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Italia e nuovo mondo: le Organizzazioni regionali e multilaterali asiatiche

In un contesto globale in cui l’interdipendenza economica e la cooperazione strategica guidano le relazioni internazionali, la via della diplomazia multilaterale è la vera chiave dello sviluppo e la first-best option della nuova politica estera dell’Italia, che punta ad accrescere l’attivismo del nostro Paese nei vari Fora istituzionali regionali. La partecipazione del Presidente del Consiglio Mario Monti alla Davos d’Oriente, il Boao Forum for Asia e quella più recente del Ministro degli Affari Esteri Giulio Terzi all’ASEAN-Awareness Forum e all’UE-ASEAN Forum non lasciano alcun dubbio circa gli orientamenti strategici del nostro governo: per rispondere alle sfide imposte dalla crisi mondiale e mettere in moto la crescita nazionale l’Italia concentra gli sforzi per tessere un ampio raggio di pacifiche e profittevoli relazioni multilaterali

Articolo pubblicato in occasione della Conferenza/Dibattito "L'Italia e il mondo nuovo", @LiquidLab – Firenze, Novoli 10 maggio ore 10-13 – http://www.liquidlab.it/eventi/litalia-e-il-mondo-nuovo/

UNA QUESTIONE DI PRIORITÀ – Rafforzare i meccanismi di attuazione di politiche e strumenti multilaterali, migliorare il coordinamento e la cooperazione a livello internazionale, costruire relazioni di mutual friendship e incentivare il partenariato con paesi vicini o lontani, sono oggi le priorità nell’agenda politica delle autorità italiane, nodi sostanziali per la realizzazione degli impegni nazionali (crescita) e globali (promozione della sicurezza e della pace). Il regionalismo asiatico gioca un ruolo chiave nello scacchiere internazionale, gli interessi geopolitici, economici e di sicurezza delle grandi potenze sono proiettati in quell’area, la più dinamica al mondo, nella quale affiorano con ritmi di crescita incalzanti le nuove economie emergenti. L’Asia è il “Nuovo Mondo”, centro focale della riaffermazione del principio del multilateralismo, l’unico destinato ad offrire costi e benefici equamente ripartiti nel tempo, a promuovere la diffusa reciprocità e ad incentivare comportamenti responsabili rispetto agli impegni intrapresi. LA DIPLOMAZIA MULTILATERALE ITALIANA E GLI OBIETTIVI STRATEGICI – La governance multilaterale è una soluzione efficiente e insostituibile in un’area come quella dell’Asia-Pacifico, in cui lo sviluppo accelerato, la modernizzazione e la tecnologizzazione industriale, hanno toccato alcuni nervi scoperti e fatto affiorare questioni globali irrisolte e nuove sfide, come quelle ambientali e climatiche, quelle che investono la sfera della sicurezza e della lotta al terrorismo transnazionale, o ancora quelle che riflettono i progetti unilaterali di militarizzazione (questione nucleare nel Nord Corea) ed egemonizzazione regionale. L’Italia volge lo sguardo verso Oriente e guarda con “grande attenzione e desiderio di crescente collaborazione agli organismi multilaterali regionali nello scacchiere asiatico e del Pacifico”, che sono sempre più influenti e determinanti gli equilibri geopolitici ed economici nel continente. La Farnesina rafforza le relazioni soprattutto con l’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN) e l’Asia-Europe Meeting (ASEM), ma anche con la Shanghai Cooperation Organization (SCO), e i bracci più o meno estesi dell’ASEAN, come l’ASEAN +3 (ASEAN più Cina, Giappone e Corea del Sud), e come l’East Asia Summit (EAS). La nuova diplomazia italiana in relazione alle organizzazioni regionali e multilaterali asiatiche si riassume in cinque obiettivi:

  • stringere partnership strategiche e legami cooperativi nel campo economico-commerciale, politico e di sicurezza e socio-culturale per favorire lo sviluppo reciproco e internazionalizzare il sistema produttivo nazionale;

  • consolidare il dialogo politico strategico, con incontri ad alto livello;

  • rafforzare i meccanismi di confidence-building e di consulenza strategica;

  • potenziare la credibilità, la reputazione e l’immagine politica dell’Italia come grande potenza “responsabile” nel contesto internazionale e regionale asiatico;

  • proporre soluzioni unitarie e ampiamente condivise per difendere gli interessi comuni e rispondere alle sfide globali, quindi scoraggiare comportamenti di moral hazard, concorrenza sleale e iniziative unilaterali irresponsabili.

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UN POSTO AL SOLE PER L’ITALIA NELL’ARENA EURO-ASIATICA DELL’ASEM – Il Forum principale nel quale si intrecciano le relazioni euro-asiatiche è l’Asia-Europe Meeting (ASEM), un organismo informale di dialogo e cooperazione fondato nel 1996 che riunisce 48 membri, i Paesi membri dell'UE, la Commissione europea e 19 Paesi asiatici e del Segretariato dell’ASEAN. Il dialogo strategico in seno all’ASEM riguarda questioni politiche, economiche e culturali, e si prefigge l'obiettivo di rafforzare le relazioni inter-regionali, in uno “spirito di rispetto reciproco e partecipazione egualitaria”. L'informalità, la multi-dimensionalità, l’enfasi sulla partnership egualitaria e l’attenzione ad alto livello su base “people-to-people” sono i quattro punti cardinali dell’attivismo partecipativo. L’ASEM è un forum aperto per decisori politici e funzionari, una piattaforma di discussione comune che favorisce il processo di cooperazione basato sul rispetto reciproco e sul mutuo vantaggio, dove le questioni di interesse economico-politico e sociale già affrontate con soluzioni di tipo bilaterale, possono essere scandagliate congiuntamente sul piano multilaterale. Nel marzo 2009 l’Italia ha organizzato a Taranto il primo seminario, sotto l’egida dell’ASEM, su “New Technologies for Demining and Human Security”, un primo passo verso la conquista di un posto al sole nella competitiva arena delle relazioni euro-asiatiche. IL DIALOGO STRATEGICO CON IL SUD-EST ASIATICO – Nell’intervento inaugurale, pronunciato dal Ministro degli Esteri Giulio Terzi in occasione dell'ASEAN Awareness Forum, la Farnesina che ha ospitato il “grande evento” a Roma lo scorso marzo ha evidenziato come l’Asia rappresenti oggi per l’Italia una priorità tangibile: “gli investimenti sono fondamentali al fine di assicurare la crescita e la prosperità, mentre le aziende italiane manterranno una forte presenza nei mercati più vicini, vogliono anche giocare un ruolo più forte nei mercati emergenti, dove crescono le opportunità di business, e il grande interesse dimostrato dalle istituzioni italiane e dalla comunità imprenditoriale dimostra che il Sud-Est asiatico è ai primi posti nell’agenda italiana.” L’Italia non può sopravvivere alla crisi finanziaria globale, superare gli shock e le ripercussioni sulla domanda domestica, sul mercato interno su quello europeo, e addirittura prosperare senza contare su aiuti o stimoli esterni. Non è possibile nell’attuale contingenza di alta interdipendenza economica. La regionalizzazione della politica estera italiana, il coordinamento multilaterale e il consolidamento delle relazioni con gli organismi regionali asiatici, i più dinamici e attivi al mondo nel prossimo decennio, sembrano essere oggi la soluzione potenzialmente più efficace per assicurare lo sviluppo del nostro Paese. L’Italia ha bisogno dell’Asia per rialzarsi dalla crisi e l’Asia guarda con vivo interesse il modello di integrazione regionale europeo, da quando il 15 dicembre del 2008 è entrata in vigore la Carta ASEAN che ha conferito al blocco regionale nato nel 1967 “una nuova dimensione per rafforzare l’integrazione”. D’altra parte è proprio in seno al braccio multilaterale dell’UE-ASEAN che l’Italia accresce la sua influenza e il suo peso nelle organizzazioni regionali asiatiche allo scopo di realizzare alcuni degli obiettivi programmatici della Nuremberg Declaration on an Eu-ASEAN Enhanced Partnership ed implementare quelli decisi nel Piano di Azione comune, primi fra tutti la cooperazione in materia di sicurezza e nel settore economico-commerciale. Il 27 aprile 2012, durante il vertice UE-ASEAN nel Brunei è stato varato un nuovo Piano di Azione (2013-2017) quinquennale che riguarda proprio la cooperazione politica e di sicurezza, la cooperazione economica e la cooperazione socio-culturale, che come ha dichiarato il Ministro Terzi "prevede iniziative per la creazione di centri di coordinamento delle operazioni che riguardano il terrorismo, la pirateria e l'emergenza civile, un'ampia gamma di mezzi che portano queste due grandi aggregazioni regionali, l’UE e l’ASEAN, sempre più vicine e più coordinate". Sì, perché l’UE è il secondo partner commerciale, dopo la Cina, dell’ASEAN per un volume di scambi del valore di 75 miliardi di dollari, 10 miliardi dei quali sono accreditabili all’Italia. Una verità è assicurata: ora che gli interessi strategici delle grandi potenze globali, come Stati Uniti, Cina e Russia, sono proiettati completamente dentro lo scenario asiatico, la partecipazione ad una governance multilaterale è per l’Italia un’opportunità concreta e irrinunciabile per accrescere il proprio peso politico e commerciale nello scacchiere geopolitico più conteso del XXI secolo. Maria Dolores Cabras [email protected]

 

Il Sud-Est Asiatico è il “Nuovo Mondo” dell’Italia

Lo scacchiere geopolitico del sud-est asiatico, da teatro delle ostilità dei blocchi sovietico e atlantico durante la guerra fredda, è divenuto il nucleo focale degli interessi strategici delle grandi e medie potenze globali e regionali. È infatti in Asia sud-orientale, che la Cina considera da sempre una propria zona di influenza, che si gioca la competizione con i Paesi più forti dell’area, Giappone e India, ed è proprio nel “cortile di casa” di Pechino ora che la crisi del debito ha investito le economie degli Stati Uniti e dell’Europa, che si concentrano gli sforzi sulla crescita e sullo sviluppo di mercati regionali alternativi a quelli storicamente di riferimento

Articolo pubblicato in occasione della Conferenza/Dibattito "L'Italia e il mondo nuovo", @LiquidLab – Firenze, Novoli 10 maggio ore 10-13 – http://www.liquidlab.it/eventi/litalia-e-il-mondo-nuovo/

 

IL MERCATO ASIATICO FA GOLA UN PO’ A TUTTI – …ed è conteso in una sorta di tiro alla fune da due titani come Stati Uniti e Cina. Durante il Summit dell’Asia-Pacific Economic Cooperation, tenutosi lo scorso novembre ad Honolulu, il Presidente Obama aveva dichiarato che il futuro dell’America sarà completamente dentro lo scenario dell’Asia-Pacifico nel XXI secolo: “we are here to stay”, gli Stati Uniti sono in Asia per rimanerci. Altri indizi, come la presa di posizione del Segretario di Stato Hillary Clinton rispetto alla stabilità nel Mar Cinese Meridionale definito “un interesse nazionale statunitense” e il nuovo accordo militare con l’Australia (2500 nuove truppe americane di stanza a Darwin, nella costa settentrionale australiana a 500 miglia dall’Indonesia) lasciavano presagire negli ultimi mesi che il baricentro della politica estera americana stesse traslando verso oriente. Allo stesso modo, più accresce il “South-East Asian-Consensus” nell’arena internazionale, più la politica estera della Cina tende a regionalizzarsi e a focalizzarsi in una counter-dominance e balancing strategy, allo scopo di frenare le mire espansionistiche degli altri competitor players e rinsaldare i meccanismi di confidence-building e di diplomazia multilaterale con i Paesi vicini. E anche l’Italia senza timidezza e come una grande potenza globale volge lo sguardo ad est, stretta tra le ambiziose proiezioni cinesi e quelle statunitensi, perché “il grande interesse dimostrato dalle istituzioni italiane e la comunità imprenditoriale dimostra che il Sud-Est asiatico è ai primi posti nell’agenda italiana.Il Ministro degli Esteri Giulio Terzi nel suo intervento pronunciato in occasione dell'ASEAN Awareness Forum, ospitato lo scorso marzo dalla Farnesina a Roma, ha sottolineato che l’Asia ha oggi una priorità tangibile nell’azione del governo italiano, focalizzata ad innescare un processo virtuoso di internazionalizzazione del sistema produttivo nazionale e ad accrescere le opportunità di investimento nella regione orientale. Il prestigioso consesso, che ha riunito i ministri dei Paesi membri dell’ASEAN e i rappresentanti della Banca di Sviluppo Asiatica, è stato plaudito come un “evento di grande portata”, imprescindibile per il nostro Paese per aumentare la consapevolezza e colmare l’asimmetria informativa dei nostri imprenditori rispetto ai mercati emergenti, agevolando la promozione delle aziende italiane e i contatti con gli interlocutori regionali asiatici.

REGIONALIZZARE LA POLITICA ESTERA ITALIANA PER RISPONDERE ALLA CRISI GLOBALE – I rapporti bilaterali e multilaterali con l’Asia sud-orientale, la regione più dinamica al mondo, un mercato in via di integrazione di 600 milioni di persone con un inestimabile potenziale di sviluppo e una crescita economica galoppante, rappresentano oggi per l’Italia la risposta più incisiva ed efficace alle sfide poste dalla crisi finanziaria mondiale e dalla globalizzazione. Regionalizzare la politica estera italiana e accrescere la partecipazione nelle organizzazioni asiatiche per rinforzare la fiducia e la partnership strategica con i dieci Paesi dell’ASEAN sono gli imperativi della nuova vocazione asiatista italiana. I legami con l’Asia, come ha ricordato Terzi, hanno segnato le migliori ore della prosperità dell’Italia e sono atavici, già molto prima di Marco Polo l’Oceano Indiano era utilizzato dall’antica Roma per il commercio, e oggi più che mai il nostro Paese riconosce che “gli investimenti sono fondamentali al fine di assicurare la crescita e la prosperità” e pertanto “mentre le aziende italiane manterranno una forte presenza nei mercati più vicini, vogliono anche giocare un ruolo più forte nei mercati emergenti, dove crescono le opportunità di business.” Il mercato del Sud-Est Asiatico sta creando un ambiente “pro-business”, nel quale le imprese italiane potrebbero stabilirsi favorendo relazioni commerciali che siano reciprocamente vantaggiose. Il processo di internazionalizzazione del sistema produttivo italiano e l’espansione significativa delle relazioni economiche tra l’Italia e la regione, richiede grande attivismo sia a livello bilaterale, con il rafforzamento delle relazioni Paese-Paese, sia a livello multilaterale, con il potenziamento della diplomazia pubblica e l’acquisizione di un ruolo di influenza e di partner privilegiato nelle organizzazioni regionali (ad esempio, la recente partecipazione del Ministro Terzi all’ASEAN Awareness Forum e all’UE-ASEAN). La crisi trasforma gli equilibri del sistema in squilibrio sistemico, ma talvolta tale disordine può diventare un’opportunità. Le esperienze pregresse delle economie asiatiche sono forse servite da lezione e dimostrano “all'Europa che le crisi non vanno sprecate”, come ha sostenuto recentemente il sottosegretario agli Affari esteri del governo italiano Dassù. Dalle macerie del primo grande terremoto finanziario del 1997 con epicentro in Thailandia, che ha squassato le economie delle Tigri del miracolo asiatico (Thailandia, Corea del Sud, Malaysia e Indonesia), è emersa la Cina, con il suo ritmo di crescita vertiginoso e la sua moneta stabile. Per ironia della sorte, dalla seconda grave crisi finanziaria iniziata nel 2008, che ha scosso gli Stati Uniti e l’Europa e ha inciso anche sulle relazioni commerciali con la Cina, ridotto il flusso delle importazioni dall’estremo oriente e prospettato la necessità della creazione di un mercato alternativo regionale (capace di coprire la domanda interna cinese), affiorano le economie emergenti del Sud-Est Asiatico, il cui processo di integrazione politica ed economica su modello europeo rappresenta una concreta opportunità di sviluppo per l’area.

COSTRUIRE UN PONTE TRA I NOSTRI SISTEMI ECONOMICIL’equilibrio fiscale, lo sviluppo infrastrutturale una good governance sono i tre nodi sostanziali per la crescita dei nuovi mercati emergenti del Sud-Est asiatico. Nel 2011 l’economia dell’Indonesia è cresciuta con un PIL reale del 6,3% e secondo le stime svetterà al 6,9% nel 2016, scalzando il primato a Singapore, città-stato con il reddito-pro capite più alto dell’intera regione e fornitrice di infrastrutture e servizi ad alta tecnologia che nel 2010 cresceva con un PIL reale del 14,5%. Se la disponibilità di manodopera a basso costo è il fiore all’occhiello dell’attrazione degli investimenti in Vietnam e nelle Filippine, favorendo la crescita media del PIL reale tra il 2012 e il 2016 al 6,3% per il primo e al 4,9% per il secondo, la Thailandia e la Malaysia sono competitive piattaforme di produzione di materiali elettrici e di componenti meccaniche e si sviluppano a ritmo del 4-5%. Le priorità nell’agenda politica della Farnesina sono tre: creare un ponte economico tra l’Italia e il Sud-Est Asiatico, capace di rafforzare la partnership commerciale tra il settore produttivo del nostro Paese e i mercati dell’ASEAN, promuovere le eccellenze italiane nell’ambito infrastrutturale e stimolare le esportazioni delle merci con marchio “Made in Italy”, il terzo più conosciuto al mondo dopo Coca-Cola e Visa. Le esportazioni italiane nei mercati dell’Asia Sud-Orientale hanno raggiunto nell’ultimo decennio una media annua del 4,5%, per un valore complessivo di 5,6 miliardi di euro nel 2011, mentre le importazioni in forte aumento hanno raggiunto nello stesso periodo una media annua del 9% e un valore di 6,9 miliardi di euro. “Il nostro modello di produzione organizzativa, in gran parte basata su piccole e medie imprese raggruppate in distretti industriali, si è dimostrato estremamente flessibile anche nelle circostanze più critiche. Stile e innovazione costante sono i risultati tangibili che le nostre imprese possono offrire ai loro partner commerciali ed investitori in tutto il mondo.” L’Italia, definita dal Ministro Terzi un “campione di commercio”, può e deve fare molto di più per espandere la propria influenza commerciale nei mercati delle economie emergenti asiatiche che nel 2015 con probabilità si integreranno in un mercato unico, una Comunità Economica Asiatica nella quale potrebbero eccellere i prodotti italiani ad alto livello competitivo, come quelli che provengono dai settori delle “tre F” (Food, Fashion, Furniture), i tessili, il cuoio e l’abbigliamento, la piccola manifattura e l’hi-tech.

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LE RELAZIONI ECONOMICHE BILATERALI – Le maggiori economie emergenti asiatiche:

Indonesia

In Indonesia c'è spazio per l'investimento delle aziende italiane e per una crescita dell'interscambio commerciale, passando da 4,5 miliardi di dollari a 25 miliardi di dollari, pari all'1% del Pil combinato tra i nostri due Paesi.” Così, ha dichiarato il Ministro del Commercio Gita Wirijawan dopo l’incontro con il Ministro Giulio Terzi a Giakarta lo scorso 24 aprile, in missione in Asia per partecipare al vertice UE-ASEAN nel Brunei. L’obiettivo dell’Indonesia è approfondire i legami commerciali con l’Italia, così come già fatto con la Cina, e riuscire a passare dai “4,5 miliardi di dollari a 25 miliardi, pari cioé all'1% dei rispettivi Pil combinati (2,5 trilioni di dollari)”.

La possibilità di investimento in partenariati tra italiani e indonesiani, secondo il Ministro Terzi, è il nucleo focale di attrazione dell’Indonesia, Paese sempre più leader del Sud-Est asiatico (la sua economia ha raggiunto il trilione di dollari), ed è oggi una grande opportunità per le imprese italiane, sostenuta dalla “collaborazione bilaterale nella governance politica ed economica globale.”

L’Indonesia, prima democrazia islamica e prima economia nella sub-regione dell’Asia Sud-Orientale, è il volano della crescita regionale e ha guadagnato la fiducia degli investitori internazionali, grazie ad un virtuoso consolidamento e stabilizzazione del quadro macroeconomico, all’efficace controllo dell’inflazione e ad una good governance che ha assicurato la stabilità politica del Paese e la ripresa dello sviluppo (il PIL è incrementato del +6,5%).

Un mercato irrinunciabile per l’Italia, al 22° posto tra i maggiori investitori stranieri e al 16° posto tra i maggiori fornitori, che può già contare su 17 progetti in attivo nel Paese per un valore di 10,4 milioni di dollari e sulla presenza nel territorio di alcune grandi aziende come l’ENI e Finmeccanica.

L’interscambio bilaterale ha raggiunto i 4,5 miliardi di euro, le importazioni italiane sono aumentate del +33,69%, passando da 2.369,98 milioni di dollari nel 2010 a 3.168,31 milioni nel 2011, mentre nel 2011 le esportazioni italiane sono aumentate del +34,42% rispetto al 2010, per un volume di 1.222,84 milioni di dollari. Prodotti chimici, macchinari per l’edilizia e macchine elettriche per uso industriale rappresentano le voci delle esportazioni più importanti per l’Italia, ma per potenziare maggiormente il valore degli scambi bilaterali occorre incentivare gli investimenti in infrastrutture e nel settore energetico.

 

Thailandia

Le ripercussioni della crisi economica mondiale e il conseguente rallentamento della ripresa, lo squilibrio inflazionistico, l’apprezzamento del Bath rispetto al dollaro e l’incidenza di calamità naturali, come le inondazioni, hanno influito sulla crescita del Paese determinando un vero e proprio tracollo del PIL reale nel corso dell’ultimo anno, dal 7,8% del 2010 al 2,5% del 2011. Tracollo che inevitabilmente ha rallentato l’interscambio commerciale italo-thailandese nel 2010, anche se le importazioni sono comunque cresciute al 36,5% e le esportazioni al 28,1%.

Le importazioni dall’Italia, con un volume che sfiora i 2 miliardi di dollari, di materie prime e semilavorate crescono del 47,94% e del 24,86%, mentre le importazioni dei beni di consumo aumentano del 37,29%.

Tre categorie di beni industriali coprono le voci dei prodotti più esportati dall’Italia in Thailandia, si tratta nello specifico delle macchine per uso industriale (coprono il 22,85% delle esportazioni italiane, per un valore di 242,8 milioni di dollari), dei manufatti metallici (rappresentano il 14,92% delle esportazioni, per un valore di 158,56 milioni di dollari) e infine dei prodotti chimici (sono il 9,32% delle esportazioni italiane per un valore di 99,5 milioni di dollari).

Le riforme economiche, atte a stimolare la domanda interna e mettere in moto i settori produttivi nazionali, sono punti prioritari nell’agenda poltica del nuovo governo thailandese, guidato da Yingluck Shinawatra, e lasciano sperare in una ripresa imminente, quindi anche in un approfondimento delle relazioni commerciali con l’Italia, oggi 24° partner principale thailandese.

 

Malaysia

Il secondo partner commerciale privilegiato dell’Italia nel Sud-Est Asiatico è la Malaysia, la cui economia nel 2010 è cresciuta con un tasso del +10,1% grazie ad un robusto flusso delle esportazioni, alla mole di investimenti stranieri e all’espansione della domanda interna.

L’interscambio commerciale italo-malaysiano è cresciuto del 21,2%, capitalizzando un volume di 918,2 milioni di euro. Le esportazioni dall’Italia verso la Malaysia sono cresciute del 16,9% nel 2011 (441 milioni di euro), mentre le importazioni dalla Malaysia sono incrementate di oltre il 25% (478 milioni di euro).

Beni industriali, come macchine motrici e apparecchi elettrici, prodotti in acciaio e i tessili impinguano il flusso delle esportazioni italiane, mentre la componentistica elettrica è il settore principale di riferimento per le importazioni malaysiane verso l’Italia.

 

Singapore

La modernizzazione del sistema creditizio e bancario, l’elevato livello dei servizi e la competitività nel settore infrastrutturale, hanno reso la città-stato di Singapore, con un reddito pro-capite di 44mila dollari, un faro per lo sviluppo e un modello di innovazione per tutta l’Asia.

La partnership commerciale italo-singaporeana è dinamica e la presenza di aziende e imprenditori italiani sul campo è consolidata (200 imprese in loco), tanto che Singapore detiene oggi il primato di maggiore destinatario delle esportazioni italiane. Con 1.412,2 milioni di euro, l’Italia si posiziona al 5° posto tra i paesi dell'Unione Europea nella graduatoria dei maggiori Paesi fornitori, mentre occupa il 12° posto in quella dei Paesi clienti, registrando un volume di 231,4 milioni di euro di importazioni nel 2010.

La Microelectronics, nata da una joint venture italo-francese e attuale primo produttore europeo di circuiti integrati, è il più importante investimento italiano a Singapore.

I comparti industriali (macchinari industriali, componentistica elettronica e auto) e quelli del lusso (abbigliamento, gioielleria, pelletteria) sono quelli più produttivi e stimolano le esportazioni italiane nel Paese.

Maria Dolores Cabras [email protected]

La piccola Polonia della Mitteleuropa

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Seconda puntata del nostro viaggio in Europa dell'Est. Il nuovo governo social-democratico di Robert Fico ha i numeri per governare in piena autonomia e approvare misure per combattere il rallentamento dovuto alla crisi – Bratislava rimane uno dei luoghi prediletti per la delocalizzazione di molte imprese europee – L'Italia è al quarto posto per investimenti diretti e Unicredit è la quinta banca del Paese

Tratto da “FIRSTonline

IL “FICO” E' MATURO – Bratislava sceglie ancora Robert Fico. Le elezioni anticipate che si sono tenute in Slovacchia lo scorso 10 marzo hanno infatti decretato per la seconda volta (la prima era stata nel 2006) la vittoria di Robert Fico, leader del partito social-democratico locale “Smer” (che significa “direzione”). Ma se in occasione del primo mandato presidenziale la formazione politica di centro-sinistra non aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, dovendo formare una traballante coalizione nella quale aveva peso un partito dalle tendenze xenofobe, questa volta lo Smer può contare su una vittoria molto più larga: in Parlamento sono stati conquistati 83 seggi sui 150 disponibili. Il nuovo esecutivo ha dunque i numeri per poter governare con le mani libere e mettere in atto politiche che riescano a tenere in carreggiata l’economia slovacca. Additata come esempio modello di crescita e sviluppo dopo la caduta del Muro di Berlino e la scissione dalla “sorella” Repubblica Ceca, Bratislava ha vissuto un vero decollo economico (Stato dell’Unione Europea a crescere di più tra il 2001 e il 2010), agevolata dall’entrata nell’Unione Europea (che effettivamente per alcuni anni ha funzionato nel favorire la realizzazione di un’integrazione più profonda) e dall’afflusso massiccio di investimenti stranieri agevolati da una fiscalità favorevole alle imprese. Una “piccola Polonia”, dunque, che è divenuta una sorta di “hub” privilegiato da parte delle aziende dei Paesi europei occidentali per la delocalizzazione delle proprie attività produttive.

UN'ECONOMIA IN CRESCITA – A Bratislava l’economia continua a crescere, a dispetto della recessione che sta colpendo gran parte dell’Unione Europea. Tuttavia, dopo un soddisfacente aumento del PIL nell’ordine del 3% nel 2011, quest’anno le stime più recenti prevedono un sensibile raffreddamento della crescita, che non dovrebbe essere superiore all’1,5%. Un dato che, per un Paese il cui sistema economico non può ancora dirsi del tutto maturo e sviluppato, equivale ad una stagnazione. Del resto, se l’ingresso nell’Euro (a differenza della Repubblica Ceca, che per il momento continua a tenersi stretta la Corona) nel 2009 è servito a contenere l’inflazione (rimasta bassa negli ultimi anni su un livello dell’1%, ma in rialzo nel 2011 fino al 4%), dall’altra parte non consente alla Slovacchia di usare la leva del cambio per giocare la carta della competitività. Che rimane comunque elevata, visto che il lavoro è efficiente (la produttività è la più alta, a parità di potere d’acquisto, tra i Paesi dell’Europa dell’Est) e costa poco, la tassazione è relativamente bassa e la corruzione è moderata (al 66esimo posto al mondo secondo gli indicatori di Transparency International, in linea con gli altri Paesi dell’Est europeo e nettamente al di sopra dell’Italia).

…MA LA CRISI MORDE – La crisi, però, si fa sentire anche lungo il Danubio. Come detto in precedenza, la crescita del PIL subirà un rallentamento deciso, mentre la disoccupazione è in crescita e ha toccato i livelli più alti da diversi anni, risalendo al 13,7%. E così il nuovo Governo di Robert Fico dovrà intervenire anche indebolendo quei punti di forza che avevano permesso di attrarre massicci flussi di investimenti: ovvero, aumentando le tasse. L’aliquota unica al 19%, che vedeva persone fisiche e imprese unificate, dovrebbe essere corretta al rialzo, penalizzando il settore imprenditoriale in maniera minore rispetto ai redditi dei cittadini (22 o 23% contro 26%, secondo le proposte sul piatto). Inoltre, le nuove norme comunitarie del cosiddetto “fiscal compact” imporranno alla Slovacchia di ridurre il proprio rapporto deficit/PIL , nel 2011 al 5%, comportando tagli e risparmi per 1,85 miliardi di euro.   

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L'APERTURA ALL'ESTERO – Il Paese ha deciso di aprirsi in maniera decisa alle transazioni con l’estero e oggi può vantare un saldo positivo della propria bilancia commerciale. Per quanto riguarda il commercio, l’Italia è il nono fornitore della Slovacchia, con una crescita della domanda di importazioni nel primo semestre del 2011 del 24%, secondo i dati dell’ICE. Le merci maggiormente esportate sono di gran lunga macchinari e veicoli, visto che molte imprese automobilistiche hanno delocalizzato qui i propri impianti produttivi. Per quanto riguarda invece gli investimenti diretti esteri, il nostro Paese è al quarto posto per lo stock di capitali fatti affluire in Slovacchia dal momento della sua indipendenza (2,99 miliardi di euro dal 1993 al 2010, sebbene la tendenza degli ultimi anni veda una diminuzione dei flussi di IDE in arrivo dall’Italia). Tra le imprese che hanno maggiori interessi a Bratislava mancano i nomi delle grandi multinazionali nostrane, a parte Enel,  ma si segnalano comunque grandi gruppi del settore metalmeccanico e dell’energia. Decisamente importante è la presenza nel settore finanziario di UniCredit, che costituisce il quinto gruppo bancario nel Paese con 85 filiali e asset per oltre quattro miliardi di euro.

PROSPETTIVE – Insomma, anche la Slovacchia tra i Paesi orientali dell’UE rappresenta una meta interessante. Sebbene il suo mercato interno sia di dimensioni ridotte e questa caratteristica la renda meno appetibile rispetto alla Polonia per le imprese che abbiano intenzione di internazionalizzare soprattutto sul versante dell’apertura di nuovi mercati, diverse caratteristiche favorevoli ne fanno un Paese aperto ai capitali stranieri. Le incognite legate all’aumento della tassazione e alle necessità di adeguamento dei conti pubblici agli standard imposti da Bruxelles potrebbero frenare l’arrivo di capitali stranieri, che hanno rappresentato in questi anni la vera “benzina” dello sviluppo slovacco. Starà al nuovo Governo di Robert Fico convincere gli investitori stranieri che conviene ancora venire a scommettere sulle rive del Danubio. Davide Tentori [email protected]

Firenze, Milano: nuovi incontri col Caffè

Dopo il nostro recente evento con gli amici dell’Associazione Carla Crippa e la nostra partecipazione al Security Jam dello SDA, rilanciamo con altri due incontri: parteciremo a Liquid Lab, presso l’Università di Firenze, dove il 10 maggio parleremo di “Italia e Mondo Nuovo”; subito dopo a Milano, il 16 Maggio, organizziamo insieme alla Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina un evento in cui discuteremo la “politica dell’immagine” cinese. Entrambi gli incontri sono gratuiti e aperti al pubblico: vi aspettiamo!

 

L’Italia e il Mondo Nuovo, 10 Maggio 2012 (ore: 10.00 – 13.00)

Conferenza/Dibattito – Aula Tesi, Ed. D15, Polo delle Scienze Sociali Novoli

 

L’incontro si inserisce nel progetto più ampio “Liquid Lab” della Associazione Culturale WeNext, e si focalizzerà sulla Politica Estera dell’Italia verso i cosiddetti Paesi Emergenti.

 

Prendendo spunto dall’articolo di J.A.Goldstone su Foreign Policy, secondo il quale il contesto internazionale odierno è caratterizzato da un momento di transizione orientato ad un maggior coinvolgimento dei Paesi Emergenti, si rifletterà sulle strategie vincenti per l’Italia in un contesto internazionale fluido come quello attuale.  Ne parleremo con il Dott. Fabrizio Coticchia – Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Giampaolo Visetti – corrispondente di Repubblica dall’Asia, Console Vincenzo Ercole – Direzione Generale Sistema Paese al Ministero Affari Esteri. Introduce e modera la Prof.ssa Bruna Bagnato dell’Università degli Studi di Firenze. In preparazione della conferenza verrà proposto il tema L’Italia e il Mondo Nuovo ai blog ed ai magazine online che si occupano di Relazioni Internazionali, per mettere in movimento idee e domande da proporre il giorno della conferenza agli esperti, favorendo un “cross-posting” tra i siti. Il Caffè presenterà le proprie riflessioni sui rapporti dell’Italia con la Cina, il sud-est asiatico, l’est Europa, l’Afghanistan e affronterà anche le politiche mediterranee, grazie ai contributi di Dolores Cabras, Davide Tentori, Davide Colombo, Lorenzo Nannetti. Maggiori informazioni sul sito ufficiale dell’evento.

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Quando l’Oriente si tinse di rosso. La lezione di Qianlong: Wen Jiabao, il PCC e la costruzione di una nuova immagine morale del leader.

 

Milano, 16 maggio (ore 17.30), Via Clerici 5

 

La Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina ed il Caffè Geopolitico organizzano il seminario Quando l’Oriente si tinse di rosso. La lezione di Qianlong: Wen Jiabao, il PCC e la costruzione di una nuova immagine morale del leader, il 16 Maggio 2012 alle ore 17.30 presso la sede della Scuola di Formazione Permanente. Stefano Cammelli, autore di “Ombre cinesi” e “Storia di Pechino”, presenta un’analisi dell’operato e della figura di Wen Jiabao e della dirigenza del PCC attraverso un’analisi storico-antropologica della stampa di partito e dei documenti ufficiali del Consiglio di Stato. L’emergere di una vera e propria “politica dell’immagine” costruita attraverso media, giornali ed episodi si spinge fino alla costruzione di vere e proprie leggende del mondo contemporaneo. Continuità e cesure del linguaggio del potere in Cina.

 

La relazione verrà seguita da una tavola rotonda alla quale interverranno: Francesco Boggio Ferraris, Responsabile Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina; Thomas Rosenthal, Responsabile Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina; Dolores Cabras, Coordinamento di redazione Cina e Asia Orientale, Il Caffè Geopolitico. Modera Alberto Rossi, Presidente de Il Caffè Geopolitico.

 

Per informazioni e iscrizioni: [email protected], tel. +39 02 72 000000 e sul sito della Fondazione Italia Cina.

La dura legge del gol

A poco più di un mese dall’inizio di UEFA Euro 2012 è scoppiato in Ucraina un caso che rischia di mandare in fumo gli sforzi del Paese nell’intento di ospitare il grande evento sportivo; il caso è quello ben noto dell’ex-primo ministro ucraino, leader della Rivoluzione Arancione, Yulia Tymoshenko. Ma al contrario di quanto emergerebbe dall’improvvisa attenzione dei media per quanto sta avvenendo, la faccenda si protrae da tempo e le tensioni tra Paesi europei ed Ucraina non derivano semplicemente dalla, alquanto nobile ma spesso di copertura, aspirazione alla tutela dei diritti umani: a seguito del cambio di governo nelle elezioni del 2010 l’Ucraina ha effettuato un deciso cambio di rotta nella propria politica estera e di difesa e ciò ha inevitabilmente ferito i sentimenti della NATO ed in particolare della Germania.

ROUTINE CARCERARIA – La principale preoccupazione della comunità internazionale sono le condizioni di salute di Tymoshenko, che da dodici giorni continua nel suo sciopero della fame, iniziato per protestare contro le percosse subite dai secondini del carcere di Kharkiv: la ragione di tale trattamento fu obbligarla a ricevere cure ospedaliere per problemi alla schiena che l’ex-primo ministro lamenta dall’ottobre scorso, data di inizio del suo periodo di detenzione; l’uso della forza si è “reso necessario” poiché la detenuta si è sempre rifiutata di farsi curare da medici suoi connazionali, temendo che potessero avvelenarla. Ed è a questo punto che le attenzioni tedesche si fanno sentire particolarmente.

CARITATEVOLE GERMANIA – Dunque, perché la bella Yulia non rimanesse senza cure, il Governo tedesco ha offerto un team medico che l’ha già visitata diverse volte; un feeling particolare quello tra Tymoshenko e Bundesrepublik che si è spinto fino alla richiesta dei medici di poterla curare nelle strutture adeguate della Repubblica Federale: richiesta alquanto curiosa dato il “significato politico” incarnato dal precedente Capo di Governo ucraino (che è vista come leader dell’opposizione al Governo di Yanukovich), specie se si sottolinea la contemporanea offerta di asilo politico al marito Oleksander da parte della Repubblica Ceca. Ma a cosa è legata, quindi, tutta questa attenzione alla situazione interna del Paese slavo?

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IL PRESSING E' ALTO – Molti Paesi europei stanno ora premendo perché Tymoshenko venga al più presto rilasciata: per cominciare 5 presidenti (quelli di Austria, Germania, Italia, Repubblica Ceca e Slovenia) hanno annullato la partecipazione ad un vertice a Yalta fissato per l’11 e 12 maggio, mentre un sesto, quello estone, è in forse; il Presidente ceco Klaus ha annullato una visita prevista sempre in maggio e molte sono anche le dichiarazioni di esponenti della politica nazionale, specie di quella tedesca. Il Ministro all’ambiente Norbert Röttgen ha dichiarato che “visite di ministri o primi ministri in Ucraina sono fuori discussione date le attuali condizioni” e che Yulia Tymoshenko “deve essere rilasciata immediatamente”, mentre il vice ministro allo sviluppo Gudrun Kopp ha dichiarato che potrebbe rendersi necessario ospitare il campionato europeo soltanto in Polonia o, in alternativa, in Polonia ed in un terzo Stato… E se questo terzo Stato fosse quello tedesco? Sicuramente la privazione degli Europei sarebbe un forte incentivo per il Governo Yanukovich alla scarcerazione di una detenuta da molti considerata in carcere a seguito di accuse formulate ad hoc, ma il tornaconto economico per lo Stato tedesco non sarebbe indifferente.

LA DIFESA UCRAINA VACILLA – Gli effetti di questo pressing si fanno già sentire: l’udienza del tribunale sul caso Tymoshenko, che potrebbe prolungare la detenzione fino al 2023 a causa di nuove accuse da imputarle, è stata rimandata e lo sarà fino a che le condizioni di salute non saranno migliorate. Ma le pressioni che il Governo ucraino subisce potrebbero anche essere volte ad un altro obiettivo: la destabilizzazione del Presidente Yanukovich, l’artefice del cambio di rotta della politica estera del Paese. Se durante i governi Tymoshenko il “granaio d’Europa” si era decisamente avvicinato all’UE ed alla NATO, tanto da far ipotizzare l’adesione ad entrambe le organizzazioni, ora con il nuovo Governo l’Ucraina ha riscoperto la propria identità slava ed ha attuato una distensione delle relazioni con la Russia non indifferente, calorosamente accolta dalla Federazione; i rapporti tra Yanukovich e Putin sono cordiali ed è previsto l’invio di alti rappresentanti ucraini per la cerimonia di insediamento del neo-rieletto presidente russo. L’Ucraina è dunque terra di scontro tra gli interessi russi e quelli euro-atlantici di UE e NATO: quest’ultima è da tempo che guarda al Mar Nero, tanto che già nel 2004 l’alleanza si è allargata a Romania, Bulgaria e repubbliche baltiche (Paesi di estremo interesse per gli USA ed i loro progetti data la collocazione geografica), erodendo così quella che prima era un’indiscussa sfera di influenza russa. Se non fosse stato poi per la crisi georgiana del 2008 la NATO avrebbe gradito enormemente poter includere dentro sé Ucraina (allora governata da Tymoshenko) e Georgia, ma i segnali lanciati dalla Russia sono stati palesi e il filo-russo Yanukovich si trova ora, dopo aver riallineato il proprio Paese con l’ingombrante vicino, stretto tra gli interessi strategici euro-americani e russi. Dopo il 2008 e l’elezione di Yanukovich nel 2010 la partita Russia-NATO registra un 1-0, ma non è da scartare l’idea che, nell’ipotesi di un indebolimento della posizione dell’attuale Presidente ucraino, il risultato possa diventare un 1-1.

Matteo Zerini [email protected]

Del doman non v’è certezza…

Guardando alle dinamiche dell'ultimo anno, questa settimana ci interroghiamo sul cambiamento radicale che ha colpito il nuovo paradigma internazionale con la fine della Guerra Fredda. Allora crisi, conflitti e rivoluzioni apparivano sempre chiaramente inquadrate nel confronto irriducibile tra le due superpotenze, suscitando sentimenti di sicurezza nelle figure chiamate ad analizzare tali vicissitudini. Nel mondo di oggi, dopo la Guerra nel Golfo, la crisi dei Balcani, l'11 Settembre e gli interventi unilaterali statunitensi e la più recente Primavera Araba, gli appassionati affrontano una crisi delle certezze confermata dalla tendenza iniziale di questo 2012 che continua a sballottarci tra scandali, venti di guerra e la ricaduta nel baratro del continente africano. E' con questa sfida che riprendiamo oggi il nostro sguardo alle relazioni internazionali nel tentativo di decifrare il nuovo codice dell'era del dopo Guerra Fredda

EUROPA

Lunedì 30-Venerdì 4 – Altro tour europeo per il vice-premier cinese Li Keqiang, che insieme a Xi Jinping formerà la nuova diarchia al potere a Pechino. Su invito dei governi di Russia, Ungheria e Belgio, Li partirà lunedì da Mosca dopo la grandola d'incontri di prim'ordine con Medvedev e Putin per toccare prima Budapest e poi Bruxelles, dove incontrerà anche le massime cariche dell'UE. Proprio quest'ultima tappa nei palazzi dell'Unione servirà a rafforzare la cooperazione strategica tra le due potenze economiche in vista del cambio di leadership che si sta preannunciando meno scontato del previsto in terra di Cina. Il futuro premier avrà la possibilità di farsi conoscere la grande pubblico occidentale, rafforzando così la sua statura di leader in patria. Sarà intreressante seguire gli sviluppi degli incontri in Ungheria, vista la situazione tesa e confusa, chissà che la visita di un burocrate orientale non si trasformi in una pacificazione di massima tra Budapest e Bruxelles.

Giovedì 3 – Dopo l'ennesimo declassamento operato dalle agenzie di rating che sembrano tenere le redini della crisi dei debiti sovrani dell'Eurozona, la BCE non poteva scegliere una location migliore per il meeting del Consiglio di Governo di giovedì. L'appuntamento di Barcellona offrirà l'opportunità di ribadire il sostegno dell'Unione ai membri più colpiti dalla crisi di credibilità in onda sui mercati. In attesa del secondo round elettorale francese, ci aspettiamo un'atmosfera di tensione visti gli inni anti-Fiscal Compact suonati in pompa magna dal socialista Hollande. Quello che sicuramente non accadrà è l'ennesima iniezione di crediti alle banche, dopo gli ultimatum di Mario Draghi contro la stretta creditizia. Mentre ad Atene ormai piange lacrime di austerità, anche le istituzioni europee si spostano verso il capezzale dell'ultima vittima della pandemia finanziaria.

AUSTRIA – Nel consueto appuntamento settimanale con gli scandali politico-diplomatici, stavolta puntiamo dritti su Vienna, più precisamente nel bel Danubio blu. E' infatti nel leggendario corso d'acqua che è stato ritrovato il corpo esanime dell'ex ministro del petrolio di Gheddafi, Shukri Ghanem. L'ex membro del governo libico aveva sancito il punto di svolta della politica energetica di Tripoli, rivestendo anche la carica di rappresentante presso l'OPEC, la cui sede è proprio nella capitale austriaca. Ghanem aveva abbandonato gli incarichi ufficiali nel giugno del 2011, all'apice dello scontro militare intestino, tagliando ogni rapporto col paese d'origine per collaborare con una compagnia austriaca. Secondo fonti di polizia il corpo non presenterebbe alcun segno di violenza, ma restano oscure le cause della morte misteriosa, sarà l'autopsia a dirci se la morte di uno degli uomini del raìs potrebbe essere ricondotta alla situazione confusa in cui versa attualmente la Libia.

AMERICHE

STATI UNITI – Ha dell'incredibile la vicenda che lega 24 ufficiali militari e agenti dell'intelligence americana allo scandalo sessuale esploso durante il Cumbre de las Americas a Cartagena, in Colombia. I moderni James Bond sarebbero stati adescati da alcune prostitute locali mettendo in pericolo dettagli delle operazioni di scorta e protezione del Presidente Obama al meeting ufficiale. Il direttore dei Servizi Segreti Mark Sullivan ha emesso domenica nuove linee guida riguardo la presenza in luoghi dalla dubbia reputazione cogliendo al volo la richiesta del Dipartimento di Stato. Tuttavia è di giovedì l'indiscrezione di un altro vis-à-vis a pagamento da parte di ufficiali del servizio nella capitale salvadoregna San Salvador la scorsa primavera, creando così un vero e proprio "caso sudamericano" nei servizi di sicurezza di Washington. La verità è che il tempismo della repressione e la pubblicità concessa allo scandalo fanno pensare ad un tacito accordo tra stampa e Barack Obama, probabilmente colpito dalle abitudini esecrabili del suo servizio scorta.

COLOMBIA – Balzate all'apice delle cronache internazionali, cadute in disgrazia dopo la guerra aperta al governo colombiano, le FARC sembrano intenzionate a tornare alla vecchia abitudine dei sequestri internazionali. Stavolta è toccato a Romeo Langlois, corrispondente per il canale all news francese France 24 e Le Figaro, cadere nelle mani dei ribelli marxisti, dopo uno scontro a fuoco in cui sono caduti tre militari e un ufficiale di polizia colombiani. La parola resta ora al Presidente Juan Manuel Santos, l'uomo forte di Bogotà impegnatosi personalmente nelle trattative politiche con il movimento di guerriglia che gestisce il narco-traffico nelle regioni meridionali. Chissà che la nuova pedina impersonata da Laglois non possa portare ad un nuovo passo verso la conclusione della contrapposizione tra FARC e governo centrale, gli ostaggi aumentano infatti le pressioni internazionali al negoziato, come testimoniato dal caso emblematico di Ingrid Betancourt.

CANADA – Sa di vera e propria impresa l'impegno politico assunto dal governo canadese per far digerire alla popolazione l'accordo di libero mercato con l'Unione Europea, che sarà siglato a breve dopo l'intesa raggiunta su circa il 75% delle tematiche in ballo. Il Comprehensive Economic and Trade Agreement (Ceta) detiene già un primato, anche prima di aver incassato le firme di Ottawa e Bruxelles, ovvero quello di essere la più importante intesa commerciale della storia canadese. Secondo il pool di promotori politici dell'accordo, 15 ministri, 3 deputati e 18 senatori, l'intesa garantirebbe una crescita del 20% degli scambi commerciali, una crescita annua dell'economia canadese quantificabile in 12 miliardi di dollari. Particolarmente entusista sembra il Ministro delle Risorse Naturali Joe Oliver, che parla di «Un accordo ambizioso con l’Ue rappresenterebbe una grande vittoria per i lavoratori, le imprese e le famiglie di Toronto». Attendiamo con impazienza il feedback della controparte europea e dei 27, con la certezza che dall'altra parte dell'Atlantico il morale potrebbe essere ben più cupo viste le condizioni delle economie europee.

AFRICA

LIBERIA – Sa di record internazionale la nuova impresa della Corte Speciale per la Sierra Leone, il tribunale internazionale istituito dall'ONU con base a L'Aia, nei Paesi Bassi, ha infatti disposto la prima sentenza d'arresto preventivo nei confronti dell'ex Presidente liberiano Charles Taylor. Il politico si sarebbe macchiato di crimini di guerra e contro l'umanità appoggiando attivamente i ribelli in Sierra Leone nella guerra civile per i celeberrimi "blood diamonds", grazie anche all'appoggio della CIA statunitense. Il verdetto per Taylor è atteso per il 30 Maggio, anche se la sentenza di colpevolezza sembra ormai scontata, visto il corso del procedimento giudiziario. La decisione della Corte ha suscitato sollievo e soddisfazione nell'ormai tranquilla Sierra Leone, destando però sentimenti contrastanti in Liberia, dove la popolazione si divide tra sostenitori e oppositori della figura emblematica di Charles Taylor.

Sabato 5Omar al-Bashir muove un altro passo verso la guerra aperta con il Sudan del Sud, con l'imposizione decisa domenica dello stato d'emergenza lungo la frontiera tra i due stati, nelle regioni del Sud-Khordofan, Nilo Bianco e Sennar. La risoluzione permette all'elite politica di Khartoum di istituire tribunali speciali regionali e soprattutto di bloccare ogni scambio commerciale e petrolifero con Juba, che dipende fortemente dagli oleodotti sudanesi. Ma la vera data emblematica della questione è quella di sabato, giorno in cui scade l'ultimatum concesso dal governatore dello Stato del Nilo Bianco ai 12.000 profughi sud-sudanesi per abbandonare la periferia meridionale di Khartoum. E' già iniziato il fuggi-fuggi generale degli operatori umanitari e commerciali presenti nell'area dopo l'arresto di due funzionari di una compagnia sudafricana, la situazione si appresta a ricadere nel baratro della guerra mentre si attende l'invito al negoziato dall'alleato comune cinese.

NIGERIA – E' ancora Kano, città nel nord della Nigeria, il teatro degli attacchi terroristici di domenica del famigerato movimento islamico Boko Haram, obiettivo la comunità cristiana locala, colpevole di coltivare "l'educazione occidentale" contro cui si batte la cellula estremista nigeriana. Secondo la Croce Rossa l'ultimo attacco di una tristemente lunga serie avrebbe lasciato sul posto almeno 16 cadaveri, i feriti sarebbero invece alcune dozzine. Secondo il Luogotenente Iweha Ikedichi, portavoce locale dell'esercito, l'attacco condotto con ordigni e armi automatiche avrebbe preso di mira un teatro utilizzato come luogo di culto. Già Giovedì due ordigni nella sede del quotidiano This Day nella capitale Abuja e nella città di Kaduna avevano causato la morte di 9 persone, generando il panico nella popolazione civile. 

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ASIA

Lunedì 30-Martedì 1 – Sarà una felice coincidenza la presenza contemporanea in Myanmar del Segretario Generale ONU Ban Ki Moon e dell'Alto Rappresentante dell'UE Catherine Ashton, entrambi giunti nel paese per testare l'apertura politica alle opposizioni. La Ashton ha presenziato domenica all'apertura a Yangon, antica capitale birmana, di un ufficio UE che si occuperà di aiuti allo sviluppo locale, ponendo le basi per l'apertura di una rappresentanza ufficiale dopo la sospensione delle sanzioni economiche di Bruxelles. Ban Ki moon incontrerà il Presidente Thein Sein, l'uomo delle riforme, per poi offrire al Parlamento di Naypyidaw un discorso ufficiale in favore del processo di apertura, il primo da parte di un diplomatico straniero in visita. Martedì ci sarà spazio per un meeting faccia a faccia tra il Segretario delle Nazioni Unite e la leader della Lega Nazionale per la Democrazia Suu Kyi, in programma a Yangon.

Lunedì 30-Venerdì 4 – I rapporti tra Washington e Pechino non sono mai stati tanto alle corde come lo saranno questa settimana, dopo la notizia dell'asilo offerto dall'ambasciata americana al dissidente fuggitivo Cheng Guangcheng, scappato dai domiciliari verso la salvezza. Il caso ripropone gli stessi caratteri della vicenda che ha coinvolto l'ex sindaco di Chonqing Bo Xilai e il suo in-fedele poliziotto Wang Lijun, che aveva chiesto asilo al consolato statunitense di Cheng Du. Guangcheng è un avvocato che si batte per i diritti civili e politici in Cina, non vedente dalla nascita sarebbe riuscito a fuggire dagli arresti domiciliari grazie ad un probabile aiuto della diplomazia americana, mettendo in dubbio l'esito della visita di Hillary Clinton e Timothy Geithner. L'evento, in programma da tempo, avrebbe dovuto riguardare l'aspetto economico-finanziario della partnership tra Washington e Pechino, offrendo una ghiotta occasione per discutere della situazione in Sudan e in Siria al Segretario di Stato. Da domenica è giunto a Pechino Kurt Campell, l'assistente della Clinton per le questioni pacifico-asiatiche, nel tentativo di stabilizzare la situazione al limite della tensione in vista della visita di giovedì.

PAKISTAN – Dopo l'esplosione della controffensiva talebana nel confinante Afghanistan, il Pakistan torna al centro delle cronache globali grazie ad una serie di avvenimenti impressionanti nel giro di pochi giorni. Nell'ordine troviamo innanzitutto il caso che riguarda da vicino il Premier Yusuz Raza Gilani, condannato ad una detenzione simbolica di un minuto per aver chiuso frettolosamente un caso di corruzione riguardante il Presidente Asif Ali Zardari. Gilani si è rifiutato categoricamente di dimettersi dall'incarico affermando che solo il Parlamento ha il potere di sfiduciare il premier, secondo l'ordinamento democratico. Spostandoci a Quetta, nel sud-ovest del paese, registriamo la triste notizia del ritrovamento del corpo senza vita del cooperante britannico del CICR rapito in Gennaio durante un assalto. In Waziristan invece, torna la minaccia fantasma dei droni della CIA, stavolta sono tre le vittime di un attacco missilistico andato a segno contro i ribelli dell'area tribale come confermato da fonti dell'intelligence pakistana. Infine, per chiudere il focus pakistano, sono almeno 6 i morti e 16 i feriti di un'operazione congiunta tra polizia e forze speciali dell'esercito nel quartiere Lyari della città di Karachi, nell'area dove la criminalità organizzata gode di un dominio totale. Il capo locale della polizia Fawwad Khan ed altri ufficiali sono stati uccisi durante un attacco con granate e lanciarazzi che ha lasciato senza vita anche 5 civili intrappolati nello scontro a fuoco.

MEDIO ORIENTE

Lunedì 30 Aprile – La missione impossibile affidata ai 300 osservatori dal casco blu nel pantano siriano, si appresta a diventare l'impresa più rischiosa della storia delle crisi politico-militari delle Nazioni Unite. Gli osservatori, che possono accedere sul campo di battaglia solo col consenso degli attori in gioco, sono chiamati a vigilare su una tregua e un cessate il fuoco mai iniziati veramente, col rischio di finire in trappola tra i due schieramenti. Quello che è certo è che il dispiegamento dei 300, degni del richiamo al leggandario manipolo di spartani, non è altro che l'ultima chance della Comunità Internazionale al piano della pace di Kofi Annan. Il diplomatico ed ex segretario generale, ha speso il suo incarico di inviato speciale rimbalzando da un capo all'altro del pianeta in cerca di un consenso inesistente sulle sorti del paese piccolo, ma strategico. Con i francesi capofila nell'intonare la marcia dell'intervento umanitario, Cina e Russia intente a prendersi tutto il tempo che il veto gli concede, chissà che non sia ancora una coalition of the willings la soluzione scontata ad una situazione precipitata ormai da mesi.

EGITTO/ARABIA SAUDITA – Continua lo stallo diplomatico tra Ryadh e Il Cairo in seguito all'arresto dell'avvocato egiziano Ahmed el-Gezawi in Arabia Saudita, accusato di profanazione del nome del sovrano Abdullah al-Saud. Centinaia di oppositori egiziani si erano dati appuntamento durante tutta la settimana per contestare la misura detentiva nei confronti del difensore legale degli attivisti per i diritti umani. Le proteste hanno dato il via al richiamo dell'Ambasciatore saudita in patria per consultazioni, formula diplomatica utilizzata per esprimere risentimento e disapprovazione verso le autorità egiziane. Secondo l'ONG Arabic Network for Human Rights Information el-Gezawi sarebbe stato bersagliato a causa del suo operato contro le condizioni disumane dei detenuti egiziani in Arabia Saudita, ricevendo una sentenza detentiva di un anno senza la possibilità di assistere al procedimento giudiziario.

ISRAELE – Sa di scontro totale la guerra giornalistica in corso in Israele tra figure di spicco del mondo dell'intelligence e il governo del conservatore Benjamin Netanyahu, accusato dall'ex capo del Mossad Meir Dagan di condurre una campagna messianica contro il regime iraniano. In realtà il J'accuse dell'ex Mossad è solo un capitolo di una saga della critica in onda principalmente sui titoli del quotidiano Haaretz, vicino alle posizioni europee più che isareliane. Già in passato Dagan aveva appoggiato con forza la strategia silenziosa della campagna di omicidi mirati contro gli scienziati iraniani, criticando il rullo di tamburi a favore di uno strike dell'aviazione. La scorsa settimana è toccato poi a Yuven Diskin, ex capo dello Shin Bet, l'equivalente interno del Mossad, criticare la leadership di Gerusalemme per la politica verso Teheran. Ma il climax dello scontro di parole si è raggiunto domenica in una conferenza a New York dove l'ex premier Ehud Olmert, l'ex capo delle IDF Gabi Ashkenazi e Meir Dagan hanno incalzato ed accusato il Ministro per la Protezione Ambientale Gilad Erdan riguardo alle esternazioni di Diskin. Con l'invito a leggere il resoconto del siparietto, che trovate qui, ci chiediamo con quali premesse Netanyahu intenda procedere nel suo piano per l'Iran annunciato come concertato con i membri dell'intelligence.

Fabio Stella [email protected]

La locomotiva dell’Est

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Inizia oggi una nuova rubrica, intitolata “CaffEst”, che vi porterà a conoscere l'economia dei Paesi dell'Europa orientale. Cominciamo con la Polonia, la cui economia attira non solo per la forte crescita del Pil e il basso costo del lavoro, ma anche per la posizione strategica del Paese – Ma Varsavia deve fare i conti con un'inflazione al 4%, la disoccupazione che non diminuisce e la corruzione ancora troppo diffusa – La prossima mossa: una maggiore diversificazione nell'approvvigionamento energetico

Tratto da FIRSTonline

OTTIMI NUMERI – Un Pil che cresce oltre il 4%, un basso costo del lavoro – anche qualificato – che attrae un massiccio afflusso di investimenti esteri, nuovi giacimenti di shale gas che potrebbero garantire a breve l'autosufficienza energetica – oltre ad abbattere ulteriormente i costi di produzione. Non siamo in un Paese emergente dell’America del Sud, né in uno dei dinamici Stati africani o asiatici in via di sviluppo, bensì nella vicina Polonia. La crisi economico-finanziaria, oltre che politica, che sta mettendo in difficoltà le nazioni più ricche e sviluppate dell’Unione europea e che sta portando i Paesi periferici, come Grecia e Portogallo, a rischiare il default sul debito pubblico – dopo anni vissuti al di sopra delle proprie possibilità – non ha colpito tutti. La Polonia infatti è riuscita a mantenere una performance positiva che unisce la crescita dell’economia a un sostanziale rispetto dei fondamentali macroeconomici: segno che è possibile rispettare i parametri di Maastricht senza dover per forza scivolare nella stagnazione. La Polonia, governata dal premier di centrodestra Donald Tusk e presidente di turno uscente dell’Ue, ha chiuso il 2011 con un incremento del Pil del 4,3% e si presume che quest’anno la crescita sarà nell’ordine del 2,5%: una diminuzione consistente, ma da ritenere comunque positiva nel contesto europeo che prevede recessione – oppure, nei migliori casi, una crescita prossima allo zero – per i suoi Stati più importanti. Previsioni ancor più positive se si considera che la nazione dell’Europa centro-orientale è fortemente dipendente dalle economie vicine in termini di investimenti e di esportazioni. Il rapporto del debito pubblico sul Pil è sostanzialmente stabile sul livello di 56,7%, dunque perfettamente all’interno dei “precetti” stabiliti vent’anni fa dal Trattato sull’Unione Europea e da poche settimane “rispolverati” dalle norme del Fiscal Compact. Il costo del lavoro è tra i più bassi d’Europa (7,46 euro l’ora nel 2010 secondo Eurostat) ed è una delle ragioni che hanno permesso di attrarre flussi crescenti di investimenti esteri. TRA ALTI E BASSI – Come in molte fotografie, però, non manca il contrasto chiaro-scuro. La congiuntura internazionale, che ha visto nel Vecchio Continente una delle aree geo-economiche in maggior sofferenza, non ha lasciato Varsavia del tutto immune. L’inflazione è salita dal 2% a più del 4%, oltre gli obiettivi che si era posta la Banca centrale polacca. Insieme ad essa è aumentata anche la disoccupazione, che ha subito una nuova crescita fino a toccare nuovamente il 10% a novembre 2011. Il reddito pro capite rimane ancora uno dei più bassi in Europa (poco meno di diecimila euro, al quintultimo posto in UE). La corruzione, dopo la fine del Comunismo, si è ridotta sensibilmente: l’indice elaborato da Transparency International pone la Polonia al 41esimo posto mondiale, ben al di sopra dell’Italia. Eppure è ancora avvertita come un problema grave e proprio pochi giorni fa l’Institute of Public Affairs, uno dei principali think-tank del Paese, ha pubblicato uno studio dove si sottolinea l’assenza di politiche espressamente dirette a combattere la corruzione. Certo è che la Polonia si trova in una posizione strategica nel cuore dell’Europa, il che ne fa un Paese ambito. Con i suoi oltre 38 milioni di abitanti costituisce un mercato interno di lavoratori e consumatori che offre prospettive di crescita molto appetibili per chi ha intenzione di investire.

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SHALE GAS: LA NUOVA FRONTIERA? – Interessanti possibilità in questo senso potrebbero aprirsi a breve in un settore nuovo, ovvero quello energetico. Dipendente dalla Russia, che ne ha fatto un nuovo strumento di influenza geopolitica, per soddisfare il proprio fabbisogno di gas naturale, la Polonia ha cominciato a perseguire negli ultimi due anni una strategia di diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Si stima infatti che la Polonia possegga fino a 1,5 trilioni di metri cubi di shale gas (metano contenuto in rocce scistose situate a circa un chilometro e mezzo di profondità nella crosta terrestre): nell’ultimo triennio sono già state conferite un centinaio di concessioni per esplorazioni a diverse compagnie petrolifere, come Exxon-Mobil e Chevron. Lo sfruttamento di tali risorse, se la loro disponibilità dovesse venire confermata, potrebbe aprire nel medio periodo prospettive molto interessanti a livello geopolitico, rendendo la Polonia un attore più forte nei confronti della Russia, e a livello economico per le riduzioni dei costi energetici e di produzione. L'ITALIA E GLI INVESTIMENTI – L’Italia non è rimasta a guardare e le relazioni economiche con Varsavia si sono intensificate con rapidità. La Polonia è il decimo “cliente” del nostro Paese in termini di esportazioni, con un aumento del 10,9% tra novembre 2010 e novembre 2011: i beni maggiormente acquistati sono macchinari e componentistica, prodotti chimici, siderurgici e, ovviamente, automobili. A questo proposito, non si può non citare la Fiat come principale azienda italiana in termini di investimenti: lo stabilimento di Tychy è strategico per la casa automobilistica torinese, che dal 1993 al 2007 ha consolidato un capitale investito di 1,2 miliardi di euro. Marcegaglia, Indesit, Brembo, Agusta Westland e Gruppo Astaldi sono le altre grandi aziende italiane ad investire in Polonia, ma non mancano anche diverse realtà imprenditoriali di dimensioni più ridotte. Per quanto riguarda il settore bancario UniCredit controlla dal 1999 Banca Pekao, il principale gruppo creditizio polacco con oltre cinque milioni di clienti e novemila filiali diffuse su tutto il territorio. A giugno la Polonia, insieme alla confinante Ucraina, ospiterà gli Europei di calcio. Una ragione in più che ha consentito di attirare investimenti, soprattutto in termini infrastrutturali, e di dare “gas” al Pil (si stima un effetto dell’1,5%). La rassegna sportiva sarà anche un’occasione per fare “gol” davanti agli occhi di tutto il continente e per dimostrare di poter essere un esempio virtuoso di integrazione nel mercato dell’Unione. Un partner affidabile, capace di diventare sempre più strategico negli anni a venire anche per l’Italia. Davide Tentori [email protected]

Lo scontro continua

Ancora scontri tra Sudan e Sudan del Sud. Juba, infatti, si è ritirata da Heglig, anche se non è ben chiaro se l’abbandono della regione sia stato dovuto al contrattacco di Khartoum o all’attuazione della richiesta ONU. Tuttavia, l’aviazione del Nord continua a bombardare lo Stato dell’Unità. I tuareg dell’Azawad hanno annunciato l’istituzione di una costituente per definire tempi e modi della secessione dal Mali, mentre l’Egitto ha interrotto parte della fornitura di gas a Israele. In Sudafrica, Julius Malema è espulso dall’African National Congress. Gli altri temi: prosegue la caccia a Joseph Kony, i danni all’agricoltura in Camerun, la campagna per la protezione degli albini in Ruanda, il re contestato in Swaziland. In chiusura una nota sulle discriminazioni delle persone affette da albinismo in Africa

NOTIZIE CONFUSE DAL FRONTE SUDANESE – Continuano le tensioni in Sudan: secondo le ultime notizie, infatti, martedì, Khartoum avrebbe ripreso il bombardamento oltreconfine nello Stato dell’Unità. Alcune fonti interne a Juba non escludono che al-Bashir possa ordinare in breve tempo alle proprie truppe di attaccare la città di Bentiu, che comunque già è stata oggetto di almeno tre incursioni aeree. Nel frattempo, il Sudan del Sud si è ritirato da Heglig, ma i vertici militari hanno precisato che l’abbandono della regione petrolifera non sia stato conseguenza del contrattacco di Khartoum, bensì una scelta volontaria attuata nel tentativo di limitare il conflitto. Probabilmente, però, non è da escludersi che le perdite tra i soldati del Sud Sudan durante l’occupazione di Heglig possano essere state più elevate di quanto comunicato ufficialmente dai vertici dell’esercito: molti giornali hanno riportato le testimonianze di alcuni uomini di ritorno dal fronte circa la rapidità delle operazioni di ripiego e il gran numero di morti rimasti insepolti. Tuttavia, dopo aver lamentato che al proprio ritiro da Heglig, come richiesto dalle Nazioni Unite, non sia seguita l’interruzione dei bombardamenti da parte del Sudan, Juba ha denunciato la presenza di mercenari al soldo di Khartoum in procinto di creare una testa di ponte per l’assalto a Bentiu. Per il momento, gli scontri al confine sembrano in una fase di tregua, ma, anche soltanto scorrendo rapidamente le vicende degli ultimi giorni, a dominare è l’impressione che gli eserciti non manterranno a lungo le proprie posizioni. LA COSTITUENTE DEI TUAREG – Alla fine della scorsa settimana, il portavoce del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, l’insieme delle regioni settentrionali del Mali cadute in mano ai tuareg, ha annunciato la creazione di un’assemblea costituente. Al momento, non è prevista un’immediata secessione da Bamako, bensì l’avvio di un percorso di consultazioni interne durante le quali saranno definite le basi politiche, amministrative e istituzionali in vista del distacco, comunque ritenuto inevitabile, dal Mali. STOP AL GAS EGIZIANO IN ISRAELE – Nella tarda serata di domenica, la Egyptian Natural Gas Holding ha confermato l’interruzione della fornitura di gas a Israele. Sebbene ancora la giunta militare del Cairo non abbia né approvato ufficialmente il provvedimento, né addotto alcuna motivazione, fonti di stampa egiziana hanno accusato Israele di non aver pagato i servizi della compagnia per mesi. Sin dall’inizio delle rivolte in Egitto, però, il gasdotto ha subito numerosi attacchi che ne hanno limitato le capacità. L’interruzione del servizio, inoltre, comporta una violazione del trattato di pace tra i due Paesi, cosicché il governo israeliano ha chiesto l’intervento di Washington, in quanto garante dell’accordo. Nel frattempo, se da un lato il primo ministro Benjamin Netanyahu ha escluso qualsiasi misura contro l’Egitto, dall’altro lato, il Capo di Stato delle Forze Armate ha sostenuto, lunedì, che le truppe israeliane sono state preallertate. JULIUS MALEMA ESPULSO DALL’ANC – Dopo due anni di polemiche, provvedimenti di sospensione e ricorsi, alla fine la Commissione disciplinare dell’African National Congress, compagine al potere in Sudafrica, ha confermato l’espulsione di Julius Malema, il capo della Youth League. Nei suoi confronti pesano le accuse di aver seminato discordia nel partito e di aver eccessivamente screditato l’attuale capo di Stato, Jacob Zuma. Nel 2010, Malema aveva lodato pubblicamente l’operato del presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, complimentandosi per l’esproprio violento delle terre dei proprietari bianchi nel Paese. Negli ultimi mesi, inoltre, il leader della Youth League ha continuamente attaccato Zuma e il suo governo. Gli osservatori più critici, comunque, ritengono che l’espulsione di Malema debba essere letta come un tentativo di limitare le voci dissidenti verso il Presidente sudafricano.

PROSEGUE LA CACCIA A KONYBarack Obama ha confermato l’impegno statunitense nella caccia a Joseph Kony, indicando al contempo nella cattura del capo del Lord’s Resistance Army uno dei capisaldi della strategia di Washington per la regione. Attualmente, sono dispiegati in Uganda circa cento militari USA, anche se nessuno di loro risulta effettivamente impiegato in operazioni sul campo, ma solo in attività sia di coordinamento, sia di sorveglianza e rifornimento, anche per via aerea. DILEMMA PIOGGIA IN CAMERUN – In Africa occidentale, soprattutto in Camerun, l’agricoltura rischia di subire gravi danni a causa di alcune anomalie nel clima stagionale. L’arrivo anticipato delle grandi piogge, infatti, ha spinto molti coltivatori ad avviare le attività connesse, salvo poi dover fronteggiare prima l’eccessiva quantità di acqua caduta, quindi, laddove i rovesci erano stati meno intensi, l’improvvisa cessazione delle precipitazioni. La stagione delle piogge dovrebbe cominciare ad aprile, ma, per il secondo anno consecutivo, le perturbazioni sono giunte tra gennaio e febbraio.  Al momento non è stato ancora possibile calcolare i danni causati dal clima anomalo, ma si stima che, nel sud del Camerun, la perdita media degli agricoltori possa essere attorno ai 500 dollari. IL RUANDA IN DIFESA DEGLI ALBINI – Il Ruanda ha lanciato una campagna per la difesa dei diritti degli albini, spesso costretti a vivere in condizioni di marginalità o, addirittura, perseguitati e uccisi. L’iniziativa, denominata “White in Black”, è incentrata su un film, “The Label”, un’opera diretta da Clementine Dusabejambo che denuncia la pratica di abbandonare i bambini albini alla nascita. L’obiettivo del governo ruandese, adesso, è esportare la campagna anche in Tanzania e Uganda. L’AEREO DEL RE – Il contestato re dello Swaziland, Mswati III, è al centro di un nuovo scandalo nel Paese. Secondo alcuni oppositori, il monarca avrebbe acquistato un jet privato sottraendo denaro dalle casse pubbliche. Il portavoce del governo ha negato «mille volte» le accuse, sostenendo che l’aereo sia stato regalato al re da alcuni benefattori. Nel 2002, però, Mswati III distrasse quasi tre milioni di dollari dai fondi pubblici per l’acquisto di un velivolo del costo di 51 milioni di dollari, ossia un quarto del PIL dello Swaziland. Quando l’episodio fu reso noto, la compravendita fu annullata, soprattutto perché l’Unione Europea minacciò di sospendere l’invio degli aiuti per lo sviluppo. Beniamino Franceschini [email protected]

Tra Mosca a Bruxelles

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La notizia dell’ottenimento da parte della Serbia dello status di Paese candidato all’ingresso nell’UE non è certo delle più fresche, ma il lavoro più importante, sia per l’UE che per Belgrado, è cominciato proprio nel pomeriggio dell’1 marzo, a seguito di questo primo grande evento. Ed ora, come sostiene Jelko Kacin, europarlamentare sloveno e relatore sulla Serbia al Parlamento Europeo, è ragionevole aspettarsi che la Serbia ottenga una data per l'avvio del negoziato di adesione alla Ue nel vertice europeo del prossimo dicembre, con i colloqui che potrebbero cominciare all'inizio del 2013. Ma quella dell’ingresso nell’Unione è solo una delle questioni sul tavolo dei lavori del Governo serbo, tra le altre troviamo il gasdotto South Stream e gli armamenti nella ragione balcanica

UNO SGUARDO ALL’UNIONE… – Quando la notizia è giunta nel Paese, le reazioni di giubilo sono state ben più contenute tra la gente comune che non tra gli apparati di governo: il popolo di una Nazione che è reduce da poco più di un decennio da guerre ed embarghi, ed ora lanciata nella propria ricostruzione e nell’ammodernamento, è interessato più al ritorno economico che ai successi simbolici. Certo una cauta soddisfazione non è mancata, ma sono ben altri i risultati attesi dai Serbi. Da parte del Governo Tadic tutt’altro tipo di reazioni; secondo il ministro per il Kosovo e Metohija Goran Bogdanović “l’ottenimento della candidatura UE dimostra che si può condurre allo stesso tempo una politica pro-europea e una politica che difenda gli interessi statali e nazionali senza rinunciare a parti del proprio territorio”. Sicuramente la questione kosovara sarà uno dei temi più importanti tra le condizioni imposte dall’UE per la definitiva adesione serba: improbabile che si chiederà il riconoscimento del Kosovo, ma un miglioramento delle relazioni tra i due Stati sarà un requisito strettamente necessario per il successo dei negoziati serbo-europei; se l’Unione vorrà gestire efficacemente questa adesione, dovrà infatti trarre insegnamento dalla lezione ricevuta da Cipro e le sue relazioni con la Turchia (un ostacolo formidabile per l’ingresso di quest’ultimo Paese nell’UE), pena il rischio di trovarsi una penisola balcanica inglobata solo in parte nell’organizzazione regionale (i membri UE godono del potere di veto in tema di ammissioni dei nuovi membri). Altre condizioni imposte alla Serbia saranno sicuramente l’ottenimento di risultati nella lotta alla criminalità, interna ed internazionale, i rapporti di indipendenza tra esecutivo e giudiziario, nonché la sicurezza dello Stato di diritto.

UNO ALLA SITUAZIONE INTERNA… – Insomma saranno richieste alla Serbia numerose riforme, ed è proprio per l’esigenza di riformare il Paese che Tadic si è dimesso anticipatamente per andare a nuove elezioni il 6 maggio, stessa data delle elezioni amministrative e legislative. La volontà di evitare un permanente stato di campagna elettorale è stato appunto addotto da Tadic come motivo delle proprie dimissioni, così che il futuro Governo possa lavorare in tutta tranquillità nella formulazione delle prossime importanti misure. È stato senza dubbio un atto di grande responsabilità quello dimostrato dal presidente, ma il riscontro tra le persone tarda a palesarsi: i sondaggi danno un testa a testa tra Tadic (presidente del Partito democratico) e Nikolic (leader dei conservatori del Partito del progresso serbo), i due favoriti nella corsa alla carica di presidente; ci sono poi altre 10 candidature, con aspiranti presidenti per ogni gusto degli elettori serbi, dai candidati delle minoranze ungheresi e musulmane passando per quelli di socialisti e liberaldemocratici fino ad arrivare all’ultranazionalista Jadranka Seselj, moglie di Vojislav Seselj, quest’ultimo sotto processo al Tribunale Penale Internazionale per crimini di guerra. Una corsa serrata, dunque, ed il cui risultato non mancherà di incidere sul dialogo con l’UE da una parte e con il resto della penisola balcanica dall’altra.

ED UNO AI BALCANI – Nell’area balcanica la parola d’ordine è ora “cooperazione”: cooperazione energetica, ma anche cooperazione in tema di disarmo. Il 12 aprile si è tenuto a Belgrado un importante incontro di ministri della difesa e delegazioni militari dei Paesi SEECP (SouthEast European Cooperation Process), il cui punto di discussione principale è stato l’accrescimento della cooperazione regionale. Il ministro serbo Dragan Sutanovac ha affermato che l’integrazione europea è l’obiettivo strategico della Serbia e che la cooperazione regionale è uno dei pilastri della politica estera di Belgrado; al meeting si è dunque discusso di riduzione degli armamenti, così da continuare sulla strada della stabilizzazione della zona, con l’approccio pragmatico derivante dalla presa in considerazione della situazione di ogni singolo Paese. Sul fronte della cooperazione energetica l’incontro tra i ministri BSEC (Black Sea Economic Cooperation) ha avuto luogo l’11 aprile sempre a Belgrado; scopo dell’incontro l’intensificazione del dialogo in tema di approvvigionamento energetico e, logica conseguenza, infrastrutture… Infrastrutture come South Stream, il gasdotto che, passando dal Mar Nero, giungerà nei Balcani e qui si dividerà in due rami, quello meridionale che attraverso Grecia e canale di Otranto terminerà in Italia, e quello settentrionale che arriverà in Austria. E se l’Austria è la destinazione, la Serbia è tappa obbligata: il tratto di gasdotto che transiterà per la repubblica slava coprirà tra i 415 e i 440 km per un investimento di circa 1,7 miliardi di euro. A detta di Petar Skundric, consigliere energetico del Governo di Belgrado, i lavori di questo tratto cominceranno tra novembre e dicembre prossimi. Una data importante del cammino della Serbia verso l’indipendenza dai volubili rapporti Mosca-Kiev.

Matteo Zerini [email protected]

Bahrain, primavera in prognosi riservata

Ad oltre un anno dagli scontri di piazza tra manifestanti e forze di polizia, la situazione nella piccola isola del Golfo è rimasta sostanzialmente immutata. Infatti, il regime sunnita di Re Hamad bin Isa al-Khalifa sta vivendo una difficile stagione di stabilità che rischia di aggravare ulteriormente il conflitto sociale ancora in corso. Nonostante le buone intenzioni e le promesse di riforme della famiglia reale, il processo di pacificazione del Paese sembra essere ancora un lontano miraggio

 

IL QUADRO DELLE PROTESTE – Le manifestazioni in corso da oltre un anno pur avendo al centro rivendicazioni di carattere economico, politico e sociale, esse affondano le proprie radici nel fattore religioso. Le proteste sono state, infatti, in larga parte indette dalla popolazione sciita – la maggioranza della popolazione totale dell’isola (il 70% secondo i dati del CIA World Factbook) e da sempre penalizzata in ogni ambito della società – e dirette contro il governo e la famiglia reale sunnita degli al-Khalifa. Il movimento giovanile “14 Febbraio” e il partito islamico sciita al-Wafaq hanno guidato le proteste di questi mesi e chiesto al governo e al Re una reale volontà riformatrice. La corona bahrainita, dapprima, ha risposto alle richieste minimizzando la contesa e accusando l’Iran ed Hezbollah di fomentare le istanze sciite in funzione settaria e, in contemporanea, reprimendo duramente i manifestanti, anche con l’aiuto delle truppe saudite e qatarine inviate lo scorso marzo dai Paesi del GCC (Gulf Cooperation Council).

 

IL DISCORSO DEL RE – Dopo mesi di contesa e lotta, lo scorso giungo, il Sovrano ha promosso una commissione d’inchiesta indipendente – “Bahrain Independent Commission of Inquiry” (BICI) – volta a trovare quelle soluzioni utili a garantire un processo di pacificazione nel Paese. Ma i risultati della commissione d’inchiesta sono stati modesti e hanno messo in evidenza un responso molto chiaro: oltre ad aver sottolineato i numerosi episodi di abusi dei diritti umani e torture sistematiche nei confronti degli oppositori al regime, il report ha sottolineato come sia urgente in Bahrain introdurre un consistente pacchetto di riforme capaci di dare avvio a cambiamenti radicali nell’economia, nella politica e nella vita pubblica e sociale nazionale. Nonostante l’iniziativa promossa dal governo, la situazione nel Paese non è cambiata a causa della perdurante volontà delle autorità bahrainite di non affrontare le principali criticità della piccola isola: il mancato rispetto delle opposizioni politiche-religiose e, conseguentemente, la loro assenza dalla scena pubblica e politica nazionale, nonché la definizione di una struttura economica indipendente dal petrolio e più improntata alla finanza.

 

RIFORME, CITTADINANZA E PROMESSE – Sebbene il governo negli anni si sia fatto promotore di alcune iniziative riformatrici di secondo piano – come ad esempio, l’abrogazione del precedente Codice Penale del 1974, l’abolizione della Corte di Sicurezza dello Stato (fondata nel 1972 e ampliata nel 1995) e la concessione della cittadinanza a più di 10.000 bidun (i residenti non-nazionali, per lo più di origine iraniana, ma anche baluci, indiani e giordani) –, non ci sono dubbi che gli sciiti bahrainiti continuino ad essere la categoria più discriminata della società nazionale. Infatti, solo i sunniti dispongono di una cittadinanza attiva e possono anche godere dei relativi diritti sociali, economici e politici. Al fine di evitare un ulteriore aggravarsi della crisi politica interna, lo scorso gennaio, durante un’intervista alla TV di Stato avvenuta, il Re ha formalmente assunto una serie di impegni che prevedono provvedimenti di carattere legislativo-istituzionale e investimenti economici per oltre 14 milioni di dollari per aiutare i lavoratori nazionali, per porre le basi di una vera riforma del mercato del lavoro e per diversificare ulteriormente le entrate statali fortemente dipendenti dalle rendite petrolifere (circa il 67% del PIL, secondo i dati del CIA World Factbook).

 

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IL GATTOPARDO E GLI AL-KHALIFA – Tuttavia, le riforme annunciate dal Sovrano sono identiche a quelle promosse, in più occasioni, nel corso degli ultimi dieci-quindici anni: infatti, nel febbraio 2001, la monarchia degli al-Khalifa aveva promosso, attraverso un referendum popolare, un “programma quadro” di riforme denominato “National Action Charter”, preliminare alla concessione di una nuova Carta Costituzionale. Oggi come allora, le proposte di cambiamento politico-sociale riguardano gli stessi temi: maggiore potere al Consiglio della Shura (Consiglio dei rappresentanti o camera bassa del Parlamento), cambiamento della Costituzione, legalizzazione dei partiti politici e dei sindacati, accettazione dei sciiti come forza politica legale nella vita pubblica e di governo nazionale, nonché, infine, un maggiore rispetto dei diritti umani e delle minoranze religiose. Ma i manifestanti e le opposizioni chiedono vere riforme costituzionali capaci di garantire fin da subito un percorso di rinnovamento nel Paese come, ad esempio, una significativa riforma costituzionale che permetta loro di eleggere liberamente i membri del Parlamento e il Capo del Governo, un riequilibrio tra il potere esecutivo e quello legislativo, un rafforzamento del ruolo del Parlamento attraverso lo strumento della sfiducia parlamentare, una limitazione dei poteri dell’esecutivo, il rilascio dei detenuti politici e la creazione di nuovi posti di lavoro, uscendo così dalla marginalizzazione politica ed economica cui sono stati relegati.

 

IL SENTIERO TORTUOSO VERSO LA PACE SOCIALE – Oggi come dieci anni fa le riforme promesse dalla monarchia sunnita sono rimaste inattuate e la situazione interna al Paese è divenuta sempre più esplosiva. Purtroppo, l’indolenza e l’incuranza verso la questione sciita da parte degli al-Khalifa ha prodotto negli ultimi 13 mesi soltanto una radicalizzazione delle posizioni e una marginalizzazione della politica a favore di un irrigidimento del regime, lasciando scoperti e inalterati i molti nodi al pettine della crisi politica interna. La presenza del contingente americano nell’isola non fa che condizionare l’esito di una qualsisasi rivoluzione dal basso che rimetta in discussione i diritti di Washington sul prezioso avamposto nel Golfo Persico. Pertanto, il futuro del Bahrain sembra essere ancora incerto e lontano da un qualsivoglia percorso di pacificazione nazionale, quale punto d’arrivo del capitolo made in Manama della Primavera Araba 2011.

 

Giuseppe Dentice

Musica Maestro

L'ultima settimana del mese di aprile si apre con la sorpresa scontata in terra di Francia dove Hollande scavalca seppur di poco l'uscente Sarkozy nella sfida per l'Eliseo, i Paesi Bassi restano senza esecutivo dopo la crisi aperta dallo scomodo Wilders, la crisi fa così la sua nuova vittima in Europa. L'America si stringe intorno a Chicago dove si riuniscono i Nebel per la Pace proprio mentre Obama darà un discorso pubblico contro il genocidio e i crimini contro l'umanità. Suu Kyi è pronta a dare battaglia per mostrare a tutti il nuovo ruolo della LND, mentre in Afghanistan si attendono le reazioni per l'accordo sulla partnership strategica. L'Africa resta in balia delle crisi tra Juba e Khartoum e il golpe in Guinea proprio quando l'Etiopia si alza in punta di piedi. Con la situazione in Siria appesa all'impegno degli osservatori ONU e l'Iran che si adatta al nuovo capitolo della crisi, riprendiamo il nostro sguardo nell'orizzonte delle relazioni internazionali

EUROPA

Lunedì 23 – Sembra paradossale ma nella patria della democrazia l'unica attesa nel primo turno delle presidenziali 2012 è quella per la reazione dei mercati ai risultati di Domenica notte. In sintesi, lo spoglio delle urne ha sancito la sfiducia morale a Sarkozy, la promozione provvisoria di Hollande e l'euforia dell'eroina della destra Marine Le Pen. La verità però è che niente è meno definitivo del responso di ieri dell'elettorato francese, dato che, con 2 settimane di campagna elettorale, accordi e patti di ferro, tutto potrebbe cambiare di nuovo. In ogni caso Nicolas Sarkozy dovrà guardarsi dall'ombra del Front National forte del risultato storico che getta dubbi sul futuro della società interetnica francese, mentre al moderato Bayrou si promette il ruolo di ago della bilancia. Appuntamento quindi al 6 maggio, la data in cui nessun posticipo sarà più possibile e l'Eliseo avrà finalmente il suo inquilino per i prossimi 5 anni.

Lunedì 23 – I ministri degli esteri dei 27 membri dell'UE si riuniscono in Lussemburgo per il Consiglio degli Affari Esteri, sotto la guida di Catherine Ashton. Le voci del programma spaziano dalla situazione in Myanmar dopo le elezioni, passando dalle condizioni della Bosnia, fino agli sviluppi in Siria e in Afghanistan. Durante la cerimonia del pranzo ci sarà spazio per il piano di pace per il Medio-Oriente mentre più tardi l'attenzione sara rivolta ai negoziati sul nucleare iraniano dopo l'incontro del 14 Aprile a Istanbul.

Lunedì 23 – Attesa e preoccupazione oscurano il lunedì nei Paesi Bassi dopo la crisi di governo aperta dal leader xenofobo Geert Wilders contro il premier Mark Rutte, protagonista di tagli drammatici e del piano d'austerità necessario ma scomodo. Naturalmente la prima reazione sarà quella degli onnipresenti mercati, che potrebbero spingersi fino al declassamento dei titoli olandesi, in attesa delle probabili elezioni anticipate. Wilders ha messo fine al pactum sceleris preoccupato dalla reazione popolare al progetto di taglio di bilancio di 16 miliardi di euro, per portare il rappoorto deficit-PIL alla soglia del 3% sponsorizzata dall'UE. "Non lasceremo scorrere il sangue dei nostri pensionati a causa di Bruxelles'' con queste parole Wilders ha sancito la fine dell'alleanza con i democristiani e i liberali, preparandosi a ricevere l'elettorato colpito dalla crisi e dall'austerità.

AMERICHE

Lunedì 23 – In attesa dell'evento del 20-21 maggio del Summit NATO 2012, Chicago ospita il dodicesimo summit mondiale dei Nobel per la Pace per la risoluzione pacifica dei conflitti internazionali. Tra gli altri Mikhail Gorbacev, Jimmy Carter, Lech Walesa e Frederik Willem de Klerk si ritroveranno nella città di Obama per dibattere sul tema "Speak Up, Speak Out for Freedom and Rights.” . In giornata sono attesi eventi sponsorizzati da Amnesty International e da International Physicians contro le mine antiuomo e la guerra nucleare. Nonostante l'assenza pesante all'evento di Barack Obama, il presidente terrà lunedì un importante discorso pubblico al museo dell'olocausto, dove sarà introdotto da Elie Wiesel, per confermare l'impegno statunitense contro le atrocità e i crimini di massa.

Lunedì 23 – E' atteso nelle prossime 24 ore una direttiva presidenziale per garantire la base legale alle sanzioni americane contro l'uso delle tecnologie moderne nell'attuazione di abusi e crimini contro l'umanità. Niente più invenzioni tecnologiche verso Siria, Iran e Nord Africa, se non con il nullaosta di Washington, dato che le sanzioni mirate contro gli individui e i privati sembrano le uniche a funzionare. L'annuncio sarà dato dallo stesso Obama durante il discorso al museo dell'olocausto, per confermare l'attualità della lotta al genocidio in tutti gli angoli del pianeta. Ultimamente il Presidente USA ha inoltre richiesto un National Intelligence Estimate, un rapporto consensuale delle varie agenzie, per stimare la potenzialità dei crimini di massa e gli interessi nazionali in gioco.

ARGENTINA – L'annuncio dell'esproprio e della nazionalizzazione dei pozzi petroliferi della società YPF Gas, una controllata REPSOL lasciata a mani vuote in Argentina a causa del nuovo piano di nazionalizzazione di 1000 siti estrattivi. Sembra scontato il ricorso di REPSOL presso un arbitrato internazionale a causa del netto rifiuto del viceministro per l'economia di Axel Kicillof per quanto riguarda il pagamento dell'indennizzo. In pochi però nella terra dell'argento sembrano aver fiutato la nuova partnership strategica del governo della Casa Rosada con la multinazionale cinese del greggio SINOPEC, cui YPF Gas era già stata offerta. Anche l'italiana ENI si è detta pronta ad investire in Argentina, ma solo a patto di ricevere contributi statali per la ricerca e la stima delle fonti ad alta tecnologia, vitali soprattutto per la ricerca dello shale gas.

AFRICA

Lunedì 23 – Giornata decisiva quella di oggi per il destino della Guinea Bissau, il piccolo stato occidentale base preferita del narcotraffico internazionale verso i poorti europei, dopo il colpo di stato che ha seguito le elezioni di aprile. La Banca Mondiale ha giò sospeso fondi e aiuti al paese, che è stato provvisoriamente sospeso dall'Unione Africana e a breve anche dall'ECOWAS. Giovedì le nazioni di lingua portoghese rappresentate da Georges Chikoti, ministro deglu esteri angolano, hanno iniziato i preparativi presso l'ONU per discutere il dispiegamento di una forza di peace-keeping. "Il tempo è di importanza essenziale, non possiamo permetterci di aspettare e lasciare i civili in balìa dei militari" con queste parole sono state accolte le minacce di sanzioni da parte del Consiglio di Sicurezza e dell'ECOWAS, mentre si attende la reazione della junta ad interim.

SUDAN-SUDAN DEL SUD – Continua lo stallo dilomatico militare tra lo stato più giovane del sistema internazionale e l'ex patria comune, mentre la Comunità Internazionale si propone come arbitro in caso di una vera e propria escalation. Vernerdì il Presidente americano Barack Obama ha avvertito i duellanti delle piaghe della guerra invitandoli al negoziato e ad una soluzione pacifica della controversia sui giacimenti e sugli oleodotti. Nel frattempo anche il Capo di Stao Maggiore dell'Esercito ugandese Aronda Nayakairima ha promesso il suo sostegno a Juba in caso di guerra vera e propria, con Nairobi alla finestra dopo l'uccisione di un connazionale nel corso dei bombardamenti. L'alto ufficiale ugandese ha inoltre proposto a Kampala un progetto per un'armata integrata della regione dei grandi laghi, per coordinare gli sforzi di Uganda, Kenya ed Etiopia contro le minacce latenti. Per ora l'offensiva di domenica lanciata di Khartoum per 9 km all'interno del territorio di Juba sembra concentrarsi attorno agli oleodotti, in particolare nella zona di Heglig. La guerra toale è dietro l'angolo, non resta che attendere le risposte dei due guerrieri.

ETIOPIA – Nell'instabilità geenrale dell'Africa orientale, il Sud Sudan e la Repubblica di Somalia hanno recentemente richiesto l'adessione all'EAC, la comunità integrata sponsorizzata dall'Etiopia per mettere in atto le aspirazioni verso l'egemonia regionale. La vicenda è legata a doppio filo al progetto LAPSSET, un megaporto da 26 miliardi di dollari in grado di ricevere un autostrada, una ferrovia, un sistema a fibra ottica e un oleodotto dal Sudan del Sud. L'accordo si propone inoltre di estendere l'ombrello della pace e della sicurezza regionale contro le nubi con Khartoum e le iniziative dell'Eritrea in Somalia. Sembra dunque scontato il fluire di potrere e prestigio dagli attori tradizionali come Kenya, Uganda e Tanzania verso Addis Abeba con l'impegno verso la Somalia come spettro d'interpretazione del fenomeno.

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ASIA

AFGHANISTAN – Nonostante l'ennesimo, inscusabile ed imbarazzante scandalo mediatico sui soldati americani in Afghanistan, i negoziatori per la partnership strategica tra Kabul e Washington hanno raggiunto una bozza finale nella serata di domenica. L'accordo per le condizioni della permanenza dei militari americani dopo la fatidica scadenza del 2014 contiene tuttavia molti punti delicati, tra cui lo status delle basi e le regole d'ingaggio. Toccherà così ai processi nazionali di ratifica portare a galla le incertezze e le ombre del nuovo passo della standing army statunitense, mentre continua nell'est l'avanzata 2012 dei taliban. La palla passa ora al Summit NATO di Chicago in programma a Maggio, dove verrà discusso il sostegno finanziario ai 352mila membri delle forze di sicurezza. La cifra potrebbe aggirarsi attorno ai 4 miliardi di dollari all'anno con un contributo di 500 milioni da parte del governo di Kabul.

HONG KONG – Altro capitolo dell'abituale appuntamento con gli scandali diplomatico-internazionali, stavolta il set è Hong Kong, dove il vice-console dei Paesi Bassi Raymond Poeteray avrebbe condotto attività di spionaggio per la Federazione Russa dal 2008. Il caso è legato a doppio filo alla tragicommedia della spia russa Anna Chapman, che ora conduce una nuova vita da star delle copertine glam. Tuttavia non è il primo lampo a gettare ombre si Poeteray che nel 2004 avrebbe adottato e poi abbandonato una minore sudcoreana, a causa della sua freddezza emozionale. La notizia è giunta solo ora ad Hong Kong, pubblicata dal South China Morning Post dopo le prime fasi del processo proiettando lo scompiglio generale nella rete diplomatica della città.

Lunedì 23 – Il futuro della road-map democratica in Myanmar dipende da una parola del giuramento che i nuovi membri del parlamento nazionale sono obbligati a pronunciare nella prima seduta. La Lega Nazionale della Democrazia ha richiesto formalmente che il termine "proteggere la Costituzione" venga cambiato in "rispettare la Costituzione", con la minaccia di disertare la sessione qualora la formula dovesse restare così com'è. Secondo gli esperti della rinascita di Suu Kyi la richiesta formale al premier Thein Sein, ieri in visita a Tokyo, non metterebbe in discussione l'impegno della LND per una riforma del paese. E' quindi probabile che la minaccia di boicottaggio sia solamente la prima di una lunga serie di azioni dimostrative per manifestare pubblicamente la presenza nell'Assemblea Nazionale.

MEDIO-ORIENTE

EGITTO-ISRAELE – Illeso eccellente della primavera araba di piazza Tahrir, l'accordo per il commercio di gas tra Il Cairo e Gerusalemme è stato annullato nella serata di domenica dalla Egyptian Natural Gas Holding Company. Anche se la carica massima dell'istituzione Mohamed Shoeb ha parlato di motivazioni commerciali e non politiche, risulta difficile credere che Israele, dipendente dal gas egiziano per circa il 40% del fabbisogno interno, non abbia pagato negli ultimi 4 mesi. Con questa giustificazione la questione è stata sottoposta ad arbitrato internazionale per evitare una guerra di parole inutile e rischiosa vista la situazione in Medio-Oriente. Si attendono ora nuovi sviluppi in quel dell'eastern basin, il giacimento al largo di Israele conteso con Ankara per la presenza a Cipro Nord.

IRAN – Niente sembra più come prima dopo i negoziati di Istanbul del 14 Aprile del gruppo 5+1 sulla proliferazione made in Teheran, dove il capo negoziatore iraniano Saed Jalili ha promesso un impegno personale verso la soluzione diplomatica della questione. Intanto abbiamo un nuovo appuntamento sull'agenda, con i colloqui di Baghdad del mese prossimo a sancire se e come le parole potranno rimpiazzare la minaccia dei fatti. La pressione elettorale su Barack Obama continua intanto con l'annuncio della messa in produzione del primo drone iraniano ricavato dai dati dell' RQ-170 Sentinel atterrato in Iran mesi fa per sbaglio. Il piano americano per la bomba degli Ayatollah sembra ora dirigersi verso il riconoscimento del ruolo regionale di Teheran, con un occhio vigile sull'opinione pubblica di Gerusalemme in vista delle elezioni di novembre.

SIRIA – Si dividono gli 8 osservatori della missione esplorativa dell'ONU per il dispiegamento di 300 membri incaricati di vigilare sul cessate il fuoco tra forze di sicurezza ed Esercito Libero Siriano. Due ufficiali hanno accettato di restare ad Homs, capitale delle violenze, in qualità di garanti della tregua vacillante che dopo 2 mesi ha garantito la prima giornata senza morti e bombardamenti. Lunedì il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si riunisce a New York per stabilire le modalità di dispiegamento del corpo di osservatori, dopo il feedback degli 8 in prima linea. Rimangono tuttavia dubbi ed incertezze sulle misure messe in atto dato che il metodo di guerriglia adottato dall'ESL prevede ritirate improvvise ed attacchi terroristici, rendendo quasi impossibile la definizione di linee di contenimento e zone cuscinetto. L'ONU cerca in realtà di istituzionalizzare una guerra senza quartiere, senza un controllo univoco e un'organizzazione compatta, rischiando così di regalare tempo prezioso a Bashar al Assad.

Fabio Stella [email protected]

A me il petrolio

Le dichiarazioni bellicose del governo Kirchner giungono infine al loro naturale sbocco: lo stato argentino torna in possesso della maggioranza delle quote azionarie della YPF, inaugurando un periodi di sicure tensioni con la spagnola Repsol e il paese guidato da Mariano Rajoy. Chi ha ragione? Buenos Aires, che reclama una carenza di investimenti da parte della compagnia petrolifera, o Madrid che vede i propri IDE nel Paese sudamericano a rischio? 

 

L’AZIONE DEL GOVERNO ARGENTINO – Alla fine c’è riuscita. In seguito a mesi di voci sempre più ricorrenti, attacchi niente affatto velati contro i dirigenti della compagnia e dopo che ben sei province (ultima quella di Santa Cruz, lo scorso 12 aprile) avevano optato per il ritiro delle proprie concessioni alla YPF, la Presidente Cristina Kirchner si è decisa a compiere l’ultimo passo: è di lunedì la notizia che il governo argentino ha deciso di inviare un progetto di legge al Parlamento per privare la Repsol della quasi totalità delle proprie azioni in seno alla YPF. A meno di improbabili sorprese (il progetto pare trovare ampia approvazione all’interno del Congreso), dunque, la compagnia petrolifera spagnola, che finora deteneva il 57% delle quote, si vedrà sottrarre la proprietà del 51% delle azioni complessive della sua costola argentina. Il progetto di legge prevede che le azioni espropriate diventeranno proprietà per il 51% dello Stato federale, mentre per il 49% passeranno sotto il controllo delle province. Dunque, ricapitolando, il nuovo assetto della compagnia dovrebbe essere il seguente: la Nación argentina avrà in mano il 26,01% delle azioni, le province il 24,99%, la ricca famiglia argentina Eskenazi conserverà il proprio 25,46%, mentre alla Repsol rimarrà in mano appena il 6,43%. Il restante 17,09%, invece, continuerà ad appartenere ad azionisti minori. L’iniziativa di legge prevede inoltre che l’intera attività venga dichiarata “di interesse pubblico nazionale”, tanto che nel caso futuri governi vogliano nuovamente privatizzare le azioni appena entrate in mano pubblica, essi dovranno contare su una maggioranza qualificata di 2/3 dei voti del Congreso. Per quanto riguarda invece l’ammontare dovuto alla Repsol, questo sarà deciso nel prossimo futuro dal Tribunal de tasaciones de la Nación.

 

PERCHE’? – Come si spiega una misura tanto sfrontata e aggressiva nei confronti della Repsol? Semplicemente, secondo la versione argentina, essa è colpevole di non aver investito abbastanza nelle attività di estrazione, causando una caduta della produzione di petrolio e gas rispettivamente del 18% e dell’11%. Tutto ciò, per le autorità argentine, al fine di tenere i prezzi artificiosamente elevati, causando naturalmente danni enormi all’intera economia del paese e spingendo ancora più in alto il tasso d’inflazione (secondo stime non ufficiali, ma più affidabili di quelle governative, ci si avvia ormai verso il 30%). “Per la prima volta in 17 anni ci siamo trovati costretti ad importare gas e petrolio”, ha tuonato la Kirchner, addossando alla Repsol tutte le colpe di questa situazione e ricordando, manco a dirlo, il defunto marito (ed ex presidente) Néstor, cui “sarebbe piaciuto molto partecipare a questa decisione”.

 

LE REAZIONI DALLA SPAGNA – I commenti dalla penisola iberica non si sono ovviamente fatti attendere. Già alla vigilia della decisione, quando le voci sulla nazionalizzazione circolavano vorticosamente, Madrid aveva messo in guardia la propria ex colonia delle serie conseguenze che tale presa d’atto avrebbero comportato: “Qualunque aggressione alla Repsol che violi i principi di sicurezza giuridica sarà interpretata come un’aggressione alla Spagna”, era stata la minaccia sin troppo esplicita del Ministro degli Esteri Margallo. Che però non ha frenato il governo argentino nelle sue intenzioni. Lo stesso Margallo ha poi sottolineato come l’esproprio ai danni della Repsol “causi la rottura delle relazioni all’insegna dell’amicizia e della cordialità” tra i due paesi; dichiarazioni speculari sono state rilasciate dal Ministro dell’Industria Soria, che ha comunicato di essere già al lavoro per far entrare in vigore “misure chiare e contundenti” ai danni dell’Argentina, mentre il presidente spagnolo Rajoy ha addirittura posto in evidenza come il provvedimento “possa causare gravi danni all’intera regione sudamericana”.Da parte sua la Repsol, per bocca del suo presidente Antonio Brufau, ha anch’essa fatto intendere come una tale misura “non resterà impunita”, accusando la Kirchner di aver realizzato “un atto illegittimo in seguito a una campagna di accuse, volta a far crollare le azioni della YPF e permettere un’espropriazione a prezzi di saldo”. Aggiungendo che la compagnia cercherà di ottenere una compensazione di almeno 10,5 miliardi di dollari (8 miliardi di euro): vale a dire l’equivalente del prezzo di ogni azione (46,55 dollari) moltiplicato per la quota del 51% che si intende nazionalizzare. Dati alla mano, spiegano dai piani alti della Repsol, quanto sostenuto dal governo argentino sugli investimenti della compagnia semplicemente non corrisponderebbe a verità: nel 2012 gli investimenti previsti ammonterebbero infatti a 3,4 miliardi di dollari, il valore più alto di sempre e superiore all’anno precedente di 500 milioni di dollari. Secondo uno studio pubblicato dal quotidiano iberico El Pais, inoltre, le cause della minore redditività dei pozzi petroliferi argentini non avrebbero nulla a che vedere con le quote investite dalla Repsol, e sarebbero piuttosto da ricercare nel declino naturale di produttività di quelle sorgenti di petrolio che hanno superato il proprio zenit produttivo. Riportando cifre fornite dall’Agenzia internazionale dell’energia (AIE), lo studio dimostra come la caduta della redditività di tali fonti sarebbe quantificabile interno al 6,1%, percentuale in linea con quella dei giacimenti presenti negli Stati Uniti e al di sotto della media mondiale del 9%. Queste saranno le ragioni che la Repsol porterà in un arbitrato internazionale (con ogni probabilità quello della Banca Mondiale) per dimostrare l’illegittimità della misura intrapresa, e chiedere un ingente risarcimento al governo argentino.

 

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QUALI CONSEGUENZE? – La strada intrapresa dall’Argentina è ormai chiara da tempo: scottata dal fallimento del 2001, e individuatene le cause nelle ricette liberiste imposte dal FMI, il governo sta optando da diversi anni per un massiccio intervento pubblico nell’economia del paese. È insomma la politica che prende nuovamente il sopravvento sull’economia, cercando di indirizzarne l’andamento verso obiettivi prefissati negli uffici della Casa Rosada. L’operazione di nazionalizzazione della YPF si inscrive perfettamente in questo quadro, seppur che essa possa dimostrarsi vincente è tutto da dimostrare. Di sicuro, la misura non contribuirà a rendere maggiormente attraente per gli investimenti stranieri un paese che, secondo la Banca Mondiale, già si posiziona al 113esimo posto per quanto concerne la facilità di intraprendere un’attività economica. Da parte sua, per la Spagna si tratta di un altro duro colpo in uno dei momenti più difficili della propria storia post-franchista. Mentre i titoli di stato continuano a schizzare verso l’alto, le voci di un soccorso da parte dell’UE si fanno sempre più ricorrenti e i continui tagli alla spesa sociale rischiano di mettere ulteriormente in ginocchio un paese già duramente provato dalla crisi economica, la perdita di un asset di tale rilevanza è sicuramente un fatto grave. Resta ancora da vedere quali saranno le misure di rappresaglia “diplomatiche, commerciali, industriali ed energetiche” intraprese dal paese di re Juan Carlos (che proprio pochi giorni fa si è rotto l’anca durante una battuta di caccia agli elefanti in Botswana). La Spagna occupa tutt’oggi uno spazio importante in diversi settori economici argentini: si va da quello energetico (Edesur, che distribuisce energia a 2,4 milioni di clienti) al bancario (Santander e BBVA), passando per l’ambito tecnologico (Elecnor, che ha appena avviato la costruzione del più grande parco fotovoltaico del paese) e quello delle comunicazioni (Telefonica e i suoi 23 milioni di clienti). Se a ciò aggiungiamo le pressioni che Madrid potrebbe esercitare nei vicini paesi sudamericani per quanto riguarda la questione Malvinas, possiamo ben renderci conto di quanto numerose e affilate siano le armi a disposizione di Rajoy per far pagare caro alla Kirchner la sua scelta.

 

Antonio Gerardi (da Buenos Aires)