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Faccia a faccia nel Mar Cinese Meridionale

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Continua l'impasse politica tra Cina e Filippine iniziata dopo la scoperta di alcuni pescherecci cinesi nella secca di Scarborough. La notizia era arrivata a pochi giorni dall'annuncio di un accordo fra Vietnam e Russia per l'estrazione di gas nel Mar cinese meridionale. E la tensione continua a salire

Tratto da “China Files”

 

IL FATTO – Tutto è iniziato nella giornata di domenica 8 aprile, quando un aereo da ricognizione filippino ha avvistato alcune navi ormeggiate nei pressi della secca di Scarborough, al largo dell’isola di Luzo. Ricevuta la segnalazione, Manila ha inviato – probabilmente intuendo l’importanza politica della situazione – la sua più grande nave da guerra, la Gregorio del Pilar, a controllare le imbarcazioni sospette. Nella mattinata di martedì 10 aprile i militari sono arrivati sul posto e si sono trovati di fronte un piccolo gruppo di pescherecci cinesi. Perquisendoli, avrebbero trovato pescecani vivi, vongole e coralli. E, fin qui, nulla di così incredibile. Se si fosse semplicemente trattato di pescatori di frodo trovati a girovagare nel Pacifico la notizia non avrebbe certo fatto il giro del mondo. Ma queste non sono acque qualsiasi. Si tratta del Mar cinese meridionale, una delle aree a maggior rischio di conflitto nel mondo a causa di una rivalità latente che vede protagoniste – fra gli altri – proprio le Filippine e la Cina, che reclamano entrambe la sovranità su questo angolo di oceano. E così, quando mercoledì la Gregorio del Pilar è ritornata per mettere agli arresti i pescatori ha trovato una sorpresa ad attenderla. Due navi della guardia costiera cinese si erano appostate davanti all’ingresso della laguna, impedendo fisicamente il passaggio dei militari. STALLO DIPLOMATICO – È iniziata in quel momento un'impasse diplomatica che dura ancora oggi, a distanza di giorni. Da un lato le imbarcazioni cinesi, dall’altro la nave da guerra filippina. E nessuno vuole concedere un centimetro, perché entrambi i paesi sostengono di essere a casa propria e sanno che un passo indietro verrebbe letto come una resa. Manila ha in seguito ritirato la Gregorio del Pilar sostituendola con una guardia costiera, probabilmente nel tentativo di far calare la tensione. Ma il faccia a faccia continua. Non è bastato l’incontro avvenuto martedì tra l’ambasciatore cinese Ma Keqing e il governo filippino, perché entrambe le parti non hanno fatto che riaffermare la propria posizione. Un passo avanti è stato fatto raggiungendo un accordo sulle modalità per risolvere la questione: solo mezzi diplomatici, niente soluzioni militari. Secondo quanto riporta la Reuters, infatti, il ministro degli esteri filippino, Albert F. del Rosario avrebbe dichiarato che “l’uso della forza è fuori questione”. Al di là di questo punto fermo, tuttavia, i toni sono andati salendo sempre di più. Il Global Times (voce dell’ala radicale del Partito comunista cinese) ha pubblicato un articolo nel quale si sostiene che “i pescatori cinesi hanno bisogno della protezione della guardia costiera, incluso l’aiuto in casi di scontro come questo”, aggiungendo che “bisogna aspettarsi una decisa risposta tesa a difendere i propri interessi da parte della Cina”. GLI INTERESSI IN GIOCO – Ma perché il Mar cinese meridionale rappresenta una questione così viva e capace di infiammare gli animi? Perché Cina, Vietnam, Filippine, Malesia, Indonesia, Taiwan e perfino il piccolo Brunei se lo contendono così aspramente? Si potrebbe obbiettare che stiamo parlando – quasi letteralmente – di una serie di scogli in mezzo al mare. Innanzitutto giova ricordare che sotto a quegli scogli si celano vaste riserve di gas e petrolio. Secondo quanto riportato dalla US Energy Information Administration le stime sono molto variabili ma si parla comunque di decine – se non centinaia – di miliardi di barili di petrolio e di miliardi di metri cubi di gas. Vaste risorse che non possono non fare gola a dei paesi in via di sviluppo, bisognosi di sempre maggiori quantità di energia per mandare avanti il loro sistema economico. Ma la questione è più complicata, perché chiama in causa – soprattutto da parte cinese – forti sentimenti nazionalistici. Come ha spiegato durante un discorso tenuto alcuni mesi fa il professor Zhu Feng, direttore del Centro per gli studi internazionali e strategici dell’Università di Pechino, la politica estera cinese è pesantemente influenzata dalla storia coloniale del paese. La memoria delle angherie passate – rinforzata da una buona dose di moderna propaganda – rende l’opinione pubblica poco incline ad accettare qualsiasi soluzione che includa una cessione di territorio. “Non vogliono passare per dei codardi” concluse allora il professore parlando del governo di Pechino. Del resto, gli altri contendenti non intendono cedere la palla alla nascente grande potenza, e si contrappongono in modo altrettanto netto alle ambizioni di Pechino. Del Rosario, quando la notizia del confronto è diventata di pubblico dominio, si è affrettato a dire che “se verranno sfidate, la Filippine saranno pronte a difendere la propria sovranità”. E chi scrive ricorda come un anno fa, durante una cena accademica a Pechino, un professore filippino avesse privatamente inveito contro la politica cinese sostenendo che “a dar retta a loro, si prenderebbero tutto. Dicono che il Mar cinese gli appartiene perché era cinese già secoli or sono. Ma allora la Mongolia, che a suo tempo invase e conquistò l’Impero di mezzo, dovrebbe reclamare tutta la Cina!”.

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IMPLICAZIONI GLOBALI – Il caso non è solo una questione locale, un disputa isolata figlia di interessi particolari. Si tratta di un problema con risvolti globali. Un po’ perché attraverso il Mar cinese meridionale passano alcune delle principali arterie del commercio internazionale. Un po’ per via di chi è implicato nella vicenda, cioè molte delle principali potenze mondiali, emergenti e non. Washington, in particolare, ha recentemente rafforzato la propria presenza nell’area del Pacifico installando una base militare a Darwin, in Australia, e ponendo l'accento sulla rinnovata attenzione americana per il continente asiatico. Le Filippine sono uno dei principali partner degli Usa nella regione, tant’è che lo scorso novembre Hillary Cliton, parlando – guarda caso – dal ponte di una nave da guerra nella Baia di Manila, aveva elogiato l’alleanza tra i due paesi. Durante il suo discorso il segretario di stato americano aveva anche menzionato il Mar cinese meridionale, chiamandolo “Mare filippino occidentale”. Un termine che solo Manila utilizza e che certo i cinesi non devono aver gradito. E gli Stati uniti non sono l'unica potenza “esterna” a voler dire la propria nella politica di questa regione. Anche altri sono pronti a entrare nella partita. L’ultimo caso è stato quello degli accordi fra Russia e Vietnam per la ricerca e l’estrazione di gas naturale. Agli inizi di aprile il gigante russo Gazprom ha sottoscritto un accordo con Petrovietnam per l’esplorazione dei cosiddetti “blocchi” 05.2 e 05.3, che dovrebbero racchiudere 55.6 miliardi di metri cubi di gas e 25.1 milioni di tonnellate di gas condensato. Un affare per Hanoi e Mosca. Ma per la Cina è un affronto. Già il 4 aprile, infatti, il China Daily riportava la perentoria dichiarazione di Deng Zhonghua, direttore del Dipartimento per i confini e gli affari oceanici del Ministero degli esteri, secondo il quale “la Cina ha un’incontestabile sovranità sulle isole presenti nel Mar cinese meridionale e sulle acque circostanti”.Il quotidiano, inoltre, accusava il Vietnam di essersi intenzionalmente rivolto ai russi per bilanciare l’influenza della Cina nella regione. E sempre il China Daily, nello stesso articolo, riprende le parole del ministro degli esteri indiano, S.M. Krishna, il quale sostiene che la zona sarebbe di proprietà globale, una terra di nessuno e di tutti. Ma alla Cina anche questa teoria non va giù: l’autore conclude infatti che l’India avrebbe rilasciato tali dichiarazioni con l’intenzione di alzare ulteriormente i toni del dibattito. Insomma, il risultato di queste dinamiche è un incontro e uno scontro nel quale potenze grandi e piccole cercano in ogni modo di difendere i propri interessi particolari. Il tutto senza un sistema atto a prevenire l'esplodere dei dissensi. Questa volta, almeno per i pescatori, tutto è andato bene. Il 14 aprile è giunta la notizia secondo la quale i pescherecci cinesi avrebbero lasciato la secca e sarebbero ritornati in patria. Le Filippine hanno dovuto rinunciare alla requisizione del materiale a bordo delle imbarcazioni, il che significa una sconfitta diplomatica per Manila, che non è riuscita a dimostrare di essere padrona delle acque sulle quali reclama la sovranità. LO SCONTRO CONTINUA – Ma il confronto fra le due guardie costiere non è terminato, e l'evento è una prova di come le tensioni vadano crescendo con il passare del tempo. Questo non è certo un buon augurio, né facilita il dialogo fra i paesi dell'area pacifica. Senza contare che in questo modo si vengono a creare situazioni pericolose. Cosa succederebbe, per esempio, se una delle navi che si fronteggiano in queste ore colpisse accidentalmente la parte avversaria? Data la retorica che circonda il problema, la via della diplomazia sarebbe sarebbe difficile da percorrere. Un’escalation diventerebbe una possibilità più che concreta. E sarebbe un disastro. Questo, si, da condividere tutti insieme. Michele Penna (da Pechino)[email protected]

Coppia di fatto…in guerra

Tra Sudan e Sudan del Sud ormai è guerra: Juba ha occupato la regione petrolifera di Heglig, nella quale si estrae metà dell’oro nero del Nord, mentre Khartoum ha replicato bombardando la città oltreconfine di Bentiu. In Guinea Bissau continua lo stato di fermo del Presidente e del Primo ministro, ancora nelle mani dei militari, mentre l’ECOWAS tenta una difficile mediazione su mandato dell’Onu. La presidenza della Banca mondiale è stata affidata a Jim Yong Kim, ma in Africa molti sono stati favorevoli all’esclusione di Ngozi Okonjo-Iweala. Nel Puntland si approva la nuova Costituzione. Il Ruanda alle prese con alluvioni catastrofiche. Nuovi accordi tra Etiopia e Sudafrica. La cooperazione nell’estrazione di gas tra Mozambico e Algeria. La riforma della sicurezza in Congo. In chiusura, un chicco in più sull’ECOWAS

SUDAN E SUD SUDAN: GUERRA DI FATTO – Sebbene ancora non ci siano stati atti politici ufficiali, gli scontri tra Sudan e Sudan del Sud stanno assumendo i connotati di una guerra. La scorsa settimana, infatti, le truppe di Juba sono penetrate nel Kordofan meridionale, occupando la regione petrolifera attorno alla città di Heglig, da cui proviene la metà dell’oro nero di Khartoum. Il Sud reclama questo territorio oltreconfine sulla base sia delle frontiere stabilite al termine della presenza coloniale britannica nel 1956, sia dell’Accordo del 2005, che prevedeva che ogni regione contesa decidesse tramite referendum l’appartenenza a uno dei due Stati. Per risposta, le Forze Armate di Khartoum hanno bombardato installazioni e centri abitati dello Stato dell’Unità, nel Sudan del Sud, non risparmiando la capitale Bentiu. Il Parlamento sudanese, quindi, dopo che al-Bashir aveva già escluso ogni iniziativa di dialogo con l’omologo Salva Kiir, ha approvato una risoluzione nella quale si definisce il Sud quale «Stato nemico». Il conflitto, intanto, ha già costretto quasi 20mila profughi a cercare rifugio in altre regioni, al punto che le organizzazioni umanitarie sono impegnate in una lotta contro il tempo per sostenere l’accoglienza di oltre trecento rifugiati al giorno. A complicare il contesto, aggravando quella che ormai è inevitabilmente una catastrofe, è il rischio che, qualora al-Bashir desse esecuzione al proposito annunciato la scorsa settimana di allontanare i cristiani dal Sudan, un numero non precisato tra 500mila e 700mila persone sia obbligato ad abbandonare il Paese. MISSIONE ECOWAS IN GUINEA BISSAU – Continua la situazione di crisi in Guinea Bissau, caduta la scorsa settimana nelle mani dei militari: il capo dello Stato, Raimundo Pereira, e il primo ministro, Carlos Gomes jr., favorito alle elezioni presidenziali, sono ancora prigionieri dei soldati. Lunedì, Ban Ki Moon, che ha condannato l’accaduto, ha avviato una serie di consultazioni con il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Jean Ping, il ministro degli Esteri portoghese, Paulo Portas, e il presidente dell’ECOWAS, Alassane Ouattara. Proprio la Comunità economica dell’Africa occidentale si è incaricata della difficile negoziazione con i capi del golpe, ma, tuttora, sembra che la giunta militare non abbia acconsentito che a un generico impegno per il ritorno alla normalità. Nel frattempo, l’Unione Africana ha sospeso la Guinea Bissau dall’Organizzazione. LA SCONFITTA DI OKONJO-IWEALA – Niente da fare per Ngozi Okonjo-Iweala: la Banca mondiale, infatti, ha scelto di affidare l’incarico di Presidente al candidato statunitense, il medico e antropologo Jim Yong Kim, già insignito di ruoli e premi prestigiosi, nonché inserito nella lista di “Time” delle cento personalità più influenti del 2006. L’esclusione del ministro delle Finanze nigeriano, tuttavia, ha diviso l’opinione pubblica africana molto più della sua candidatura. Nonostante il sostegno da parte di figure autorevoli e di molti cittadini in tutto il continente nero, non sono mancati coloro che hanno giudicato positivamente la decisione della Banca mondiale, ritenendo che Okonjo-Iweala fosse eccessivamente compromessa con il contestato capo di Stato della Nigeria, Jonathan Goodluck. LA NUOVA COSTITUZIONE DEL PUNTLAND – Per quattro giorni, tra domenica 15 e mercoledì 18 aprile, si è tenuta a Garowe la Costituente per l’adozione della nuova Carta del Puntland, Stato somalo proclamatosi autonomo, ma non indipendente, da Mogadiscio. Il testo approvato è stato discusso da quasi cinquecento delegati, compresi gli anziani delle tribù e gli esperti di diritto islamico, chiamati a valutare, rispettivamente, l’aderenza della Costituzione alla tradizione e ai dettati religiosi.

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RUANDA PIEGATO DALLE ALLUVIONI – Secondo fonti ufficiali del Ruanda, il maltempo che ha colpito le regioni settentrionali e occidentali del Paese avrebbe causato un numero tuttora imprecisato di morti e di sfollati. Le piogge sono cadute incessantemente nei distretti di Musanze, Nyabihu e Rubavu per tutta la scorsa settimana, inondando circa mille ettari di terra e distruggendo molte infrastrutture. Alcune zone restano al momento raggiungibili solo per via aerea: le Autorità e la Croce Rossa del Ruanda stanno ancora cercando di individuare decine di persone rimaste isolate. NUOVI ACCORDI TRA ETIOPIA E SUDAFRICA – Si è aperto martedì a Pretoria il secondo Meeting interministeriale tra Sudafrica ed Etiopia. Al centro della discussione ci sarà la definizione di un ampio numero di accordi bilaterali, in materia di commercio, industria, trasporti e ambiente. Negli ultimi anni, i due Paesi stanno tentando di rafforzare il dialogo, soprattutto riguardo alla circolazione dei capitali: con un tasso di crescita costantemente superiore al 5%, infatti, Addis Abeba è un mercato in piena ascesa molto appetibile per gli investitori sudafricani. MOZAMBICO E ALGERIA: COOPERAZIONE PER GLI IDROCARBURI – Il governo del Mozambico ha annunciato lunedì di aver concluso un importante accordo con l’Algeria per l’assistenza nei processi estrattivi di gas liquido naturale. Le recenti scoperte di giacimenti nel nord del Paese hanno spinto Maputo a investire nel campo energetico, cosicché, secondo il ministro delle Risorse minerarie, Esperanca Bias, il sostegno e l’esperienza dell’Algeria saranno fondamentali per il miglioramento della produzione e per la negoziazione delle concessioni alle società estere. LA RIFORMA DELLA SICUREZZA IN CONGO – Tredici tra le maggiori organizzazioni e associazioni della Repubblica Democratica del Congo hanno sottoscritto un documento, Taking a Stand on Security Sector Reform, con il quale sollecitano il governo a varare una rapida ed efficace riforma dell’apparato militare e di sicurezza. Secondo Emmanuel Kabengele, coordinatore del Network for Security Sector Reform and Justice, «molti di quei problemi che sembrano irrisolvibili nel Paese sono in realtà dovuti a disfunzioni nelle Forze Armate, nella polizia e nei tribunali». Il documento invita anche i principali donatori del Congo, ossia ONU, Unione Europea, USA, Francia, Gran Bretagna e Belgio, a sostenere le necessarie riforme, controllando direttamente l’utilizzo dei fondi. Beniamino Franceschini [email protected]

 

Fratelli d’Egitto

A maggio al Cairo si terranno le elezioni presidenziali, dalle quali uscirà finalmente il nome del successore di Hosni Mubarak. L’esclusione di un candidato della Fratellanza Musulmana non preclude però al movimento islamista la partecipazione al voto, dato che sono due i candidati presentati dalla Fratellanza. In questa analisi vi presentiamo gli scenari possibili che potrebbero delinearsi nel nuovo Egitto

 

ESCLUSI – L’ultimo avvenimento della contrastata corsa alle elezioni presidenziali egiziane è stata l’esclusione dalla corsa alle presidenziali di 10 candidati, fra i quali l’ex vice presidente dell’era Mubarak ed ex capo dei servizi segreti egiziani Omar Suleiman, l’esponente della Fratellanza Musulmana egiziana Khairat al-Shater e l’esponente salafita Hazem Salah Abu Ismail. Il presidente della commissione elettorale per le elezioni presidenziali Farouk Sultan non ha dato ulteriori elementi che spiegassero le ragioni di tale provvedimento, ma ha solo indicato come i candidati esclusi abbiano 48 ore per fare ricorso a tale decisione. Tale provvedimento sembra definire una normalizzazione del panorama politico egiziano, estromettendo dalla competizione elettorale i candidati visti con maggior inquietudine dall’establishment militare, vuoi per il loro background islamista o per i loro stretti rapporti con la passata dirigenza. I rumors provenienti dalla stampa avevano già spinto la Fratellanza Musulmana a presentare una nuova e seconda candidatura oltre a quella di Khairat al-Shater, quella di Mohamed Morsi, presidente del Partito Libertà e Giustizia. A questa doppia candidatura della Fratellanza aveva fatto da contraltare la candidatura di un ex capo dei servizi segreti egiziani, Omar Suleiman, ed ex vice presidente di Hosni Mubarak. Secondo Bernard Gwertzman, del Council for Foreign Relations, Suleiman sarebbe vicino ai militari, essendo stato militare egli stesso, anche se non correrebbe buon sangue fra lui e il Security Council of the Armed Forces (SCAF). La sua recentissima esclusione dalla competizione ne è una valida dimostrazione. Gwertzman sottolinea come Suleiman sarebbe il candidato da battere, perché agli occhi degli egiziani sarebbe uno dei pochi, se non l’unico, a poter assicurare stabilità e sicurezza al paese.

 

LA NUOVA STRATEGIA POLITICA DELLA FRATELLANZA MUSULMANA – La Fratellanza Musulmana ha voluto partecipare alla competizione elettorale superando la sua tradizionale premura  e sfidando direttamente il regime militare. Tale scelta appare quantomeno delicata, in quanto da una parte la Fratellanza, contro le precedenti assicurazioni dei suoi dirigenti, ha rotto il fronte delle opposizioni presentando candidature autonome. Dall’altra questa decisione sancisce la presa d’atto di essere forte abbastanza da poter ingaggiare uno scontro frontale con l’establishment militare nel caso di una buona affermazione del suo braccio politico, il Partito Libertà e Giustizia. La decisione di partecipare alla competizione per le elezioni presidenziali del prossimo maggio può essere addebitata al grosso successo elettorale del Freedom and Justice Party alle elezioni parlamentari dello scorso gennaio. In quella occasione il FJP, braccio politico della Fratellanza, è riuscito ad ottenere il 47% dei delegati, diventando così primo partito. Questa storica affermazione di un partito “anti-sistema” ha convinto la dirigenza della Fratellanza della gravità del momento storico e dell’importanza di una vittoria alle prossime elezioni presidenziali. Infatti, dopo aver ottenuto la maggioranza parlamentare, l’eventuale vittoria alle elezioni presidenziali determinerebbe il completo dominio delle istituzioni egiziane, e suonerebbe come un guanto di sfida ai militari del Security Council of the Armed Forces (SCAF). Eric Trager, del The Washington Institute for Near East Policy sottolinea come la Fratellanza abbia abbandonato la sua tradizionale cautela per sete di potere, incurante degli effetti destabilizzatori che tale scelta ha determinato nel panorama politico egiziano. Trager indica come la Fratellanza abbia compreso l’importanza del momento, valutando da una parte la sua forza politico elettorale, e dall’altra prendendo in esame la debolezza delle altre opposizioni e l’incertezza delle élites militari nella gestione del periodo post-rivoluzionario. Secondo Shibley Telhami, del Saban Center for Middle East Policy, la rischiosa mossa della Fratellanza è stata dettata dall’istinto di sopravvivenza. Infatti secondo Telhami, a dispetto del risultato elettorale, all’indomani delle elezioni parlamentari la Fratellanza si sarebbe trovata stretta da una parte dai militari dello SCAF e dall’altra dai salafiti, che si sono affermati come secondo partito con circa il 20% dei seggi. Inoltre, sempre a parere della Telhami, a forzare la Fratellanza ad un tale passo, rompendo la promessa pubblica di non candidare un proprio membro, è stato il timore di vedere vincitore della prossima competizione elettorale una persona non gradita. Tale sospetto si è materializzato allorquando la competizione elettorale è stata monopolizzata da due personaggi: Amr Moussa, ex segretario della Lega Araba, e Hazen Abu Ismail, candidato del Partito Nur, di ispirazione salafita.

 

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POSSIBILI SCENARI – La completa incertezza sull’esito del processo di democratizzazione iniziato con la defenestrazione di Hosni Mubarak pone una serie di interrogativi sulle effettive capacità del sistema politico egiziano di sopravvivere ad un accesa competizione elettorale. Infatti tale competizione potrebbe portare a tre grandi possibili scenari: 1.       L’affermazione, generalmente accettata e riconosciuta, di una forza politica o di un candidato indipendente, che riesca a stabilizzare la realtà egiziana, garantendo al paese un’uscita dal limbo di incertezza che sta danneggiando profondamente la sua economia. 2.       Un duro scontro fra il vincitore (nel caso, ad esempio, di vittoria di un esponente salafita o appartenente ai Fratelli Musulmani) e i militari dello SCAF, che potrebbe portare alle seguenti ipotesi:

 

– il “modello algerino” con una situazione di guerra civile lunga e sanguinosa che lacererebbe il paese e lo degraderebbe ulteriormente nel panorama regionale;

 

– il “modello turco del 1997”, con il cosiddetto colpo di stato post-moderno, allorquando i militari turchi imposero al governo dell’islamista Erbakan, di rassegnare le dimissioni. Il tutto senza alcun ricorso alla violenza.

 

– il “modello turco del 2002”, che ha visto l’affermarsi dell’attuale partito al governo , l’AKP di Erdogan. A parere di chi scrive il verificarsi uno di questi quattro scenari è legato alla stabilità politica, il progresso economico, il tasso di partecipazione democratica e il ruolo delle forze armate. Le avvisaglie inducono a ritenere come i militari continueranno a ricoprire un ruolo di primo piano nella gestione degli affari egiziani almeno sino a che i Fratelli Musulmani non daranno effettive garanzie a Washington e ad Israele di essere una forza politica responsabile. La recente esclusione dei 10 candidati appare quindi dimostrare come i militari egiziani vogliano mantenere un ruolo di gestione diretta del potere paragonabile al ruolo di controllo della vita politica mantenuto dai militari turchi almeno sino all’ascesa del partito al governo AKP. La Fratellanza ha cercato di colmare questo gap di legittimità mediante l’invio di sue delegazioni all’estero al fine di accreditare il movimento quale valido interlocutore dell’Occidente e in particolare degli Stati Uniti a livello regionale. Notizia recente è il viaggio di una di esse a Washington. Ciononostante, tali tentativi non sembra stiano producendo i risultati sperati, anche rilevata l’ambiguità dei suoi delegati riguardo alcune tematiche di politica interna (relative all’uguaglianza di genere e ai diritti umani) e di politica estera, riguardanti in particolare la preservazione dell’accordo di pace di Camp David tra l’Egitto e Israele del 1978. Gli Stati Uniti pare vogliano ancora una volta scommettere sulle forze armate egiziane, viste quale unica possibilità di preservare la stabilità interna e regionale. La possibilità della Fratellanza di accreditarsi quale valida alternativa all’establishment militare risiede esclusivamente sulle decisioni che il movimento prenderà in queste poche settimane che lo separano dalle elezioni. A tale fine saranno capaci i suoi membri di lavorare per una transizione pacifica e democratica?

 

Antonio Cocco

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Il Dragone sbarca in terra latina

Esiste solo “Cinafrica” o si può parlare anche di “Cinamerica”? Negli ultimi anni l’attenzione mediatica si è concentrata principalmente sulla strategia di penetrazione economica operata da Pechino in Africa, lasciando però in ombra una parte molto importante della politica estera cinese. Stiamo parlando di quella diretta verso l’America Latina. Come sono dunque i rapporti economici del subcontinente americano con il Dragone? E quali sono i risvolti di questa relazione per lo sviluppo sociale dei Paesi latini?

PECHINO INVESTE IN AMERICA LATINA – Potrebbe essere una sorpresa sapere che l’Africa è il continente dove la Cina investe “meno” in termini assoluti, mentre l’America Latina è la seconda regione destinataria della pioggia di yuan in arrivo da Pechino (la prima è, logicamente, l’Asia). Secondo i dati del Centro Studi della Fondazione Italia-Cina, nel 2010 gli IDE (Investimenti Diretti Esteri) del Dragone verso l’America Latina hanno raggiunto i  10,5 miliardi di dollari con una crescita esponenziale dal 2003 ad oggi (+1000%). Meno ingenti sono invece le esportazioni cinesi verso la regione latinoamericana rispetto ad altri continenti (121,8 miliardi di dollari il valore totale nel 2011), ma con una crescita sostenuta (+32,9% rispetto al 2010) che sta creando alcuni problemi in termini di competitività a settori dell’industria manifatturiera come il calzaturiero, tradizionalmente forti in Paesi come Brasile e Argentina. Se invece guardiamo all’altro lato della relazione, scopriamo che i Paesi latinoamericani investono molto meno in Cina: infatti, nonostante il dato complessivo sia superiore rispetto agli IDE in arrivo da Pechino (più di 13 miliardi di dollari), la maggior parte dei capitali parte da Isole Cayman e Isole Vergini, che sono notoriamente dei paradisi “fiscali” oltre che tropicali. Le esportazioni dell’America Latina verso la Cina sfiorano invece i 120 miliardi di dollari, denotando dunque un sostanziale “pareggio” della bilancia commerciale tra le due regioni. L’America Latina è dunque un fornitore importantissimo per la Cina: non solo acquista da Pechino prodotti (per la maggior parte manifatturieri) ma vende anche in grandi quantità le materie prime agricole e minerarie, di cui il Dragone ha particolarmente “fame”. Per quanto riguarda gli investimenti, è il Brasile il principale destinatario dei flussi di capitale cinesi, con 487,4 milioni di dollari affluiti nel 2011. Al secondo posto si trova invece il Perú, con 139 milioni di dollari. GLI IDE FANNO BENE? – Gli investimenti cinesi fanno bene allo sviluppo economico e sociale dell’America Latina? La risposta non può essere univoca. È indubbio che i capitali in entrata, aumentati costantemente negli ultimi vent’anni, hanno contribuito a far uscire dalla povertà milioni di persone. Tuttavia, la dinamica che si è innestata tra Pechino e l’America Latina non è equilibrata e vede la Cina in una posizione di maggiore forza. La soia argentina, il rame cileno, il ferro brasiliano sono essenziali per fornire il “carburante” alla locomotiva cinese, così come un cliente così importante è ancor più indispensabile per sostenere l’export latinoamericano. La crisi in atto in Europa e Stati Uniti ha infatti diminuito la domanda di prodotti in arrivo da questi Paesi, pertanto vendere alla Cina è diventata una scelta quasi obbligata, anche se questo comporta dei lati negativi. Come, per esempio, dover fare buon viso a cattivo gioco per quanto riguarda la concorrenza nei settori manifatturieri, oppure puntare su settori che non aiutano a ridurre le diseguaglianze tra ricchi e poveri. Infatti, le esportazioni di materie prime, essendo caratterizzate da un uso più intensivo della “terra” (intesa come risorse naturali) rispetto al lavoro, non aiutano a valorizzare il contributo della manodopera e tendono così a perpetuare dinamiche di sottosviluppo.

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DIRITTI UMANI PIU' RISPETTATI – Se a questo poi si aggiunge la tradizionale cattiva reputazione dei cinesi quali nuovi colonialisti e sfruttatori poco avvezzi al rispetto dei diritti umani, il quadro sembrerebbe decisamente negativo. In realtà, è importante come sempre analizzare più in profondità per scoprire che le imprese cinesi che investono in America Latina tendono ad uniformarsi agli standard internazionali sul rispetto dei diritti umani e dei lavoratori. Una recente ricerca sugli IDE cinesi nel settore estrattivo in Perú rivela come le multinazionali cinesi si stiano adeguando, seppur più lentamente rispetto a quelle dei Paesi OCSE, agli standard previsti da “pacchetti” di norme internazionali come il Global Compact delle Nazioni Unite e che si stanno sensibilizzando sempre più al tema della responsabilità sociale d’impresa. Se ciò avviene, non è però merito solo dell’atteggiamento disponibile della Cina. Le condizioni ambientali, misurate in termini di solidità delle istituzioni pubbliche e di presenza di multinazionali occidentali, sono infatti decisive nel determinare le politiche aziendali seguite dall’investitore. Non è un caso se in alcuni Paesi africani come la Repubblica Democratica del Congo, dove lo Stato è praticamente assente, le imprese cinesi adottano standard molto più bassi di tutela dei diritti dei lavoratori. In Perú come in altri Paesi della regione, invece, la costituzione tutela i diritti delle minoranze, anche indigene, e le istituzioni sono in grado di far rispettare la legge più che in altre regioni del mondo in via di sviluppo. In conclusione, la Cina è un attore molto importante per la crescita economica dell’America Latina. Il progresso sociale, però, non può essere accompagnato a quello economico se non è sostenuto dalle politiche nazionali. I governi di Brasile & C. hanno fatto molto in questo campo negli ultimi anni: si tratta di un fattore decisivo nel generare uno sviluppo diffuso e non più a favore dei soliti, pochi ricchi. Davide Tentori [email protected]

Non solo Brasile… Il decennio del Sudamerica

Il Caffè Geopolitico ha organizzato insieme agli amici dell'Associazione “Carla Crippa”, attiva in Bolivia con progetti di cooperazione, una serata per discutere degli equilibri economici, politici e sociali della regione sudamericana. L'incontro si è svolto lunedì 16 aprile a Seregno e ha avuto un buon riscontro in termini di partecipazione e di gradimento

IL DECENNIO DEL SUDAMERICA? – I prossimi anni vedranno un ulteriore mutamento dello scenario geopolitico globale: all'interno di questo processo, il Sudamerica potrà giocare un ruolo da protagonista? Se ne è parlato lunedì 16 aprile a Seregno, nel corso di una conferenza organizzata dal “Caffè Geopolitico” in collaborazione con l'Associazione “Carla Crippa”, che dal 1995 finanzia e sostiene diversi progetti in Bolivia, in particolare nei Dipartimenti di Cochabamba e Santa Cruz: progetti di potabilizzazione dell’acqua nelle comunità andine, un centro per bambini di strada ed uno per disabili, una falegnameria per ex detenuti, una scuola di restauro, borse di studio e tanti altri interventi.

Alberto Rossi e Davide Tentori, rispettivamente Presidente e Vicepresidente dell'Associazione Culturale “Il Caffè Geopolitico”, hanno fatto viaggiare idealmente per una sera gli spettatori in lungo e in largo per il continente sudamericano, tracciandone gli equilibri geopolitici attuali e formulando prospettive per gli anni che verranno.

Le parole di Eduardo Galeano, scrittore uruguaiano noto per il suo impegno sociale, che denunciano lo sfruttamento a cui la regione latinoamericana è stata soggetta per secoli, sono servite per introdurre la relazione e per sottolineare come, da alcuni anni, la tendenza si sia invertita. Il Sudamerica, oggi, è una regione in grande fermento non soltanto economico ma anche politico e sociale, che sta prendendo consapevolezza di sé e controllo sulle proprie enormi ricchezze naturali ed umane, seppur ancora tra mille problemi legati alla povertà e alla disuguaglianza. “Non solo Brasile”, dunque: oltre alla grande potenza globale (il Brasile è ormai la sesta economia mondiale), anche Argentina, Cile, Colombia potranno giocare un ruolo da protagonisti nei prossimi anni.

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UN ESITO POSITIVO – La serata era anche un “esperimento” per il gruppo del “Caffè”, che per la prima volta si è misurato con un incontro pubblico gestito interamente in prima persona (la prima iniziativa di questo genere era stata la presentazione del libro “Repubblica Impopolare Cinese”, in collaborazione con la Fondazione Italia-Cina e con la partecipazione dell'autore, il giornalista Fabio Cavalera). Si può dire che l'esperimento…sia riuscito: non soltanto per il buon riscontro in termini di pubblico intervenuto, ma anche per i giudizi positivi raccolti da chi ha assistito. Gente che non è “addetta ai lavori” nel campo dell'analisi delle relazioni internazionali, ma che si è sentita coinvolta durante la conferenza. Del resto, la mission del Caffè Geopolitico è proprio questa: riuscire a parlare di esteri in maniera professionale ma poco accademica, con un linguaggio accessibile a tutti. Un altro piccolo mattoncino, dunque, nel progetto che stiamo costruendo. Grazie a tutti coloro che sono intervenuti lunedì sera e agli amici dell'Associazione “Carla Crippa”, con cui abbiamo instaurato un bel rapporto di collaborazione reciproca. La Redazione [email protected]

Pagati per combattere

Il “mestiere delle armi”, che per secoli ha costituito una risorsa militare di primo piano, ha subito una radicale trasformazione. Dalla figura stereotipata del mercenario si è passati a quella del contractor, operatore privato della sicurezza

In barba alle sanzioni

È vero senz’altro che l’Iran sta attraversando una crisi economica molto grave, ma non è altrettanto vero che la principale causa di questa crisi sono le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dai paesi occidentali: a cinque anni dalla prima bozza di sanzioni, indubbiamente gli effetti iniziano ad avvertirsi, ma quelle sono andate a infierire su un’economia già in difficoltà per motivazioni interne. L’Iran, per di più, ha trovato un buon metodo per tamponare gli effetti deleteri di tali sanzioni. Intanto i colloqui sul nucleare, ripresi a Istanbul, non profilano nemmeno l’ombra di una soluzione della questione

GIÀ IN CRISI PRIMA DELLE SANZIONI – Benché per alcuni (leggasi in primis Stati Uniti) possa essere una “notizia” difficile da accettare, un nuovo Iraq si sta profilando all’orizzonte: nel senso che, come già era stato appunto per l’Iraq di Saddam Hussein, le sanzioni petrolifere imposte all’Iran non stanno avendo gli effetti catastrofici sperati da chi quelle sanzioni, ormai dal 2007, persevera a imporle. Agli albori della crisi economica globale del 2008, l’economia iraniana soffriva già di alcune importanti anomalie nei propri fondamentali macroeconomici: innanzitutto, specialmente negli otto anni di presidenza Ahmadinejad, l’Iran ha dovuto sostenere una spesa per le politiche sociali (costituite principalmente da sussidi per gli alimentari e l’energia) estremamente alta; in più, sebbene l’Iran sia tra i primi paesi al mondo per quantità di riserve di petrolio e gas naturale, la mancanza di know-how e tecnologie all’avanguardia, rendono assai difficoltosa, e quindi poco efficiente, l’estrazione di queste preziose materie prime. Infine, ma non meno importante, le barriere burocratiche poste all’ingresso del mercato interno, allontanano e scoraggiano gli investimenti diretti esteri nel paese, che soffre così di un costante deficit di capitali stranieri nella propria bilancia dei pagamenti. È chiaro, quindi, che esercitando una pressione costante su un edificio già fatiscente, prima o poi questo edificio crolla, o comunque perde qualche pezzo significativo. Le stime del Fondo Monetario Internazionale per il 2012, infatti, prevedono una caduta del tasso di crescita dell’Iran del 3%, attestandosi circa sul 2,7%: una cifra per nulla negativa in senso assoluto (specialmente pensando alla nostra povera Italia), ma poco rilevante per un paese in via di sviluppo, se paragonata ad esempio ai tassi di crescita di India e Cina. È corretto, senza alcun dubbio, affermare che l’Iran navighi in cattive acque, dunque, soprattutto se si considerano pochi ma indicativi dati recenti: il rial (la moneta iraniana) ha perso oltre il 30% del suo valore, il tasso di inflazione si è attestato a un buon 20% e, notizia di pochissimi giorni fa, i tassi di interesse sui depositi bancari sono stati portati al 21%.

I DANNI E LE BEFFE DELLE SANZIONI – Pensando ai reali effetti delle sanzioni petrolifere sull’Iran, sarebbe proprio il caso di dire che in special modo gli Stati Uniti, oltre al danno, ora devono subire anche la beffa. Il danno, chiaramente, risulta dall’inefficacia stessa delle sanzioni: gli Stati Uniti, per assicurarsi i rifornimenti di greggio necessari alla propria economia, hanno dovuto siglare un nuovo accordo con il Qatar, concedendogli di triplicare la quantità di petrolio da estrarre, accrescendo così enormemente il potere politico ed economico del piccolo emirato, che infatti di recente ha cominciato a fare la voce grossa su alcune questioni regionali. In secondo luogo, la perseverante politica di sanzioni economiche contro l’Iran adottata dagli Usa rischia di incrinare i rapporti con il fedele alleato Israele: questo, contrario alle sanzioni e decisamente più favorevole all’intervento militare per interrompere forzosamente il programma nucleare iraniano, vede di mal occhio la quiescenza con cui Washington sta affrontando la questione dell’atomica di Teheran, ed è sempre più probabile che il governo Netanyahu opterà per una operazione di bombardamenti mirati ai siti nucleari, anche senza il beneplacito e il contributo degli Stati Uniti.

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LA GRANDE BEFFA: CINA E INDIA IN SOCCORSO ALL’IRAN – Più di tutto, sono i risvolti economici e commerciali sui mercati asiatici che gli Stati Uniti devono temere. L’Iran, infatti, ha trovato nella Cina e nell’India due potenze favorevoli a contrastare gli effetti delle sanzioni imposte: innanzitutto, dichiarandosi apertamente contrarie a tale imposizione, così come tutti i BRICS, segnando la fine, almeno dal punto di vista economico, del mondo unipolare a guida americana, con l’emergere di un polo alternativo; poi, soprattutto non interrompendo affatto, ma anzi aumentando il commercio con Teheran (solo nel 2011 la Cina ha incrementato il proprio interscambio petrolifero con l’Iran del 30%). Le sanzioni, infatti, dovrebbero andare a colpire quegli intermediari finanziari che operano direttamente con la Banca Centrale Iraniana, principale responsabile della gestione dei proventi derivanti dalla vendita di greggio: essendo Cina e India due paesi in forte espansione e avendo estremo bisogno del petrolio iraniano (importandone rispettivamente il 22% e il 13%) per non interrompere l’andamento positivo della propria crescita, hanno di recente adottato dei metodi piuttosto efficaci per aggirare le sanzioni, evitando di instaurare rapporti diretti con la Banca Centrale Iraniana. Molto semplicemente, eliminato dalle transazioni commerciali il petro-dollaro (e questo è senza dubbio un durissimo colpo inferto agli Stati Uniti), hanno stabilito accordi con l’Iran per pagare il greggio in parte con la propria moneta locale, quindi renminbi e rupie, in parte in oro e prodotti dei mercati interni, appoggiandosi a banche cinesi e indiane per le transazioni. Così, in pratica, il ritorno parziale all’antichissimo metodo del baratto sta facendo vacillare decenni di politiche liberiste occidentali. Ulteriore riprova della cooperazione strategica tra Cina, India e Iran è stata la recente dichiarazione, da parte indiana, riguardo la volontà di far rivivere gli accordi, bloccati dal 2009, per la costruzione della condotta di gas naturale IPI (Iran – Pakistan – India), rispetto alla quale si è proposta anche una eventuale estensione fino alla Cina, appunto. La questione era stata accantonata dall’India, per motivi economici e di sicurezza, in seguito alla stipula di un accordo con gli Stati Uniti sul nucleare indiano: ora pare, però, che la capacità di dissuasione degli Usa su Nuova Delhi stia diminuendo. INTANTO … – Il 14 aprile a Istanbul sono ripresi formalmente i colloqui sul nucleare di Teheran tra i G5 + 1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia più Germania) e negoziatori iraniani: non si è fatto altro che parlare di clima disteso e positivo nei resoconti giornalistici, ma alla fin fine i risultati concreti ottenuti stanno quasi a zero. L’unica “conquista” che i G5 + 1 possano vantare è che l’Iran non abbia di nuovo sbattuto la porta andandosene, come nel 2011, ma sia stata fissata una seconda data, il 23 maggio a Baghdad, per un ulteriore incontro (che, però, non ha proprio l’aria di porsi come definitivo per una risoluzione della questione, così come un eventuale terzo, eccetera). La probabilità che il dialogo, ormai, sia del tutto compromesso non è, infatti, remota: l’Iran, da un lato, vive sotto la costante minaccia di un attacco ai siti nucleari per mano di Israele, intransigente su qualsiasi aspetto della faccenda (non ci sono limiti all’arricchimento, perché tutto l’uranio deve essere smantellato e tutti i siti nucleari devono essere chiusi, punto). Dall’altro lato, Teheran cerca di arrabattarsi come può per difendere il proprio orgoglio nazionale e i propri interessi: l’interruzione delle esportazioni a diversi paesi europei, in risposta al blocco petrolifero imposto dall’UE a partire dal 1 luglio di quest’anno, servirebbe a battere un piccolo pugno di ferro sul tavolo delle trattative, e ribadire, come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, che l’Iran non ha intenzione di rinunciare ai propri diritti all’acquisizione del nucleare. I paesi europei colpiti, però, tra cui Germania, Francia, Spagna e Grecia, hanno già trovato nel petrolio saudita una buona toppa per colmare il vuoto lasciato dal greggio iraniano, anche in attesa che la situazione libica si normalizzi per diversificare ulteriormente le proprie fonti di approvvigionamento. Dunque, i contro-effetti che l’Iran sperava di generare con questa scaltra contro-mossa non daranno certo i grandi frutti sperati, ma è quasi fuor di dubbio che, se proprio dovrà, non sarà la diplomazia a far desistere il regime degli Ayatollah dal proseguire col programma nucleare. Samantha Laura Cereda [email protected]

Effetto domino?

Dopo il Mali, anche la Guinea Bissau cade sotto un golpe dei militari, che giovedì hanno arrestato il presidente ad interim, Pereira, e il primo ministro Carlos Gomes, candidato favorito alle elezioni del 29 aprile. Dietro agli eventi, la difesa da parte dell’esercito dei privilegi derivanti dalla posizione di forza acquisita negli anni e dal traffico di stupefacenti: secondo le stime ONU, circa il 60% della cocaina diretta al mercato europeo transita dalla Guinea Bissau, trasformando il Paese in un “narcostato” piegato da corruzione e malaffare. Nei giorni precedenti l’arresto, il presidente Gomes potrebbe aver chiesto sostegno all’Angola: nessuno, tuttavia, intende intervenire in Guinea e scontrarsi apertamente anche con i trafficanti di droga

IL COLPO DI STATO – A tre settimane dagli eventi in Mali, adesso è la Guinea Bissau a subire un golpe per opera dei militari. Secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa, e in seguito confermato da fonti dirette, nella notte di giovedì, l’esercito ha messo agli arresti il capo dello Stato, Raimundo Pereira, e il primo ministro Carlos Gomes jr., candidato favorito al secondo turno delle elezioni presidenziali del 29 aprile. Dietro il colpo di mano delle Forze Armate, tuttavia, ci sono motivazioni piuttosto complesse, strettamente connesse alle vicende storiche del Paese. GUINEA BISSAU: UN “NARCOSTATO” – L’aspetto fondamentale da tenere in considerazione è che, negli ultimi anni, la Guinea Bissau è diventata un vero e proprio “narcostato”, un hub internazionale della droga che dall’America meridionale è diretta verso l’Europa. Le Nazioni Unite hanno stimato che circa una tonnellata di cocaina transiti ogni notte nel Paese, cosicché si ritiene che dalla Guinea passi il 60% dello stupefacente consumato nel vecchio continente, per un valore complessivo prossimo ai 20 miliardi di dollari. La droga arriva per via aerea in un arcipelago disabitato di fronte alle coste guineane, e da lì è spedita verso i mercati di destinazione. Nel Paese operano alcuni tra i più noti narcotrafficanti sudamericani, i quali, corrompendo ampi settori della vita pubblica, sono riusciti a ottenere il controllo totale della Guinea Bissau. I maggiori beneficiari del commercio di droga, tuttavia, sono stati i militari, che hanno accresciuto ulteriormente il proprio potere, di per sé già rilevante, sfuggendo al controllo del governo e cominciando ad agire autonomamente. Nel marzo del 2011, l’allora presidente Malam Bacai Sanhà, morto lo scorso gennaio, chiese l’intervento di un’altra ex colonia portoghese, l’Angola, per riorganizzare le Forze Armate guineane, ma i risultati furono pressoché nulli. I militari, infatti, sono stati protagonisti di vari colpi di Stato dal 1974 (anno dell’indipendenza) a oggi, non ultimi quelli del 2009, nel quale fu ucciso il presidente Tagmè Na Waiè, e del 2010, che vide la deposizione dello stesso Carlos Gomes.

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IL PUGNO DI FERRO DEI MILITARI – L’esercito ha giustificato il golpe di giovedì citando presunti accordi che il primo ministro avrebbe stretto con l’Angola per l’invio di un contingente in sostegno al governo. Le forze di Luanda sarebbero dovute intervenire eliminando le figure chiave dei militari guineani e riportando le truppe sotto controllo. Questo sarebbe dovuto accadere nelle imminenze del secondo turno, adesso annullato, delle elezioni presidenziali, che il 29 aprile avrebbe contrapposto Carlos Gomes jr. al capo dell’opposizione Kumba Yala, candidato comunque deciso a boicottare le consultazioni per protesta contro i molteplici brogli. Non è ancora certo se effettivamente esistesse un piano già definito per l’intervento di Luanda, anche se probabilmente duecento soldati angolani di stanza in Guinea erano stati preallertati. I militari hanno agito temendo di perdere la posizione di preminenza acquisita negli anni e grazie al commercio di droga: nel loro intento non hanno incontrato alcuna resistenza, poiché il governo non era assolutamente in grado di mantenere la situazione sotto controllo. TRISTI PROSPETTIVE – Venerdì, l’esercito ha comunicato che Pereira e Gomes sono in ottime condizioni e che, nei prossimi giorni, sarà costituito un governo di unità nazionale che avrà al proprio interno alcuni esponenti militari. Riguardo al Primo Ministro, la scelta potrebbe ricadere su Kumba Yala, ma è difficile prevedere se egli, già deposto dai soldati nel 2003, riuscirà a trovare un accordo che gli garantisca una qualche libertà di movimento. A esser certo, comunque, è che la Guinea Bissau potrebbe essere lasciata pressoché sola, poiché, da un lato, l’ECOWAS, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, è già esposta in Mali, e non è politicamente, né militarmente capace, al momento, di intervenire; dall’altro, l’Angola non ha intenzione di agire con decisione in una campagna che comporterebbe notevoli spese e nessun vantaggio. Un’operazione della comunità internazionale, infine, dovrebbe necessariamente scontrarsi anche con il fenomeno del traffico di droga, aprendo scenari troppi ampi e irrisolvibili nel breve periodo, anche se le Forze Armate portoghesi sono in stato di allerta. Per la Guinea, purtroppo, non c’è alternativa oltre l’instabilità forzata. Beniamino Franceschini [email protected]

Pasqua di sangue

In Nigeria, il giorno di Pasqua è stato funestato dall’attacco di Boko Haram a una chiesta cristiana; secondo il ministro della Difesa di Abuja, inoltre, alcune armi sottratte dall’arsenale di Gheddafi potrebbero essere giunte proprio al gruppo islamista. Un incidente di confine crea qualche dissapore tra Sudan ed Etiopia, mentre in Swaziland sale la tensione per la repressione delle proteste dei sindacati. In Malawi s’insedia la seconda donna presidente di tutta l’Africa. Il Lord’s Resistance Army di Kony risponde alla campagna di Invisible Children, accusando gli Stati Uniti, che in settimana hanno approvato un nuovo piano di investimenti commerciali nel continente nero, di preparare l’invasione dell’Uganda. Nel frattempo, si registra una nuova strage di elefanti in Camerun. In chiusura, alcuni brevi cenni alla storia di Boko Haram

PASQUA DI SANGUE IN NIGERIA – Il terrorismo di Boko Haram torna a colpire i cristiani in un giorno di festa. Sebbene ancora non ci sia concordanza sulla dinamica dell’accaduto, è certo che un’autobomba sia esplosa nel giorno di Pasqua di fronte alla chiesa di Kaduna, nel nord della Nigeria, causando la morte di almeno 40 persone e danneggiando seriamente molti edifici nel raggio di cinquecento metri. Le Forze dell’Ordine stanno ancora tentando di ricostruire la drammatica mattinata, poiché, secondo quanto riportato dai giornali nigeriani, già da qualche giorno l’antiterrorismo era a conoscenza del progetto di Boko Haram di colpire una chiesa durante la Pasqua. Nelle ore precedenti all’esplosione, inoltre, alcuni poliziotti avrebbero notato movimenti sospetti, e, addirittura, un’altra vettura sarebbe esplosa mentre si trovava in transito verso un obiettivo non ancora noto, uccidendo cinque passanti. Le indagini sono tuttora in corso, ma la situazione nel nord della Nigeria, a maggioranza musulmana, rischia di degenerare, soprattutto laddove i gruppi islamisti abbiano il sostegno, talvolta palese, delle Autorità locali. A impensierire è anche l’incremento delle azioni di Boko Haram in questi ultimi mesi, con inasprimento della violenza contro cristiani (basti pensare alle stragi di Natale e all’uccisione dell'italiano Franco Lamolinara), forze governative e singoli villaggi. TENSIONI TRA SUDAN ED ETIOPIAKhartoum e Addis Abeba stanno tentando in questi giorni di trovare una mediazione in seguito a un episodio ancora piuttosto contestato. Sabato 7 aprile, infatti, Karam Allah Abbas, governatore dello Stato sudanese di al-Qadarif, stava recandosi in visita all’omologo della regione oltreconfine di Amhara, quando, durante un diverbio con un fattore etiope accusato di coltivare terre di Khartoum, il suo convoglio è stato attaccato da alcuni guerriglieri shifta, contrari alle sistemazioni di frontiera concesse dall’Etiopia al Sudan. Nonostante le pronte scuse del governatore della regione di Amhara, Abbas ha inoltrato una lamentela ufficiale ad Addis Abeba, non escludendo l’invio di truppe in territorio etiope per la lotta ai ribelli shifta. UNA DONNA ALLA GUIDA DEL MALAWI – Nel pieno delle proteste in Malawi per l’adozione di riforme democratiche e misure anticrisi, il 5 aprile, il presidente Bingu wa Mutharika è morto improvvisamente. A succedergli è stata Joyce Banda (foto sotto), attivista dei diritti umani e protagonista della lotta per l’emancipazione delle donne nel Paese e in Africa, già più volte investita con incarichi di governo e, adesso, seconda donna presidente del continente. Banda ha invocato nel proprio discorso d’insediamento la necessità per il Malawi di superare i contrasti interni, abbandonando ogni proposito di vendetta, sebbene già alcuni esponenti politici più intransigenti abbiano criticato l’intenzione del nuovo presidente di abolire le restrizioni che limitano la libertà delle donne in campo economico e sociale. PROTESTE IN SWAZILAND – Cresce la tensione sociale in Swaziland, piccolo Stato dell’Africa meridionale. Uno dei capi del Sindacato nazionale degli insegnanti, infatti, è stato arrestato durante le proteste che ricordano l’anniversario della sospensione (tuttora vigente) della Costituzione da parte di re Sobhuza II, nel 1973. I manifestanti stanno continuando a sfilare per le vie della capitale Mbabane, ma la presenza di polizia ed esercito nella città si sta facendo di ora in ora più forte, lasciando presagire che il sovrano, Mswati III, possa ordinare entro breve tempo l’avvio di una campagna di repressione. Lo Swaziland è l’ultima monarchia assoluta africana e versa in condizione critiche per quanto riguarda il rispetto di diritti umani e libertà fondamentali.

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LE ARMI DI GHEDDAFI IN NIGERIA – Martedì, il ministro della Difesa di Abuja, Olusola Obada, ha confermato che parte delle armi fuoriuscite dalla Libia durante la guerra civile potrebbero essere finite proprio in Nigeria. Secondo l’esponente del governo, dall’arsenale delle truppe di Gheddafi, potrebbero essere arrivati anche pezzi di artiglieria leggera e lanciarazzi, entrati poi in possesso dei gruppi che tuttora costituiscono i maggiori pericoli interni nigeriani, ossia Boko Haram, le bande di pirati, e i guerriglieri operanti in alcune zone interne del Paese. IL LORD’S RESISTANCE ARMY REPLICA A KONY2012 – L’argomento è ancora uno dei più dibattuti dall’inizio dell’anno: dopo i due video di Invisible Children e la risposta del governo ugandese, ecco anche l’intervento della formazione di Joseph Kony. Attraverso un documento piuttosto denso e ricco di richiami storici e religiosi, il Lord’s Resistance Army ha respinto ogni accusa, sostenendo anzi che la campagna mediatica sia solo uno strumento statunitense per mascherare le atrocità commesse dalle truppe di Washington in terra africana. Secondo gli uomini di Kony, che citano una miriade di personaggi storici, da Thomas Jefferson a papa Giovanni Paolo II, passando per Robert McNamara, Al Capone e Stalin, il compito di Invisible Children sarebbe la preparazione di un intervento militare degli USA in Uganda per assicurarsi il dominio sul Paese. IL CONGRESSO USA E GLI INVESTIMENTI IN AFRICA – A Washington, alcuni deputati di entrambi gli schieramenti hanno sollecitato l’Amministrazione Obama affinché siano aumentati gli investimenti statunitensi in Africa. Il continente nero, infatti, ha visto un incremento dei flussi commerciali cinesi dai 10 miliardi di dollari del 2000, ai 160 miliardi del 2011, dinamica che ha visto risultati analoghi anche per Brasile, Iran, Russia e Turchia. In questo contesto, gli Stati Uniti non possono permettersi di essere esclusi da un mercato in fortissima espansione e, per di più, molto ricco di materie prime. Tramite il The Increasing American Jobs through Greater Exports to Africa Act, Obama si è impegnato a quadruplicare le esportazioni USA in Africa, conducendole a oltre 63 miliardi di dollari e creando nel contempo 315mila posti di lavoro destinati proprio ai prodotti di scambio con il continente nero. NUOVA STRAGE DI ELEFANTI – Secondo fonti ufficiali, nel parco naturale di Bouba Njida, in Camerun, sarebbero stati rinvenuti i corpi di duecentocinquanta elefanti uccisi dai bracconieri in cerca di avorio. Il WWF, tuttavia, ha contestato i numeri forniti dai guardaboschi camerunensi, sostenendo che il numero di esemplari abbattuti si aggirerebbe, in realtà, attorno alle 450 unità. In Camerun vive circa il 95% degli Elefanti dell’Africa centrale. Beniamino Franceschini [email protected]

Iran: Siria, quanto mi costi

Il piano di pace di Kofi Annan, inviato speciale Onu e Lega Araba, giunge oggi al capolinea senza che la situazione in Siria sia cambiata di una virgola. Bashar al-Assad sembra convinto di seguire le orme del padre Hafez, autore morale del massacro di Hama del Febbraio '82, stavolta su scala nazionale. La guerra civile che da mesi scuote la Siria rischia però di provocare pesanti conseguenze anche per l'Iran: la trentennale alleanza tra Teheran e Damasco ha vissuto costantemente in bilico nell'ultimo anno, e la sua tenuta dipenderà strettamente dalle sorti del regime degli Assad e dalla piega che la diplomazia internazionale prenderà nei confronti della questione siriana

L'ALLEANZA RISCHIA IL CAPOLINEA – La cronaca quotidiana riporta notizie e aggiornamenti sull'andamento delle vicende in Siria, ma molto poco si sente parlare della linea di pensiero adottata a riguardo dal principale alleato regionale di Damasco, ovvero l'Iran. È fuor di dubbio che la Repubblica Islamica abbia optato per un atteggiamento alquanto defilato rispetto alla questione. È stato ribadito sia dal presidente Ahmadinejad che dalla guida suprema Ali Khamenei che l'Iran è pronto al sostegno militare al regime di Assad in caso di intervento straniero nella regione, e sia fortemente contrario a qualsiasi tipo di ingerenza esterna negli affari interni della Siria. Teheran per il momento guarda e quasi tace. Tace anche perché, tra tutti gli attori in gioco, proprio l'Iran è forse quello che meno vorrebbe arrivare, per lo meno a breve termine, allo scontro aperto: in un momento di crisi economica e diplomatica così acute, un conflitto militare contro una potentissima coalizione occidentale, che dissanguerebbe un'economia già fin troppo provata e dilapiderebbe preziose risorse da dedicare al programma nucleare, è senz'altro uno tra gli ultimi desideri dei vertici politici iraniani.

L'IRAN SI GIOCA TUTTO – Potrebbe non essere esagerato affermare che, in Siria, l'Iran rischia tutto: le sorti del regime degli Assad sono strettamente legate al futuro più o meno funesto della Repubblica Islamica. L'Iran rischia tutto, su più fronti. Dal punto di vista militare, per l'Iran una Siria così debole rischia di essere più un peso che un aiuto: in un eventuale conflitto con Israele, spalleggiato dagli Stati Uniti, Teheran potrebbe non ricevere un contributo significativo dall'alleato siriano, e sarebbe costretto quindi a fare affidamento sulle sole risposte armate di Hezbollah e Hamas. Da un punto di vista politico, la sopravvivenza di entrambi i regimi viene messa a dura prova in egual misura: se è vero che la Siria rischia di essere il prossimo Iraq, d'altra parte l'Iran, con la possibile perdita dell'unico prezioso alleato regionale che possiede, si troverebbe isolato e accerchiato e quindi molto più vulnerabile di quanto già non sia a essere il successivo bersaglio della catena di regime change operata dagli Stati Uniti in Medio Oriente. Quantomeno il regime rischia di essere messo definitivamente a tacere sul programma nucleare, civile o non civile che sia. 

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SOLDI E POTERE – Dal punto di vista economico, le conseguenze per l'Iran andrebbero a gettare ulteriore benzina sul fuoco della crisi che il Paese sta vivendo, frutto anche delle sanzioni sul programma nucleare: la Siria, infatti, è uno dei principali partner economici di Teheran, ma le difficoltà finanziarie che Damasco già sta attraversando, unite all'eventualità di un taglio netto dei rapporti bilaterali, nel caso la famiglia Assad non dovesse reggere all'urto, farebbero perdere all'Iran un prezioso mercato di sbocco per le proprie merci e risorse energetiche, oltre che investimenti. Infine, pesanti ripercussioni rischierebbero di verificarsi anche sul fronte religioso: finora, l'alleanza tra Siria e Iran ha avuto il merito di ridurre parzialmente la polarizzazione regionale tra i due principali rami dell'Islam, essendo l'Iran a guida e maggioranza sciita e la Siria a maggioranza sunnita ma guidata dalla famiglia Assad, appartenente alla setta alauita, che viene ricondotta al ramo degli sciiti duodecimani. Se il regime degli Assad dovesse venire meno, e in Siria, come in Iraq, si installasse un nuovo governo, rappresentante della corrente religiosa maggioritaria nel Paese, non è affatto da escludere che i legami con un Iran sciita e così radicale vengano allentati, se non del tutto interrotti.

BELLUM OMNIUM CONTRA OMNES – Più di ogni altra cosa, l'Iran, in Siria, rischia di trovarsi impantanato in quello stesso conflitto militare contro Israele e Stati Uniti che da anni si cerca, forse invano, di scongiurare: attualmente, considerati i faticosi piccoli progressi in campo diplomatico, è l'opzione più remota. Qualora dovesse prendere forma l'ipotesi di un intervento internazionale in Siria, che abbia come fine ultimo l'allontanamento degli Assad, il probabile (anche se non scontato) intervento militare iraniano a difesa dell'attuale regime (assicurato in questi ultimi giorni di fronte al primo ministro turco Erdogan dalla guida suprema Ali Khamenei) potrebbe portare l'Iran a giocarsi la propria partita sul nucleare sul terreno dell'alleato a Damasco. E il pericolo che possa nascerne una guerra di tutti contro tutti è forzatamente pensabile, ma di certo non impossibile.

Samantha Laura Cereda [email protected]

NON SOLO BRASILE… IL DECENNIO DEL SUDAMERICA

Lunedì 16 aprile alle ore 21 a Seregno (MB): le dinamiche geopolitiche del continente sudamericano in un incontro interattivo con l’Associazione Carla Crippa

 

Siete liberi lunedì? Siete tutti invitati il 16 aprile alle ore 21 a Seregno (MB), per un evento del Caffè sulle dinamiche geopolitiche del continente sudamericano.

 

In Oratorio San Rocco (Via Cavour 85), un incontro organizzato dagli amici della Associazione Carla Crippa: una panoramica sul Sudamerica e diversi focus e analisi su Paesi, scenari, relazioni e equilibri. Una serata interattiva, tra video, audio, letture e molto altro ancora… intervengono Alberto Rossi e Davide Tentori, Presidente e Vice Presidente dell’Associazione Culturale Il Caffè Geopolitico. Ingresso Libero… vi aspettiamo!!

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Dall’ALBA…al tramonto

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Già durante la sua visita in Turchia del 15 marzo il Presidente dell’Ecuador Rafael Correa aveva ventilato la possibilità di non partecipare al sesto Vertice delle Americhe in programma a Cartagena (Colombia) il 14 e 15 Aprile. La decisione è stata confermata nei giorni scorsi, e motivata con l’esclusione di Cuba dal vertice, ma anche con l’esclusione del tema delle Falkland/Malvinas dai punti in discussione al vertice

LA POSIZIONE DELL’ALBA – Già a febbraio Correa aveva proposto ai suoi alleati dell’ALBA (Alleanza Bolivariana per l’America Latina e il Caribe) di disertare il vertice se Cuba non fosse stata invitata: a dispetto dell’unanime condanna del blocco statunitense contro l’isola e del veto di Washington alla presenza di Cuba al vertice, gli altri membri dell’ALBA hanno però confermato la propria presenza, a meno di ripensamenti dell’ultimo minuto. Secondo il governo colombiano lo stesso Chávez avrebbe chiesto al suo omologo ecuadoregno di riconsiderare la propria posizione e di partecipare al vertice, ricevendo però un garbato rifiuto. La mancata unità dell’ALBA rischia quindi di trasformare l’iniziativa di Correa in un boomerang per il proprio Paese, e di creare frizioni diplomatiche future con la Colombia. La posizione statunitense è stata duramente contestata da Correa, che di riflesso condanna anche l’organizzazione e la struttura del vertice: secondo il presidente ecuadoregno, “si è parlato di mancato consenso, ma tutti sappiamo che si tratta del veto di paesi egemonici, situazione intollerabile nella Nostra America del XXI secolo”. Il riferimento agli Stati Uniti è chiaro, così come il rimprovero indiretto all’organizzazione colombiana che avalla di fatto questo veto. CUBA, L’OSA E WASHINGTON – La mancata partecipazione di Cuba è una diretta conseguenza dell’esclusione dell’isola dall’Organizzazione degli Stati Americani, decretata nel 1962 e confermata fino al 2009. A dispetto della cancellazione del veto statunitense alla partecipazione di Cuba all’OSA, l’isola non ha ancora richiesto di essere riammessa, e probabilmente non lo farà almeno fino ad un eventuale cambio di governo: il presidente Raúl Castro aveva affermato in proposito che Cuba non apparterrà mai all’OSA, in quanto frutto della Guerra Fredda e strumento nelle mani di Washington. D’altra parte, l’OSA ed i Vertici delle Americhe sono eventi formalmente slegati: per questo motivo, alcuni paesi avevano ipotizzato la partecipazione cubana al vertice, incontrando però il veto statunitense. Secondo il governo degli Stati Uniti, Cuba non assicura il rispetto degli standard democratici richiesti per partecipare a questo tipo di vertici, ed ha confermato il proprio veto; da parte sua, il presidente colombiano Santos non ha potuto far altro che riconoscere la mancanza di accordo unanime sulla presenza dello stato caraibico. La posizione di Cuba nel sistema delle organizzazioni regionali americane rimane quindi altamente contraddittorio e soggetto ai veti ed ai desideri della potenza statunitense. Secondo il cancelliere Cubano Rodríguez, proprio la necessità di una autorizzazione da parte di Washington conferma che i Vertici delle Americhe “sono fatti a immagine e somiglianza del suo padrone”.

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LA PROLIFERAZIONE DEI VERTICI E DELLE ORGANIZZAZIONI– Nella lettera indirizzata al presidente Santos, Correa condanna anche la proliferazione dei vertici in atto in America Latina, considerate spesso e volentieri come inconcludenti: questa posizione echeggia da vicino quella tenuta in molte occasioni dal presidente venezuelano Chávez, ma anche da altri presidenti della regione. D’altro canto la proliferazione di vertici e organizzazioni è indubitabile, così come è fuori discussione il fatto che spesso questi vertici non affrontino i problemi reali della regione. Sotto questo punto di vista, l’esclusione del tema delle Falkland/Malvinas dal tavolo appare di difficile comprensione, a meno che l’obiettivo del Vertice non sia il successo dello stesso, con la conseguente eliminazione di ogni possibile tema spinoso dal dibattito. Francesco Gattiglio [email protected]