martedì, 16 Dicembre 2025

APS | Rivista di politica internazionale

martedì, 16 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

Home Blog Page 578

iWorld: il Re-inventore

0

Non è stato un inventore, Steve Jobs. C’era il Pc prima del Mac, l’Mp3 prima dell’iPod, il telefonino prima dell’iPhone, il tablet prima dell’iPad. Ciò che ha creato, c’era già. La rivoluzione e la genialità di Jobs non stanno nell’inventare, ma in quel think different che permette di re-inventare. Cambiare il modo di guardare alle cose: sta in questa visione la sua influenza sul mondo, ed è questo il suo messaggio. Al quale anche noi del Caffè vogliamo ispirarci

 

IL COLORE DEL LUTTO – In casa Apple è il bianco. Un volto d’uomo impresso su sfondo bianco nella home-page del sito della Apple. Barba incolta, sorriso schivo e quello sfolgorio di creatività proiettato al futuro, che illumina lo sguardo di geni avanguardisti, innovatori e precursori.  Ieri a Palo Alto è morto Steve Jobs, fondatore di Apple. Poco dopo lancio del nuovo melafonino, l’i-Phone 4S, il mondo si prepara a salutare il padre del Mac, dell’i-Pod, dell’i-Pad, dell’i-Phone e della Pixar, un “genio visionario e creativo” che “ha cambiato il modo in cui ognuno di noi guarda il mondo”, come ha affermato stamani il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

 

Per il gigante della comunicazione globale si è mobilitata per celebrare il cordoglio digitale, uniti al grido di “stay hungry, stay foolish” con lacrime e lutto virtuali.

 

I più critici sottolineano le contraddizioni del suo operato e colgono l’infelice occasione per estendere alla grande mole di internauti attivi sul web l’invito a riflettere sulle gravose condizioni di lavoro degli operai della Foxconn con sede a Taipei, che produce i componenti per i prodotti Apple.

 

NON SOLO TECNOLOGIA – Steve Jobs è stato senza dubbio un uomo in grado di creare e sfruttare una forma di potere, di influenza, che va ben oltre i prodotti e l’economia. Anche noi del Caffè Geopolitico vogliamo ricordare Steve Jobs e, senza cadere nella retorica sensazionalista e melensa, vi parliamo del leader carismatico che comprese, primo fra tutti, che l’innovazione è il nodo sostanziale per lo sviluppo e avviò una rivoluzione informatica e tecnologica senza precedenti, forza motrice della crescita negli Stati Uniti, in Giappone e nelle nuove potenze economiche asiatiche, prime fra tutte la Cina, il Sud Corea e l’India.

 

Quando parliamo di “rivoluzione informatica” che fa impennare i titoli nei mercati azionari e il PIL dei paesi industrializzati ancora nella fase più acuta della crisi economica globale, non ci riferiamo alla mera innovazione dell’hardware e del software, ma ad una “faccia del potere” poco manifesta, eppure incisiva e penetrante, capace di condizionare ed influenzare le preferenze nel mercato.

 

Parliamo del soft power esercitato da chi questa rivoluzione l’ha guidata; parliamo di innovazione nell’ambito della comunicazione, della trasmissione, della partecipazione, della diffusione e dello scambio di informazioni, di modelli culturali e di marketing, mediante un nuovo schema di linguaggio; parliamo di potere dell’attrattiva e della seduzione, quindi di estetica e culto delle forme, del potere del “marchio” come elemento uniformante e democratizzante, capace di annullare confini territoriali, talvolta di rompere barriere sociali e culturali.

 

content_879_2

QUALE RIVOLUZIONE? – La “Steve Jobs Revolution”, in un’epoca di globalizzazione dell’informazione, è molto più che una rivoluzione informatica, è una rivoluzione sociale e culturale, un nuovo modulo di marketing e di business, un efficace stile di leadership organizzativa per la nuova società post-industriale.

 

Chi altri era Steve Jobs, se non un leader ammaliatore, capace di coniugare intelligenza e disciplina emotiva, visione creativa e strategia organizzativa, negoziazione e fidelizzazione, comunicazione simbolico-personale e retorica pubblica?

 

Il padre della Apple, con il suo intuito e la sua lungimiranza ha sfruttato più di ogni altro quello che gli analisti politici definiscono “smart power”, un mix di risorse di soft e hard power, di comando e persuasione, che distingue un vero leader da uno fasullo, in grado di prevedere lo sviluppo delle tendenze nel mercato, quindi di accrescere le opportunità di capitalizzazione sopra le stesse.

 

È questo elemento innovatore che ha reso la Apple un attrattore globale in grado di orientare le preferenze dei clienti in tutto il mondo, anzi di sviluppare una cultura di leadership del marchio, una sorta di “must-have-icona”.

 

Il successo dell’i-Pod e il correlato software i-Tunes, uscito dopo altri lettori mp3, sono un esempio lampante del potere di atrattiva della Apple, così forte da consentirgli di costruire da sè le preferenze, tale è ormai il legame di identificazione tra l’aspirazione del cliente e l’influenza esercitata dall’attrattore. “Non puoi solo chiedere ai clienti che cosa vogliono e poi provare a darglielo. Per quando l’avrai costruito, vorranno qualcosa di nuovo”, chiosava spesso Steve per spiegare la sua “filosofia” di managment.

 

COMPLESSITA’ vs SEMPLICITA’ – Jobs fu un precursore senza pari perchè comprese che in un contesto globalizzato che favorisce la costruzione di società anomiche e atomizzate, quindi la sovrapproduzione di modelli di riferimento pleonastici, andava reinventato un nuovo linguaggio semplificatore “a togliere”, un “Apple speaking”, sobrio ed essenziale nella linea del design e nella comunicazione, che solo ai più distratti appare come una “non-comunicazione”.

 

Tutti noi, consapevoli o meno, attivamente o di riflesso, simpatizzanti o detrattori, siamo figli di questo Apple speaking che ci ha insegnato a parlare Steve Jobs.

 

E proprio ora, indecisi se scrivere di lui al presente o al passato, ci sovviene che possiamo fare ancora qualcosa per l’uomo del “Think different!”, per quel “visionario del futuro” che ha liberato il potenziale rivoluzionario del mercato digitale e della potenzialità comunicativa dei suoi prodotti.

 

“I want to put a ding in the universe”: senza dubbio, Jobs ha lasciato un segno nell’Universo.

 

M. Dolores Cabras

[email protected]

Quale politica nel ‘Mare Nostrum’?

Era il 1995 quando, a Barcellona, veniva lanciato il Partenariato euro-mediterraneo (PEM). Quanta strada abbiamo fatto da allora? A che punto è il dialogo tra le due sponde di quello che fu, un tempo, il Mare Nostrum? Senza avere la presunzione di ricostruire tappa per tappa l’intero percorso volto a stabilire una politica multilaterale nel Mediterraneo, proviamo a chiarire alcuni punti fermi e illuminare qualche zona d’ombra in materia di cooperazione euro-mediterranea. Provando ad incoraggiare il nostro Paese verso una politica aperta che guardi sinceramente verso Sud

 

UN QUADRO POLITICO-ISTITUZIONALE ALL’OMBRA DI BRUXELLES – Tutto iniziò quando, nel 1972, l’allora CEE inaugurò la “Politica mediterranea globale”, applicando uno stesso modello di Accordo di Cooperazione ad una serie di partner sud-mediterranei. La modalità era puramente bilaterale, e il rapporto che veniva a configurarsi dopo ogni singolo accordo legava direttamente la CEE e il partner attraverso un impegno a cooperare, soprattutto economicamente. Alla fine degli anni Ottanta, i tempi divennero maturi per introdurre alcune novità nella politica euro-mediterranea, e ampliare la lista degli obiettivi della cooperazione. Non solo economia, commercio e finanza, ma anche democratizzazione e diritti umani, attraverso la nascita di quella cooperazione che i tecnici chiamano decentrata e che gli attivisti chiamano “dal basso”. Nella pratica, si trattava di promuovere un dialogo costante e un confronto aperto tra associazioni della società civile su temi scottanti quali il diritto di voto, la libertà d’espressione o la tutela delle diverse culture (cultural rights).

 

Nel 1995 arrivò il PEM, un paternariato che si sarebbe dovuto sviluppare come foro politico, strategico ed economico sotto l’egida della Commissione Europea, spingendosi dunque oltre la cooperazione intergovernativa e delineando i tratti di una vera e propria comunità euro-mediterranea. Troppo ambizioso? Forse, soprattutto se si fa un bilancio prosaico degli obiettivi raggiunti e quelli mancati. Questi ultimi sembrano pesare molto sul piatto della bilancia, soprattutto se si considera la dimensione istituzionale del partenariato. Addirittura nel 2000 il PEM subì un brusco stop, con tanto di addetti ai lavori pronti a rimandare a tempi futuri la definizione esatta delle aree di interesse del progetto euro-med. Gli ultimi anni hanno dunque portato ad un’involuzione: prima il ritorno al bilaterale, con la Politica Europea di Vicinato (PEV), e poi una timida reinterpretazione in chiave comunitaria di un’iniziativa francese, l’Union Méditerranéenne, che diventa Unione per il Mediterraneo e tenta di riesumare alcune caratteristiche del PEM, prima fra tutte l’impronta multilaterale. In questo quadro istituzionale vanno oggi inserite le numerose variabili emerse all’indomani della primavera araba e a causa della dilagante incertezza economico-finanziaria che ha colpito molti paesi mediterranei. Cosa ci sia, nel futuro del partenariato e delle iniziative che ne hanno seguito la scia, è tutto da vedere. Per ora, gli occhi sono ipnotizzati dalle transizioni di Tunisia ed Egitto e l’attenzione è rivolta ai massacri di Libia e Siria, in attesa che nuovi percorsi politici prendano forma.

 

content_877_2

L’ITALIA E IL MEDITERRANEO: TRA CRISI E OPPORTUNITA’ – A soli 70 km dalla costa nordafricana emerge dalle acque del Mediterraneo l’isola di Pantelleria. L’Italia è il primo paese che si incontra se si fa rotta verso Nord, inseguendo l’ideale di comunità euro-mediterranea. Talvolta quest’incontro assume tinte acri, come nel caso della cooperazione in materia di immigrazione irregolare (si pensi al trattato italo-libico voluto da Berlusconi e Gheddafi), talaltra ammette toni più speranzosi, come accaduto nel quadro della cooperazione ambientale. Un fatto forse poco noto, ma sicuramente cruciale nel quadro delle relazioni che ci legano ai nostri vicini della sponda Sud. La Farnesina ha avviato da tempo una serie di progetti con i paesi del Mediterraneo, rivolti alla protezione della biodiversità e delle foreste, alla gestione dei cambiamenti climatici, alle problematiche legate a risorse idriche e rifiuti. In particolare, i cambiamenti climatici sono stati inclusi tra le linee guida per il periodo 2009-2011 dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo. Anche il Ministero dell’Ambiente è da tempo attivo in questo campo, e alimenta un circolo virtuoso che ruota attorno a temi caldi quali la sicurezza alimentare, l’accesso all’acqua, le attività di capacity-building e vari altri progetti legati al raggiungimento dei Millennium Development Goals (MDGs) indicati dalle Nazioni Unite. Insomma, per alcuni professionisti e tecnici del campo, la cooperazione non è un’opzione di ripiego, ne’ una modalità discutibile di fare politica, ne’ un’utopia che stride con la realtà.

 

CLUB EURO… O CLUB MED? – L’Italia è un paese “euro”, ma forse è ancor prima un paese “mediterraneo”. Proprio per questo, le opportunità offerte da un dialogo attento e multidimensionale sono molteplici e andrebbero coltivate in vista di una piena ripresa delle relazioni tra le due sponde del Mare Nostrum. In particolare, oltre alle iniziative governative, bisognerebbe potenziare la cooperazione decentrata. In questo momento storico, l’instabilità politica nel Nord Africa e il peso della crisi economico-finanziaria ci allontanano da un progetto multilaterale “dall’alto”, e potrebbero ostacolare anche il regolare corso dei programmi ministeriali. Invece una cooperazione “dal basso”, magari avviando progetti bilaterali a livello locale tra realtà che hanno interessi comuni, potrebbe riuscire laddove l’alta politica al momento annaspa, tessendo autentiche relazioni di buon vicinato tra i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. In questo l’Italia potrebbe diventare protagonista, continuando a camminare sul percorso tracciato dai Ministeri e coinvolgendo maggiormente gli attori locali: solo così essere un paese mediterraneo diverrà una reale opportunità di crescita e mutual learning.

 

Anna Bulzomi

La ‘palude’ afghana? Si bonifica dal Pakistan

0

L’ennesima sfida per gli Stati Uniti si gioca sull’asse Washington-Islamabad. Andare oltre l’alleanza militare tra USA e Pakistan è fondamentale per fermare la nuova ondata terroristica e per stabilizzare il quadrante centroasiatico, ma i problemi non sono pochi né facilmente risolvibili. La strategia di Obama si è inserita nel solco tracciato da Bush, con una intensificazione delle incursioni aeree ad opera dei “drones”, gli aerei senza pilota

I FATTI – Nonostante i maggiori sforzi siano oggi impiegati per risolvere la delicata e instabile questione afghana, è il Pakistan che risulta essere di vitale interesse per gli USA, soprattutto in ottica di lungo periodo.  Secondo fonti pachistane, riportate alcuni giorni fa sul Washington Post, sarebbe scoppiato un violento scontro, durato diverse ore, tra i Talebani pachistani e le truppe regolari dell’esercito di Islamabad. L’obiettivo era prendere il controllo sui resti di un drone americano, precipitato qualche ora prima nel Waziristan meridionale. Questo spiacevole imprevisto riaccende la discussione interna all’Amministrazione americana sul ruolo degli Stati Uniti nel cosiddetto quadrante Af-Pak. CRUCIALITA' DEL “PAK” NEL BINOMIO “AF-PAK” – Il Pakistan è importante per tre ragioni principali. Innanzitutto è un Paese islamico che conta più di 180 milioni di abitanti, circa sei volte quelli dell’Afghanistan e il doppio di quelli dell’Iran. Inoltre possiede un arsenale nucleare e un armamento convenzionale tra i più potenti d’Asia. Infine la regione al confine con l’Afghanistan (Federally Administered Tribal Areas – FATA) è il maggior centro di addestramento di combattenti, vicini ad al-Qaeda e ad altri movimenti terroristici, anche con passaporto europeo (diversi cittadini tedeschi e britannici sono stati coinvolti durante operazioni di counterinsurgency, cioè di contrasto agli insorti). Il collasso dello Stato pachistano o la definitiva rottura dell’alleanza con esso sarebbero due dei maggiori pericoli che potrebbero correre gli Stati Uniti e l’Occidente. Washington si è preoccupata di creare e mantenere uno stretto legame a livello militare e di intelligence con il Pakistan, cercando di evitare che l’istituzione più importante di quel Paese, l’esercito, slittasse su posizioni anti-occidentali. Di contro non si è mai rafforzato il lato politico dell’alleanza, generando un vulnus difficile da riempire ora che i rapporti tra USA e Pakistan sono ai minimi storici.

content_878_2

COERENZA DELLA STRATEGIA USA – L’Amministrazione Obama opera in Pakistan nel solco della strategia tracciata da Bush. Le principali incursioni in territorio pachistano sono addirittura aumentate, in particolare grazie al continuo sviluppo della tecnologia applicata ai velivoli a pilotaggio remoto. Basti pensare che durante l’Amministrazione Bush (dal giugno 2004, ovvero da quando è iniziato questo tipo di bombardamenti in Pakistan) si contava in media un attacco ogni 40 giorni, mentre con Obama si è passati a un attacco ogni quattro giorni.  Inoltre i missili Hellfire e Stinger di cui sono dotati gli MQ-1 e gli MQ-9 sono diventati, negli ultimi anni, molto più precisi nel centrare gli obiettivi designati. Se dal 2004 al 2009 la percentuale di militanti uccisi sul totale delle vittime si aggirava intorno al 60%, dal 2008 al 2010 è arrivata all’85% e nel 2011 si è sfiorato il 95% (secondo le statistiche della New America Foundation). Tutto ciò non è servito da deterrente, al contrario intelligence e popolazione pachistana stanno assumendo posizioni sempre più ostili a quelle americane e gli attacchi guidati dalle cellule pachistane (in particolare quelle legate ad Haqqani) sono sempre più frequenti. RITORNO ALLA POLITICA – Per far accettare al popolo pachistano quello che l’ex direttore della CIA Panetta giudica l’unico strumento attuabile in quelle aree, potrebbe rendersi necessario in primo luogo sottrarre all’intelligence americana l’esclusiva gestione dei drones, per portarla verso i più trasparenti protocolli militari. In secondo luogo diversi consiglieri di Obama sottolineano il bisogno di condividere il programma con le autorità pachistane, in maniera tale da allentare quella che può essere vista come un’ingerenza straniera nell’ordine pubblico e negli affari interni. Più in generale la maggior parte dei think tank americani chiede all’Amministrazione Obama di condurre un’azione politica vera in Pakistan, affiancata a quella militare e, soprattutto, di allargare la visione riduttiva del quadrante Af-Pak in un più ampio scenario che comprenda anche l’India (quest’ultima rimane la più grande paura pachistana, riaccesa dal rinnovato interesse del governo indiano nelle vicende afghane).

Davide Colombo [email protected]

La geopolitica dell’oppio

0

Il territorio che si estende intorno ai confini di Cina, Birmania Thailandia e Laos, si è guadagnato il nome di “triangolo d’oro” per la massiccia produzione di oppiacei destinati al mercato mondiale. Dagli anni ‘70 in poi l’equilibrio geopolitico dell’area del sud est asiatico ha subito un forte cambiamento dovuto al risolversi di tensioni belliche, tradizionalmente legate alla produzione di droga e all’emergere di nuove economie, Cina in testa, che stanno gradualmente attirando crescenti flussi di ricchezza globale verso l’estremo oriente. Vediamo come la globalizzazione ha cambiato il mercato della droga made-in-Asia

LA STORIA – Il territorio del “triangolo d’oro” è stato tradizionalmente dedicato alla coltivazione del papavero e alla sua successiva raffinazione, tanto che deve il suo nome al fatto che l’oppio prodotto era originariamente pagato in oro. Sebbene l’introduzione dell’oppio in Asia risalga al quindicesimo secolo, quando i primi commercianti provenienti dall’Occidente, arabi, veneziani e in seguito i portoghesi, iniziarono a scambiare i derivati del papavero con tè e spezie, la sua diffusione come coltura iniziò nel Sudest Asiatico, solo dopo la seconda guerra mondiale, a seguito dell’inaspettata abolizione della produzione in Iran nel 1955. Con l’arrivo degli inglesi in Asia e lo strapotere della compagnia delle Indie, l’oppio coltivato in Asia Occidentale e in India divenne una vera e propria commodity da smerciare nel mercato cinese, tanto da causare ben due scontri armati, che passarono alla storia come “Guerre dell’oppio”. Il periodo di tensione tra l’impero celeste e quello britannico terminò nel 1842, quando gli inglesi ottennero Hong Kong, facendone in seguito la base per lo smistamento di eroina su scala mondiale. Fu proprio la Cina che favorì l’introduzione del papavero nel Sudest Asiatico, per smarcarsi dal monopolio occidentale. Il clima tropicale del Sud Est Asiatico, l’ottima resistenza delle piante e la crescente domanda da parte della popolazione locale, favorirono la diffusione del papavero in questa regione, in particolare presso le zone più remote, dove le condizioni di vita erano molto difficili. Non a caso i primi poli di produzione sorsero vicino ai bacini minerari, per poi estendersi a tutti i paesi dell’Indocina, una delle aree più povere del mondo. L’arrivo in Asia prima dei Francesi e poi degli Americani e la costante emergenza bellica non fecero che peggiorare la situazione, creando una sete di denaro e armi, che solo l’oppio era in grado di soddisfare. Il boom economico in Occidente dopo la seconda guerra mondiale fu la prima causa dell’impennata della domanda di stupefacenti e alla fine degli anni ’70 il triangolo d’oro produceva più del 70% degli oppiacei per il mercato internazionale.

IL GOLDEN CRESCENT A partire dagli anni ‘90 si è assistito a un sostanziale cambiamento degli equilibri geopolitici mondiali, primo fra tutti il miracolo asiatico. Inoltre la globalizzazione ha investito la produzione di tutte le commodities tra cui anche l’oppio, modificandone volumi e percorsi. Oggi la percentuale di droga proveniente dal triangolo d’oro si è ridotta al 10%, mentre la “mezzaluna d’oro” (golden crescent), la fascia di terra che dall’Iran meridionale termina in Pakistan attraverso l’Afghanistan, ha ripreso la produzione, imponendosi come leader indiscusso, con una produzione di oppiacei, eroina e cannabis pari al 90% del mercato mondiale. I motivi alla base di questo cambio di guardia nella fornitura di droga sono numerosi, sia di natura politica, che economica. Da una parte l’introduzione del papavero in Asia occidentale, per finanziare l’impegno bellico dei talebani contro gli Stati Uniti, si è rivelato molto fruttuoso, con una densità di produzione per acro quattro volte superiore a quella del Sud Est Asiatico e, di conseguenza, prezzi più competitivi. Numeri adatti ad alimentare la domanda mondiale, specialmente di eroina, in crescita dagli anni ’70 non solo nei mercati occidentali, ma anche in Asia. D’altra parte il Sudest Asiatico ha subito una contrazione dei volumi per ragioni politiche. La conclusione di molti conflitti e la perdita di competitività nei mercati internazionali a causa dell’ascesa della Mezzaluna hanno fatto sì che la maggior parte della droga rimanesse presso le popolazioni locali, causando problemi sociali come la diffusione dell’AIDS, che, nelle zone più povere, ha raggiunto picchi del 90%. I governi di Cina e Thailandia si sono resi conto dei rischi legati alla massiccia produzione di oppio in un contesto di rapida industrializzazione e già dalla fine degli anni ’90 si sono impegnati nel lancio di politiche per la riconversione delle colture in tutta l’Indocina.

content_876_2

LA RICONVERSIONE, OPINIONI CONTRASTANTI – Secondo un recente rapporto dell’UNDP (United Nations Development Program) i risultati delle politiche di riconversione sono stati soddisfacenti in tutta l’area del triangolo d’oro. In realtà se è vero che la produzione si è significativamente ridotta, è altrettanto vero che non vi è stata una pari diminuzione nei consumi. Inoltre la riduzione dell’offerta ha causato un’impennata dei prezzi, mentre la qualità dell’eroina in circolazione inevitabilmente peggiorava. Molto spesso le politiche contro la produzione di oppio, combinate con una legislazione che punisce duramente il consumo (anche con la pena di morte) hanno colpito notevolmente le popolazioni locali, che, ormai da decenni, basavano la loro sussistenza sul papavero. Certo vanno fatte opportune distinzioni. In Thailandia sembra che la riconversione abbia portato un effettivo beneficio ai villaggi del triangolo: lo stato ha investito molto su questo progetto ed è riuscito a introdurre colture sostitutive come pepe, riso, cannella e canna da zucchero, favorendo un rilancio dello sviluppo economico. La stessa cosa sembra sia avvenuta in Cina, sebbene in alcune aree della provincia meridionale dello Yunnan la coltivazione dell’oppio continui; in particolare la zona di confine con la Birmania, nei pressi della cittadina di Ruili, sembra essere uno dei centri a più alto tasso di HIV e uno dei nodi cruciali per l’accesso di eroina e cannabinoidi verso l’estremo oriente. Per quanto riguarda Birmania e Laos. invece, i contorni sono meno chiari. Secondo molte agenzie internazionali il Laos, da esportatore, è diventato importatore di oppiacei, ma i dati raccolti non sembrano essere affidabili e secondo altre statistiche il paese occupa ancora il terzo gradino del podio del papavero, dopo la Mezzaluna (d’oro) e (la) Birmania. In Birmania il governo militare si è impegnato solo formalmente nella riconversione. La necessità di fare cassa dovuta all’embargo da parte dell’Occidente, il fallimento dell’introduzione di nuove colture e le condizioni di estrema povertà della popolazione, specialmente nelle regioni settentrionali, più che alla riduzione hanno portato alla differenziazione nella produzione di droga. La produzione di eroina nel nord del paese è stata massicciamente sostituita da quella di anfetamine e metanfetamine, il cui consumo è altissimo soprattutto in Thalandia. Questa nuova situazione ha fatto emergere tensioni con la Thailandia soprattutto nella zona di confine. In più con la scusa di conflitti etnici nello Shan State, che coincide con la parte birmana del triangolo, il governo ha proibito l’accesso ai non residenti e ha assegnato la zona alla gestione di un esercito privato, lo United Wa State Army, che non a caso oggi è il principale produttore di droga nel triangolo d’oro. Inoltre l’apertura di nuove rotte per lo scambio di armi e risorse naturali verso Cina e India ha favorito anche il mercato degli stupefacenti. Dopo che Pechino ha deciso di chiudere il confine di Ruili, il traffico di droga è stato incanalato in Laos, Cambogia e Vietnam lungo il sentiero che costeggia a nord il confine Thailandese e a sud il fiume Irrawaddy, proseguendo poi via mare. Tutto ciò fa riflettere sul collegamento tra sviluppo economico e mercato della droga. Un atteggiamento diverso nei confronti di Yangoon da parte dell’Occidente potrebbe forse consentire il definitivo sradicamento di un cancro, la coltivazione del papavero, che da anni contribuisce alla condizione di povertà, sottosviluppo e sfruttamento di migliaia di persone nel Sud Est Asiatico. Valeria Giacomin [email protected]

Un gran Putinaio (1)

0

A pochi mesi dalle elezioni presidenziali Dimitrij Medvedev annuncia la candidatura di Vladimir Putin come suo successore al Cremlino. Medvedev, invece, con ogni probabilità dovrebbe riappropriarsi della carica di Primo ministro, al momento ricoperta proprio dall’ex capo del KGB. Vi proponiamo in successione due articoli che fanno il punto sulla situazione politica russa e analizzano in profondità i possibili scenari futuri di un Paese che sembra sempre più diretto verso un regime autoritario

 

ALTERNANZA IN DEMOCRAZIA – In una democrazia effettiva il principio dell’alternanza riveste un ruolo chiave per la credibilità delle istituzioni rappresentative. La facilità nel succedersi, prerogativa delle libere elezioni, di sovente mette al riparo dai rischi legati ad eccessivi accentramenti di potere. Tale alternanza va ricercata non solo all’interno delle strutture partitiche bensì tra le coalizioni di governo che si formano di volta in volta, affinché queste possano garantire una certa continuità nell’interesse comune e soprattutto una valida alternativa programmatica agli occhi degli elettori e dell’opinione pubblica in generale. Cosa accadrebbe, invece, se lo scambio di posizioni di potere avvenisse unicamente tra due interlocutori facenti parte oltretutto del medesimo partito predominante? La suddetta questione trova un riscontro pratico in ciò che ha luogo da oltre un decennio nella Repubblica Federale Russa, dove due attori politici si alternano al potere con una rischiosa e duratura continuità: Vladimir Putin e Dimitrij Medvedev.

 

L’ETERNO RITORNO – Durante l’ultimo congresso di Russia Unita, il primo partito della nazione, con una formula quasi teatrale sono state rivelate le strategie future dei due leader: Medvedev e Putin come già accaduto nel 2008 si scambieranno nuovamente i ruoli. Strada spianata dunque per l’elezione di Putin al Cremlino nel marzo 2012 e per quella di Medvedev come Primo ministro alle elezioni politiche di dicembre 2011. In condizioni di libere elezioni l’appuntamento con il voto dovrebbe essere incerto o quantomeno conservare un certo grado imprevedibilità, in questo caso invece, i giochi sembrano già chiusi ancor prima che la competizione abbia inizio.

 

PERICOLOSA EGEMONIA – Non è un mistero, infatti, che dopo l’uscita di scena di Boris Eltsin, Vladimir Putin abbia progressivamente accentrato nella sua persona tutta una serie di poteri. I primi due mandati al Cremlino (2000-2004 e 2004-2008) sono serviti al politico di San Pietroburgo per consolidare una posizione già all’epoca più che solida. La parentesi targata Dimitrij Medvedev (2008-2012), colui che per molti doveva rappresentare l’erede di Putin nel segno di una continuità più moderata, si è rivelata in realtà una mera soluzione ponte necessaria per scavalcare l’ostacolo costituzionale legato all’impossibilità di spingersi oltre i due mandati consecutivi. Un problema che sarà presto superato anche per ciò che concerne la durata del mandato: tramite modifica della legge costituzionale è stato esteso l’incarico presidenziale da quattro a sei anni. Allo stato attuale dei fatti, dunque, Putin potrebbe essere il futuro presidente della Russia fino al 2024, una prospettiva più che credibile. Durante la presidenza Medvedev non sono mancati alcuni screzi tra i due leader russi, incomprensioni tuttavia sempre rientrate senza troppi clamori. La sensazione è infatti che Putin abbia sempre avuto ben saldo il controllo della politica di Mosca, cedendo soltanto parte della visibilità mediatica al suo alter ego. Alcune controverse situazioni mai del tutto chiarite contribuiscono a collocare il politico Putin in un quadro fatto di molte ombre e poche luci; in particolare i rapporti con i magnati dell’energia russa, la gestione dell’annosa questione legata alla Cecenia, la sudditanza di una buona fetta dei mass media ed un’opposizione, sia interna al partito che esterna, ridotta da tempo al lumicino. In una Russia in cui il bisogno di rinnovamento a tutti i livelli appare di vitale importanza la riproposizione di una figura come Putin potrebbe spingere il Paese verso un preoccupante immobilismo sociale che, come già accaduto in passato, avvantaggerebbe elitarie minoranze a scapito del resto della popolazione.

 

Andrea Ambrosino

[email protected]

 

Un gran Putinaio (2)

0

Seconda parte del nostro viaggio in Russia, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali. È scontato il ritorno di Vladimir Putin al Cremlino, che dovrebbe poter governare per altri dieci anni almeno. In questo articolo vi proponiamo alcune riflessioni sullo stato della democrazia e dell’economia nell’enorme Paese euroasiatico, dopo dieci anni di “putinismo”. Autoritarismo e oligarchia economica sono le caratteristiche principali del sistema Russia

 

CHE SORPRESA! – Anche se pochi osservatori speravano davvero in qualche sorpresa per le elezioni del 2012, la ricandidatura di Putin per la Presidenza e quella di Medvedev per la Premiership rappresentano una delusione per coloro che consideravano desiderabile uno sviluppo della politica russa nella direzione di una maggiore competitività politica. Un’alternativa sarebbe potuta essere la sfida fra Medvedev e Putin, i quali erano visti come rappresentati di due correnti diverse o almeno come due ramificazioni di una corrente politica: l’una più dura e nazionalista (si pensi al discorso di Putin nel 2007 a Monaco), l’altra più aperta e in qualche modo più liberale in senso politico (“libertà è meglio che non-libertà”, come disse Medvedev all’inizio della sua presidenza). Anche alcuni esperti russi, come Igor Jurgens (capo dell’INSOR, think tank vicino a Medvedev), credevano addirittura in una “guerra segreta” di Medvedev contro i rappresentanti della linea dura. Dunque, se fosse stato così, Medvedev questa guerra l’ha ovviamente perduta. Con la ricandidatura di Putin però, secondo noi, diventa ovvio quello che in molti temevano: ovvero che Medvedev era solo un luogotenente di Vladimir Vladimirovich.

 

QUALE DEMOCRAZIA? – C’è comunque da ragionare sul concetto di democrazia e sull’interpretazione di questo concetto in un paese complesso, che si definisce euroasiatico. Un primo spunto viene dall’adesione formale a vincoli costituzionali. Il fatto che Putin a differenza di altri leader post-sovietici (come ad esempio Lukašenko della Bielorussia) non abbia modificato la costituzione per tenere il posto è comunque un indicatore della complessità dell’attuale sistema politico. Sin dalla fine dell’Unione Sovietica fino ai nostri tempi esistono due forti interpretazioni di “democrazia” in Russia – la prima articola la democrazia in termini di stato di diritto; la seconda invece vede la democrazia come la forma di stato più degna di uno stato moderno e sviluppato. Le apparenze democratiche sono quindi anche dovute ad un impeto interno e non solo a pressioni internazionali, come ritenuto da molti osservatori esterni. Tuttavia la democrazia deve essere limitata da vincoli “nazionali” – per lo meno questa è la scusa dell’attuale regime nella definizione dell’ideologo Surkov. La spiegazione – riportata più volte anche da Medvedev – è che una piena democrazia ripiomberebbe la Russia nel “caos” che aveva segnato gli ultimi anni di Gorbacev o l’interregno di Boris Eltsin. La fine dell’Unione Sovietica aveva effettivamente coinciso con una fase di instabilità politica totale che solo l’arrivo di Putin al Cremlino aveva saputo arrestare. Ovviamente però, la stabilità ottenuta attraverso sostanziosi limiti alla democrazia non può essere alla base di un sistema politico solido. Con Putin, il controllo del paese semplicemente passò  da un’oligarchia privata ad un sistema misto pubblico-privato, in cui agli oligarchi si affiancarono i fidati burocrati il cui scopo era mantenere saldo il controllo politico sul paese. Anche su questi temi diventa evidente il fallimento di Medvedev che in principio aveva preso nettamente le distanze da ogni “democrazia con aggettivi”, ovvero da una democrazia “alla russa” o “sovrana”.

 

LA SITUAZIONE DELL’ECONOMIA – E’ altresì importante analizzare la complessità della situazione economica della Russia. Se da un lato il “sistema Putin” ha allargato (poco e faticosamente) la classe media, almeno nei grandi centri urbani, distribuendo una piccola parte dei proventi provenienti dalle materie prime, dall’altro ha fallito completamente nella diversificazione dell’economia russa, che resta legata al prezzo del petrolio. Un altro problema spesso ammonito sia dalla stampa estera che dall’opposizione russa è quello della corruzione, partendo dalle forze dell’ordine. La corruzione è in forte contrasto con la interpretazione di democrazia come rule of law. Medvedev, negli ultimi anni aveva provato a riformare la polizia, ma queste non hanno prodotto risultati palpabili. Sia Putin che Medvedev hanno fallito poi nella rottura dei monopoli oligarchici. La strategia adottata è stata un’altra: le compagnie private potevano adeguarsi al gioco economico del Cremlino oppure essere nazionalizzate. Per gli altri casi non rimaneva che la galera, come nel caso di Khodorkovsky. Il trattamento unico riservato all’oligarca (certamente non l’unico saccheggiatore di industrie statali negli anni di Eltsin)  da parte di Medvedev sembrava dimostrare come la legalità in Russia fosse secondaria rispetto alla vendetta personale di Putin. L’episodio ha inoltre toccato un altro punto debole della politica del Cremlino, ovvero il sistema giudiziario, mai riformato con successo, la cui efficacia è indispensabile per assecondare lo sviluppo economico.

 

content_875_2

COS’E’ LA RUSSIA? – Un’altra questione in gioco riguarda l’eterno problema dell’identità russa. Essendo uno stato multinazionale, con cittadini di etnia diversa, la questione dell’integrazione diventa piuttosto complicata, specie nelle grandi città come Mosca e San Pietroburgo. Mentre Elsin provò ad introdurre il termine rossyianie, sottolineando la cittadinanza comune, Putin enfatizzò questo concetto molto meno, favorendo invece un’idea aperta dell’essere russi – tutti possono esserlo se aderiscono alla cultura russa – suscitando insicurezze e dubbi nei cittadini di etnie differenti. Medvedev, aveva messo in atto un unico ma importante tentativo di risolvere il problema, annunciando un piano per lo sviluppo economico del Caucaso (specie dell’Ingushetia). Aveva capito che le misure di polizia o militari non bastano per garantire la sicurezza ai propri cittadini. La Cecenia è invece il caso paradigmatico del fallimento del metodo Putin: un regime fantoccio pagato da Mosca esercita un terrorismo di stato che non pacifica la regione, ma crea solo nuovi nemici. L’Ingushetia potrebbe diventare l’esempio del metodo Medvedev, ma l’esito del successo rimane più che mai incerto, a causa della corruzione sia a Mosca che nel Caucaso. Senza risolvere il problema dell’integrazione dei migranti e delle repubbliche, la Russia continua a rischiare l’instabilità. Vecchie strategie di stampo sovietico, rispolverate da Putin e parzialmente implementate dal suo successore sono apparse talvolta troppo dozzinali per garantire soluzione durature.

 

PROSPETTIVE – A questo punto, e a meno di inimmaginabili colpi di scena, Putin tornerà al Cremlino e governerà fino al 2018, con buone chance di proseguire fino al 2024. Se così fosse sarà difficile non pensare a lui come ad uno zar o un segretario del Pcus. Ma ciò che conta maggiormente è vedere come si comporterà il prossimo presidente. Se riuscirà ad alleviare i problemi chiave discussi sopra, che determinano grandi sofferenze per una parte consistente della popolazione. Nonostante un senso diffuso di rassegnazione, il popolo russo non si accontenterà per sempre di vivere in un paese arretrato, soggiogato dalla corruzione all’interno dello stato. Un paese in cui il sistema giudiziario favorisce i potenti e gli influenti e in cui la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi. Tutto questo nonostante le grandi potenzialità e risorse del paese. Risolverà Putin questi problemi? Ironicamente, il capro espiatorio potrebbe diventare proprio Medvedev. Chissà se alla fine i russi saranno semplicemente stufi della stessa immutabile ed inefficacie classe politica, delle sue promesse spesso vuote e del medesimo, eterno capo di stato.

 

Philipp Casula e Fabio Mineo

[email protected]

Atene barcolla, l’Europa trema

Mentre i focolai di proteste e conflitti continuano ad occupare le pagine di esteri, con la prima settimana di ottobre è ancora l’economia internazionale a smuovere gli animi dopo la notizia di un ulteriore taglio dei target fissati a luglio dall’ormai nota “Troika”. E sembrano non bastare le promesse fatte dal premier greco Papandreou per rassicurare i risparmiatori, se lo stesso Obama si dice dubbioso della propria rielezione per il clima diffuso dall’incertezza di una crisi economica entrata ormai nel suo terzo anno

EURASIA

Martedì 4 – Si apre all’Aia la 66esima sessione del Consiglio Esecutivo dell’Organizzazione per il divieto di Armi Chimiche, sul tavolo le recenti dichiarazioni del CNT libico sulle scorte di armi chimico-batteriologiche scoperte negli arsenali di Muhammar Gheddafi e la proliferazione di arsenali chimici verso organizzazioni terroristiche. Mercoledì 5 – I Ministri della Difesa dei paesi membri della NATO si incontreranno nel quartier generale dell’organizzazione per discutere dei temi aperti dell’alleanza: la cooperazione strategica con i paesi dell’est-Europa, la situazione delle missioni in Libia e il programma di ritiro dall’Afghanistan. Giovedì 6 – Il Commissario europeo per l’azione climatica Connie Hedegaard sarà a Roma per discutere dei programmi di sviluppo delle fonti energetiche rinnovabile con il Ministro per le politiche ambientali Stefania Prestigiacomo e il Ministro per le Politiche Comunitarie Anna Bernini. Dopo i colloqui vi sarà il tempo per una visita ufficiale ad un parco fotovoltaico realizzato dal Comune di Roma. AMERICHE Lunedì 3- La 23esima sessione della Commissione sugli Stupefacenti riunirà i Rappresentanti delle agenzie Antidroga dei Paesi del Sudamerica e dei Caraibi. Si discuterà di nuovi metodi d’intervento nelle zone di coltivazione della coca e dei risvolti della guerra in corso tra i cartelli messicani. CUBA – Nuova ondata di liberalizzazioni nell’isola, dove Raúl Castro ha annunciato l’apertura alla vendita di automobili straniere per soddisfare la domanda interna e dare un nuovo slancio ai rapporti economici con l’estero. VENEZUELA – Giallo sulle condizioni del Presidente Hugo Chávez, secondo alcune fonti non ancora confermate sarebbe ricoverato in condizioni gravissime in un ospedale militare della capitale Caracas. Proprio settimana scorsa Chávez aveva annunciato l’ennesimo viaggio verso Cuba per effettuare una serie di esami sui risultati dei quattro cicli di chemioterapia compiuti nell’isola. AFRICA Lunedì 3- In Tunisia si apre la campagna elettorale per le elezioni della Costituente in programma il 23 Ottobre. Alle urne si confronteranno 1500 liste con 11000 candidati per 27 circoscrizioni, il clima non è dei migliori con continui scontri e tafferugli tra dimostranti, parti sociali e polizia. A nove mesi dalla caduta di Ben Ali il paese è chiamato ad un nuovo senso di responsabilità per gettare le fondamenta di un nuovo ordinamento per il paese. LIBIA – Situazione incerta e complicata alle porte di Sirte dove i continui scontri tra lealisti e ribelli ostacolano gli aiuti ai civili della comunità internazionale e creano le condizioni per violazioni dei diritti umani in entrambi gli schieramenti. Altra questione spinosa è quella della scomparsa di un numero di lanciarazzi anti-aerei SAM 7 compreso tra 5000 e 10000 denunciata dall’Ammiraglio Giampaolo Di Paola Presidente del Comitato militare NATO. ZIMBABWE – Sono incerte le condizioni di salute del Presidente Robert Mugabe che secondo alcune indiscrezioni avrebbe dovuto recarsi a Singapore per curare il cancro alla prostata che lo affligge dal 2008. La radio nazionale ha smentito prontamente la notizia dichiarando che il viaggio abbia in realtà come meta Hong Kong dove studia la figlia del dittatore 87enne. EGITTO – La giunta militare che da otto mesi guida l’Egitto promettendo una road map democratica verso le elezioni del 27 Novembre ha dovuto arrendersi alle pressioni internazionali e domestiche dei manifestanti riunitisi venerdì scorso in Piazza Tahrir che chiedevano una revisione della legge elettorale che permette l’elezione ai membri della nomenclatura del vecchio regime.

content_873_2

ASIA CINA – Rottura definitiva tra il Governo cinese e quello statunitense in seguito alla fornitura di materiali innovativi per la flotta taiwanese di F-16. Il portavoce del Ministero della Difesa cinese Geng Yansheng ha annunciato nel week-end l’interruzione delle esercitazioni navali congiunte tra la flotta della RPC e quella americana. GIAPPONE – Il governo del nuovo primo ministro Yoshihiko Noda dopo aver annunciato di non voler abbandonare la chance del nucleare ha annunciato di aver tolto le restrizioni di sicurezza nelle fasce geografiche di 30 e 20 Km da Fukushima. Il paese del sol levante, fiaccato dalla crisi economica e alle prese con una serie di sfide per il futuro del paese, sembra voler dimenticare la tragedia del marzo scorso. MEDIO-ORIENTE ISRAELE – Il premier Benjamin Netanyahu ha annunciato che lo Stato ebraico "accoglie con favore" la proposta del Quartetto mediorientale di riavviare i negoziati di pace "entro un mese e senza precondizioni", manifestando tuttavia alcune riserve. "Se accetta la proposta del Quartetto, allora deve annunciare il blocco delle colonie e accettare le frontiere del 1967 perchè è esattamente questo che chiede il Quartetto", ha ribadito il negoziatore palestinese Saeb Erakat. SIRIA – La città di Homs, simbolo della rivolta contro il regime di Assad, inizia a manifestare i risvolti della trasformazione delle proteste in vere e proprie faide inter-etniche. Nella scorsa settimana si sono susseguiti innumerevoli omicidi mirati che hanno coinvolto sospetti informatori del regime, tra cui un primario di cardio-chirurgia, e membri della comunità sunnita. La quantità enorme di armi automatiche e la loro disponibilità grazie a traffici di frontiera che coinvolgono la Turchia, l’Arabia Saudita e persino il Qatar, ha portato ad un’estremizzazione dei movimenti di riferimento della rivolta che si dicono ora pronti alla battaglia finale.

Fabio Stella [email protected]

Chi fa la politica estera?

Riprende la nostra rubrica volta a ripercorrere le tappe fondamentali della storia delle relazioni internazionali del nostro Paese. In questi ultimi articoli arriviamo finalmente ai giorni nostri, cercando di tracciare le linee in atto e di formulare, infine, alcune prospettive. In questo articolo parliamo di come, negli ultimi anni, il Governo abbia in parte “abdicato” alla sua prerogativa di gestire la diplomazia, mentre alcuni grandi orientamenti di politica estera vengano impressi dalle principali aziende che investono e importano all’estero

 

A CHI SPETTA LA DIPLOMAZIA – Nella politologia e nel diritto internazionale, la sovranità viene definita con alcuni pochi, ma importanti requisiti su cui essa si deve poggiare. Uno Stato è definito tale se ha un popolo e un territorio sul quale esercitare la sovranità. Inoltre, l’entità statale è tale per cui “superiorem non recognoscet”: in base a questo criterio la gestione della diplomazia e della politica estera spettano, o dovrebbero spettare, solo allo Stato. In realtà, in base al principio di sussidiarietà verticale, secondo il quale alcune prerogative possono essere delegate ai livelli di Governo inferiori e superiori, negli ultimi anni abbiamo assistito in Europa ad una moltiplicazione delle “diplomazie”. In Italia, da una parte il decentramento ha fatto sì che Regioni e Province portino avanti proprie iniziative in tema di politica estera (soprattutto nell’ambito della cooperazione internazionale), dall’altra l’ormai lungo dibattito sulla necessità di avere una politica estera comune dell’Unione Europea ha portato alla creazione di un Alto Rappresentante della UE, attualmente impersonato dalla impalpabile Catherine Ashton. Il principio di sussidiarietà, però, può anche essere inteso in senso “orizzontale”, ovvero come passaggio di consegne dal settore pubblico a quello privato. È un concetto che sta prendendo abbastanza piede nel nostro Paese e che, forse involontariamente, da alcuni anni si può applicare anche alla politica estera nazionale.

 

SE IL PRIVATO SORPASSA IL PUBBLICO – Si può sostenere infatti che da alcuni anni l’Italia non abbia una politica estera ben definita e che le nostre relazioni internazionali trascurino alcune regioni chiave del mondo, come India, America Latina e i principali Paesi in via di sviluppo dell’Africa sub-sahariana. La proiezione verso l’altra sponda del Mediterraneo, dettata da caratteristiche squisitamente geopolitiche, rimane, anche se indebolita e resa più incerta dopo la discussa vicenda dell’intervento Nato in Libia. Per il resto, si potrebbe dire che gran parte della politica estera italiana degli ultimi anni sia il frutto della “diplomazia personale” condotta dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, volta a rafforzare i legami con alcuni Stati governati da amici del premier: la Libia dell’ormai ex leader Muhammar Gheddafi, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, Panama governato dall’imprenditore Ricardo Martinelli, e soprattutto la Russia di Vladimir Putin. Relazioni in alcuni casi discutibili e al limite dell’opportuno, come con la Bielorussia controllata dall’ultimo dittatore europeo, Aleksandar Lukashenko. Dall’altra parte, invece, gran parte delle relazioni internazionali economiche del nostro Paese sono tessute e intrattenute dalle più grandi aziende che hanno grandi interessi all’estero e che possono esercitare anche una certa influenza a livello istituzionale. Alcune di esse sono a partecipazione statale – Eni e Finmeccanica per esempio – ma il ruolo delle principali istituzioni politiche è spesso marginale nel determinarne le scelte e gli orientamenti.

 

content_872_2

GLI ATTORI PRINCIPALI – E’ indubbio che uno dei ruoli principali, per le implicazioni non solo economiche ma anche geopolitiche e geostrategiche, sia giocato dalle aziende energetiche, Eni ed Edison in particolar modo. Eni è presente attualmente in 79 Paesi mondiali e si occupa di esplorazione, estrazione e lavorazione di idrocarburi. Per dare un’idea immediata, nel 2010 l’azienda multinazionale ha prodotto 1,815 miliardi di boe (barili equivalenti) di idrocarburi al giorno, venduto 97,06 miliardi di metri cubi di gas e realizzato un utile di 6,32 miliardi di euro. Le attività di Eni sono diffuse pressochè in tutti i continenti: in America (Canada, Stati Uniti, Venezuela, Brasile soprattutto), Africa (Nigeria, Gabon), Asia (Khazakstan, Indonesia). Il Nordafrica e il Medio Oriente sono aree di attività molto importanti, con la Libia elemento strategico. Le operazioni belliche in corso nei mesi passati ha costretto l’azienda a bloccare la produzione, che però sta per essere riavviata proprio in queste settimane. Anche Edison è una realtà molto importante, attiva non solo nella produzione e distribuzione di energia elettrica ma anche nel settore degli idrocarburi. Presente in Europa, Nordafrica e Medio Oriente, è coinvolta nella realizzazione del gasdotto Galsi, che collegherà l’Algeria all’Italia attraverso la Sardegna, insieme ad altre importanti aziende come Enel, Sonatrach, Gruppo Hera e Snam (quindi ancora Eni). In ambito energetico vanno poi citate anche Enel e Terna, attive rispettivamente nella produzione e distribuzione di energia elettrica: mercati importanti di riferimento sono l’America Latina e i Balcani. Nel settore automobilistico, le attività di Fiat all’estero sono probabilmente le più conosciute. Dopo l’acquisto di Chrysler il gruppo è sbarcato anche negli Stati Uniti, ma è attivo anche nel resto dell’Europa e in Sudamerica: i Paesi Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) rappresentano il secondo mercato per ricavi, con il 27,9% del totale (più dell’Italia, che rappresenta il 27,3% del mercato italiano). Brasile e Argentina sono strategici sia per la produzione (stabilimenti di Belo Horizonte e Cordoba) che per la vendita. Il Sudamerica è molto importante anche per Telecom e Tim (dove in Brasile detiene una quota importante del mercato della telefonia mobile), per Pirelli e per Finmeccanica, il gruppo a partecipazione statale che rappresenta il fiore all’occhiello dell’industria nazionale per quanto riguarda il settore della Difesa. Agusta e Alenia, attive nella produzione di aeromobili, sono attive in joint-venture con la brasiliana Embraer, quarto produttore mondiale, o semplicemente accaparrandosi commesse con compagnie aeree locali.

 

CONCLUSIONI – L’elenco presentato sopra potrebbe risultare probabilmente stucchevole, ma è importante per sottolineare il valore strategico delle nostre multinazionali che producono e vendono all’estero, in particolare in grandi mercati emergenti come quello brasiliano che sono invece sostanzialmente ignorati dalle istituzioni politiche, almeno da quelle centrali. Le grandi aziende, insomma, contribuiscono nel nostro Paese a determinare gli orientamenti della politica economica estera. E, in fondo, non hanno nemmeno troppo bisogno del sostegno della diplomazia nazionale per investire e vendere i loro prodotti. In realtà, chi avrebbe davvero bisogno di un sostegno continuo delle istituzioni statali e di una politica estera ben strutturata ed indirizzata, conscia del concetto di interesse nazionale (che solitamente non cambia a seconda dei colori politici o delle amicizie personali di chi è al Governo) sono le centinaia di migliaia di piccole e medie imprese che costituiscono la fitta trama del tessuto economico nazionale. In più, la recente soppressione dell’ICE (Istituto per il Commercio Estero), decisa nella manovra economica approvata quest’estate, potrebbe privare le imprese di un punto di riferimento istituzionale che, almeno in passato, aveva avuto una certa importanza. Le competenze dell’Istituto sono state trasferite al Ministero dello Sviluppo Economico, ma ancora non è chiaro cosa accadrà in termini concreti. Appare però scontato che, in un periodo critico come quello attuale, la promozione delle nostre esportazioni dovrebbe essere una delle linee prioritarie della nostra politica estera.

Fratellanza storica… e strategica

La Cina con il suo modello economico “socialista a carattere cinese” deve il suo successo alla sua stabilità politica. Così titolava il 14 settembre 2009 l’agenzia di stampa governativa di Pechino, la Xinhua, riportando le parole di Hun Sen, il primo ministro cambogiano: “Sono convinto che la stabilità e lo sviluppo cinese non sia solo un bene per la Cina, ma che arrechi benefici anche all’economia regionale e globale”. E quelle erano soltanto avvisaglie del processo di consolidamento delle relazioni tra Cina e Cambogia che ha trasformato l’atavica amicizia tra i due paesi in una strategic brotherhood

 

CINA, MOST TRUSTWORTHY-FRIEND – Gli sforzi per la realizzazione della nuova partnership strategico-cooperativa sino-cambogiana s’intensificano entusiasticamente da ambedue le parti. Il 21 agosto 2011, l’ufficiale Zhou Yongkang, veterano del Partito Comunista Cinese (PCC), ha incontrato Hun Sen, durante la sua visita ufficiale a Phnom Penh, nella quale hanno stabilito di collaborare insieme per affrontare le nuove sfide globali, raggiungere i 2,5 miliardi di dollari nel commercio bilaterale, sviluppare i comuni progetti infrastrutturali per la crescita economica e diffonderne i benefici ai due popoli. Se da una parte Pechino encomia la condotta cambogiana nella lotta alla criminalità transfrontaliera e il suo sostegno alle hard policies adottate per contenere le spinte centrifughe interne che minano la stabilità nazionale. Dall’altra Phnom Penh definisce il nuovo partner “most trustworthy-friend”, assicura di parteggiare per la one-China policy, quindi di riconoscere Tibet, Hong Kong, Macao, Xinjiang e Taiwan quali parti indivisibili della Repubblica Popolare Cinese, stato unitario e  multinazionale.

 

LEGAMI STORICI – Per ritrovare i prodromi del rafforzamento dei legami bilaterali occorre tornare indietro nel tempo, fino al 1958, anno in cui la Cambogia, retta dal principe Norodom Sihanouk, riconobbe diplomaticamente l’esistenza della Repubblica Popolare Cinese, disconoscendo la credibilità del regime di Taiwan e operando in favore della rottura dell’isolamento della Cina e della sua emarginazione dalla scena internazionale. Sihanouk, messo in fuga dal colpo di stato promosso da Lon Nol nel 1970, fu ospitato a Pechino, da dove venne organizzato il supporto alla guerriglia dei Khmaey Krahon, i Khmer Rossi, il movimento comunista filo-cinese guidato da Pol Pot che coniugava il maoismo e il revanscismo nazionalista cambogiano anticolonialista. Con il sostegno cinese i Khmer Rossi ottennero il potere nel 1975 ma nel gennaio 1979 con l’occupazione vietnamita di Phnom Penh la Repubblica Popolare di Kampuchea esautorò la Kampuchea Democratica, rinforzando l’influenza vietnamita e sovietica nel Paese a detrimento di quella cinese.

 

COOPERAZIONE POLITICA ED ECONOMICA – Fu solo con gli accordi di Parigi nel 1991 che la Cina ha potuto iniziare a tessere una nuova tela di relazioni con il suo storico alleato. Ma il pragmatismo politico del Paese di Mezzo non ha mancato di manifestarsi nel momento più opportuno, così quando i donatori occidentali sospesero gli aiuti umanitari, successivamente al golpe del luglio 1997 con il quale Hun Sen si liberò degli antagonisti monarchici, i cinesi profittarono dell’isolamento cambogiano per approfondire i legami bilaterali concedendo aiuti per 6 milioni di dollari per la crescita del Paese. A scrivere una nuova pagina di storia delle relazioni tra i due Paesi è stata la visita ufficiale del vice premier cinese Wu Yiin in Cambogia nel marzo 2004, durante la quale è stato eretto l’intero piano programmatico di cooperazione economico-commerciale e sono stati siglati accordi destinati ad accrescere il volume del commercio bilaterale per 320 milioni di dollari, in quei settori che il China-ASEAN Free Trade Area aveva definito prioritari (sviluppo del bacino del Fiume Mekong, agricoltura, infrastrutture e comunicazioni). Successivamente il partenariato sino-cambogiano ha ampliato la sua sfera d’azione e alla cooperazione politica ed economica si è affiancata quella nel settore militare. In pochi anni la Cina è divenuto il primo investitore nel Paese, scalzando il primato detenuto per anni da Taiwan.

 

content_871_2

GEOPOLITICA NELLO SCACCHIERE INDOCINESE – La Cina ha rappresentato per la Cambogia, a livello intra-statale, un sostegno insostituibile per la promozione della stabilità politica ed economica, della sicurezza e della riconciliazione nazionale, ed a livello extra-statale, un supporter per l’ottenimento della legittimità internazionale. È, tuttavia, nella dimensione geopolitica e geostrategica dello scacchiere del Sud-Est Asiatico che si rinvengono le ragioni del sodalizio sino-cambogiano, nella competizione per la leadership regionale, quindi per il controllo commerciale territoriale e marittimo. Il nuovo asse Cina-Cambogia si rafforza squassando i precedenti equilibri regionali e a detrimento dell’influenza di uno storico rivale cinese: il Vietnam. Le tensioni ideologiche sino-sovietiche e le mire egemoniche vietnamite sulla penisola indocinese sono i semi causali dell’antagonismo con la Cina, che ha raggiunto l’acme delle ostilità proprio in Cambogia, in seno al Partito Comunista della Cambogia nel quale è perdurato per decenni lo stallo conflittuale tra le fazioni filo-cinese e filo-vietnamita, e in seguito all’invasione vietnamita del Paese che nel 1979 confinò l’avanzata cinese oltre confine. Logorare i legami tra Phnom Penh e Hanoi è il diktat che indirizza i piani strategici cinesi: occorre neutralizzare l’influenza vietnamita sul primo ministro Hun Sen per evitare che la Cambogia sostenga i reclami di sovranità avanzati dal Vietnam sugli isolotti del Mar Cinese Meridionale. Allo stesso modo, lo stretto legame con la Cambogia consente ai cinesi di ingerire nell’ambito della diplomazia multilaterale regionale, soprattutto nellAssociation of South-East Asian Nations alla quale Phnom Penh ha aderito nel 1999, pilotando dall’esterno gli equilibri dell’organizzazione, indebolendone la coesione e controbilanciando l’influenza statunitense.

 

CAMBOGIA-THAILANDIA, TESTING GROUND PER LA CINA – Paradigma di questa nuova diplomazia pubblica cinese, la decennale disputa frontaliera tra la Cambogia e la Thailandia è il testing ground per la Cina, aspirante potenza regionale, che esercita la propria charm policy per conciliare le relazioni bilaterali con quelle multilaterali. Il Tempio di Preah Vihear e le terre adiacenti, i contesi 798 chilometri di confine tra i due Paesi, entrambi partners commerciali cinesi, hanno offerto a Pechino un’opportunità imperdibile, ossia la possibilità di gestire nel ruolo di mediatore la crisi regionale a discapito dell’ASEAN, preposta alla sicurezza dell’area. Tuttavia il Dragone ha giocato d’astuzia, ha invitato le parti a risolvere la disputa con mezzi pacifici e piuttosto che mediare fra i due Paesi amici ha caldeggiato l’intervento dell’ASEAN per il ripristino del dialogo, legittimandolo informalmente quale unico organo risolutore delle controversie e bilanciere della stabilità regionale. In questo modo, la Cina ha anteposto la conquista della fiducia e della credibilità in seno all’ASEAN al protagonismo regionale tout court, ribadendo la propria politica di non interventismo nelle beghe territoriali inter-statali e la necessità di un ordine pacifico che favorisca la crescita economica. Ora che si rafforza la strategic brotherhood sino-cambogiana e Phnom Penh gioca la “carta cinese” per accelerare la crescita economica, stonano proprio come note anacronistiche le parole che nel 1988 Hun Sen utilizzò per designare le relazioni tra i due Paesi: “la Cina è la radice di tutto ciò che c’è di cattivo in Cambogia”.

 

M. Dolores Cabras

Un massacro silenzioso

0

La comunità afghana degli hazara manifesta sabato 1 Ottobre a Roma per chiedere la fine delle stragi settarie mirate e perché i colpevoli dell'ultima recente mattanza siano assicurati alla giustizia. Afgana e il Caffè Geopolitico ospitano l'appello lanciato per dare visibilità a questo contrasto sociale sempre aspro e tragico, che trova pochissimo rilievo nella discussione politica relativa alla ricostruzione e pacificazione della regione afghana e pachistana

CHE COSA E' ACCADUTO – Riporta Hazara People: 26 hazara assassinati dai terroristi nel Sud Ovest del Pakistan – Uomini armati hanno aperto il fuoco oggi contro un autobus nella provincia del Baluchistan, nel Pakistan sud-occidentale, in un presunto attacco confessionale, uccidendo almeno 26 pellegrini Hazara. Lo ha riferito la polizia.

Quattro assalitori hanno attaccato il bus che trasportava oltre 50 pellegrini vicino alla cittadina di Mastung, a 50 chilometri circa da Quetta, capoluogo di provincia. “Hanno aperto il fuoco contro il bus da tutti e quattro i lati. Poi sono saliti e hanno sparato ancora”, ha detto un agente di polizia a Mastung. Altre tre persone sono state uccise quando uomini armati hanno sparato contro un’ambulanza, vicino a Quetta, che si recava proprio sul luogo dell’attentato.

In passato militanti sunniti legati ad al Qaeda e ai talebani hanno compiuto gravi attentati contro la minoranza hazar sciiti in Pakistan. “Erano dagli otto ai 10 uomini e avevano lanciarazzi e kalashnikov”.

L'APPELLO – Appoggiamo e sosteniamo il diritto e la volontà della comunità hazara di Roma che, come le comunità hazara in Pakistan e in molte altre parti del mondo, manifesta sabato pomeriggio a Roma per condannare la strage in Pakistan di 26 pellegrini hazara.

Il 19 settembre scorso i pellegrini sciiti, che viaggiavano dall'Iran a Quetta (Beluchistan), sono stati vittime di un'imboscata nell'area di Ganjidori (Mastung), azione rivendicata dal gruppo jihadista Lashkar-e-Jhangvi (LeJ) da tempo messo al bando dalle autorità pachistane.

In particolare appoggiamo e sosteniamo la chiave con la quale gli hazara manifestano e cioè respingendo scelte che, oltre a uccidere, spingono a uno scontro che ha per oggetto le divisioni religiose ed etniche.

Appoggiamo infine la loro richiesta di avere giustizia e garanzie per un futuro di sicurezza e pacifica convivenza.

content_869_2

LA COMUNITÀ HAZARA A ROMA – Sabato 1 ottobre 2011 dalle ore 14 alle ore 16 si terrà una manifestazione stanziale a Roma, in Piazza della Repubblica – angolo chiesa Santa Maria degli Angeli.

Programma:

  • ore 14 inizio sitting

  • ore 15 Conferenza Stampa: presentazione e panoramica della regione afghano-pakistana

  • Diritti Umani per gli Hazara: quale la posizione del Governo Pakistano circa le violenze sugli Hazara?

    Rispondono Aftab Mogoul – fondatore della Hazara Community di Roma; Arif Hazara

  • ore 16 scioglimento del sitting

Presenta e coordina Marika Guerrini – scrittrice, storica dell'Afghanistan.

Presenzia Emanuele Giordana – giornalista, esperto di affari afghani e regionali

La Redazione [email protected]

La coperta corta

0

Mentre l'area Euro si affanna per evitare di venire travolta dalla crisi del debito greco, il Brasile continua a veleggiare a ritmo sostenuto. In più, la svalutazione della moneta locale potrebbe rilanciare le esportazioni. Attenzione però al problema dell'inflazione e ad una crescita del Prodotto interno Lordo meno forte del previsto

IL BRASILE VA – Se nel Vecchio Continente l'economia traballa, per usare un eufemismo, facendo rimanere tutti con il fiato sospeso per il destino dell'Euro, appeso a un filo sempre più sottile (gli interessi sui buoni del Tesoro greci sono ormai a livelli prossimi al default), dall'altra parte dell'Oceano Atlantico c'è chi gode di prospettive favorevoli per il futuro. Il Brasile, lo abbiamo già detto più volte, è una delle potenze in crescita più interessanti e promettenti, per diverse ragioni: un sistema produttivo solido e diversificato, la presenza di alcune aziende leader a livello mondiale, un mercato interno enorme e in espansione, un territorio ricchissimo di risorse naturali ancora da esplorare e sfruttare. I numeri, effettivamente, parlano chiaro. Se guardiamo ai mercati finanziari, che in Europa hanno registrato perdite enormi (-47 % il calo nel valore dei titoli negoziati sulla Borsa italiana tra il 2008 e il 2011), scopriamo che l'indice Bovespa della Borsa Valori di San Paolo ha invece guadagnato complessivamente il 16%. Il PIL è cresciuto a ritmi sostenuti – ad una media superiore al 3% annuo – e ha superato quello italiano, attestando il Brasile come settima economia mondiale e proiettandolo sempre più in alto.

Inoltre, negli ultimi giorni la moneta locale, il real, ha invertito la tendenza ascendente volta ad un continuo apprezzamento nei confronti del dollaro. Dopo aver toccato il cambio record di 1,5 nei confronti del “verdone” statunitense, è sceso nuovamente a 1,87. Una bella boccata di ossigeno per le esportazioni, che possono aumentare contando su prezzi relativi più competitivi per le merci brasiliane, dopo che nei mesi scorsi diverse aziende avevano perso importanti fette del mercato estero.

content_870_2

LIMITI – Una moneta nazionale che vale meno, però, comporta anche un rovescio della medaglia: può infatti comportare un aumento dell'inflazione. La Banca Centrale brasiliana ha mantenuto in questi ultimi anni un rigido inflation targeting, applicando un tasso di interesse tra i più alti al mondo (il Selic, che misura il costo del denaro in Brasile, si aggira intorno al 12%). Tutto ciò allo scopo di calmierare l'aumento dei prezzi, che si è mantenuto intorno al 5% negli ultimi anni (una cifra tutto sommato accettabile per un Paese in via di sviluppo). Gli eventi degli ultimi giorni hanno fatto rivedere le stime al rialzo: l'inflazione è stata del 7,2% ad agosto e il 2011 dovrebbe chiudere con un aumento complessivo del 6,5%. Siamo lontani dalla doppia cifra alla quale sono abituati gli argentini, ma è indubbio che la coperta, come suggerisce il nostro titolo, sia corta: svalutare la moneta comporta cedere sul fronte dell'inflazione, e viceversa. E per quanto riguarda la crescita? Indubbiamente l'export favorisce la crescita del PIL, le cui stime sono state riviste in leggero ribasso sia per l'anno in corso che per il 2012. Innescare dinamiche inflattive potrebbe essere però rischioso. Le autorità monetarie brasiliane potrebbero però usare l'arma della svalutazione periodicamente, per ridare ossigeno ai produttori locali quando necessario: il Paese sudamericano è infatti uno dei principali detentori di riserve valutarie in dollari (anche se molto meno della Cina). Comprare dollari per immettere reais sul mercato e viceversa è un'opzione a disposizione per agire sulla leva del cambio (monetario).

 

Davide Tentori

[email protected]

 

“Stretto” equilibrio

0

La settimana scorsa gli Stati Uniti hanno annunciato un accordo per l’ammodernamento dei 145 jet F-16 A/B della flotta aerea di Taipei, provocando, come al solito, le reazioni di Pechino. L’ultima volta è stata nel gennaio 2010, quando sono stati venduti armamenti per 6,4 miliardi di dollari. A distanza di un anno e mezzo si sta giocando un nuovo episodio nel gioco delle parti tra Washington e Pechino. Ecco perché la questione dello stretto di Taiwan resta così importante per entrambi i due attori coinvolti, e cosa ci dobbiamo aspettare per i prossimi mesi

LA PROTEZIONE DI TAIWAN – La vendita di armi all’isola di Taiwan da parte degli Stati Uniti va avanti fin dal 1979, quando gli Usa decisero di allacciare le relazioni diplomatiche con Pechino, interrompendo quelle con Taipei. In seguito a questa decisione strategica, il congresso Usa approvò il Taiwan Relations Act, in base al quale gli Stati Uniti si impegnarono a fornire armamenti a Taiwan al fine “di garantire una sufficiente capacità di auto-difesa".

La mossa americana della scorsa settimana è in linea con gli obblighi previsti dal Taiwan Relations Act il quale, nelle parole di Ileana Ros-Lehtinen (capo della House Foreign Affairs Committee), continua a rappresentare “la linea guida per la politica estera americana nella regione.” La scelta dell’Amministrazione Obama di non andare oltre l’aggiornamento delle tecnologie installate sugli F-16 A/B, ha sollevato varie polemiche negli Usa. Obama è accusato, soprattutto da parte repubblicana, ancora una volta di essere troppo debole nei confronti del gigante cinese e di aver fatto uno sgarbo all’alleato asiatico (Taiwan ha più volte richiesto negli ultimi mesi l’acquisto dei più moderni F-16 C/D).

Dal canto suo, l’Amministrazione Obama ha difeso la propria scelta sostenendo che l’ammodernamento è sufficiente per soddisfare le esigenze di autodifesa di Taiwan, tenendo aperta la porta per la vendita degli F-16 C/D. Nelle motivazioni dell’Amministrazione ci sarebbe l’intenzione di evitare reazioni aspre da parte di Pechino per non far precipitare le relazioni sino-statunitensi ai livelli minimi del 2010, quando la Cina sospese le esercitazioni congiunte con l’esercito americano. Per il momento, la reazione dall’altra parte dell’Oceano Pacifico c’è stata, senza superare il livello di guardia.

PERCHE’ LA CINA (RI)VUOLE TAIWAN – La questione della vendita di armi a Taiwan è potenzialmente la più pericolosa nella relazione sino-americana. Pechino la considera come un’intrusione nei propri affari interni e una violazione della propria sovranità. Gli Stati Uniti sono inoltre accusati di non rispettare il Joint Communiqué firmato nel 1982, con il quale Washington si impegnava a ridurre gradualmente la vendita di forniture militari.

Dal canto suo Pechino, ha tra i principali obiettivi della sua politica estera (se non il principale), la riunificazione di Taiwan alla Cina continentale – da quando, nel 1949, l’isola ha ospitato il governo della Repubblica di Cina, del suo fondatore Chiang Kai-shek a capo del Kuomintang. La questione, nella Cina continentale, muove forti sentimenti nazionalistici: l’effettiva riunificazione rappresenta l’ultimo ostacolo per il superamento del legame con il “secolo dell’umiliazione”.

Tutto ciò che vada al di là del principio “un paese, due sistemi” potrebbe provocare una guerra, come, ad esempio, una dichiarazione di indipendenza da parte di Taiwan.    

PERCHE’ AGLI USA INTERESSA TAIWAN – L’alleanza con Taipei ha le sue radici nella guerra civile cinese tra le forze comuniste di Mao Tse-tung e quelle nazionaliste di Chiang Kai-shek (quest’ultime sostenute dagli americani); e, poi, durante la Guerra Fredda nella lotta al contenimento del comunismo da parte dell’Occidente. Taiwan è perciò un alleato storico degli Stati Uniti, facente parte tuttora del suo sistema di sicurezza in Asia dell’Est. Abbandonarlo sarebbe troppo costoso in termini di immagine per la potenza americana, che verrebbe vista come incapace di difendere i propri alleati, con forti conseguenze per gl’altri paesi dell’Asia Orientale che fanno affidamento sulla protezione americana. Inoltre, in chiave strategica e di sicurezza, sarebbe una mossa che servirebbe su un piatto d’argento alla Cina, la sensazione che gli Usa si stiano indebolendo e disimpegnando dall’area, con effetti non facilmente prevedibili. Ecco perché la decisione di Obama ha sollevato così tante polemiche.   

content_868_2

PROSPETTIVE: DUE FUTURE ELEZIONI + UNA – L’elezione del Presidente Ma Ying-jeou nel 2008, ha sicuramente portato a una distensione delle relazioni con la RPC, stabilizzando le relazioni triangolari tra la Cina, Taiwan e gli Usa. Da allora, molti sono stati gli incontri bilaterali di alte figure governative. Nel giugno del 2010 si è giunti persino alla firma di un importante accordo commerciale tra Pechino e Taipei.

Tuttavia la situazione potrebbe cambiare. Nel 2012, sia il Presidente taiwanese Ma Ying-jeou (in gennaio) sia quello americano Obama (in novembre), verranno rieletti o saranno “bocciati” dai propri elettori; mentre in Cina il passaggio di consegne da Hu Jintao a Xi Jinping verrà formalizzato tra la fine del 2012 e la primavera del 2013.

Per gli equilibri nello stretto di Taiwan, probabilmente l’elezione di Taiwan è la più importante. Elezione che si giocherà in gran parte su tematiche di politica estera. La vittoria della candidata all’opposizione, Tsai Ing-wen del DPP (Democratic Progressive Party), potrebbe portare a un serio deterioramento delle relazioni tra le due sponde dello stretto di Taiwan. Se il trend che vede Ma Ying-jeou perdere consenso nella sua politica dei rapporti con la Cina dovesse continuare, la vittoria elettorale di Tsai Ing-wen potrebbe essere più che una probabilità, ciononostante la Cina sostenga la continuità dell’attuale governo.

Se nel frattempo le due superpotenze possono continuare con il loro gioco delle parti – più volte visto in passato – nel lungo periodo la questione della vendita di armamenti a Taiwan da parte degli Stati Uniti, pone serie preoccupazioni sul futuro delle relazioni sino-americane.

Marco Spinello [email protected]