebbero più di mille gli obiettivi “terminati” dai velivoli telecomandati in grado di colpire senza essere visti, qualcosa di molto lontano dagli elicotteri Black Hawk presenti in Somalia , bersagli ghiotti per i razzi dei miliziani di Mogadiscio. Proprio l’intervento in Somalia è paradigmatico per comprendere come la presenza di soldati in scenari ad alto rischio e il rispetto del diritto internazionale possano condurre ad un inevitabile ritiro dopo la morte di 17 rangers e il ferimento di altri 73 in meno di 48 ore.

 

NESSUNO STIVALE, NESSUNA EXIT STRATEGY – Il vero punto di forza della guerra segreta del nuovo millennio, come è stata definita la campagna aerea selettiva in Yemen, è che garantisce al governo americano un ottimo riparo dalle critiche per le perdite di soldati in azione o per le spese logistico-operative che richiedono grandi operazioni come quelle in Afghanistan. “L’approccio telecomandato” sembra essere il paradiso terrestre per i fautori della guerra al terrorismo, diretta ormai contro i singoli insorti e non più contro grandi strutture o addirittura intere entità statali. Il grosso dell’eventuale rappresaglia verrà indirizzato contro chi è costretto invece a stazionare in tali scenari di crisi, dall’esercito pakistano alle forze anti-terrorismo yemenite di Yahya Saleh, fratello dell’ex presidente e altro uomo di Washington. L’ultima vendetta jihadista in Yemen ha causato la morte di 32 soldati, l’intero contingente della base militare di Zinjibar, epicentro della guerra contro la Jihad meridionale, in risposta all’uccisione di Fahd al-Quso, leader spirituale di Al Qaeda ed esecutore del colpo alla USS Cole. Niente sembra opporsi alla continuazione dei piani della CIA in Yemen, solo un’improbabile implosione del nuovo regime di San’a potrebbe far germogliare il seme della sconfitta statunitense, ma dall’alto dei cieli nulla sembra impossibile, come gli stessi Stati Uniti hanno imparato dopo l’11 Settembre del 2001.

 

Fabio Stella