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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Il Drago Cinese affila le zanne

Le forze armate cinesi appaiono nel mezzo di una forte svolta innovativa: nuovi sistemi d’arma, sviluppo di tecnologie moderne e perfino produzione di portaerei. Molte di queste novità non avranno effetti immediati, tuttavia vengono monitorate attentamente. Tutte queste mosse infatti ci dicono molto sui progetti e gli interessi geopolitici e strategici futuri di Pechino

 

SEA DENIAL – Partiamo dallo sviluppo missilistico, che si basa sul tentativo cinese di imporre una strategia di “Sea Denial” davanti alle proprie coste e in particolare nel Mare Cinese Meridionale.

 

Tutte queste aree sono attualmente dominate dalla marina USA tramite le proprie portaerei nucleari (CVN) e i gruppi da battaglia che le scortano. L’impiego di questi mezzi consente infatti agli USA di mantenere in zona una forte potenza di fuoco tramite i cacciabombardieri imbarcati sulle portaerei e i missili cruise sui vascelli minori di scorta (incrociatori, fregate, cacciatorpedinieri), fino alla possibilità di controllare l’aria (caccia da superiorità aerea, missili antiaerei) e il mare sottostante (sommergibili di scorta, navi ed elicotteri antisommergibile).

 

Per la Cina esistono solo due modi per eliminare questa influenza straniera che di fatto impedisce a Pechino il controllo del mare e delle risorse sottostanti: la prima opzione è inviare nell’area le proprie forze aeronavali, che però risultano al momento tecnologicamente inferiori a quelle USA, tanto da non poter competere in uno scontro diretto e non poter mantenere una presenza significativa in zona.

 

La seconda è impedire anche agli USA di fare lo stesso (Sea Denial). Il principio è semplice e basato su una banale considerazione: la potenza aeronavale USA dipende dalle portaerei, se queste e le altre navi non possono rimanere in zona in un dato tratto di mare, non possono impiegare le proprie risorse aeree e missilistiche e, dunque, cessano di esercitare il proprio controllo.

 

La creazione del missile balistico antinave (ASBN) Dong Feng-21 D va visto dunque in tale ottica: impiegabile ad elevata distanza dal nemico, è definito un potenziale carrier-killer (ammazza-portaerei) proprio per la sua presunta capacità di poter colpire e distruggere un vascello anche da distanze considerevoli.

 

PANICO AL PENTAGONO? – La notizia è stata ovviamente presa con la dovuta serietà, ma esistono ancora dubbi riguardo all’effettiva efficacia del Dong Feng-21 D; ne citiamo due, tra i principali: i cinesi non hanno ancora dimostrato di avere sistemi di puntamento avanzati e il bersaglio che si intende colpire è un bersaglio in movimento e anche solo pochi gradi di errore di puntamento possono provocare chilometri di errore alla destinazione; pertanto, a meno di sofisticati sistemi di puntamento e tracciamento, l’arma rischia di essere notevolmente imprecisa. Secondariamente, le portaerei USA sono protette dal sistema antimissile AEGIS trasportato dalle loro navi di scorta, attualmente il più preciso ed avanzato esistente al mondo e le cui caratteristiche assicurano grande affidabilità.

 

UNA GUERRA DI NERVI – In una situazione dove poche sono le certezze, quello che conterà non sarà tanto la reale potenza di fuoco (difficilmente si arriverà a uno scontro aperto, specialmente a breve), quanto la capacità di convincere l’avversario di possedere l’arma migliore.

 

Se la Cina dimostrerà l’efficacia del Dong Feng-21 D o delle sue future evoluzioni come validi carrier-killer, o comunque spaventerà abbastanza gli USA con tale possibilità, il Pentagono sarà costretto a far indietreggiare le portaerei e diminuire quindi il controllo sul Mar Cinese Meridionale e zone limitrofe, aprendo il controllo alla marina di Pechino.

 

Se invece la Cina non riuscirà a convincere i propri avversari oppure gli USA avranno migliorato i propri sistemi antimissile tanto da parare anche questa nuova minaccia, allora le portaerei rimarranno e la Cina continuerà a trovarsi in svantaggio.

 

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AEREI STEALTH – A questi discorsi si sommano anche le migliorie nell’aviazione, con la recente notizia dello sviluppo del primo caccia stealth cinese, il J-20. Anche in questo caso l’obiettivo è ridurre il gap con le controparti USA, indispensabile per le proprie mire strategiche nella regione; si dubita però che la Cina abbia sviluppato una tecnologia stealth paragonabile a quella occidentale, per quanto ciò non sia da escludersi. Inoltre per ora si tratta solo di un prototipo ottenuto tramite parziale reverse-engineering di un caccia USA caduto. In generale in una corsa agli armamenti la Cina parte già da una posizione svantaggiata, trovandosi sempre a rincorrere l’avversario; va detto però che i problemi economici USA e i tagli ai budget militari (inclusa la riduzione del progetto per i nuovi cacciabombardieri Joint Strike Fighter F-35) riducono la capacità statunitense di progredire allo stesso ritmo.

 

PORTAEREI – La questione più importante torna però ad essere quella delle portaerei. La Cina ha ricevuto nell’ottobre 2010 la vecchia portaerei russa Varyag e secondo le dichiarazioni dei propri portavoce intende modificarla e impiegarla come modello per la costruzione di propri vascelli analoghi.

 

Anche in questo caso non si osserva una semplice escalation degli armamenti ma la ricerca di una soluzione a questioni ben precise.

 

Pechino sta aumentando la propria influenza in aree geografiche dotate di risorse naturali a lei favorevoli (tra le altre, vari paesi africani per la terra coltivabile e i minerali, Sudan e Libia per il petrolio), dove le distanze impongono un elevato impegno commerciale marittimo. Risulta dunque necessario garantire il controllo del mare. Attualmente questa necessità si concretizza nel rendere sicure le rotte commerciali dai pirati, come nella regione del Corno d’Africa, dove infatti alcuni vascelli militari cinesi per la prima volta operano lontano dalle proprie coste.

 

In futuro tuttavia la Cina dovrà essere in grado di poter difendere i propri interessi anche in caso di conflitti contro altri paesi o situazioni di seria crisi internazionale. La presenza militare dunque risulta fondamentale per proiettare la propria forza lontano da casa e garantire l’indipendenza dei propri rifornimenti. Come già indicato, nel mondo moderno la superiorità navale arriva dall’impiego di risorse aeronavali mobili che sono definite principalmente dall’impiego di portaerei. Ecco dunque spiegato l’acquisto della Varyag e dei progetti futuri: Pechino sa che prima o poi potrebbe avere bisogno di proteggere i propri interessi lontano dall’Asia orientale; pertanto punta fin da ora ad attrezzarsi per poter affrontare queste sfide. A questo va legato l’interesse a stringere accordi per l’ottenimento di diritti di sfruttamento di basi navali e di monitoraggio (militari e non) lungo l’Asia sud-orientale e attorno all’Oceano Indiano, come visto nell’articolo “La strategia del filo di perle”. Ogni flotta, per quanto potente, ha infatti bisogno di basi adeguate per il rifornimento e l’appoggio logistico. E la mano cinese sta creando le premesse per far operare le proprie navi sempre più lungo quelle rotte che risultano di maggiore valore strategico verso occidente.

 

NESSUN CONFLITTO A BREVE – Non è realistico immaginare seri conflitti a breve. Oltre a un’inopportunità politica ed economica, le innovazioni e i piani di ammodernamento messi in atto vanno viste sul medio-lungo termine; le forze armate cinesi sono infatti ancora caratterizzate da grandi numeri ma scarso equipaggiamento e qualità. L’obiettivo è sicuramente quello di ottenere almeno un nucleo di forze altamente addestrate ed equipaggiate, tuttavia Pechino dovrà sfruttare ancora per vari anni un approccio di quantità contro qualità. Da parte loro gli USA non possono impedire fisicamente alle navi cinesi di assumere atteggiamenti aggressivi, tuttavia hanno ancora un enorme vantaggio tecnologico che consente loro di mantenere la supremazia. Sicuramente però la corsa agli armamenti in Asia orientale appare solo appena iniziata e nel prossimo decennio gli equilibri potrebbero almeno parzialmente modificarsi. La Cina ora è ancora indietro, ma sta dimostrando la capacità di sviluppare una propria industria bellica indipendente e avanzata, e avere obiettivi chiari su come impiegarla.

 

Lorenzo Nannetti

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Un colpo al cuore?

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Martedì 13 Luglio 2011, Mumbai è stata colpita da tre attacchi terroristici che hanno provocato almeno 21 morti e un centinaio di feriti.  La città che era già stata bersaglio del terrorismo nel 2006 e poi nel 2008 è il simbolo di quell’inarrestabile crescita economica, che sta trasformando l’India in una superpotenza economica, fulcro, fragile, delle relazioni tra Stati Uniti, Pakistan e Afghanistan. Ecco alcune riflessioni geopolitiche dopo l'accaduto

TRIPLICE ATTACCO – Erano le 19 di sera di un qualsiasi Martedì di Luglio a Mumbai, una delle principali metropoli indiane. All’improvviso tre ordigni sono esplosi, quasi contemporaneamente, in tre zone differenti della città. È stato colpito il quartiere di Dadar, che,  roccaforte del partito induista Shiv Sena, raccoglie in sé una ricca comunità di parsi, i cosiddetti padroni di Mumbai,  un tempo gianista e la Kabutar Khana, la casa dei piccioni, simbolo sacro della fede indù; il Zaveri Bazaar,  cuore commerciale della città, già vittima di attentati terroristici nel 1993 e nel 2003 ed, infine,  l’area attorno all’Opera House, dove risiedono i grandi industriali indiani.  Le esplosioni hanno causato almeno 21 morti ed un centinaio di feriti, ma non sono state opera di suicidi.

POSSIBILI COLPEVOLI- A dieci giorni dall’attentato è possibile effettuare alcune riflessioni e delineare alcuni scenari. Le autorità indiane non si sono sbilanciate nell’indicare possibili responsabili degli attacchi, che d’altra parte non sono stati rivendicati da alcun gruppo terrorista.  Da poco, infatti, sono state riallacciate le relazioni tra India e Pakistan, sospese in seguito agli attentati, sempre a Mumbai, del 2008, rivendicati da cellule terroristiche  con sede a Islamabad.  Il Presidente pakistano Asif Ali Zardari e il premier Yusuf Raza Gilani hanno condannato l’accaduto ed espresso la loro solidarietà.  Sospetti ricadono, comunque, anche su organizzazioni interne al territorio indiano. In cime alla lista si annoverano i Mujaheddin Indiani, fautori nel passato di numerosi attacchi a importanti città, come Delhi, Bangalore e Ahmedabad. A sostegno di tali accuse sarebbe l’ordigno utilizzato per le esplosioni, piuttosto rudimentale, proprio come nello stile dei Mujaidin, che peraltro non sono soliti rivendicare i loro attentati. È stata ipotizzata una partecipazione degli “Studenti Islamici”, da sempre loro affiliati. Infine,i media puntano il dito contro  altre organizzazioni, molto più affermate, quali Laskhar e Toiba o Jash Mihammed.

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POSSIBILI CONSEGUENZE GEOPOLITICHE – Gli attentati si sono verificati in un momento cruciale. Le relazioni tra India e Pakistan, da tempo tese, stavano rilassandosi progressivamente, anche grazie alla semifinale dei mondiali di cricket tenutasi a Marzo. Al tempo stesso, invece, i rapporti tra Pakistan e USA si sono raffreddati improvvisamente con la morte di Osama Bin Laden, da tempo nascosto ad Abbotabad. Inoltre, era prevista una visita di Hillary Clinton a New Delhi per discutere dei legami economici fra i due Paesi,  di una cooperazione nel campo dell’energia nucleare ed , infine, della lotta contro il terrorismo. L’India rimane, dunque, l’ultimo appoggio per gli USA in una zona altamente instabile, dopo l’impegno di ritirare le truppe dall’Afghanistan. Il subcontinente indiano sembra dunque non essere mai stato tanto potente e fragile come al giorno d’oggi.

Gloria Tononi

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Mattei, il sogno dell’autonomia energetica e le relazioni scomode

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Caffè150 – Il 27 ottobre 1962 nelle campagne di Bascapé nei pressi di Pavia moriva Enrico Mattei, Presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), a seguito della caduta del bireattore su cui volava insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista inglese William Mc Hale. Molti studiosi ritengono che con questa poliedrica figura di uomo intelligente e deciso, con indiscusse capacità imprenditoriali, ex comandante partigiano e cattolico osservante, morì il sogno dell’autonomia energetica italiana

 

LA CARRIERA – Personaggio assai discusso, la cui morte resta annoverata tra i grandi misteri italiani irrisolti, Mattei è stato secondo alcuni anche un grande corruttore. Celebre almeno quanto la sua morte è infatti rimasta la frase in cui affermava: “I partiti sono come i taxi. Li chiamo quando servono perché mi portino dove voglio. Io pago la corsa.” La sua rilevanza politica iniziò quando Mattei decise di mettere in discussione quelle clausole del Trattato di Pace con gli Stati Uniti che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, imponevano all’Italia di liquidare l’Azienda Generale Italiana Petroli (Agip), una grande azienda pubblica (il capitale sociale era conferito per il 60% dal Ministero per il Tesoro, per un 20% dall’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) e per il restante 20% dalle Assicurazioni Sociali) istituita nella forma di società per azioni con il regio decreto del 3 aprile 1926 per lo svolgimento d’ogni attività relativa all’industria e al commercio dei prodotti petroliferi. Ma Mattei, che subito dopo la guerra e una carriera rapidissima ne diviene Vicepresidente, non ci stava a cedere ai privati il controllo sull’energia italiana. Le scoperte di metano nel 1946 in Emilia-Romagna e a Caviaga, in Lombardia, resi noti nel 1949, e il supporto della Democrazia Cristiana, i cui rapporti derivavano dalle battaglie come comandante partigiano per le brigate cattoliche, furono una motivazione sufficiente per ritardare lo scioglimento dell’Agip. Progressivamente le azioni della compagnia iniziarono a salire e, tramite l’impiego di mezzi e metodi a volte controversi ma efficaci, il gas iniziò ad arrivare in tutte le case italiane.

 

L’UOMO E LA POLITICA – E’ importante sottolineare che fin da questo momento Mattei ebbe l’appoggio di De Gasperi (ai quali è dedicato un altro speciale del Caffé) e, soprattutto, di Ezio Vanoni, un nome oggi sconosciuto ai più ma che fu Ministro delle Finanze. Come si legge sulla rivista CeRDEF della Scuola superiore dell’economia e delle finanze: “Vanoni dopo aver retto il dicastero del Commercio Estero divenne nel 1948 Ministro delle Finanze e si distinse subito per due rilevanti iniziative: il riordino del sistema tributario e la valorizzazione di quelle “partecipazioni statali” che potevano contribuire alla ricostruzione e dare avvio ad un effettivo sviluppo economico.” Fu, dunque Vanoni, a ben vedere, a troncare la liquidazione dell’Agip che si stava quasi per concludere, e a permettere la vita del cane a sei zampe. Una tale presa di iniziativa non lasciò probabilmente indifferenti gli Stati Uniti. Secondo l’ Intelligence memorandum del 17 luglio 1946 dal titolo “Interests” (il documento è custodito nei National Archives di Washington), il Dipartimento di Stato registrava che in quell’anno in Italia operassero 44 aziende americane per un investimento totale di circa 73 milioni di dollari (la metà di tutti gli investimenti statunitensi in Italia), dei quali circa un terzo effettuati dalla Standard NJ, che controllava una costellazione di aziende del settore petrolifero e dei servizi automobilistici.

 

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LE SETTE SORELLE – L’infaticabile Mattei non si fece intimidire dalle grandi potenze e costruì l’ENI intorno all’Agip (nel 1953 ne diventò Presidente). L’obiettivo nella mente di Mattei restò quello dell’autonomia energetica dell’Italia, per questo il suo progetto entrava inevitabilmente in competizione con il potere delle “Sette Sorelle”, locuzione coniata da Mattei stesso per indicare le grandi imprese petrolifere che monopolizzano il mercato del greggio. I contatti cercati con Libia, Marocco, Egitto, Iran e Unione Sovietica con cui Mattei stipulò accordi non potevano che dare fastidio, in particolar modo agli Stati Uniti e le sue “Cinque Sorelle” (vedi il Chicco in Più). Con queste ultime padrone delle riserve tradizionalmente aperte allo sviluppo occidentale, Mattei non vedeva infatti altra possibilità per il futuro energetico italiano se non stabilire accordi con paesi con i quali gli USA – e quindi le sue compagnie – non intendevano fare affari per motivi politici. Si trattava di territori e risorse dunque ancora liberi e facilmente sfruttabili da quello che diventerà il gigante italiano del petrolio. Fare affari con paesi non allineati a Washington attirò ovviamente l’inimicizia dell’amministrazione USA, tanto che lo scontro con il potere statunitense non venne nascosto da Mattei nelle sue esternazioni: “La politica del monopolio americano è finita. Le nuove realtà politiche dei paesi produttori di petrolio rendono possibile un nuovo sistema, basato su accordi diretti tra paesi produttori e paesi consumatori di petrolio.”

 

LA MORTE E GLI INTERROGATIVI – A causa di tali contrasti e dei risentimenti che ne derivarono, la morte di Enrico Mattei, apparentemente un incidente, ha sempre lasciato aperte molte ipotesi di assassinio. Riguardo ai possibili committenti o responsabili si spazia dall’estremismo di destra, ostile a Mattei per le sue aperture al modo arabo, a Israele o alle Sette Sorelle, dagli Stati Uniti alla mafia. La morte di Mattei certamente lasciò degli strascichi su chi si avvicinò al suo caso: De Mauro, il Direttore de l’Ora di Palermo, che aveva lavorato al Giorno (quotidiano di Mattei) e che indagò sulla sua morte sparì nel nulla. Anche Pier Paolo Pasolini, il cui decesso resta avvolto dal mistero, si interessò alla figura di Mattei, tanto che “Petrolio”, un libro incompiuto e pubblicato postumo che conteneva il capitolo “Lampi su Eni”, sparì dalle carte del manoscritto originale.

 

Anna Longhini

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Quando il clima infierisce

Dall’inizio del 2011 si è verificata una siccità dalle proporzioni enormi per il Corno d’Africa con un apice tra i mesi di Giugno e Luglio, due mesi durissimi dal punto di vista climatico a causa della Nina, un fenomeno meteorologico che incide sulla quantità di precipitazioni in Africa e che ha provocato la più grave siccità degli ultimi 60 anni. La popolazione, già provata da anni di instabilità politica ed economica, paga ancora una volta le conseguenze

 

IL GRANDE ESODO – In particolare è la Somalia nelle condizioni peggiori. E’ qui che si sta consumando «una tragedia umanitaria di proporzioni inimmaginabili» come ha confermato l’UNHCR, l’agenzia dell’Onu per i Rifugiati, secondo la quale il flusso di sfollati negli ultimi mesi ha raggiunto cifre da esodo biblico: 135 mila dall’inizio del 2011, 54 mila solo nel mese di giugno. Bambini, donne, anziani, uomini in fuga dalle violenze e dalla fame. Ogni giorno circa tremila somali varcano le frontiere con l’Etiopia e il Kenya e si ammassano nel più grande campo profughi che si trova nelle vicinanze di Dadaab(Kenya), la sua capienza è di circa 90 mila persone ma attualmente ne contiene  addirittura 400mila e ciò rende necessario la creazione di nuovi campi profughi.

 

Sono circa 10-11 milioni le persone colpite da questa emergenza umanitaria e tra queste circa 2milioni di bambini,che rappresentano il futuro di questi paesi e dell’Africa intera. L’emergenza era stata prevista dagli esperti ma si è fatto ben poco,soprattutto da parte dei paesi ricchi e sviluppati,concentrati su altre problematiche come la crisi economica e il rischio di default sul debito per alcuni stati, che non hanno prestato voce ai richiami e agli allarmi proveniente dal corno d’Africa. Un quarto dei Somali è in fuga dalla propria terra andando ad accrescere sempre più i campi profughi allestiti nelle zone di confine,per cercare di fuggire non solo dalla siccità ma da una situazione di instabilità politica anch’essa insostenibile che non aiuta a prendere misure valide per risolvere l’emergenza attuale. La difficoltà nella gestione di questa emergenza per i paesi del Corno D’Africa è sintomatica della crisi politica che scuote il territorio da decenni e rappresenta al tempo stesso una sfida per cercare di cambiare questa situazione di perenne guerra a partire dal nuovo stato del Sud Sudan che, coinvolto in questa crisi umanitaria, si trova a dover affrontare per la prima volta come Stato autonomo ed indipendente una crisi di queste dimensioni.

 

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CLIMA – Uno degli aspetti forse più drammatici è che gli esperti prevedono che anche la prossima stagione caratterizzata dal passaggio del Niño (il fenomeno meteorologico che invece porta abbondanti piogge in Africa e si bilancia con il fenomeno nefasto della Niña) porti con se una quantità di piogge insufficienti a colmare la durissima siccità in corso con possibili ripercussioni anche nell’anno successivo.

 

AIUTI INTERNAZIONALI – Il 13 Luglio il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, lanciando un appello per «undici milioni di uomini che nell’Africa dell’Est non possono attendere» perché «bisogna porre fine alla sofferenza ora, subito», ha ricordato che solo la metà del miliardo e mezzo di dollari necessari all’operazione di soccorso è disponibile, e ciò mostra come anche le grandi organizzazioni internazionali siano in una situazione difficile e causa rallentamenti e incomprensione che hanno come unico effetto quello di ritardare la distribuzione di aiuti in un area che non può e non ha più voglia di aspettare.

 

Andrea Piras

Dalla Primavera araba… all’autunno?

E' rimasto qualcosa delle promettenti rivoluzioni nei Paesi arabi che lasciavano presagire una svolta in senso democratico dopo decenni di regimi autoritari? In Marocco l'onda della protesta si sta alzando nuovamente per le riforme considerate troppo “tiepide”; in Siria Assad sta reprimendo il dissenso nel sangue. E in Libia la situazione è in un punto di stallo da ormai troppo tempo. Quali sono gli scenari possibili?

Tratto da Notizie Radicali

 

QUALE RIVOLUZIONE? – L'esito di una rivoluzione non è mai piacevole né ben definito. Tuttavia, alcuni dei paesi interessati dalla Primavera Araba stanno gestendo meglio di altri le imprevedibili conseguenze di questo fermento politico di dimensione regionale. In uno spettro di possibili risultati, ad una delle estremità troveremmo il Marocco: dopo un aspro dibattito e una serie di dimostrazioni pacifiche da parte del “movimento del 20 febbraio”, le modeste riforme costituzionali proposte dal re Mohammad hanno conquistato il favore del popolo in un referendum tenutosi proprio la scorsa settimana.

Tuttavia, la questione non si è chiusa così. Migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Rabat, Casablanca e Tangeri, protestando contro delle riforme ritenute eccessivamente caute. “Il Marocco è stato spinto fino al punto di rottura. Ora bisogna chiedersi se queste modeste riforme continueranno o se serve ben altro”, afferma Susi Dennison, coautore di una ricerca su ciò che l'Unione Europea può fare per sostenere l'evoluzione democratica del Marocco, pubblicata dallo European Council on Foreign Relations (ECFR). Le stesse considerazioni valgono anche per la Tunisia e per l'Algeria.

TRIPOLI E DAMASCO – All'altra estremità dello spettro di possibili risultati troveremmo, invece, la Siria e la Libia: qui il processo politico ha fallito ed è ormai altamente probabile che la violenza degli ultimi mesi degeneri in una situazione post-rivoluzionaria simile al caos in cui è sprofondato l'Iraq del post-Saddam. A differenza di quanto avvenuto in Libia, in Siria i paesi occidentali e i loro alleati del Golfo non sono (ancora) intervenuti direttamente. Fattore che potrebbe rivelarsi positivo o negativo a seconda di come si evolverà la situazione a Tripoli e a Bengazi.

Mostrando una crescente frustrazione circa i continui attacchi contro i dimostranti in Siria, William Hague, Ministro degli Esteri inglese, ha (quasi) suggerito che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti adottino un approccio più diretto ed ostile nei confronti del regime di Bashar al-Assad. “Il Regno Unito ha espresso chiaramente la propria opinione circa la necessità che il Presidente Assad attui una serie di riforme o si faccia da parte. Se il regime continuerà a seguire la strada della repressione, la pressione della comunità internazionale non potrà che aumentare”, ha avvertito Hague.

La Libia, invece, è attualmente bloccata in una impasse politica e militare, mentre la resistenza al potere di Gheddafi continua a stupire gli avversari occidentali. Un simile stallo non può durare all'infinito: alcuni esperti regionali cominciano a temere che l'intervento occidentale possa rivelarsi eccessivamente efficace, divenendo quello che è stato definito “un successo catastrofico”.

Questa eventualità si verificherebbe qualora risultasse impossibile raggiungere lo scopo dichiarato dell'ONU e della NATO, vale a dire quello di giungere ad un accordo negoziato tra il regime e i ribelli e assistere alla spontanea rinuncia al potere da parte di Gheddafi. Il raìs verrebbe ucciso o fuggirebbe, il governo imploderebbe, il consiglio provvisorio dei ribelli si frammenterebbe in varie correnti rivali e l'esercito e la polizia (non retribuiti da tempo), i mercenari rinnegati e le milizie tribali (in qualche caso armate dalla Francia) darebbero il via ad una guerra sulle risorse petrolifere del paese. “Non è certo uno scenario promettente”, sottolinea un osservatore. “Appena Gheddafi se ne andrà, dovremo ristabilire velocemente la legge e l'ordine, così come i servizi pubblici essenziali”. In altre parole, si dovrebbe evitare di commettere gli errori delle forze statunitensi in Iraq, che hanno invece tentato di governare il paese. Nella Libia del dopoguerra, sarebbe essenziale inviare una forza ONU per il mantenimento della pace, composta da truppe di paesi arabi e musulmani (non occidentali). Ad oggi, non è chiaro se questa eventualità sia stata studiata attentamente. “Non riteniamo che in Libia ci sia una grave emergenza umanitaria, ma prevediamo problemi per il post-Gheddafi”, ha affermato l'osservatore.

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L'ENIGMA DELLA SFINGE – Per quanto riguarda l'Egitto, cuore pulsante di questa Primavera Araba, gli sviluppi post-rivoluzionari (o, piuttosto, la mancanza di tali sviluppi) destano preoccupazione. Nel corso di una conferenza tenutasi presso l'ECFR a Londra, Ahmed Naguib, attivista di piazza Tahrir, ha sottolineato che le forze che hanno spodestato Hosni Mubarak sono ormai sempre più frammentate, l'incompetente Consiglio delle Forze Armate sta cooptando lo slancio e gli ideali della gioventù egiziana e il paese rischia di perdere di vista l'obiettivo democratico per cui ha tanto lottato.

Per ora, Il Cairo non dà un bello spettacolo, ha detto Naguib. “La società civile è disfunzionale. Abbiamo seri problemi relativamente al processo decisionale e agli abusi dei diritti umani… L'economia dipende dai prestiti mentre noi avremmo bisogno di investimenti, non di prestiti, soprattutto per le piccole e medie imprese. Dovremmo migliorare le opportunità nel campo dell'istruzione e acquisire il know-how necessario per sviluppare dei media indipendenti. Abbiamo bisogno di consulenza nell'attività legislativa e giudiziaria, così come di meccanismi costituzionali più flessibili, come i referendum”.

Nick Witney, ex capo dell'Agenzia Europea per la Difesa, ha sottolineato l'inadeguatezza della risposta dell'Unione Europea ai bisogni dei paesi coinvolti dalla Primavera Araba. Invece di cogliere l'occasione per sostenere un momento storico per la democrazia, l'UE si è distinta per la sua “ignoranza e perché si è posta sulla difensiva”. Secondo Witney, l'Unione Europea ha anche sopravvalutato la minaccia posta da organizzazioni islamiche come i Fratelli Musulmani, i cui leader si sono invece rivelati molto pragmatici.

Parag Khanna dello ECFR e della New America Foundation ha invece sottolineato che gli Stati Uniti sono altrettanto colpevoli di aver sottovalutato un momento estremamente promettente. “La Primavera Araba ha portato alla luce i peggiori istinti dell'amministrazione Obama: molta retorica e discorsi illuminati ma totale inazione”, ha detto.

 

Simon Tisdall

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L’Italia torna in Europa

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Caffè 150 – L’Europa è devastata dalla guerra appena conclusa e divisa da quella rivalità USA-URSS che diverrà la “cortina di ferro”. L’odio del passato viene però soppiantato dal desiderio europeo di costruire nuove collaborazioni per evitare altri conflitti in futuro. Per l’Italia è l’occasione di uscire dai ranghi degli sconfitti per cercare di costruire un nuovo futuro insieme ai propri vicini

 

LA CECA- All’indomani della Seconda Guerra Mondiale vi erano due grandi linee d’azione per costruire l’integrazione europea. Una britannica, fondata sulla necessità di riunire i paesi europei con vincoli strettamente difensivi in funzione antisovietica, e una francese, orientata a risolvere il contenzioso franco-tedesco. Mentre l’opzione britannica si fondava sulla volontà di rafforzare la cooperazione rimanendo in linea con l’alleanza con gli Stati Uniti, l’opzione francese si basava su un accordo economico per lo sfruttamento di materie strategiche come carbone e acciaio. Quest’ultima proposta, maggiormente volta ad un assetto collaborativo, mostrava il pregio di essere più organica e meno dipendente dalle scelte di una potenza terza come gli USA. La proposta francese si fondava infatti su un piano di sfruttamento e produzione nel settore siderurgico delineato da Jean Monnet (nella copertina del Time, sopra)e che il Ministro degli Esteri dell’epoca Robert Schuman fece suo. Questo progetto vide la luce il 18 aprile 1951, e può essere considerato il primo passo strutturale verso l’integrazione europea.

 

LA POSIZIONE ITALIANA – La posizione italiana può essere sintetizzata con le parole del Ministro Sforza: “siamo pronti a qualunque limitazione della sovranità nazionale a una sola condizione: che gli altri facciano lo stesso”. Il piano di Sforza per una Europa unita si fondava sul OECE (Organizzazione Economica per la Cooperazione Europea). L’OECE avrebbe dovuto divenire permanente, si sarebbe dovuta ampliare la cooperazione in campo economico e sociale, creare una Corte di Giustizia e un comitato per la politica internazionale al fine di definire un assetto di tipo confederativo. La scelta di Sforza di attribuire all’OECE un ruolo di primo piano si fondava, in primis, sul fatto che l’OECE essendo organismo di coordinamento del Piano Marshall rappresentava una opzione sicura e realistica per la creazione di una Europa unita. Inoltre, nel politico italiano vi era la consapevolezza che l’OECE, con la partecipazione di tutti i paesi dell’Europa occidentale, avrebbe permesso all’Italia di sfruttare maggiormente il suo peso geopolitico e le possibili frizioni fra grandi potenze agendo da ago della bilancia in un contesto completamente differente da quello auspicato dai francesi. Il progetto italiano non ebbe luce però a causa della contrarietà dei britannici. Essi non volevano essere coinvolti in una stretta cooperazione europea tralasciando il loro ruolo di ponte fra America ed Europa, e quindi il governo italiano dovette giocoforza convergere sul progetto francese. L’accordo sulla CECA, dell’aprile 1951, venne ratificato dal Parlamento nel marzo dell’anno seguente.

 

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L’INTEGRAZIONE IN MATERIA DI DIFESA: LA CED E L’UEO – La CED, acronimo di Comunità Europea di Difesa, è legata alla Guerra Fredda e alle richieste americane agli alleati europei. Nel settembre 1950 gli Stati Uniti vollero replicare ai tentativi espansionistici dei sovietici su Berlino e sulla Corea del Nord annunciando un rafforzamento delle truppe americane in Europa alla sola condizione che i paesi europei creassero un sistema integrato sotto comando unico e nella quale avrebbero partecipato anche i tedeschi occidentali. Il riarmo di questi ultimi indusse i francesi a definire una proposta che prese il nome di “piano Pleven” con il quale istituire un esercito europeo all’interno del quale sarebbero stati inglobati gli eserciti nazionali. Il trattato istitutivo della CED fu siglato a Parigi nel 1952, non senza malumori soprattutto nell’opinione pubblica francese. In Francia all’epoca sia la sinistra che i gollisti si mostrarono contrari alla CED, vista dai primi come uno strumento dell’imperialismo occidentale e dagli altri come una insopportabile perdita di sovranità e prestigio nazionale. Al momento della ratifica il parlamento francese bocciò il trattato istitutivo della CED, che rimase quindi lettera morta. Un ulteriore tentativo di creare una cooperazione europea in materia di difesa si ebbe con l’UEO, l’Unione dell’Europa Occidentale. Con l’UEO gli americani ebbero infine ciò che avevano già chiesto alla CED: la Germania fu riabilitata e integrata nel sistema di difesa collettivo europeo anche se con alcune limitazioni.

 

(Nella foto, da sinistra a destra: Johan Beyen, Ministro degli Affari esteri tedesco, Gaetano Martino, Ministro degli Affari esteri italiano, Joseph Bech, Presidente del Governo e Ministro degli Affari esteri del Lussemburgo, Antoine Pinay, Ministro degli Affari esteri francese, Walter Hallstein, Segretario di Stato per gli Affari esteri della Germania occidentale, Paul-Henri Spaak, Ministro degli Affari esteri del Belgio)

 

L’ULTIMO TASSELLO: LA CREAZIONE DEL MERCATO COMUNE E DELL’EURATOM – Nel 1952 il francese Jean Monnet, all’epoca primo Presidente dell’Alta Autorità della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, convinse i Ministri degli Esteri dei governi del Benelux a proporre la creazione di un mercato comune europeo. All’epoca il Ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino propose di tenere una riunione dei suoi parigrado della CECA a Messina, per discutere della proposta. La riunione di Messina si concluse con la decisione di istituire un comitato di lavoro presieduto dal Ministro degli Esteri belga Spaak con il compito di definire l’architettura istituzionale di una comunità economica europea e di una comunità europea per l’energia atomica. I lavori del comitato durarono due anni e si conclusero con la stesura del testo che avrebbe costituito i Trattati di Roma del 1957 che istituirono la Comunità Economica Europea e l’Euratom.

 

Dopo la sconfitta, la perdita delle colonie, dell’Istria e della Dalmazia, con l’istituzione del mercato comune, la partecipazione nell’UEO e nella NATO, mediante il processo di integrazione l’Italia si era ritagliata uno spazio, per certi versi comunque angusto, all’interno della dialettica europea e aveva definitivamente sancito quali fossero i suoi vincoli di politica estera. Essa si era definitivamente emancipata dalla condizione di stato sconfitto e sedeva all’interno del panorama europeo priva dei pesi del passato. Ciononostante le stesse precondizioni che portarono alla istituzione della CEE, in particolare il superamento dell’antagonismo franco-tedesco, porteranno in seguito maggiori problemi ai successivi governi italiani, tutti sottoposti ad un continuo accrescersi del duopolio di Francia e Germania all’interno delle istituzioni comunitarie. Rispetto a queste problematiche la classe dirigente italiana ha mostrato di orientarsi fra un acritico europeismo e un insensato localismo, entrambi privi di senso e portatori di guasti per il ruolo internazionale dell’Italia e per il suo tessuto economico. Tutelare le istituzioni nazionali senza nuocere alla cooperazione europea resta la più grande sfida del nostro paese.

 

Antonio Cocco

Tutto il mondo… in un sorso di caffè

7 Giorni in un Ristretto – Torna la rubrica che vi informa sui principali avvenimenti della settimana. La situazione generale non sembra ottima: mentre la situazione in Medio Oriente si fa sempre più calda, certo non solo per ragioni climatiche, l’Europa sembra sommersa da scandali giudiziari e gli States sono alle prese col loro debito elefantiaco e i loro rapporti in Asia. Il mondo, insomma, sembra essere alla ricerca di una stabilità tutt'altro che facile da raggiungere

U.S.A. – ASIA – È in questo scenario che si colloca il proseguimento del viaggio del Segretario di Stato Hillary Clinton che la porterà, dopo le visite in Grecia e Turchia, prima in un’India ancora sotto shock dopo gli attentati a Mumbai di mercoledì , per discutere della cooperazione USA-India nella lotta al terrorismo , per poi terminare in Indonesia e ad Hong Kong dove la Clinton  parteciperà alla Conferenza Ministeriale dell’ASEAN ed incontrerà i rappresentanti dei paesi membri dell’East Asia Summit (EAS). Proprio il Segretario di Stato Usa ha recentemente confessato in un’intervista alla BBC di aver affrontato un periodo sfibrante e di essere “stanca di girare come una trottola”, per questo si ritirerà a vita privata dopo il rush per le presidenziali del 2012.

Mentre Taiwan testerà con un war-game la preparazione delle sue forze armate contro un’eventuale aggressione cinese, il Ministro degli Esteri italiano Franco Frattini visiterà in 3 giorni Pechino, Shanghai e Guangzhou dove incontrerà il Ministro degli Esteri Yang Jiechi per parlare della cooperazione strategica tra i due paesi. La conferenza ministeriale dell’ASEAN sarà l’occasione per verificare i recenti dissapori tra USA e Cina alimentati dalla visita del Dalai Lama alla Casa Bianca e dalle pressioni cinesi sulla riforma del debito statunitense.

In patria toccherà al Presidente Obama dare battaglia al Congresso per l’approvazione del Piano di rientro sul debito, una “manovra” da 4000 miliardi di dollari in 10 anni. Se “il default non rientra nelle opzioni possibili” secondo il Segretario del Tesoro Timothy Geithner,  è pur vero che i leader repubblicani e del movimento Tea Party, non intendono in alcun modo aumentare le tasse e il “Piano Obama” rischia di naufragare nel caso non si giungesse ad un’intesa almeno su i tagli alla difesa e su una stretta delle regole sui paradisi fiscali

EUROPA – Martedì 19 si chiudono i lavori del “Petersburger Dialogsu democrazia, stato di diritto, sicurezza e integrazione europea con un discorso conclusivo congiunto del Cancelliere tedesco Angela Merkel e del Presidente della Federazione Russa Dimitrji Medvedev. Il meeting bilaterale sulle relazioni tra Russia e Germania segna una svolta in positivo nella normalizzazione dei rapporti tra “Federatsiya” ed Unione Europea dopo la spaccatura seguita all’invasione della Georgia del 2008.

Giovedì 21 si riunisce il Consiglio di Governo della Banca Centrale Europea (BCE), per verificare gli effetti dell’aumento del tasso d’interesse all’1,50% nell’area euro e per monitorare e fare il punto sugli attacchi speculativi che continuano a colpire sia economie fondamentali come quella italiana, sia i mercati di Grecia ed Irlanda che nell’ultima settimana hanno subito ulteriori declassamenti nei rispettivi debiti pubblici da parte delle agenzie di rating. Occorrerà inoltre fare il punto sui risultati degli stress test sulla solidità degli istituti bancari di tutta Europa effettuati venerdì scorso.

Sabato 23 Round referendario in Lettonia, dove gli elettori dovranno esprimersi sullo scioglimento del Parlamento nazionale proposto dal Presidente Valdis Zalters. La Costituzione lettone conferisce tale potere al Presidente, nel caso il referendum non dovesse raggiungere il quorum, sarà il Presidente a dimettersi dall’incarico.

MEDIO ORIENTE – Mentre il “Quartetto” responsabile dei negoziati tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese (ANP)  arranca senza trovare la retta via, continuano i lanci di razzi a corto raggio dal territorio palestinese verso i villaggi israeliani e i raid aerei dell’Israeli Air Force (IAF)  in appoggio a missioni di terra che la scorsa settimana hanno causato la morte di un ventunenne palestinese. La Lega Araba ha approvato la richiesta di riconoscimento all’ONU dell’ANP come “membro a pieno titolo”. In Siria la situazione diventa giorno dopo giorno sempre più irreversibile con il Presidente Bashar Al-Assad definito “non più indispensabile” dal Segretario di Stato americano H.Clinton, nonostante sia indicato come non responsabile degli attacchi ai manifestanti civili. Se la situazione richiederebbe provvedimenti, il veto russo-cinese toglie efficacia al Consiglio Di Sicurezza ONU che paga lo sconto dell’incoerenza nelle misure varate contro la Libia.

Proprio alle porte di Tripoli i ribelli, combattono ancora per Brega, avanzando ormai con un ritmo di un chilometro al giorno e sono sicuri di essere prossimi allo scontro finale, la settimana che inizia potrebbe essere, in campo tattico, quella decisiva. Una cosa è certa, Gheddafi non sembra mostrare alcun cedimento e ha dichiarato di essere pronto a combattere per Tripoli una battaglia casa per casa senza esclusione di colpi, tra due eserciti che, sebbene distanti per preparazione ed esperienza, combattono ormai ad armi pari in attesa di una soluzione che dovrà necessariamente riguardare il livello politico. La Turchia e il Presidente Recep Tayyip Erdogan sembrano avviarsi verso la risoluzione della situazione di Cipro, con la conduzione di negoziati tra Nord e Sud del paese. Permane la tensione inter-etnica al confine tra Iraq e Iran, dove scontri di confine hanno causato la morte di alcuni guerriglieri curdi e di una Guardia della Rivoluzione iraniana.

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AMERICA LATINA – Il Presidente venezuelano Hugo Chávez è atteso a Cuba per terminare un altro ciclo di chemioterapia contro il cancro che lo ha recentemente colpito, sarà un’ulteriore occasione per rafforzare lo stretto legame con l’ex líder máximo Fidel Castro. Sempre a Cuba la Corte Suprema ha in programma l’audizione dell’appello di Alan Gross, cittadino americano condannato per importazione illegale di materiale per le telecomunicazioni, utilissimo ai blogger della “resistencia”. In Perù il neo-eletto Presidente Ollanta Humala incontrerà il Presidente messicano Vicente Calderón per parlare dei rapporti tra le due nazioni, in settimana è atteso il Ministro degli Esteri cileno Alberto Moreno per partecipare ad una tavola rotonda sulla cooperazione energetica e   ad un incontro con il collega peruviano.

AFRICA – Mentre a Sao Tomé e Principe gli elettori sono chiamati alle urne per le elezioni presidenziali, in un contesto in cui dopo gli sviluppi in Nigeria e Costa D’Avorio i metodi democratici continuano ad adattarsi a stento alle società africane, si celebra in tutto il mondo il Nelson Mandela International Day. Il 18 luglio l’ex Presidente Sudafricano celebrerà il suo 93esimo compleanno con una giornata mondiale per la libertà, la giustizia e la pace nel mondo indetta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ispirandosi ai valori democratici che hanno guidato “Madiba” durante tutta la sua vita ognuno di noi può sottoscrivere un impegno di 67 minuti (uno per ogni anno di impegno politico di Mandela). Intanto la carestia che si è abbattuta su una già devastata Somalia ha alzato i riflettori sulle condizioni disumane della popolazione, il Kenya ha annunciato l’apertura delle frontiere ai “profughi della fame” e l’Italia tramite il Sottosegretario agli Esteri Mantica ha deciso per l’apertura di un ufficio di rappresentanza.

Fabio Stella [email protected]

Una nuova SCO…perta per le relazioni internazionali

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Il 14 e il 15 giugno scorso i capi di stato dei paesi facenti parte della Shanghai Cooperetion Organization (SCO) – Cina, Russia, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan –  si sono riuniti ad Astana in Kazakistan per festeggiare il 10° anniversario della fondazione dell’organizzazione. In pochi ancora sanno che cos’è la SCO, ma il suo ruolo sta diventando sempre più importante

UN ATTORE INTERNAZIONALE SEMPRE PIU’ INFLUENTE –  La SCO concepita nel 1996, quando ancora si chiamava Gruppo dei Cinque di Shanghai (ha assunto l’attuale denominazione nel 2001 con l’ammissione dell’Uzbekistan), nacque col preciso intento di salvaguardare la pace e la stabilità in Asia Centrale.

In questi dieci anni la guida dell’organizzazione è sempre stata assunta dal binomio Russia-Cina, che ha potuto utilizzarla per la salvaguardia della propria leadership e dei propri interessi nella regione. Le repubbliche centro-asiatiche, invece, dopo l’indipendenza sentirono la necessità di unirsi all’organizzazione per avere un accesso privilegiato alle relazioni con i potenti vicini.

Ad oggi la situazione ha però subito notevoli mutamenti e paesi come il Kazakistan e l’Uzbekistan rivendicano maggiormente il proprio ruolo all’interno della SCO sia grazie alle notevoli risorse energetiche che detengono nei loro territori sia alla complessa situazione internazionale.

La SCO inizialmente considerata dall’Occidente come un’organizzazione marginale, è oggi un’importante attore internazionale in grado di minare le basi dell’influenza che la NATO e gli USA sono riusciti a guadagnarsi in Asia Centrale dopo la caduta del mondo sovietico, soprattutto in questo particolare momento di difficoltà degli Stati Uniti che si avviano a porre fine al proprio impegno nella guerra in Afghanistan.

L’incontro del giugno scorso ha sottolineato  questa nuova dimensione dell’organizzazione asiatica e ha fatto emergere con forza i nuovi fattori che spingono i paesi aderenti a fare sempre più affidamento su di essa, considerandola un punto fermo per lo sviluppo e la sicurezza dell’Asia Centrale.

IL FUTURO VOLTO DELLA SCO – Durante il summit i capi di stato hanno da un lato ribadito gli obiettivi originari della SCO sulla sicurezza, sulla stabilità e sulla lotta al terrorismo internazionale e islamico, dall’altro hanno aggiunto nuovi importanti punti sulla loro agenda da raggiungere nel prossimo futuro.

Questi nuovi obiettivi tutti interconnessi tra di loro possono per maggior chiarezza essere suddivisi in tre macro aree: le decisioni riguardanti la sfera commerciale, la strategia politica rispetto alla situazione afghana e l’apertura della SCO a nuovi paesi.

L’AMBITO COMMERCIALE – A farla da padrone in quest’area di discussione è sicuramente la Cina. E’ un gigante economico il cui volume degli scambi commerciali è in costante aumento, ciò fa si che necessiti sempre di maggiori sbocchi per l’espansione della sua economia. A tal proposito si è sempre resa la principale promotrice del rafforzamento della cooperazione dei paesi in diversi settori, da quello politico-economico a quello energetico-tecnologico.

Nel corso del decennio di vita della SCO si è impegnata a fornire cospicui prestiti ai paesi alleati per sostenere progetti di sviluppo, in particolare nel campo energetico e in quello delle infrastrutture, in virtù del fatto che questa regione riveste un’importanza fondamentale per la sicurezza energetica della Cina sempre alla ricerca di nuove risorse.

Tra i progetti cinesi c’è la costruzione di una rete ferroviaria, una autostradale e di un gasdotto che colleghi l’Asia Centrale, ma soprattutto ha in progetto di creare per il 2020 un’area di libero scambio nella regione. Si tratta però di un’idea che si scontra almeno in parte con la diffidenza delle repubbliche ex-sovietiche convinte che con l’apertura di un libero mercato le proprie ancora deboli economie possano essere sopraffatte dalla competitività dei prodotti cinesi. Sta di fatto che se ciò dovesse concretizzarsi la SCO diverrebbe un gruppo di enorme rilevanza per l’economia mondiale.

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LA QUESTIONE AFGHANA – Questo secondo tema – legato anche alla situazione attuale in Medio Oriente e alla questione riguardante lo scudo missilistico in progetto alla Casa Bianca – ha trovato in accordo tutti i paesi della SCO, in particolar modo è emersa con forza la posizione unanime di Pechino e Mosca.

L’organizzazione mira a limitare l’ingerenza occidentale e soprattutto statunitense in un’area che considera di propria competenza e vede con disappunto l’ipotesi che gli USA o la NATO possano mantenere una qualche presenza militare in Afghanistan dopo il ritiro previsto per il 2014.

L’intenzione è quella di sostituirsi come principale interlocutore del paese ed essere coinvolta maggiormente nella gestione della situazione che si andrà a delineare dopo il 2014. Da ciò l’invito ad Astana per il presidente afghano Hamid Karzai che ha intrattenuto colloqui con i suoi omologhi di alcuni paesi membri ed il discorso del presidente Kazako Nursultan Nazarbayev che ha sottolineato l’importanza di avere un Afghanistan neutrale per lo sviluppo regionale. Ciò significherebbe avere libero accesso ad una regione in cui tutti della SCO hanno importanti interessi e permetterebbe di sfidare i progetti geostrategici degli Stati Uniti.

Non solo, avere carta bianca in Afghanistan permetterebbe, secondo i partecipanti al summit, di fare un enorme passo avanti nella lotta al traffico di droga, a cui la SCO si sta dedicando da diversi anni  (l’Afghanistan produce ad oggi circa il 90% dell’eroina consumata nel mondo) e alla lotta al terrorismo internazionale di matrice islamica.

A questo proposito è importante sottolineare il fatto che la SCO sia un’organizzazione totalmente asiatica e pertanto i suoi caratteri sono notevolmente differente rispetto a quelli delle organizzazioni occidentali, ciò porta ad una serrata critica all’ingerenza negli affari interni degli stati che l’occidente ha dimostrato di mettere in pratica nei conflitti che ha intrapreso, compreso l’attacco alla Libia. Naturalmente l’accento sulla necessità di stabilizzazione della regione e sull’importanza di lasciare che ogni paese promuova la democratizzazione secondo le proprie condizioni nazionali, le proprie tradizioni storiche e culturali e si mantenga forte il rispetto per la diversità delle culture e il principio di non ingerenza nelle questioni nazionali è senza ombra di dubbio legata al fatto che i paesi dell’Asia Centrale temono che la “primavera araba” possa giungere nei loro paesi dando vita a sollevazioni popolari e ad un cambio di regime.

L’APERTURA AI NUOVI MEMBRI – Per mantenere il pieno controllo in Asia Centrale la SCO è anche cosciente del fatto che la sua sicurezza è legata a filo doppio con quella dell’Asia Meridionale.  L’aspetto senz’altro più rilevante del summit di Astana, infatti, è sicuramente il possibile ingresso nel prossimo futuro dell’India e del Pakistan, che già ricoprono il ruolo di osservatori insieme a Mongolia e Iran.

Da una parte non si può sottovalutare il fatto che l’inclusione nell’organizzazione favorirebbe la riconciliazione tra India e Pakistan a proposito dell’irrisolto conflitto del Kashmir – anche se questo aspetto desta comunque preoccupazione in seno alla SCO – dall’altro con questi due nuovi protagonisti impegnati per la stabilità dell’intera regione la SCO potrebbe giocare un ruolo da vero protagonista in ambito internazionale anche per quanto riguarda la questione afghana e permetterebbe un aumento vertiginoso degli scambi commerciali e degli investimenti nei reciproci paesi.

Si tratta di una possibilità che i membri della SCO non possono farsi sfuggire. L’apertura verso l’India, il Pakistan e l’Afghanistan come osservatore, peraltro, evidenzia maggiormente il disagio creato dalla presenza e dell’ingerenza occidentale nella regione.

Allo stesso modo queste nuove provenienti dal summit di Astana preoccupano e mettono l’Occidente in una posizione scomoda. L’organizzazione regionale nata dieci anni fa, limitata inizialmente all’Asia Centrale potrebbe trasformarsi attraverso il processo d’inclusione in un gigante internazionale comprendente quasi tre miliardi di persone e molti analisti  già parlano di “un’anti-NATO centro-asiatica”.  

Marianna Piano [email protected]

‘Onda’ energetica o mostro ecologico?

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Dalla sua approvazione ufficiale avvenuta a maggio, il progetto HidroAysèn, la più grande opera infrastrutturale mai realizzata in Cile che prevede la costruzione di cinque centrali idroelettriche nella Patagonia cilena, ha vissuto diverse vicissitudini. Prima la massiccia protesta da parte di ambientalisti e partiti di opposizione al governo Piñera. Poi la pronuncia della giustizia con la decisione del tribunale di Puerto Montt di sospendere i lavori per controllare la regolarità della procedura che ha dato l’ok al progetto. Ma quali sono gli attori coinvolti nel progetto e quali i pro e i contro di questa titanica infrastruttura?

COS’E’ HIDROAYSEN – Il megaprogetto consiste nella costruzione di cinque impianti idroelettrici (represas) nella regione meridionale di Aysén che si rifornirebbero di acqua dai bacini dei fiumi Pascua e Baker. Il governo Piñera, attraverso l’ approvazione della Commissione di Valutazione Ambientale, ha da sempre ritenuto indispensabile quest’opera per incrementare la produzione di energia elettrica di 2700 megawatts circa e distribuirla in gran parte del paese. Senza dubbio si tratta di un piano energetico ambizioso e comunque non a breve scadenza. Infatti HidroAysén dovrebbe iniziare a lavorare a pieni giri a partire dal 2025, senza contare che è ancora in attesa di approvazione il progetto accessorio ma fondamentale che prevede la costruzione della rete  di trasmissione dell’elettricità sul territorio cileno. Secondo i progettisti comunque le centrali potranno iniziare a produrre energia da subito arrivando già tra qualche anno a poter soddisfare il 21% circa della domanda che grava sul Sistema Interconectado Central (SIC), il sistema che rifornisce il Cile di elettricità. Ma i dubbi restano. Anche la costruzione del sistema di trasmissione di elettricità potrebbe generare gravi danni ambientali visto che dovrà essere installato nel sottosuolo marino tra i comuni di Chaitén e Puerto Montt, al sud del paese.

I PADRI DEL PROGETTO – Ma chi c’è dietro il megaprogetto HidroAysén? Di certo non si può parlare della classica opera pubblica. La protesta popolare contro la sua realizzazione non si basa solo sui problemi ambientali ma anche sulle conseguenze economiche che quest’opera potrebbe comportare. Ad investire i circa 3200 milioni di dollari ci hanno pensato, infatti, due colossi energetici privati: l’ Endesa, multinazionale con passaporto spagnolo ma controllata dall’italiana Enel e la cilena Colbún. Con la costruzione delle dighe queste due imprese verrebbero a concentrare nelle loro mani l’80% circa della produzione elettrica del Cile, costituendo così un duopolio di mercato nel settore che potrebbe destare qualche allarme per il rispetto della libera concorrenza.

PERCHE’ COSTRUIRE … – Un contributo necessario per lo sviluppo economico ed industriale del paese? Pare essere questa la posizione di HidroAysén e non solo. A favore del progetto si sono pronunciati ad esempio anche l’ ex presidente Ricardo Lagos e José Miguel Insulza, Segretario generale della OEA (Organizzazione degli Stati Americani), sostenendo che l’ energia idroelettrica è economicamente più vantaggiosa di quella eolica o termica. Secondo l’entourage della multinazionale autrice del progetto le cinque mega-dighe saranno necessarie per soddisfare la crescente richiesta di energia nei prossimi 10 o 15 anni. Per Daniel Fernández, rappresentante di HidroAysén, le polemiche sono infondate dato che la costruzione delle dighe comporterà l’ inondazione del solo 0,05% della superficie del territorio di Aysén. E visto che il Cile è carente in petrolio, gas e carbone ecco che l’ energia idroelettrica diverrebbe la fondamentale fonte di rifornimento energetico, capace anche di risolvere l’ annoso problema delle alte tariffe elettriche che i cileni sono costretti a pagare.

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E PERCHE’ NON COSTRUIRE – Intanto però secondo gli ultimi sondaggi il 70% dei cileni si è detto contrario alla costruzione del titanico progetto. Il partito dei no è rappresentato dal Consiglio di difesa della Patagonia cilena, un raggruppamento di politici e cittadini comuni uniti tutti dalla stessa causa. E a sostenere la causa ambientalista sono anche personalità del mondo economico come Manfred Max-Neef e della cultura come il famoso scrittore Luis Sepúlveda. La mobilitazione sociale è stata in effetti molto accesa negli ultimi mesi, soprattutto nella capitale Santiago del Cile, con migliaia di cittadini scesi in piazza e in alcuni casi con momenti di tensione con le forze dell’ordine. Lo scorso giugno c’è stata anche una protesta sotto la sede dell’Ambasciata italiana per chiedere un passo indietro dell’Enel nella partecipazione al progetto. Il Consiglio sostiene che la costruzione delle represas provocherà danni catastrofici al territorio, inondando il 70% della superficie della valle del fiume Baker, ricca di villaggi e biodiversità animali e vegetali. Danni naturali irreparabili in una regione considerata patrimonio paesaggistico e attrazione turistica unica al mondo. Secondo il rappresentante del Consiglio, Patricio Rodrigo, si può far fronte al bisogno energetico del paese “attraverso lo sfruttamento delle energie rinnovabili. Abbiamo energia eolica, solare, ricavabile dalle biomasse e si potrebbe soddisfare la domanda ricorrendo alle energie sostenibili senza distruggere la Patagonia cilena”.

COSA DICE LA POLITICA – Ma non sono mancate le polemiche neppure all’interno del mondo politico. Subito dopo l’approvazione del progetto infatti, il ministro delle Miniere e dell’Energia, Laurence Golborne, ha  dichiarato ad un’emittente televisiva nazionale che poco prima di essere nominato ministro gli era stata offerta la carica di direttore del progetto HidroAysén, alimentando così i sospetti di un conflitto d’interessi sul caso. Intanto il presidente Piñera ha fatto sapere che il governo è disponibile all’apertura di un dialogo sui temi ambientali dichiarando che “non possiamo dire di aver bisogno di energia e allo stesso tempo opporci a tutte le fonti che la generano” e che “è necessario rendere compatibili la protezione dell’ambiente con la produzione di energia per proseguire sulla strada del progresso”.

Alfredo D'Alessandro [email protected]  

Vero cambiamento?

Il Re Mohammed VI del Marocco ha indetto un referendum per chiedere l'approvazione di una serie di riforme costituzionali in senso democratico, come la libertà di associazione e di espressione e il diritto ad un giusto processo. Si tratta di un sovrano virtuoso, in controtendenza con gli avvenimenti di Libia e Siria? Non del tutto: le repressioni violente avvengono anche a Rabat e Casablanca e le riforme sembrano solo dei “contentini” di facciata.

Tratto da Notizie Radicali

ECCEZIONE MAROCCHINA? – Il Marocco potrebbe apparire come l’eccezione alla regola di ciascuna rivoluzione o repressione violenta che negli ultimi tempi ha preso corpo nei paesi arabi.

Venerdì 1 luglio si è tenuto un referendum a proposito di un ampio pacchetto di riforme costituzionali che il Re Mohammed VI aveva annunciato lo scorso 17 Giugno, apparentemente in risposta al 20 Febbraio – Movimento per il Cambiamento, un movimento di contestazione giovanile ispirato dalle rivolte di Egitto e Tunisia.

Tuttavia, nonostante in Marocco ci siano tutte le possibilità per una svolta autentica, i buoni propositi del Re non godono ancora di molto credito. Le mie recenti conversazioni con molti marocchini tra Rabat e Casablanca, lasciano intendere quanto sia ampio il divario tra la posizione ufficiale tenuta dal governo ed il modo in cui esso tratti i propri cittadini.

NO ALLE PROTESTE – I dimostranti mi hanno riferito che le forze di sicurezza hanno attaccato ripetutamente e violentemente, a colpi di bastone, chi manifestava, senza alcun ammonimento preventivo. In alcuni casi le guardie sono andate a scovarli in strada anche molto tempo dopo che la manifestazione era stata ormai dispersa.

Hamza, uno studente di giornalismo e filosofia di 25 anni, orgoglioso di aver scritto degli slogan per il movimento del 20 Febbraio, mi ha raccontato di come le forze di sicurezza l’abbiano picchiato così forte che, ad alcune settimane di distanza, continua ogni giorno ad accusare degli svenimenti. Alcune ragazze che hanno preso parte alle manifestazioni, invece, raccontano di essere state colpite tra le gambe dai manganelli della polizia, che le ha inoltre apostrofate come “puttane”.

Kamal Amari, un manifestante della città di Safi, è morto in ospedale quattro giorni dopo essere stato pestato. Il governo sostiene che il decesso non sia stato causato dalle ferite, ma il procuratore generale deve ancora comunicare alla sua famiglia il risultato definitivo dell’autopsia.

I racconti che ho avuto modo di ascoltare a Rabat e a Casablanca descrivono tutti lo stesso tipo di violenze perpetrate dalle forze di sicurezza in occasione di una serie di manifestazioni, la maggior parte delle quali svoltesi a Maggio, il che suggerisce l’esistenza di una decisione di natura politica di rispondere in questo modo. Quando, un paio di settimane fa, ho assistito ad una manifestazione a Rabat, è stato facile individuare gli agenti in borghese gironzolare attorno, intenti a fotografare me e i dimostranti.

Per i manifestanti è molto difficile credere che le riforme proposte dal re siano genuine, quando poi vengono picchiati per strada. Anche perché, mentre il sovrano afferma che il processo di riforme include le consultazioni con i giovani, nei fatti le modifiche alla costituzione sono state redatte dai comitati da lui pilotati, per lo più a porte chiuse.

Perfino il testo non è stato reso pubblico fino alla metà di Giugno. I Marocchini hanno avuto appena un paio di settimane per discutere circa 80 modifiche alla costituzione prima di votarle: più che partecipativo, si è trattato di un processo deliberativo.

VERA RIFORMA? – Le modifiche proposte comprendono alcune disposizioni degne di nota su diritti umani e separazione dei poteri. Esse assimilano alla legge Marocchina i trattati internazionali sui diritti umani ratificati dal Marocco, criminalizzano la tortura e la detenzione arbitraria e garantiscono il diritto ad un giusto processo ed alla libertà di espressione.

Altre norme rafforzano l’indipendenza delle autorità giudiziarie, conferiscono più poteri esecutivi al primo ministro e riconoscono alle popolazioni Amazigh (i Berberi) il Tamazight come lingua ufficialmente riconosciuta.

Ma i cambiamenti preservano anche molte delle prerogative del re, come il potere di sciogliere le camere a propria discrezione.

Ma la cosa più importante è il fatto che non sia chiaro se i cambiamenti costituzionali proposti possano effettivamente modificare il funzionamento quotidiano dello stato.

La costituzione del Marocco contemplava già, ad esempio, la libertà di espressione e di opinione, ma ciò non ha tenuto il governo al riparo dalle critiche, anche da parte dei giornalisti, per detenzione arbitraria. Né ha impedito all’amministrazione di negare il visto d’ingresso ai cronisti stranieri i cui racconti erano sgraditi. Al Jazeera TV è stata costretta a terminare le proprie attività dopo che il Marocco aveva negato l’ingresso a sette giornalisti.

Rachid Nini, un popolare giornalista che aveva fornito testimonianze della corruzione conclamata e delle violazioni dei diritti umani commesse dai funzionari governativi, è stato recentemente condannato ad un anno di prigione per aver “scritto di crimini non veri”.

La costituzione Marocchina inoltre prevedeva già la libertà di associazione, e la legge Marocchina afferma che, per agire in maniera legale, le organizzazioni debbano soltanto registrarsi alle autorità locali. Ma i funzionari del Ministero degli Interni sono soliti rifiutarsi di accettare le domande di registrazione quando il governo è in disaccordo con gli obiettivi del gruppo o con i suoi membri, così come documentato da Human Rights Watch in un rapporto del 2009.

Nonostante la costituzione proibisse già gli arresti arbitrari, e le leggi locali ponessero le condizioni per il diritto ad un processo giusto, le violazioni di questi diritti sono alquanto frequenti, con corti che abitualmente ignorano le richieste di accertamenti medici da parte di imputati che dichiarano di aver subito torture, rifiutano di citare testimoni a favore della difesa e condannano gli imputati sulla basi di confessioni apparentemente estorte. Recentemente il governo ha trattenuto tre attivisti non-violenti, che invocavano l’indipendenza del Sahara Occidentale, in custodia cautelare per 18 mesi, con l’accusa di “danneggiare la sicurezza interna” sulla base di prove esigue a loro carico.

Non sorprende che mentre alcuni dei manifestanti picchiati abbiano presentato reclami contro la brutalità della polizia, nessuna delle persone che ho intervistato abbia indicato un singolo caso che il procuratore di stato abbia portato avanti.

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DISILLUSIONE – In un paese dove gli interessi dei potenti in genere pesano più della stessa legge, riesce facile comprendere il cinismo dei manifestanti relativamente ai cambiamenti della costituzione o delle altre leggi.

In troppi, fuori dal Marocco, guardano positivamente a ciò che sta a accadendo: dopotutto questa non è la Siria, la Libia o il Bahrain. Le forze di sicurezza non stanno massacrando i dimostranti. L’opposizione non è stata radunata e imprigionata. Ed il re ha proposto alcuni cambiamenti necessari.

Ma secondo molti dei giovani Marocchini che hanno spinto per un cambiamento – con slogan semplici come “libertà”, “giustizia” e “democrazia” – fin da Febbraio, l’appoggio incondizionato alle riforme proposte dal re equivarrebbe ad un tradimento dei propri valori, ad un accontentarsi di poco a causa del contesto geografico nel quale è inserito il loro paese.

Infine, il vero test per le riforme del Marocco, sarà se i Marocchini potranno esprimersi senza paura e partecipare alle decisioni che li riguardano, e se potranno contare sul fatto che le autorità giudiziarie operino indipendentemente e che puniscano le responsabilità di coloro che hanno usato la violenza contro il popolo Marocchino.

Maria McFarland

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Se gli USA rompono il salvadanaio

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Inizia oggi “Il Caffè Geoeconomico”, una nuova rubrica che racconta come economia e finanza si intreccino spesso alla politica, portando a dinamiche e evoluzioni che condizionano gli scenari geopolitici attuali. Saranno caffè forti, densi, intensi, decisi, magari non immediati da leggere, ma che vale la pena sorseggiare, anche perché condizionano direttamente le nostre vite. E la prima puntata ne è un esempio concreto: si parte infatti dal tema petrolio

IL COMUNICATO IEA – 23 June 2011, Paris – International Energy Agency (IEA) Executive Director Nobuo Tanaka announced today that the 28 IEA member countries have agreed to release 60 million barrels of oil in the coming month in response to the ongoing disruption of oil supplies from Libya.

La decisione è tecnicamente dell’Iea (agenzia energetica dell’organizzazione che raggruppa le economie occidentali, l’OECD), di fatto fortemente voluta dagli Usa e da questi in gran parte sostenuta (il 50% delle riserve coinvolte). Il comunicato dell’organizzazione spiega che si tratta di una soluzione-ponte in attesa che le promesse saudite di attingere ai propri margini di capacità inutilizzata possano concretizzarsi. Effettivamente una interruzione nelle forniture petrolifere da parte di un importante esportatore (Libia) è in atto, dunque la decisione Iea è formalmente ineccepibile: alle riserve non si può attingere semplicemente per calmierare il prezzo del barile.

LE CAUSE DEL RIALZO – Nondimeno questa è una delle chiavi di lettura prevalenti; dopotutto il flusso libico rappresentava appena un 1.5% dei consumi globali, mentre il prezzo del barile (con riferimento alla qualità che determina il prezzo prevalente sul mercato europeo, il brent) è aumentato negli ultimi sette mesi di almeno un 40-50%, in relazione a ben altre questioni che la crisi libica. Proviamo ad elencarle:

  • rischio geopolitico implicito nella situazione di turbolenze e instabilità creata in M.O. dalle primavere arabe;
  • violenta impennata nel consumo globale di energia (2010): +5.6%, un dato senza precedenti negli ultimi trentacinque anni. Il dato rispecchia la parziale ripresa dei paesi OECD-Iea, la crescita tumultuosa delle economie emergenti, e il trasferimento di attività manifatturiera dai primi (economie ad alta efficienza energetica) ai secondi (molto più energivori);
  • rischio geopolitico crescente dal perdurare della crisi persiana;
  • debolezza strutturale del dollaro e dell’euro (unica alternativa credibile come valuta di riserva: per alcuni analisti il petrolio sarebbe, come e più dell’oro, in questa fase, una sorta di bene-rifugio, nonostante la notevole volatilità);
  • politica espansiva della Federal Reserve (la Banca Centrale Usa, che, immettendo liquidità crescente, alimenta le disponibilità e le propensioni della speculazione finanziaria, sempre più focalizzata sui contratti a termine – futures – di beni alimentari ed energetici.);
  • costi marginali crescenti di estrazione (perché si va a pescare nei “giacimenti estremi”);
  • crisi di prospettive del nucleare in Occidente a seguito della catastrofe di Fukushima.

PARZIALI RIMEDI – La politica espansiva Usa dovrebbe essere arrivata al capolinea pochi giorni fa, con l’esaurimento del QE2, l’acquisto di titoli da parte della Federal Reserve (ma la debolezza persistente della congiuntura americana suggerisce che la partita non è chiusa); la crisi greca è stata tamponata (ma non certo avviata a soluzione); le turbolenze nel Golfo sembrano essere state assorbite da un mix di espansione della spesa pubblica, repressione, interventi militari e mediazione politica da parte dei sauditi; con un po‘ di ottimismo, le rinnovabili in forte espansione potranno supplire nel medio periodo alla crisi del nucleare. Anche così il “fronte rialzista” dispone di un imponente arsenale, sia sul versante del rischio geopolitico che su quello dei fondamentali (domanda/offerta), che su quello della speculazione finanziaria.

LETTURE GEOPOLITICHE – Le interpretazioni geopolitiche della decisione Iea si sprecano, dalla lettura persiana (assorbire in parte un rialzo dei prezzi che sta dando ossigeno vitale alla sopravvivenza del regime sotto pressione internazionale), allo scenario centrato sull’Opec (dare un segnale politico chiaro ai falchi dell’organizzazione), a suggestive ricostruzioni di uno scambio di favori con Pechino, impegnata da mesi a sostenere sui mercati titoli di credito emessi dai governi europei.

Sono ipotesi valide e interessanti, ma noi riteniamo che, trattandosi di energia, in realtà ogni ricostruzione, pur centrata sugli aspetti economici – specificamente industriali, o finanziari – sia anche una analisi geopolitica.

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DISTORSIONI ECONOMICHE, CRISI POLITICA – In questo senso il segnale incorporato nella decisione Iea è sbagliato rispetto alla politica energetica, ed è pericoloso, un segno di profonda, strutturale debolezza, in chiave politica. Non si tratta di attingere a margini produttivi (estrattivi) inutilizzati (cioè flussi), ma di rilasciare riserve di uno stock finito e precisamente determinato (e neanche tanto cospicuo, data la gittata di medio-lungo periodo delle problematiche rilevanti): quel che si utilizza oggi verrà a mancare domani, l’impatto immediato sull’offerta è in gran parte compensato da aspettative future. Se ciò non dovesse per qualche ragione avvenire, la manovra produrrebbe comunque scompensi pericolosi: l’industria petrolifera prepara espansioni di capacità produttiva future basandosi sugli alti prezzi attuali (e attesi) per finanziare grandi progetti per i giacimenti estremi e su nuove tecnologie estrattive. Qualcosa di simile vale per i programmi di sviluppo delle energie rinnovabili, e per l’implementazione di nuove tecnologie di efficienza energetica. In sostanza l’industria (non solo energetica) assorbe attraverso questi aggiustamenti di medio periodo gli shock petroliferi, il loro impatto sulla domanda di energia delle economie occidentali, e riduce così il potere di condizionamento politico del cartello petrolifero o di singoli grandi produttori. Storicamente è stato così dopo il 1973 e il 1979, e questo dà un certo peso alle posizioni dei rappresentanti sauditi (notoriamente colombe) nei consessi Opec. Con il rilascio di riserve strategiche si è dunque mandato un triplice segnale di sfiducia (o debolezza) da parte del gruppo Oecd, e degli Usa in particolare:

  • nella capacità politica di attingere a capacità estrattiva di riserva controllata da paesi amici non-Opec, o del Golfo Persico (Arabia Saudita in testa, naturalmente), se non nell’esistenza stessa di questa capacità marginale. In effetti, i Sauditi non sembrano essere riusciti, nonostante le promesse, a compensare il greggio venuto meno con la crisi libica, in questi mesi;
  • nella capacità industriale di liberare risorse energetiche esistenti entro i propri confini, ma accessibili solo grazie a un “salto” tecnologico;
  • nella capacità (politica e tecnologica) di rendere l’economia progressivamente meno dipendente dal petrolio (attraverso guadagni di efficienza e/o sostituzione delle fonti)

IL SECONDO TEMPO DELLA CRISI – Se davvero la mossa del 23 giugno è il segnale di una svolta nella gestione riserve strategiche, dovremo concludere che si tratta del secondo tempo della crisi emersa con il disastro petrolifero nel Golfo del Messico: un anno fa la catastrofe ecologica segnalò drammaticamente a quali esiti potesse portare la crescente pressione industriale sulle risorse interne (in gran parte concentrate nel Golfo del Messico), ovvero la prospettiva dell’autosufficienza energetica e l’abdicazione implicita alla capacità di accedere a risorse esterne, grazie alla propria posizione egemonica (o “imperiale”) negli equilibri globali. Oggi assistiamo, forse, a un ripiegamento ulteriore.

Andrea Caternolo [email protected]

Il Brasile di Dilma

Sono passati sei mesi da quando la nuova Presidente ha preso il posto di Lula. Ancora poco per fare un bilancio del suo operato, ma abbastanza per delinearne gli orientamenti. L'economia sembra continuare a volare, ma alcuni rischi – anche in ambito politico – sono in agguato. Il colosso sudamericano sta andando al massimo, ma le sfide per mantenerlo sulla giusta rotta sono numerose

CENTOTTANTA GIORNI DOPO – Ad ottobre 2010 Dilma Rousseff vinceva le elezioni presidenziali brasiliane, sconfiggendo al ballottaggio il rivale José Serra. A gennaio entrava in carica, prendendo il posto di Luis Inácio “Lula” da Silva, leader per otto anni all'apice della popolarità. Il confronto con il suo predecessore, che peraltro l'aveva designata come sua “erede” politica, era dunque inevitabile. I detrattori di Dilma sostenevano che non era dotata di sufficiente carisma per poter governare una nazione grande e in vertiginosa ascesa come il Brasile: niente da dire sulle sue competenze da ottima economista, ma per tenere saldamente la barra ci vuole di più. A sei mesi dall'insediamento, quali conclusioni si possono trarre dall'operato della Rousseff?

PRIMI SCOGLI IN POLITICA – Raggiungere le vette toccate da Lula è senz'altro prematuro, e probabilmente sarà molto difficile. Un Presidente che ha toccato al termine del suo mandato l'80% del gradimento popolare rappresenta un inevitabile, ed ingombrante, metro di paragone. Dilma Rousseff ha vinto le elezioni e il suo partito, il PT (Partito dei Lavoratori), ha la maggioranza relativa in Parlamento, sebbene il numero dei seggi ottenuti non sia sufficientemente alto per poter governare con la necessaria tranquillità. La coalizione governativa, che prevede come principale alleato il PMDB (Partito del Movimento Democratico Brasiliano), è piuttosto eterogenea e si è già divisa in occasione di alcune votazioni. Durante il governo Lula la prassi era quella di aprire i cordoni della spesa pubblica per placare le tensioni in seno alla maggioranza, anche per dare dei “contentini” a livello dei governi federali. Ora questa politica non è più possibile: Dilma ha adottato il rigore nei conti pubblici come strumento principale – e inevitabile – della sua azione di governo. Con il rischio di lasciare spesso qualcuno scontento.

Inoltre, poche settimane fa il Governo è stato toccato da un primo scandalo. Il ministro più importante, Antonio Palocci, che ha preso il posto proprio di Dilma alla Casa Civil (una sorta di Primo Ministro), è stato coinvolto in uno scandalo di corruzione ed è stato costretto a dare le dimissioni. È notizia degli ultimi giorni, inoltre, le dimissioni del Ministro dei Trasporti, Alfredo Nascimento, accusato di corruzione in vicende legate alla concessione di appalti pubblici.

L'ECONOMIA E IL VOLO DI ICARO – Il Brasile è una delle economie più importanti e dinamiche del pianeta: è ormai al settimo posto per PIL e le prospettive di crescita sono ancora molto ampie. Per quest'anno si prevede un aumento del Prodotto Interno Lordo superiore al 4%, trainato da un sistema produttivo sempre più solido e diversificato e da una ricchezza che viene finalmente redistribuita equamente tra la popolazione (da poco tempo la fascia di persone che possiede un reddito definito “medio” è divenuta maggioranza assoluta nel Paese, segno che la storica disuguaglianza brasiliana sta scomparendo).

Tuttavia il Brasile presenta alcune caratteristiche tipiche delle economie cosiddette in “pericolo di surriscaldamento”. Un recente articolo pubblicato sull' “Economist” ha sottolineato il problema. Per misurare questo particolare rischio viene elaborato un indicatore che pondera l'inflazione, la crescita del PIL, il tasso di disoccupazione, la crescita del credito bancario, il tasso di interesse reale e il cambiamento nella bilancia dei pagamenti correnti. L'Argentina figura al primo posto, il Brasile è subito dietro. Si tratta di problemi comuni alle economie emergenti, e il colosso sudamericano deve fare attenzione soprattutto all'aumento dei prezzi, la cui stima è stata da poco rivista al rialzo.

Insomma, l'economia brasiliana sta volando: ma, per fare un paragone mitologico, potrebbe rischiare di fare come Icaro e volare troppo alto, “bruciando” le proprie ali. In realtà l'esecutivo sembra consapevole di questi pericoli e sta agendo per evitarli, con misure volte a contenere la spesa pubblica (senza però tagliare la spesa sociale, punto chiave dello sviluppo equo di questi ultimi anni) e a sostenere la valuta, il real, che ha raggiunto un tasso di cambio con il dollaro di 1,55. Il cammino della crescita può essere ancora lungo e stabile.  

Davide Tentori [email protected]