martedì, 16 Dicembre 2025

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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Un’amara medicina

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L’Unione Europea sta negoziando con l’India per un accordo di libero scambio che potrebbe ridurre drasticamente l’accesso ai farmaci economici salvavita per milioni di persone affette da HIV/AIDS. L’India, che produce l’80 per cento dei medicinali generici destinati alla lotta contro l’AIDS, finora ha mantenuto la sua posizione nel non voler accettare queste condizioni, ma i tentativi dell’Europa di limitare l’accesso a questi medicali sono insistenti. Ecco come questa questione si inserisce nell'importante dinamica del commercio bilaterale tra Nuova Delhi e Bruxelles

IN GIOCO LA VITA DI MILIONI DI PERSONE – La giornata mondiale contro l’AIDS celebrata ogni 1° di dicembre, quest’anno vuole richiamare le istituzioni alle proprie responsabilità per impegnarsi in maniera più decisa sul fronte dell’accesso alle cure. Questo aspetto dovrebbe suscitare particolare attenzione a causa della concomitanza con la conclusione delle trattative tra l’Unione Europea e l’India per un accordo di libero scambio tra le due potenze economiche. Già nel giugno del 2007 la Commissione Europea (CE) e il governo indiano hanno intrapreso i negoziati verso un accordo completo e di vasta portata sul libero scambio, che potrebbe avere conseguenze significative non solo per l’economia indiana ma anche per milioni di persone affette da HIV/AIDS che vivono in paesi del terzo Mondo. MEDICINALI GENERICI – Alcune delle disposizioni che la CE intende imporre all’India, minacciano la posizione di quest’ultima come maggior produttore di farmaci generici, che hanno giocato un ruolo fondamentale nell’aumento delle cure antiretrovirali nei paesi in via di sviluppo. Prima di approfondire il discorso, vi è la necessità di chiarificare cos’è l’industria dei medicinali generici e l’importanza di quest’ultima ai fini dei trattamenti salvavita per le persone sieropositive nei paesi in via di sviluppo. Il ciclo di produzione di un prodotto farmaceutico comincia con la scoperta di un determinato principio attivo caratterizzato da particolari potenzialità terapeutiche. Un lungo (e costoso) ciclo di test clinici che confermano l’efficacia e la sicurezza del farmaco, come anche il periodo di ricerca antecedente alla scoperta, rendono necessaria la richiesta di tutela brevettuale da parte delle aziende farmaceutiche. Queste ultime così possono assicurarsi un ritorno economico sugli investimenti effettuati. Una volta scaduto il brevetto, che copre un periodo di circa 20 anni, un’ industria farmaceutica può ‘copiarla’ e mettere sul mercato un prodotto con le stesse proprietà del farmaco originale, ma con una differenza fondamentale: il prezzo. Infatti, questo può venire a costare almeno il 20% in meno rispetto a quello originale e permette così un consistente risparmio a coloro che ne hanno bisogno. LA FARMACIA DEL SUD DEL MONDO – La questione dei farmaci generici è uno dei punti caldi delle trattative tra la CE e l’India. Il subcontinente è soprannominato farmacia del Sud del mondo e produce l’80% medicinali generici destinati alla lotta contro l’HIV e l’AIDS. Le clausole che la CE vuole far approvare sono state contestate dal Global Fund, da varie ONG come Medici senza Frontiere, ma anche dalla stessa Organizzazione mondiale della Sanità, che contestano il prolungamento della durata dei brevetti e, particolarmente, l’esclusività dei dati di ricerca clinica. Questi dati, prodotti dalle multinazionali farmaceutiche, accertano la sicurezza ed efficacia dei principi attivi e la mancanza di questi accertamenti, aumenterebbe molto i costi dei farmaci, visto che le industrie farmaceutiche locali indiane sarebbero costrette a iniziare da capo la ricerca oppure aspettare la fine del periodo di protezione dei dati per il periodo di dieci anni.

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EUROPA! GIÙ LE MANI DALLE NOSTRE MEDICINE!” – In una nota pubblicata a Ginevra, il Relatore Speciale sul diritto alla salute delle Nazioni Unite, Anand Grover, ha inoltre sottolineato come l’accordo di libero scambio nella versione corrente non sarebbe in regola con la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, visto che andrebbe a privare milioni di trattamenti salvavita. Grover ha anche criticato la mancanza di trasparenza dei negoziati sull’accordo e si è unito alle campagne come quella indetta da Medici senza Frontiere, “Europa! Giù le mani dalle nostre medicine”. Ariane Bauernfeind, coordinatrice dei progetti di MSF in Africa ha dichiarato: “Senza cure appropriate, la metà dei bambini affetti da HIV/AIDS non raggiungerebbe il secondo anno di vita. Non possiamo permettere che l’UE interrompa la nostra fornitura di medicine nuove e a basso costo”. Veronika D’Anna [email protected]

Gilad Shalit libero

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Seguite qui il live blogging della liberazione di Gilad Shalit, dal sito di Ha’aretz

Seguite qui il live blogging della liberazione di Gilad Shalit, dal sito di Ha’aretz

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Sul filo del rasoio

Mentre gli scenari caldi aperti ormai da tempo sembrano faticare a raggiungere una soluzione , con gli insorti libici fermi alle porte di Sirte e Bani Walid, i protestanti in Siria e in Yemen bersagliati dalle forze di sicurezza fedeli ai Presidenti Al Assad e Saleh, l’Iran irrompe sulla scena internazionale per il complotto svelato dall’FBI sui piani di omicidio dell’ambasciatore saudita a Washington e per i suoi piani di espansione nucleare. Anche questa settimana il caffè è bollente in un Medio-oriente in subbuglio

 

EUROPA Giovedì 20 – Il vice-Presidente della commissione europea Antonio Tajani  presenzierà al lancio dei primi satelliti del progetto Galileo che porteranno in orbita i primi moduli del sistema di orologi più preciso al mondo finanziato dall’European Space Agency. Domenica 23 – Il Consiglio Europeo si riunisce per discutere dell’evoluzione della politica economica, della preparazione del meeting G20 e delle misure per fermare il cambiamento climatico. Sul tavolo i progetti di nuove misure di regolazione finanziaria, la posizione dell’UE sulle tematiche del G20 di Cannes del 3 e 4 Novembre e le proposte per la Conferenza di Durban sul cambiamento climatico del 28 Novembre. Parallelamente alla sessione del Consiglio Europeo i capi di Stato e di Governo dei paesi dell’area euro si incontreranno con il Presidente Van Rompuy per discutere degli aiuti all’economia greca e del futuro del fondo “salva-stati”.

 

ASIA

CINA – Il governo di Pechino sembra interessato a sostenere l’economia dei paesi dell’area euro in difficoltà in cambio di nuovi tagli strutturali. Il sostegno si potrebbe concretizzare grazie ad una vera e propria iniezione di denaro tramite l’aumento delle quote detenute di debiti sovrani e l’acquisto di strutture privatizzate, tra i quali l’aeroporto di Atene. Intanto i rapporti tra Stati Uniti e Cina si fanno sempre più rigidi dopo che il Senato americano ha approvato misure di rappresaglia contro i paesi che manipolano la propria valuta, tra cui proprio la Cina.

 

MYANMAR – Il regime prosegue la sua politica di pacificazione internazionale rispondendo alle pressioni del Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon e delle opposizioni con il rilascio in massa degli oppositori politici incarcerati da anni. Decisive sono risultate le manovre del Segretario di Stato americano che ha promosso colloqui bilaterali per una road-map democratica in un paese in posizione chiave nel Pacifico.

 

COREA DEL NORD – Il regime di Kim Jong Il e il governo del Presidente Obama dovrebbero riprendere i “nuclear talks” interrotti bruscamente nel 2008 e naufragati dopo il test nucleare del 2009. La Corea del Sud e gli stessi Stati Uniti temono che il 2012 possa tramutarsi in un annus horribilis per la piena ed effettiva nuclearizzazione del paese viste le dichiarazioni sui progetti atomici e la coincidenza con il centenario della nascita del “Patriota nazionale” Kim Il Sung.

 

AMERICHE

MESSICO – Mentre le forze di sicurezza e l’esercito messicano sono ormai impegnati notte e giorno nella guerra ai cartelli della droga, il Presidente Calderón starebbe ideando un nuovo sistema di lotta armata al narcotraffico senza disdegnare l’ipotesi della legalizzazione di alcune sostanze stupefacenti considerate “leggere”, come hashish e marijuana, per togliere ai cartelli ormai onnipotenti una piccola parte dei loro traffici.

 

Giovedì 20 – L’ex Presidente USA George W. Bush si recherà in Canada per una visita istituzionale. Non mancano le proteste di Amnesty International che ha intimato al governo canadese di procedere all’arresto del predecessore di Barack Obama per essersi macchiato di vari crimini internazionali tra cui la tortura. Il Ministro degli Interni Jason Kenney si è opposto alla richiesta di AI bollandola come ideologica e poco attinente alla difesa dei diritti umani. USA – Secondo indiscrezioni il Presidente Obama in persona si sarebbe spinto a fare pressione sui funzionari dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) affinchè denunciassero le mire nucleari dell’Iran di Ahmadinejad accusato in settimana di progettare attentati all’ambasciatore saudita e all’ambasciata israeliana a Washington con l’aiuto di killer legati ai “Los Zetas” messicani. Con la campagna elettorale per le presidenziali 2012 ormai a pieno regime, un nuovo nemico giurato farebbe comodo all’amministrazione uscente e l’Iran e il suo piano per l’energia nucleare sembrano l’obiettivo perfetto.

 

ARGENTINA – Si svolgerà domenica 23 il primo turno delle elezioni presidenziali. Cristina Kirchner, Capo di Stato uscente (nella foto sotto), sembra destinata ad una facile riconferma dalle urne, dato che gli ultimi sondaggi la accreditano come vincente già al primo turno con oltre il 50% delle preferenze. La competizione sembra essere ristretta solo a chi otterrà il secondo posto: i più accreditati sono Hermes Binner, del Partido Socialista, e Ricardo Alfonsín dell’Unión Cívica Radical.

 

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AFRICA

LIBERIA – Tempi duri per Ellen Sirleaf Johnson nonostante il Nobel per la Pace, la Presidente uscente non solo si è dovuta scontrare con le denunce di brogli elettorali da tutti i partiti dell’opposizione, ma si è posizionata dietro il suo sfidante Winston Tubman in un testa a testa con l’ex signore della guerra civile Prince Johnson. Proprio come nel caso di Obama, il Nobel sembra pesare sulle spalle dei politici che ne ricevono gli onori.

 

SOMALIA – Il Governo keniota ha confermato di aver inviato numerose truppe sostenute dall’aviazione circa 100 chilometri all’interno del territorio somalo per sradicare l’influenza del movimento jihadista “Al-Shabab” nelle province a Sud. L’intervento militare segue i continui sconfinamenti di militanti somali in Kenya, con l’obiettivo di rapire turisti o dipendenti di Organizzazioni Internazionali per ottenere riscatti ingenti, e sembra avvenire con il consenso tacito del governo federale di Mogadiscio.

 

UGANDA – Il Presidente statunitense Obama ha autorizzato l’invio di militari e consulenti in Uganda per sostenere il governo centrale nella lotto contra i guerriglieri dell’Esercito di Resistenza del Signore (LRA) che da tempo crea instabilità nella zona di confine tra Sud-Sudan e Congo. I militari americani saranno armati ma non parteciperanno ad azioni di repressione se non direttamente attaccati e saranno dislocati solo su diretta accettazione dei governi locali.

 

MEDIO-ORIENTE

IRAN – Nonostante le smentite provenienti dai funzionari dell’agenzia, sembra che il rapporto dell’AIEA destinato al consiglio dei governatori conterrà dettagli dell’evidente dimensione militare degli impianti di Teheran volte allo sviluppo di armi nucleari. Sul fronte del “complotto diplomatico” L’Ambasciatore americano all’ONU Susan Rice sembra aver comunicato al suo pari iraniano un ultimatum a proposito della faccenda dichiarando di aspettarsi una rapida conclusione della vicenda con la punizione dei mandanti all’interno della Guardia Rivoluzionaria.

 

YEMEN – Il Presidente yemenita Ali Abdullah Saleh cerca appoggi altolocati all’interno dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU, in vista di probabili sanzioni o addirittura di un intervento per tutelare la popolazione. Russia e Cina, i paesi più sensibili a qualsiasi violazione del principio di Sovranità, sarebbero gli alleati di Saleh che continua a mostrarsi determinato a guidare personalmente il paese verso elezioni democratiche.

 

SIRIA – Il caos è totale in Siria dove per tutto il fine settimana gli oppositori del Presidente Al Assad hanno subito il fuoco delle forze di sicurezza del regime. Mentre l’esercito si sfalda, tra lealisti e fedeli alla popolazioni, la rivolta sembra assumere sempre più le forme di una vera e propria guerra civile tra le fazioni etniche presenti nel territorio. La Lega Araba sembrava finalmente propendere per un’ammonizione ufficiale del regime di Assad con una sospensione da status di paese membro dell’Organizzazione, ma in realtà alla fine si è pronunciata in maniera contraria. Ha invece proposto l’istituzione di una commissione di controllo che coinvolga anche le opposizioni.

Stretta tra Francia e Germania

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Oggi come allora. Al di là delle fatiche interne, l’Italia ha sempre cercato di trovarsi, con alterne fortune, uno spazio autonomo in un’Europa dove comandavano i giganti Francia e Germania. Un discorso attuale adesso come al tempo della nascita della Comunità Europea. Per capire l’origine di tali dinamiche, eccovi questo “flashback” del nostro speciale sulla storia della politica estera italiana, relativo al ruolo, i successi e le fatiche del nostro Paese all’inizio della storia dell’Europa unita

 

EUROPA UNITA? – Nel 1946, nella città tedesca di Colonia, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schumann – il Ministro degli esteri francese dell’epoca, – s’incontrano nel contesto di un vertice cristiano democratico europeo. Mentre espongono gli ideali democristiani gettano anche le prime basi di un’Europa unita. L’Italia, grazie in parte al peso di uno statista quale De Gasperi, fa parte del nucleo che ha inizialmente dato vita all’odierna Unione Europea. É fra i paesi firmatari del trattato CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), che unifica la produzione di carbone e acciaio, e del trattato CEE, che nel 1957 -proprio a Roma (foto sotto) – sancisce la data di nascita del progetto europeo. Non per questo però l’Italia è stata un protagonista di peso della politica europea ai suoi albori. Questa infatti rimane ampiamente sottomessa alla volontà di Francia e Germania. L’asse franco-tedesco ha rappresentato, un tempo come oggi, il motore della vita politica ed economica dell’Unione.

 

LA PAURA IN ARRIVO DALL’EST – Peraltro, l’integrazione era un dato di fatto allora più lampante di quanto si possa credere. Nel 1948 gli Stati Uniti impongono la creazione dell’OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica) per coordinare la gestione del piano Marshall i cui fondi sono destinati a ricostruire l’Europa distrutta dalla guerra (e rilanciare l’economia americana). La ricostruzione, inoltre, ha bisogno, oltre che di aiuti economici, di carbone ed acciaio per cui la CECA rappresenta una via logica, oltre che pratica visto che sul piano della sicurezza le minacce di guerra sul continente europeo si erano spostate sempre più verso l’Est, la Germania del Reich hitleriano essendo adesso rimpiazzata dall’Unione Sovietica stalinista. Un mese dopo l’adozione del trattato CECA, nel giugno 1950 esplode infatti la guerra di Corea e con essa la Guerra Fredda. In questo contesto gli Stati Uniti sono favorevoli ad un riarmo della Germania Occidentale, beneficio che sarà progressivamente concesso con la sua adesione alla NATO nel 1955.

 

ITALIA: LUCI… – Come per i suoi omologhi francesi e tedeschi che vedevano, gli uni nel progetto europeo il rafforzamento della leadership francese a discapito dei rivali inglesi, gli altri la possibilità di rivalutare il ruolo della Germania in Europa, l’Italia cerca nell’Europa unita non solamente una pace duratura ma anche la realizzazione di obiettivi nazionali. In primo luogo, come per i tedeschi, l’Italia uscita sconfitta dal conflitto cercava una nuova legittimazione con i suoi partner europei. De Gasperi temeva che non partecipare al rilancio della diplomazia internazionale post-guerra potesse pregiudicare l’Italia e lasciarla al margine. In questo senso vanno lette le adesioni effettuate con rapidità dal governo italiano all’OECE nel 1948 ed al Consiglio d’Europa nel 1949. In secondo luogo, con l’adesione alla CEE l’Italia sperava di dare slancio allo sviluppo del Mezzogiorno. Priva di risorse energetiche come il carbone e paese storicamente d’emigranti, l’Italia avrebbe contribuito al piano della CECA -il cui trattato veniva unito a quello CEE nel 1957 insieme a quello EUTRATOM-  con l’esportazione di manodopera ricevendo in cambio aiuti per il suo sviluppo.

 

E OMBRE – La vocazione europea dell’Italia ha contribuito al progredire della giovane unione. Nel 1965, sotto il governo Moro, gioca un ruolo diplomatico fondamentale per risolvere la crisi della “chaise vide” (sedia vuota), il blocco delle istituzioni europee provocato dalla Francia in disaccordo con la politica di ridistribuzione dei fondi della Politica Agricola Comune. Tra il 1975 ed il 1984, data dell’approvazione dell’Atto Unico, il trattato che rivede e riunifica quelli del 1957, l’Italia è protagonista col Movimento Federalista Europeo il cui leader carismatico è Altiero Spinelli. Il Movimento ottiene l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo (che si riunisce in quanto tale per la prima volta nel 1979) e, per l’appunto, la revisione dei trattati con l’adozione dell’Atto Unico Europeo. Quest’ultimo però, non rifletterà le ambizioni dei federalisti lasciando in particolare al parlamento europeo, un ruolo ancora marginale nel processo decisionale della Comunità Europea. La debolezza politica e diplomatica dell’Italia fu tuttavia più evidente ancora  prima della nascita della CEE, in concomitanza con il progetto di Comunità Europea di Difesa (CED). De Gasperi era totalmente favorevole all’iniziativa che, come è noto, fu bloccata sul nascere da un voto referendario della Francia a cui mancò il coraggio di ratificare una proposta che il suo stesso governo aveva prodotto senza però valutare  le conseguenze politiche in quanto implicava la clausola, implicita, del riarmo tedesco seppur in un contesto di un esercito europeo. De Gasperi ebbe da recriminare sul fallimento dall’esperienza della CED in quanto per molti questa rappresentava il primo passo verso la Comunità Politica.

 

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TRA PARIGI E BERLINO – Da quel momento in avanti la bilancia diplomatica ha continuato a pendere sempre più favorevolmente verso l’asse franco-tedesco, un’alleanza sancita nel 1963 con il trattato dell’Eliseo attraverso il quale De Gaulle ed Adenauer mettevano  definitivamente da parte i fantasmi della guerra e, soprattutto, affermavano il controllo di Parigi e Berlino sull’avvenire dell’Europa. É stato necessario infatti aspettare l’abbandono della vita politica di De Gaulle nel 1969 per poter rilanciare il processo d’adesione, in particolare della Gran Bretagna la cui candidatura rimaneva in attesa da un decennio a causa del veto gaullista. Quest’ultimo infatti era convinto che l’adesione di Londra avrebbe influito sulla leadership francese e cambiato gli equilibri europei, una previsione che per altro non fu del tutto erronea visto che la prima azione presa dall’Inghilterra fu di rinegoziare i fondi regionali per lo sviluppo, una cosa il cui impatto fu negativo per l’Italia che contava su queste risorse per il suo sviluppo. Il fallimento della CED (e della CEP) ha però anche spento sul nascere le visioni più federaliste dell’Europa lasciando passo, invece, al funzionalismo economico sostenuto da Monnet e Schumann. L’azione diplomatica dell’Italia del dopoguerra,  la cui orientazione non era contraria al funzionalismo pur essendo più federalista di quella della Francia di De Gaulle che vedeva nell’Europa un’estensione della sovranità francese, non ha cambiato questa direzione. Anzi, la conferenza intergovernativa di Messina del 1955 che precede i trattati di Roma rilancia il progetto d’integrazione su basi chiaramente economiche. L’orientazione funzionalista scelta dai padri dell’Europa -Adenauer, De Gaulle, De Gasperi-  convinse forse definitivamente la Gran Bretagna ad abbandonare il tavolo dei negoziati di Messina, inducendola a preferire al progetto europeo, almeno per il momento, i rapporti privilegiati che, proprio economicamente, intratteneva con le nazioni del Commonwealth.

 

Gilles Cavaletto

Peacekeeping all’italiana

Negli ultimi decenni si è fatta strada una nuova modalità di utilizzare le Forze Armate da parte degli Stati, ovvero quella di prendere parte alle cosiddette “missioni di pace”, volte a stabilizzare un Paese appena uscito da un conflitto. L’Italia ha sfruttato questa modalità in maniera incisiva, facendone una delle peculiarità più riconosciute della propria politica estera. Dal Congo al Libano, ripercorriamo le tappe principali cercando di sottolineare i punti di forza e di debolezza del peacekeeping nostrano

 

TRE VIE, UN SOLO PAESE – Novembre 1961. Nella città di Kindu, in Congo, 13 aviatori italiani muoiono in una missione umanitaria sotto l’egida dell’ONU. È forse la prima operazione di peacekeeping tradizionale che vede l’Italia impegnata direttamente. Inverno 2006. L’allora Presidente del Consiglio, Romano Prodi, annuncia il ritiro del contingente Italiano dall’Iraq, ossia la fine della missione di pace Antica Babilonia. L’Italia – come quasi tutti gli alleati ad eccezione di Inghilterra e Polonia – aveva scelto di affiancare gli Usa solo dopo la fine delle operazioni per la caduta di Saddam, inviando i propri soldati in Iraq nel 2003 insieme, tra gli altri, a Spagna, Australia, Olanda e Corea del Sud. Il ritiro delle truppe italiane avviene dopo quello di Spagna e Olanda, rispettivamente precedenti di uno e due anni. Estate 2006. L’Italia annuncia l’invio di 3000 uomini in Libano per una missione di pace successiva al cessate il fuoco, candidandosi di fatto come guida e promotrice della missione UNIFIL-2. L’intraprendenza dell’Italia trascina nella missione altri alleati europei, la Francia su tutti, preoccupati di lasciare a Roma un capitale di credito politico troppo ampio in un’area tanto cruciale del mondo. Delineate in una maniera forse troppo rude, ecco le tre vie italiane al peacekeeping, che corrispondono alle tre facce di politica estera esibite dal nostro paese negli ultimi 50 anni. Di sicuro ha prevalso la strada dell’impegno, più o meno consapevole o più o meno rispondente ad una linea chiara di politica estera. Che fosse sotto l’egida dell’ONU o preoccupata di non scontentare gli alleati europei ed atlantici, l’Italia ha investito molto nella partecipazione alle varie missioni di peacekeeping e stabilizzazione da “presunto” dopoguerra (leggi Iraq e Afghanistan) in varie aree del Mondo, dai Balcani al Medio Oriente, all’Africa Centrale. Nel periodo della missione in Iraq oltre 12000 soldati italiani erano impegnati in operazioni oltre confine.

 

PERCHE’ PARTIAMO? – Per capire il percorso dell’Italia nel costruirsi un ruolo credibile come forza di pace bisogna chiedersi cosa abbia mosso i Governi italiani nell’investire uomini e risorse nelle missioni militari all’estero. Una ragione fondamentale è stato il desiderio di acquisire nuovo peso nella propria politica estera: l’impegno nelle missioni di pace avrebbe dovuto garantire prestigio e credito da spendere sia con i vicini geografici e politici, sia con i paesi liberati e stabilizzati. In aggiunta, soprattutto per quanto riguarda i conflitti nei Balcani, l’intervento italiano mirava a cercare di neutralizzare potenziali polveriere distanti solo pochi chilometri dai nostri confini. Considerando entrambe le prospettive, il bottino delle nostre missioni è stato spesso magro. Il prestigio internazionale di cui pensavamo di essere creditori ci è stato riconosciuto, è vero, ma solo in parte. Nelle cosiddette missioni “americane”, in Iraq ed Afghanistan, il nostro ruolo è stato più quello di partecipanti a volte oscillanti tra il timore di scontentare gli alleati e i vincoli di un’opinione pubblica che, soprattutto durante i primi anni di queste missioni, ha spesso protestato per le missioni di pace per le quali si registrano pesanti perdite in termini di vite umane.

 

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C’E’ UNA TERZA VIA? – L’intervento in Libano sembrava offrire la svolta per una politica estera personale e in prima linea dell’Italia. Libera dal coordinamento americano – gli USA con le questioni Afghanistan e Iraq  ancora aperte si liberarono volentieri dall’onere di intervenire direttamente – e con la Francia che per interessi diretti titubava nell’intervenire in prima persona, l’Italia si è trovata nella possibilità nuova di dare una propria linea alla politica estera mondiale. In questa porta spalancata verso delle preziose boccate di prestigio internazionale si è tuffato il Governo italiano di quegli anni, con investimenti notevoli, ripagati da un discreto successo, sia sul campo che nelle relazioni internazionali. Si può dire infatti che l’intervento in Libano e l’assegnazione del comando della missione UNIFIL-2 abbia coronato il processo di impegno sempre maggiore dell’Italia al fianco delle altre potenze militari mondiali. Nonostante questo l’Italia paga ancora la natura episodica delle sue decisioni. Proprio quando il capitale di credibilità e prestigio poteva essere sfruttato nella regione, l’Italia ha nuovamente esitato, ripiombando nella subordinazione della politica estera a quella interna e rinunciando di fatto a confermare il suo ruolo come di leader nella regione.

 

GLI ITALIANI ALL’ESTERO – Di fatto, la via italiana al peacekeeping va ricercata, più che nelle linee guida spesso deboli o contrastanti dettate dai Governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni, nelle peculiarità dei militari italiani in missione all’estero. Poco propensi ad usare la forza militare e sicuramente più incisivi sotto l’aspetto diplomatico, sono spesso i soldati italiani ad accumulare credibilità e simpatia presso le popolazioni aiutate per conto del paese che rappresentano. Ma queste caratteristiche altro non sono che l’approccio alle missioni di pace di un’intera nazione, emotiva e tendenzialmente molto restia ad un impegno  che possa causare perdite o permanenze prolungate all’estero dei propri soldati. L’impegno dell’Italia degli ultimi vent’anni non rende ancora giustizia del ruolo che potrebbe rivestire come forza di pace e stabilizzazione in molte delle aree più esplosive del pianeta. La sostanziale assenza – fatta eccezione per la Libia – di coinvolgimenti diretti legati a periodi coloniali più o meno foschi la rendono una delle poche nazioni in grado di spendere una genuina credibilità verso le popolazioni da aiutare. In aggiunta, la proverbiale italian way dei nostri soldati contribuisce ad accrescere questa sorta di aura di prestigio e autorità non interessata, che pochi altri paesi possono vantare. Tuttavia, i limiti dell’Italia come leader delle missioni di pace internazionali vanno ricercati ancora una volta nella politica interna e nella balbettante subordinazione in cui questa relega le linee guida di politica estera, ancora troppo spesso orientate nel non scontentare gli alleati più influenti.

 

Marco Nieddu

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Fratelli d’Arabia

Aumentano in maniera sensibile le relazioni economiche tra il nostro Paese e l'Arabia Saudita, sia in termini di interscambio commerciale che di investimenti diretti esteri. Del resto, Riyadh è un partner strategico soprattutto per i risvolti energetici ma anche per l'importante posizione geografica in cui si trova lo Stato mediorientale, che ne fa un hub commerciale di primo livello insieme agli Emirati Arabi Uniti

TUTTI A RIYADH – L'Italia punta sull'Arabia Saudita. Questo potrebbe essere lo slogan della “nuova” strategia economico-commerciale del nostro Paese nel Medio Oriente. L'Arabia Saudita sarebbe stato individuato come il migliore partner commerciale della regione per via, non solo del petrolio, ma anche del suo crescente peso politico nella regione, nel mondo arabo e in quello islamico. Peso che rendono l’Arabia Saudita un fondamentale interlocutore politico ed economico di riferimento per il nostro Paese. Terrorismo, Iran e Medio Oriente saranno i settori di comune interesse. Ma l'attenzione verso Riyadh risiede, principalmente, nella volontà del nostro Paese di ritagliarsi importanti fette di mercato e nell'opportunità di esplorare un territorio dalle grandi potenzialità inespresse. La crisi internazionale, infatti, ha posto l'Italia dinanzi alla necessità di dover vagliare nuovi sbocchi commerciali utili a rafforzare il nostro peso politico-economico a livello internazionale. E l’Arabia Saudita è un possibile candidato utile a garantirci questa opportunità. La scelta italiana verso il gigante saudita è stata dettata dalle recenti riforme del quadro normativo interno, dalla limitata imposizione fiscale e da una manodopera non gravosa, che offrono grandi opportunità di investimento alle aziende del nostro Paese. Nonostante la grave crisi economica e finanziaria del 2009 che ha colpito il Paese arabo, producendo anche una diminuzione dell’interscambio commerciale tra Roma e Riyadh del 41,3%, il mercato saudita gode, però, di una buona capacità di ripresa, come dimostrano, appunto i dati del 2011 sullo stato di salute dell'economia saudita: secondo le stime del FMI, nel 2010 il Paese ha avuto un tasso di crescita positivo del PIL in termini reali del 3,7%, un incremento del 39,3% per quanto riguarda le esportazioni e del 6% per quanto riguarda le importazioni. Inoltre, l’intenzione del governo saudita di diversificare il proprio mercato offre, quindi, grandi opportunità di investimenti stranieri.

GLI SCAMBI ITALO-SAUDITI – I dati ISTAT relativi al primo trimestre del 2011 hanno evidenziato una forte crescita dell'interscambio commerciale fra l'Italia e l'Arabia Saudita rispetto allo stesso periodo di riferimento del 2010. Il valore globale è pari a 2.227 milioni di euro, con un incremento del 109% rispetto al 2010 (fonte Camera di Commercio italo-saudita). Al forte aumento dell'interscambio hanno contribuito sia le importazioni italiane, passate da 528 a 1.424 milioni di euro (+169%), sia le esportazioni, passate da 537 a 804 milioni (+50%). Per quanto riguarda la composizione merceologica dell’interscambio commerciale, i principali prodotti importati in Italia sono: i prodotti petroliferi raffinati (+360%) e altri prodotti chimici di base organici e materie plastiche in forme primarie. In materia di esportazioni italiane, i dati più interessanti provengono dalla forte crescita del settore macchinari – con una quota pari al 37,4% sul totale e un incremento del 59% rispetto al 2010 per un valore totale di 301 milioni di euro – e dal settore dei tubi e profilati (+584%). In espansione anche il comparto mobili (+69%) e, a ritmi più contenuti, l'abbigliamento (+22%). In questo modo, l'Arabia Saudita è diventata il secondo mercato per l'export italiano nel mondo arabo dopo gli Emirati Arabi Uniti.

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RISVOLTI STRATEGICI – Le ragioni economiche che hanno portato il nostro Paese negli anni ad investire in Arabia Saudita rientrano in una strategia molto più ampia che coinvolge tutta l'area del Golfo. Innanzitutto, la ricchezza petrolifera dei territori, ma anche le grandi opportunità di investimento e la possibilità di fare dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti – i mercati di riferimento dell'export italiano nell'area – i principali hub commerciali delle aziende italiane. Per questa serie di motivi l'interscambio italo-saudita rappresenterebbe un'importante opportunità di sbocco commerciale e di sviluppo per le nostre aziende, sempre più in difficoltà a competere e investire in questi Paesi a causa dei molti competitors, come India, Turchia, Cina, che hanno costi di produzione dei loro prodotti  molto bassi. Energia, infrastrutture, nuove tecnologie e industria, sarebbero, dunque, i principali settori in cui verrà rafforzata la collaborazione economica con i sauditi. In particolare, la collaborazione nel settore energetico è fondamentale anche a causa del ruolo rivestito dall'Arabia Saudita all’interno dell'OPEC come stabilizzatore del mercato petrolifero e come garante degli approvvigionamenti energetici.

UN'OPPORTUNITA' PER ENTRAMBI –Vista l'intensità crescente dei rapporti economici bilaterali fra Italia e Arabia Saudita, è stata stabilita la creazione di un raccordo operativo permanente che rafforzi ulteriormente le collaborazioni in corso fra le aziende italiane e saudite, soprattutto in ambito energetico. Questo accordo potrebbe essere molto positivo soprattutto per il nostro Paese, alla luce del programma di governo saudita volto a raddoppiare la produzione di energia elettrica entro il 2020 e alla creazione di un’unica rete elettrica nei Paesi del Golfo che, coinvolgendo anche l’Egitto, permetterebbe a Riyadh di diventare esportatore di energia elettrica anche in Europa. Il mercato saudita rappresenterebbe, quindi, una valida alternativa alla dipendenza dal gas russo e dal petrolio libico, oltre che l’apertura di nuovi sbocchi commerciali. Allo stesso tempo questo rapporto privilegiato con Roma potrebbe garantire all’Arabia Saudita la possibilità di diversificare il proprio mercato internazionale e ampliare il proprio mercato estero, in prospettiva, anche all’Europa continentale. Giuseppe Dentice [email protected]

L’importanza dei dettagli

Dopo anni, accordo fatto tra Israele e Hamas per la liberazione di Gilad Shalit, in cambio di circa mille prigionieri palestinesi. Cosa ha smosso lo stallo? Il fatto che entrambe le parti si sentissero sempre più isolate e necessitassero di una mossa pubblica che ne facesse aumentare il prestigio. Il resto è un delicato gioco di dettagli, piccoli ma fondamentali

 

ACCORDO FATTO – L’accordo è stato confermato sia dal Premier israeliano Netanyahu sia dai portavoce di Hamas ed Egitto, oltre che da numerose testate arabe. La notizia è poi rimbalzata velocemente fino ai media nostrani. Dopo anni di stallo forse ci si chiede se ci volesse davvero tanto per raggiungere un accordo che, di base, appare uguale a tutti quelli già rifiutati in passato: il soldato israeliano libero in cambio di un maggior numero di prigionieri palestinesi. Dunque, ci voleva così tanto? Non ci si poteva arrivare prima?

 

FALLIMENTI RECIPROCI – Nonostante l’attuale esultanza di entrambe le parti, la questione Shalit è stata per anni un fallimento delle politiche sia di Hamas sia di Israele: al momento del rapimento il movimento islamico probabilmente sperava di ottenere rapidamente un riscatto di prigionieri, tra cui molti esponenti importanti. Inoltre auspicava che il caporale rapito fornisse un valido deterrente contro gli attacchi dell’IDF nella Striscia. Nulla di questo è avvenuto: il rapimento è durato anni, durante i quali Hamas ha più volte cercato invano di rapire altri soldati per aumentare il proprio scarso peso negoziale, mentre Cast Lead ha mostrato la disponibilità israeliana a colpire comunque. Dall’altra parte però Israele non è mai riuscita né a liberare Shalit né a costringere Hamas a rilasciarlo alle proprie condizioni.

 

ISOLAMENTO – Quello che è cambiato ora è il grande isolamento di entrambe le parti: Hamas rinchiusa a Gaza ha visto il proprio peso politico calare sensibilmente negli ultimi anni, tanto da risultare ininfluente nella decisione del presidente Abbas di chiedere il riconoscimento della Palestina all’ONU. Le sue cellule nella West Bank sono state in gran parte smantellate e la sua capacità operativa al di fuori della Striscia di Gaza ridotta, anche se la caduta del regime di Mubarak in Egitto concede ora qualche apertura in più. La stessa Striscia è in condizioni economiche e sociali difficili, soprattutto rispetto alla situazione nei territori controllati dall’ANP (in lenta ma costante crescita secondo l’IMF). Anche la Siria, tradizionale sostegno economico, ha ora altro a cui pensare. La popolarità del movimento è dunque in calo, con la popolazione sotto il proprio controllo sempre più orientata verso visioni differenti: Hamas risulta troppo estremista per chi auspica la pace, o non abbastanza tale per i miliziani ancora intransigenti verso ogni accordo. Anche il governo Netanyahu è molto isolato internazionalmente per le sue posizioni tolleranti verso molti insediamenti illegali nella West Bank, per le difficoltà interne riguardo alla situazione economica e per l’aver sostanzialmente bloccato da anni ogni negoziato con i Palestinesi.

 

DETTAGLI – Ecco dunque che entrambe le parti hanno preferito allentare un po’ le proprie richieste per giungere a un accordo che avrebbe giovato all’immagine (soprattutto) interna di entrambi. Sono infatti i dettagli ad essere differenti al passato: proprio su questi si è giocato tutto. Secondo i particolari emersi dalla stampa locale, Hamas ha rinunciato a chiedere la liberazione di alcuni suoi importanti esponenti e ha concesso a Israele di scegliere più della metà (almeno 550 su 1000) dei prigionieri da liberare. Israele ha invece acconsentito a che a un consistente numero di loro sia concesso di tornare anche nella West Bank e non solo a Gaza o esiliati all’estero. Inoltre saranno quelli scelti da Hamas ad essere liberati subito. Sembrano tutte aperture minori, ma nessuno di questi punti appariva negoziabile anche solo un anno fa, bloccando ogni possibilità di accordo. In una situazione difficile, Hamas e il governo Netanyahu preferiscono dunque incassare un importante successo sul fronte interno nonostante le concessioni; la speranza è che tutto ciò faccia dimenticare i fallimenti passati e le attuali difficoltà in altri ambiti. Ovviamente tutto questo non risolverà i problemi economici, mentre i falchi continueranno a inveire contro l’accordo, ma una cosa appare certa: come ha espresso Netanyahu stesso, appariva come un’occasione irripetibile, da cogliere ora o rischiare di perdere per sempre.

 

CHI ALTRI HA VINTO? – L’Egitto. L’accordo è stato eseguito grazie alla mediazione dei servizi segreti del Cairo che, pur avendo cambiato capi (Murad Muwafi e il suo vice Mohammed Ibrahim, al posto dell’ex-presidente Suleiman), mantengono la loro influenza abituale. Non è un caso che secondo le indiscrezioni i 550 prigionieri selezionati da Israele verranno liberati ufficialmente come “gesto di amicizia nei confronti dell’Egitto”. Rimane da vedere l’evoluzione della situazione interna sulle rive del Nilo, ma per ora la sua rilevanza internazionale a Gaza e dintorni rimane notevole, a tutto discapito di altre potenze regionali – come la Turchia – che avrebbero voluto fare altrettanto.

 

Lorenzo Nannetti

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Una diga…contro la diga

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Il progetto di costruire la grande infrastruttura per sbarrare il corso del fiume Irrawaddy, in modo da sfruttare il grande potenziale idroelettrico, è stato per il momento bloccato dal Governo di Yangon. Tensioni interne hanno indotto a questa scelta, ma dall'esterno la Cina preme affinchè venga dato nuovamente via libera ai lavori di costruzione della diga, i cui costi sarebbero sostenuto proprio da Pechino. Il “Caffè” si occupa ancora delle dinamiche geopolitiche in atto nella penisola indocinese

DIGA..SBARRATA – E’ il trenta settembre quando il governo del Myanmar annuncia un cambio di linea che finisce sulle pagine di tutte le maggiori testate. La costruzione della grande diga di Myitsone, che avrebbe dovuto sbarrare la strada dell’Irrawaddy – il fiume che in qualche modo segna l’anima del Paese- viene sospesa. Il presidente Thein Sein ha escluso che i lavori possano riprendere prima della fine del suo mandato, che scadrà nel 2015. Il progetto da 3.6 miliardi di dollari fa capo alla compagnia cinese China Power Investment Corp, e l’elettricità prodotta (circa 29,400 milioni di kilowatt-ora) dovrebbe essere trasferita quasi interamente alla Repubblica Popolare. Benché il sud-est asiatico non sia nuovo alla costruzione di mega-impianti idroelettrici, il caso della diga di Myitsone presenta alcune peculiarità. Innanzitutto sarebbe la prima ad essere costruita sull’Irrawaddy, in un Paese che sfrutta solo una piccolissima parte del suo potenziale idroelettrico. In secondo luogo, il governo che ha chiuso la porta in faccia alla China Power Investment Corp è tradizionalmente considerato un “amico “ della Cina. Il Myanmar, infatti, intrattiene stretti rapporti economici con Pechino. A riprova basti citare i lavori per la costruzione di un oleodotto che collegherà il golfo del Bengala alla provincia dello Yunnan e che permetterà alla Cina di bypassare l’insidioso stretto di Malacca. PERCHE' NO – Riguardo alle motivazioni che hanno spinto il governo verso questo gesto vanno fatte alcune riflessioni. In primo luogo va considerato il momento di transizione che sta vivendo il Paese. Solo lo scorso marzo il potere politico è passato dalle mani della giunta militare a quelle del governo civile (si potrebbe discutere se solo formalmente, quando si pensi che lo stesso presidente è un ex-generale) che ha cercato in più modi di dimostrare un cambiamento di rotta. Probabilmente, dietro alle recenti aperture si cela l’obiettivo di veder terminare le sanzioni volute dai paesi occidentali che deprimono l’economia locale. Dal momento che la costruzione della mega-diga aveva suscitato le paure di ambientalisti e dell’opinione pubblica, è possibile che il governo consideri questa come una dimostrazione di buona volontà verso la comunità internazionale. The International Rivers Network, un gruppo ambientalista,  aveva infatti affermato che la diga, oltre a sommergere vaste aree boschive, potrebbe cancellare siti storici e danneggiare le comunità a valle che sopravvivono grazie alla coltivazione del riso. Ed è un segnale importante che anche il premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi si sia spesa per opporre il progetto. Senza voler alimentare dietrologie, è inoltre interessante osservare che appena il giorno prima il ministro degli esteri Wunna Maung Lin si era incontrata a Washington con Derek Mitchell, il neo-nominato inviato degli Stati Uniti per il Myanmar. Viene da chiedersi se l’argomento non sia stato discusso. D’altro canto, nel dare una spiegazione agli eventi non si può prescindere dai rapporti di forza all’interno del Paese. Il Myanmar è una terra divisa da attriti etnici che ha conosciuto momenti di tensione e profonde violenze. La costruzione della diga di Myitsone è andata incontro all’opposizione di una delle principali minoranze etniche nazionali, i Kachin. Dotati di una propria milizia e ostili all’amministrazione centrale, i Kachin considerano la costruzione della diga come una minaccia e l’hanno veementemente ostacolata. Forse non è un caso che gli scontri fra l’esercito birmano e quello indipendentista si siano intensificati nei giorni precedenti la dichiarazione. In ogni caso, appare chiaro che ogni progetto in un paese solcato da così grandi divisioni sia suscettibile di minare i particolari interessi di qualcuno e di suscitare così reazioni anche violente. Il governo non può non tenerne conto.

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LA REAZIONE DI PECHINO – La notizia ha infiammato la dirigenza della compagnia, il cui general maneger Lu Qiazhou ha dichiarato che se la decisione di sospendere i lavori dovesse rivelarsi dfinitiva si potrebbe aprire una causa legale. Lu ha anche aggiunto che entrambe le parti soffrirebbero “perdite incalcolabili” a causa dell’interruzione. Che un simile cambio di linea fosse duro da digerire per chi investiva nel progetto non è difficile da comprendere. Anche per la diplomazia economica cinese non è stato un giorno di gaudio. Stando a quanto dichiara l’agenzia di stampa Reuters, Pechino continua a premere perché la decisione venga modificata ed i lavori siano condotti in porto. Si tratta di un investimento importante che non solo costituisce un tassello dei progetti cinesi in Myanmar (altre sei dighe sono in attesa di essere costruite), ma si tratta anche di un elemento nel più vasto panorama degli investimenti idrici legati al sud-est asiatico. Incoraggiante, per Pechino, è che il governo del Myanmar avrà bisogno del grande vicino se vorrà risollevarsi dalla povertà, e che anche un fallimento su questo versante probabilmente non danneggerebbe in profondità le relazioni bilaterali. Il commercio fra i due paesi lo scorso anno è cresciuto di oltre 4 miliardi di dollari e gli investimenti cinesi hanno superato i 12 miliardi. Il Myanmar non può permettersi di rinunciare ad una simile fonte di ricchezza nemmeno di fronte ai crescenti sentimenti di ostilità verso il potere economico cinese. Pechino, in altre parole, ha il tempo dalla sua. Michele Penna (da Pechino) [email protected]

Autunno caldo

Si avvicina il tempo dei bilanci per la Primavera Araba con le imminenti elezioni in Tunisia, la ripetizione degli scontri tra copti e salafiti in Egitto e i ribelli libici ormai prossimi alla conquista di Sirte. Se Israele sembra sempre più sola nel Mediterraneo sud-orientale, in Afghanistan si trascina una guerra lunga ormai 10 anni senza che s’intraveda uno spiraglio di pace. In Venezuela, intanto, fa discutere l'ennesima provocazione di Hugo Chávez

EUROPA Lunedì 10 – Fermento per i risultati delle elezioni politiche in Polonia, uno dei paesi più competitivi della ridimensionata economia europea. Sondaggi ed exit-polls danno per favorito lo sfidante liberale Donald Tusk sul conservatore Jaroslaw Kaczynski, fratello dell’ex premier deceduto in uno schianto aereo. 10-11 Ottobre – Riunione del Consiglio Europeo in formazione “Affari esteri”, sul tavolo le questioni più attuali come la situazione di Siria, Libia e Yemen. Ci sarà spazio anche per portare alla luce problematiche meno note al pubblico come i progetti nucleari dell’Iran di Ahmadinejad e il regime antidemocratico bielorusso. Martedì 11 – L’Alto Rappresentante dell’UE Catherine Ashton riceverà il Presidente della Confederazione Svizzera Micheline Calmy-Rey per parlare della politica estera svizzera e dei suoi punti di contatto con l’Europa per poi passare ai progetti di potenziamento dei rapporti tra Parlamento Europeo e Confederazione nel quadro della riforma introdotta dal Trattato di Lisbona. AMERICHE Lunedì 10 – Come tutti gli anni, nel secondo lunedì di Ottobre, gli Stati Uniti celebrano la scoperta del nuovo continente da parte di Cristoforo Colombo. Particolare attenzione sarà data quest’anno alla comunità italo-americana data la coincidenza del 150^ dell’Unità d’Italia. Alla presenza del Ministro degli Esteri F. Frattini, il Presidente Obama ha ricordato il contributo dei quasi 6 milioni di italiani emigrati negli USA nel secolo scorso. VENEZUELA – Fa discutere l’annuncio da parte del Presidente venezuelano Hugo Chávez dell’intenzione del governo venezuelano di espropriare e nazionalizzare i terreni dell’arcipelago paradisiaco di Los Roques (nella foto sotto) per la realizzazione di case vacanze a basso prezzo per le famiglie indigenti. La proposta, che potrebbe essere una boutade conoscendo il personaggio, oltre ad irrigidire ulteriormente i rapporti con gli statunitensi da tempo proprietari di lotti delle isole non coglie l’attenzione della popolazione che sembra essere stanca del proprio líder giunto al minimo dei consensi a pochi mesi dalle presidenziali del 2012 MESSICO – Dopo l’ennesimo weekend di sangue con il ritrovamento di 10 cadaveri mutilati a Veracruz, il Messico si prepara a resistere alla potenza naturale dell’uragano Jova giunto ormai in prossimità delle coste del paese. Sono attese violente perturbazioni e mare in tempesta con onde alte fino a 5 metri. AFRICA CAMEROON – Il 78enne Paul Biya, il capo del governo in carica da più tempo al mondo si prepara ad un ennesimo e scontato trionfo. Il round elettorale dovrebbe risultare una pura formalità non tanto per le irregolarità che hanno accompagnato il voto, ma per la frammentazione dei movimenti di opposizione che hanno candidato ben 22 sfidanti. TUNISIA – A due settimane dalle prime libere elezioni del dopo Ben Ali, la Tunisia permane in un clima di estrema incertezza e di diffusa insicurezza. Ripetute dimostrazioni di movimenti islamisti hanno mostrato l’altra faccia della Primavera Araba nel Nord Africa, che ancora oggi sfugge a qualsiasi classificazione politica. Quello che è sicuro è che il partito islamista riformista “Ennhahda” è dato per favorito nei sondaggi tra la popolazione di uno dei paesi più moderati dell’Islam del Mediterraneo. EGITTO – Futuro a tinte fosche anche per l’altro paese protagonista delle rivolte della scorsa primavera, nell’Egitto del dopo Mubarak la lotta per la libertà non ha concesso alla tradizionale minoranza copta un posto dignitoso nella scala sociale ancora dominata dall’elite musulmana. Il bilancio degli scontri del weekend tra salafiti e copti nell’Alto Egitto fa temere un ritorno di fiamma del movimento della Jamaa Islamiya protagonista di numerosi attentati negli anni ’90. LIBIA – I ribelli sostenuti dalle forze NATO sembrano ormai giunti all’assedio finale di Sirte, roccaforte simbolica del regime, ormai caduto, di Muhammar Gheddafi. Gli scontri riguarderebbero ormai una manciata di cecchini lealisti che occupano i punti cruciali del centro della cittadina e le forze del CNT che avanzano a tenaglia da Misurata e Tripoli. L’ONU ha richiamato entrambe le parti del conflitto a rispettare i diritti umani dei civili coinvolti dai bombardamenti NATO e dai rastrellamenti dei lealisti mentre la fine della guerra civile sembra sempre più vicina. MEDIO-ORIENTE IRAN – Nella lotta per il potere e il prestigio della regione mediorientale l’Iran segna un punto a suo favore con le recenti modifiche al sistema missilistico e alle difese radar ormai pronte allo scontro con i droni. I progressi militari  e i continui proclami di Ahmadinejad non fanno che aumentare l’insicurezza dello Stato di Israele che vede la propria permanenza sullo scacchiere sempre più legata alla difesa passiva degli Stati Uniti, dopo i contrasti con gli unici alleati della regione ovvero Turchia ed Egitto. ISRAELE – L’unica vera democrazia del medio oriente si prepara ad un inverno rigido nella competizione strategica della regione. La riforma sociale approvata da Netanyahu con riduzioni al costo della vita, con provvedimenti per l’edilizia, l’istruzione e un aumento di tasse per i più abbienti rappresenta il tentativo di riportare l’opinione pubblica al fianco del governo proprio mentre i caccia dell’IDF aumentano i sorvoli sui giacimenti di gas naturale al largo di Cipro contesi alla Turchia e mentre l’Iran schiera i suoi nuovi missili da crociera invisibili ai radar.

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ASIA CINA – Mentre la comunità internazionale si dice preoccupata per le sorti del premio Nobel Liu Xiaobo, di cui si sono di nuovo perse le tracce, riappare sulla scena politica Jiang Zemin, l’ex Presidente dato per morto, che potrebbe avere un ruolo di garante nella transizione della guida del Partito Comunista dopo la fine del mandato di Hu Jintao. Nel Sichuan, regione a forte tradizione buddhista il sacrificio di due monaci che si sono dati fuoco la scorsa settimana ha riacceso le proteste nella provincia dei quattro fiumi. AFGHANISTAN – A 10 anni dall’inizio della guerra Stati Uniti e Nato sembrano ormai giunti alla conclusione che la pace nel paese dell’oppio sia ormai impossibile. Continuano i colloqui segreti tra inviati USA, governo centrale e il clan Haqqani, uno dei movimenti più forti della resistenza nel Pashtunistan, mentre dall’inizio del 2011 sono 475 i soldati caduti nella regione compresi i due militari ISAF caduti domenica in un attacco nel sud del paese. GIAPPONE – Dopo la scossa di 5.6 gradi Richter a Fukushima, il governo ha lanciato una campagna di monitoraggio degli effetti su 360.000 minori dell’incidente nucleare del marzo scorso. La Tepco, responsabile della gestione degli impianti nucleari si è detta fiduciosa di rimettere in sicurezza i reattori di Fukushima entro gennaio 2012, ma continua l’incertezza sull’entità della contaminazione radioattiva nella regione. Fabio Stella redazione@ilcaffegeopolitico.net

Hugo al capolinea?

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Le immagini del presidente venezuelano Hugo Chávez di ritorno da Cuba hanno fatto il giro del mondo: in un paese dove il presidente incarna il progetto stesso del socialismo del XXI Secolo, la debolezza causata dai cicli di chemioterapia e l’esito della lotta contro il cancro hanno chiaramente un effetto politico diretto. Di più: pongono interrogativi su una eventuale successione e sulla possibilità di un chavismo senza Chávez, ad appena un anno dalle elezioni presidenziali. Nonostante questo, la malattia va a sommarsi ad una fase di debolezza politica e di contrazione della politica estera venezuelana

CHAVEZ 1998-2008 – Il salto è notevole, se si pensa che fino a qualche anno fa Hugo Chávez faceva notizia principalmente per le misure socialiste interne e per gli strali rivolti contro il diavolo Bush, il capitalismo inumano e le istituzioni finanziarie colpevoli di affamare i popoli. I caratteri principali della politica chavista sono stati la costruzione di un modello per il socialismo del XXI Secolo ed il tentativo di esportare questo modello negli altri paesi dell’America Latina attraverso una politica estera aggressiva e sopra le righe. Gli alti prezzi del greggio fornivano gli strumenti economici per finanziare programmi sociali in Venezuela e all’estero, ma anche per creare Organizzazioni regionali come Petrocaribe e Alba (Alternativa Bolivariana per le Americhe) che assicuravano a Caracas il sostegno dei suoi vicini politicamente più simili, quali Ecuador, Bolivia e Cuba. Allo stesso tempo, le politiche unilaterali dell’amministrazione Bush creavano l’ambiente ideale per la retorica antiamericana e antimperialista del presidente Chávez. A livello regionale Chávez era stato abile a ritagliare per il Venezuela un ruolo da protagonista, sfruttando il momento di crisi di Brasile e Argentina, le tradizionali potenze sudamericane. CRISI DI UN MODELLO –  Queste condizioni si sono via via affievolite, o sono scomparse del tutto. Fino al 2008 il Venezuela aveva tassi di crescita sensibilmente più alti rispetto agli altri paesi della zona, grazie soprattutto agli alti prezzi del greggio. Con l’esplodere della crisi finanziaria il Venezuela ha arrestato la propria crescita, mentre le economie degli altri Paesi sono stati in grado di rispondere molto meglio. Negli ultimi due anni il Venezuela è entrato in recessione, mentre Cile,  Brasile e Argentina hanno avuto tassi di crescita del 5-7% nel 2010. In particolare, il Brasile si è affermato come nuova potenza emergente a livello mondiale, grazie ad un modello di sviluppo decisamente meno radicale rispetto a quello chavista. Il successo del Brasile ed il momento di offuscamento della stella venezuelana hanno avuto effetti concreti a livello di politica regionale, riducendo notevolmente l’influenza venezuelana sul continente. Uno degli esempi migliori in questo senso è il caso di Ollanta Humala, neopresidente del Perù: se durante le elezioni del 2006 Humala dichiarava il proprio apprezzamento per le politiche di Hugo Chávez, nel 2011 ha assunto posizioni più moderate, ispirate a quelle adottate da Lula in Brasile.

QUALE FUTURO? – In questa situazione di debolezza fisica e politica Chávez si avvicina alle elezioni presidenziali del 2012, vero e proprio spartiacque della vita politica venezuelana. Già dal 2008 l’attenzione del mandatario venezuelano si è rivolta verso l’interno, come già era accaduto prima del 2004, all’alba del suo successo continentale. Se in quel caso i problemi interni derivavano dalle conseguenze del fallito golpe dell’opposizione dell’aprile 2002 e dalla condizione di guerra civile strisciante del paese, oggi colpisce soprattutto la disaffezione verso un progetto politico entrato in crisi (vedi chicco in più). Una riconferma di Chávez appare comunque possibile: il sostegno delle fasce più disagiate della popolazione pare garantito, ed il presidente venezuelano ha dimostrato più volte nel corso degli anni di saper coalizzare consenso attorno a sé. Nonostante questo, la proiezione esterna del Venezuela ed il ruolo protagonistico di Chávez a livello sudamericano e mondiale appaiono legati più al passato recente che al prossimo futuro: il modello lulista pare aver definitivamente tracciato la strada per i paesi sudamericani, lasciando indietro il Socialismo del XXI Secolo. Francesco Gattiglio [email protected]

Myanmar: la 24esima provincia cinese?

Quando il 1 ottobre del 1949 Mao Zedong annunciò la nascita della Repubblica Popolare Cinese, Burma fu uno dei primi paesi a conferirgli il riconoscimento diplomatico e a stabilire accordi bilaterali. A 61 anni da quel sodalizio, Tony Cliff, giornalista freelance e fotografo, racconta in una esclusiva intervista al “Caffè” come le relazioni tra la Cina e il suo “vicino” sud-occidentale sono accresciute consolidandosi notevolmente, soprattutto in ambito culturale, energetico e militare, a discapito della Thailandia e dell’ASEAN

 

Paukphaw”. Quale è la sua opinione riguardo alle relazioni bilaterali tra la Cina e il Myanmar? Qual è l’impatto di questa partnership sugli altri Paesi dell’Asia Sud-Orientale?

 

“Sembra consolidarsi sempre più in seno all’ASEAN l’opinione che le relazioni del Myanmar con la Cina saranno sempre più bilaterali, invece che rafforzarsi attraverso l’Associazione. La recente visita di stato in Cina del Presidente Thein Sein ha per l’appunto  accresciuto questa intesa. Ironia della sorte, lui ha chiesto al suo omologo cinese di aiutare il Myanmar ad occupare il posto di presidenza dell’ASEAN nel 2014.

 

Cerchiamo di capire quali sono gli obiettivi geopolitici della Cina in Myanmar. Quale ruolo gioca la rivalità sino-indiana nel teatro strategico del Sud-Est Asiatico?

 

“Per anni l’India è stata dalla parte dell’opposizione democratica. Io ricordo che nel 1988, l’Ambasciata indiana a Bangkok dava soldi agli studenti che avevano lasciato il Paese (Myanmar) per raggiungere la Thailandia dopo la repressione militare. Questo fatto generò un bello scandalo! A metà degli anni novanta, l’India ha cambiato la sua politica sul Myanmar, spaventata dall’influenza crescente della Cina sull’economia del Paese. Oggi, oltre che per questa influenza economica, l’India è molto più preoccupata per il valore strategico dell’accesso all’Oceano Indiano, accordato alla Cina dal Myanmar (nelle  isole Coco, è in costruzione un doppio condotto per il gas e per il petrolio, dallo stato birmano del Rakhine alla provincia cinese dello Yunnan)”.

 

Attualmente sta crescendo il soft power cinese nel Myanmar? In che modo l’influenza culturale cinese condiziona la percezione birmana della sua partnership con la Cina?

 

“Per molti anni la presenza cinese nella parte settentrionale del Myanmar è stata notevole. Per esempio, molti imprenditori cinesi vivono in ville lussuose nel Mandalay, molti cinesi lavorano come businessmen o operai negli stati del Kachin e Shan (ora molti hanno ottenuto la cittadinanza birmana). Sembra esserci un crescente sentimento di rancore da parte della popolazione locale ma è tanto vago che non ci sono segnali evidenti di una future evoluzione di questo sentiment in un approccio più violento (come accadde invece con le persecuzioni anticinesi nel 1931 e nel 1967)”.

 

L’influenza cinese è particolarmente forte nei territori abitati dalle minoranze etniche che sono sempre state oppresse dal regime.

 

“Tale presenza cinese sta alimentando di conseguenza il risentimento delle minoranze contro il regime Burmese e la maggioranza Barma. Burma è stata talvolta soprannominata la “24esima provincia della Cina”… Nel dicembre 2010, per esempio, l’Ambasciata cinese ha fatto pressione sulle autorità birmane affinchè si riaprisse un accesso principale sul confine (nello stato del Kachin) per consentire l’esportazione di carichi di banane prodotte dalle compagnie cinesi in Myanmar. L’accesso era stato chiuso dalle autorità birmane per costringere l’Organizzazione Indipendente del Kachin (KIO) a rispettare l’ordine di trasformarsi nelle Forze della Guardia di Frontiera.

 

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Come percepisce il Myanmar i propri rapporti politici ed economici con la Cina? Quali sono gli interessi strategici del Myanmar nella relazione sino-birmana?

 

“Sia il Myanmar che la Cina hanno bisogno reciprocamente l’uno dell’altro. Il regime del Myanmar ha bisogno degli investimenti cinesi e in più che i cinesi non interferiscano nella politica locale interna e nelle questioni riguardanti i diritti umani. Inoltre, la Cina si è sempre opposta ad ogni proposito di azione contro il Myanmar nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La Cina sfrutta le abbondanti risorse naturali del Myanmar (idroelettriche e minerali), e utilizza la terra del Paese per la produzione di beni agricoli (frutta, ortaggi e altri tipi di  colture nello stato del Kachin). Il regime del Myanmar, sebbene sulla carta sia sempre ancora un regime “civile”, rimane una dittatura militare con enormi necessità di acquisire armi o altro armamentario bellico. La Cina provvede a questo bisogno senza porre alcuna domanda al regime. E naturalmente, ora c’è il doppio condotto che trasporterà il gas (off-shore nelle acque del Myanmar) e il petrolio (dal MedioOriente e dall’Africa) per la Cina direttamente dall’Oceano Indiano (Golfo del Bengala), evitando alle petroliere le costose e rischiose traversate per lo Stretto della Malacca. Quali prospettive suggerisce per il futuro delle relazioni sino-birmane? “La recente visita di stato del nuovo presidente birmano Thein Sein sembra confermare che queste relazioni si stanno sviluppando e consolidando. Le autorità del Myanmar dovrebbero ancora guardare con attenzione la crescente presenza di cinesi nel loro Paese, che un giorno potrebbe innescare una situazione violenta ed incontrollabile.”

 

M.Dolores Cabras