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Il Brasile di Dilma

Sono passati sei mesi da quando la nuova Presidente ha preso il posto di Lula. Ancora poco per fare un bilancio del suo operato, ma abbastanza per delinearne gli orientamenti. L'economia sembra continuare a volare, ma alcuni rischi – anche in ambito politico – sono in agguato. Il colosso sudamericano sta andando al massimo, ma le sfide per mantenerlo sulla giusta rotta sono numerose

CENTOTTANTA GIORNI DOPO – Ad ottobre 2010 Dilma Rousseff vinceva le elezioni presidenziali brasiliane, sconfiggendo al ballottaggio il rivale José Serra. A gennaio entrava in carica, prendendo il posto di Luis Inácio “Lula” da Silva, leader per otto anni all'apice della popolarità. Il confronto con il suo predecessore, che peraltro l'aveva designata come sua “erede” politica, era dunque inevitabile. I detrattori di Dilma sostenevano che non era dotata di sufficiente carisma per poter governare una nazione grande e in vertiginosa ascesa come il Brasile: niente da dire sulle sue competenze da ottima economista, ma per tenere saldamente la barra ci vuole di più. A sei mesi dall'insediamento, quali conclusioni si possono trarre dall'operato della Rousseff?

PRIMI SCOGLI IN POLITICA – Raggiungere le vette toccate da Lula è senz'altro prematuro, e probabilmente sarà molto difficile. Un Presidente che ha toccato al termine del suo mandato l'80% del gradimento popolare rappresenta un inevitabile, ed ingombrante, metro di paragone. Dilma Rousseff ha vinto le elezioni e il suo partito, il PT (Partito dei Lavoratori), ha la maggioranza relativa in Parlamento, sebbene il numero dei seggi ottenuti non sia sufficientemente alto per poter governare con la necessaria tranquillità. La coalizione governativa, che prevede come principale alleato il PMDB (Partito del Movimento Democratico Brasiliano), è piuttosto eterogenea e si è già divisa in occasione di alcune votazioni. Durante il governo Lula la prassi era quella di aprire i cordoni della spesa pubblica per placare le tensioni in seno alla maggioranza, anche per dare dei “contentini” a livello dei governi federali. Ora questa politica non è più possibile: Dilma ha adottato il rigore nei conti pubblici come strumento principale – e inevitabile – della sua azione di governo. Con il rischio di lasciare spesso qualcuno scontento.

Inoltre, poche settimane fa il Governo è stato toccato da un primo scandalo. Il ministro più importante, Antonio Palocci, che ha preso il posto proprio di Dilma alla Casa Civil (una sorta di Primo Ministro), è stato coinvolto in uno scandalo di corruzione ed è stato costretto a dare le dimissioni. È notizia degli ultimi giorni, inoltre, le dimissioni del Ministro dei Trasporti, Alfredo Nascimento, accusato di corruzione in vicende legate alla concessione di appalti pubblici.

L'ECONOMIA E IL VOLO DI ICARO – Il Brasile è una delle economie più importanti e dinamiche del pianeta: è ormai al settimo posto per PIL e le prospettive di crescita sono ancora molto ampie. Per quest'anno si prevede un aumento del Prodotto Interno Lordo superiore al 4%, trainato da un sistema produttivo sempre più solido e diversificato e da una ricchezza che viene finalmente redistribuita equamente tra la popolazione (da poco tempo la fascia di persone che possiede un reddito definito “medio” è divenuta maggioranza assoluta nel Paese, segno che la storica disuguaglianza brasiliana sta scomparendo).

Tuttavia il Brasile presenta alcune caratteristiche tipiche delle economie cosiddette in “pericolo di surriscaldamento”. Un recente articolo pubblicato sull' “Economist” ha sottolineato il problema. Per misurare questo particolare rischio viene elaborato un indicatore che pondera l'inflazione, la crescita del PIL, il tasso di disoccupazione, la crescita del credito bancario, il tasso di interesse reale e il cambiamento nella bilancia dei pagamenti correnti. L'Argentina figura al primo posto, il Brasile è subito dietro. Si tratta di problemi comuni alle economie emergenti, e il colosso sudamericano deve fare attenzione soprattutto all'aumento dei prezzi, la cui stima è stata da poco rivista al rialzo.

Insomma, l'economia brasiliana sta volando: ma, per fare un paragone mitologico, potrebbe rischiare di fare come Icaro e volare troppo alto, “bruciando” le proprie ali. In realtà l'esecutivo sembra consapevole di questi pericoli e sta agendo per evitarli, con misure volte a contenere la spesa pubblica (senza però tagliare la spesa sociale, punto chiave dello sviluppo equo di questi ultimi anni) e a sostenere la valuta, il real, che ha raggiunto un tasso di cambio con il dollaro di 1,55. Il cammino della crescita può essere ancora lungo e stabile.  

Davide Tentori [email protected]

La charme offensive della Cina in Asia Sud-Orientale

Il Dragone si affaccia nello scacchiere geopolitico asiatico forte delle sue risorse di soft power che, come sostiene Nye, “nascono dal fascino della cultura, degli ideali, e delle pratiche politiche di un paese”. Per comprendere il carattere e gli sviluppi della “charme offensive” cinese sulla regione abbiamo intervistato un esperto di eccezione: il Prof. Johannes Dragsbæk Schmidt, docente di Sviluppo e Relazioni Internazionali dell’Università di Aalborg, ha analizzato con noi i punti di forza e i limiti della nuova diplomazia cinese

 

Intervista a Johannes Dragsbæk Schmidt, Prof. di Sviluppo e Relazioni Internazionali, Università di Aalborg, Danimarca – a cura di Dolores Cabras

 

CG – La “charme offensive” della Cina in Asia Sud-Orientale. Può spiegare in che modo il Paese di Mezzo sta esercitando il soft power nella regione?

JDS – La “charme offensive” della Cina nel Sud-Est asiatico consiste in diverse strategie e tattiche collegate tra loro, che possono essere caratterizzate da neo-mercantilismo e dalla “soft power diplomacy”.

È neo-mercantilista, nel senso che coniuga la politica estera, gli aiuti allo sviluppo, gli interessi e gli investimenti pubblici e privati. La Cina sta più o meno ripetendo ciò che ha fatto il Giappone negli anni settanta e soprattutto dopo il Plaza Agreement nel 1985 che ha segnato un aumento nel valore dello yen e un enorme aumento degli investimenti diretti esteri e degli aiuti allo sviluppo, soprattutto verso il sud-est asiatico. L’obiettivo principale è quello di utilizzare le risorse di soft power (potere di attrazione e persuasione) per creare alleanze escludendo gli Stati Uniti allo scopo di facilitare l’emergere della Cina come potenza mondiale.

 

CG – Perché il Sud-Est asiatico è così importante per la crescita della Cina?

JDS – La stabilità nel Sud-Est asiatico è la chiave per l’espansione della Cina e l’incremento dell’egemonia nell’arena mondiale. La regione è la porta di accesso sostanziale per le risorse naturali come il petrolio (circa l’80% del petrolio della Cina transita attraverso lo Stretto di Malacca, Lombok e lo Stretto di Sunda).

La regione possiede anche significative risorse naturali come il gas naturale, il legname e l’acqua e possono potenzialmente consentire l’accesso della Cina al Golfo del Bengala e all’Oceano Indiano. È inoltre di vitale importanza per la sicurezza della Cina creare un modello di riferimento stabile nel settore economico, alternativo al modello proposto dagli Stati Uniti nella regione. Infine, il Sud-Est asiatico è un mercato enorme, composto da più di 600 milioni di consumatori e l’ASEAN – Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico – sta progettando di creare un mercato unico nel 2015 per beni, servizi e capitali. Poi ci sono importanti ragioni storiche, frontiere comuni e una grande ed influente diaspora cinese in quasi tutti i paesi della regione.

 

CG – Come è percepita nella regione l’ascesa economica della Cina?

JDS – Diversi studi dimostrano che in generale la popolazione nella regione ha un atteggiamento favorevole nei confronti della Cina.

E’ leggermente migliore rispetto a quello dimostrato nei confronti degli Stati Uniti, ma i cittadini del Sud-Est asiatico continuano a preferire il Giappone alla Cina. Tuttavia la percezione della Cina varia da paese a paese. I cittadini nel vicino Vietnam sono i più scettici e le nazioni insulari e musulmane condividono questo scetticismo, mentre la Thailandia guarda positivamente al rafforzamento della Cina nella regione.

 

CG – Quali sono i nodi di tensione e quali le dispute in sospeso?

JDS – Sempre in tema di Vietnam e altri paesi del Sud-Est asiatico ci sono due questioni in sospeso. Una è storica – in Cina c’è la tendenza tra i segmenti di elite a considerare soprattutto il Vietnam, ma anche altre parti importanti del Sud-Est asiatico come parte della sfera cinese della co-prosperità o il “cortile di casa” della Cina (così come gli Stati Uniti percepiscono l’America Centrale). Questa visione chauvinista ha già portato ad una guerra, breve ma brutale, tra il Vietnam e la Cina nel 1979.

L’altro problema è legato alla irrisolta controversia territoriale sulle Isole Spratly e Paracel e ai loro giacimenti di petrolio offshore nel Mar Cinese Meridionale. Questo conflitto ha portato anche a confronti armati e ha coinvolto diverse nazioni come le Filippine, la Malesia, il Vietnam, Taiwan e la Cina che affermano ciascuno la propria sovranità su tutte o su alcune parti delle isole. L’obiettivo principale dal punto di vista cinese è quello di mantenere Washington e il Pentagono fuori dalla disputa, al fine di trattare con esso su una base bilaterale o regionale.

Gli altri paesi sono però favorevoli all’approccio multilaterale, in modo da coinvolgere gli Stati Uniti come un contrappeso al dominio crescente della Cina nella regione e specificamente per evitare azioni militari unilaterali cinesi per le Spratly.

 

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CG – La nuova “diplomazia” cinese crea stabilità nella regione?

JDS – La Cina si approccia al Sud-Est asiatico tenendo in conto l’incisività della politica regionale sostenuta dall’ASEAN e questo ha il potenziale di creare stabilità. In Cina ci sono tre punti di vista diversi o contrapposti rispetto all’ascesa del Paese, e ci si chiede se il rafforzamento cinese possa rivoluzionare l’ordine internazionale e regionale. I realisti sostengono che l’ascesa pacifica è una contraddizione in termini e che porterà inevitabilmente al conflitto con il potere dominante o nella regione. Dal punto di vista dei liberali invece si sostiene che la cooperazione e la partecipazione nelle istituzioni regionali e globali potenzialmente saranno in grado di promuovere l’obiettivo di modernizzazione della Cina e di ridurre la prospettiva del conflitto e della guerra.

I costruttivisti affermano che il processo di cooperazione porterà un cambiamento identitario per la Cina, rendendola un membro prezioso della società internazionale orientato al mantenimento dello status quo. Ciò faciliterebbe l’ascesa pacifica della Cina e, indirettamente, la stabilità nel Sud-Est asiatico. Le stesse idee possono essere percepite nel Sud-Est asiatico, dove i liberali disconoscono e disprezzano anche la politica di non ingerenza cinese e di rispetto della sovranità nazionale, che in pratica significa che viene minimizzata l’importanza della democrazia e dei diritti umani. I conservatori ammirano l’efficiente modello di sviluppo autoritario cinese e lo vedono come l’unica alternativa possibile per attirare l’attenzione dell’Occidente sui diritti individuali.

Questo prospettiva essenzialmente realista vede la Cina come una forza stabilizzatrice nella regione e punta a politiche di equilibrio e sicure quale modello da emulare nella regione.

 

CG – Come descriverebbe l’utilizzo delle risorse di soft power da parte dei governi nella lotta contro il terrorismo transnazionale?

JDS – Il terrorismo e le politiche anti-terrorismo non sono in cima alla soft power diplomacy della Cina nella regione. In effetti, la Cina ha usato l’ossessione americana, il terrore e i nemici immaginari per migliorare ulteriormente i propri interessi nella regione, stabilendo alleanze regionali con l’obiettivo di creare una soft-security, cercando di includere l’India nella Shanghai Cooperation Organization (SCO) e creando ulteriori legami importanti con le élite militari in tutta la regione.

La lotta al terrorismo attraverso l’utilizzo delle risorse di soft power è stato un successo, nel senso che la lingua, il cinese mandarino, è diventata sempre più popolare, i film cinesi, le canzoni e la letteratura stanno esplodendo nella regione e in generale la cultura cinese frena l’influenza delle piccole bande di terroristi nella regione, che in gran parte sono gruppi locali e non connessi ad Al Qaeda.

 

CG – Quali sono gli interessi geoeconomici e geopolitici cinesi in Asia Sud-Orientale?

JDS – Il rinnovato interesse della Cina e il suo impegno bilaterale con il Sud-Est asiatico si incanala in diversi settori. Prima di tutto si riscontra l’aumento degli aiuti allo sviluppo e del volume degli scambi, poi l’aumento degli investimenti diretti esteri sia verso l’interno sia verso l’esterno. Altro settore nel quale si rileva il forte coinvolgimento cinese è quello attinente alla sicurezza, alla difesa e alle questioni diplomatiche ad esso connesse, dovuto al bisogno della Cina di acquisire fonti energetiche quali petrolio e gas. Questa strategia è tutelata da un “ombrello” regionale e multilaterale. Il rapporto della Cina con l’ASEAN è influenzato dal modo in cui lo Stato controlla e gestisce la sua crescita ed influenza all’estero attraverso il doppio regime commerciale della promozione delle esportazioni e delle importazioni. La Cina cerca di rassicurare i suoi vicini, sostenendo che la sua crescente importanza regionale è una condizione del tipo “win-win” per tutti. Pechino sembra intenta a perseguire una diplomazia più attiva intorno alla sua periferia meridionale nel Sud-Est asiatico: l’esercizio della “diplomazia del renminbi” (la moneta cinese) e la difesa della cooperazione e del mix di interessi geopolitici e geoeconomici sono finalizzati a perseguire l’obiettivo di creare una pacifica e prospera regione favorevole alla Cina. Il tempo ci mostrerà se questo si concretizzerà o meno.

 

CG – L’efficiente modello di sviluppo economico della Cina rafforza il suo ruolo nella regione?

JDS – Non c’è dubbio che per le elite conservatrici dominanti (militari ed economiche) in Vietnam, Cambogia, Thailandia, Myanmar, Malesia, Brunei e Singapore, il modello cinese di sviluppo economico è molto allettante. Può essere sfruttato per reprimere il dissenso e su una qualsiasi minaccia per gli interessi dell’elite. D’altra parte, le organizzazioni della società civile, i sindacati e le forze di opposizione in tutta la regione sono molto scettiche e vedono la dittatura del “one-party state” come una minaccia per le organizzazioni di massa e la libertà di espressione, sia che si realizzi su internet e sulla stampa che in strada.

 

CG – In che modo la “diaspora cinese” ha favorito la crescita dell’influenza del Dragone nella regione?

JDS – Pechino sta in realtà usando il nazionalismo e la “gloria della civiltà cinese” per instillare un senso di unità tra i cittadini cinesi a livello nazionale e tra i cinesi emigrati nel Sud-Est asiatico. Anche se Pechino sa che il nazionalismo dilagante, che ha astutamente sfruttato per costruire un nuovo orgoglio asiatico e consolidare il sentimento identitario, potrebbe costituire un pericolo per la propria stabilità interna, spera comunque che esso possa aiutare a stabilire un nuovo sistema politico, economico, culturale e di sicurezza in Asia, in seno al quadro ASEAN +3. La Repubblica Popolare Cinese spera ardentemente che questa strategia possa aiutare a realizzare, in ultima analisi, una Comunità dell’Asia orientale sotto la sua leadership. Per realizzare la sua ascesa pacifica, la Cina sta adottando una combinazione sofisticata di interventi nei settori commerciali, di misure per accrescere le relazioni basate sulla fiducia, e anche di assistenza allo sviluppo al fine di affermarsi come un importante leader mondiale e regionale e i cinesi della diaspora giocano un ruolo importante.

Naturalmente il richiamo del confucianesimo offre a Pechino un indubbio vantaggio comparativo nel suo approccio di soft power!

Così la Cina coltiva e nel contempo trae benefici dai migranti cinesi che dominano lo sviluppo economico della regione e, in alcuni paesi come la Thailandia, occupano sempre di più la scena politica. Sarebbe ingenuo credere che la Cina non sia interessata ad esercitare un’influenza dominante sulla regione, la forza del commercio e della finanza saranno con probabilità le future leve di scelta, forse guidate da una moneta regionale forte. Per quanto i cinesi siano più etnicamente esclusivisti degli americani e di alcuni europei, sono altrettanto desiderosi di vedere la propria cultura e le proprie tradizioni adottate da altri – come un segno di civiltà. Allo stesso modo sempre più turisti cinesi visitano la regione e cominciano anche a dominare il turismo. La risposta del settore dei servizi sarà quella di adattarsi al gusto cinese e ai suoi parametri. Questo si tradurrà inevitabilmente in una rinascita della cultura e della lingua cinese nelle comunità locali. Uno dei gruppi linguistici cinesi che crescono più rapidamente si trova in Malaysia, dove l’insegnamento della lingua cinese perdura da oltre un secolo.

L’utilizzo della cultura come strumento di diplomazia mette in evidenza il carattere “teatrale” dell’azione strategica cinese che tende ad esagerare sapientemente i legami parentali, etnici e nazionali tra la Patria e le comunità di cinesi emigrati. Ma riflette anche il maggiore favore con cui il governo cinese guarda all’esercizio del soft power come strumento fondamentale da sfruttare in campo diplomatico. La stampa cinese, i programmi televisivi, la musica, il cibo e la cultura popolare si stanno diffondendo in tutta la regione, come mai prima. Così, pure, vale per i turisti cinesi che si diffondono a ventaglio in tutta la regione, spesso riempiendo il vuoto lasciato dai turisti americani dopo l’11 settembre, dopo l’attentato di Bali, e lo tsunami; 800.000 cinesi hanno visitato sia la Thailandia che il Singapore nel 2004.

In questo modo si può sostenere con certezza che le comunità etniche che guidano gli affari cinesi nel Sudest asiatico hanno facilitato la promozione della Cina nell’economia globale, non da ultimo, attraverso il loro coinvolgimento reciproco in più di 100.000 joint-ventures in Cina. Si può anche sostenere che la migrazione cinese è stata utilizzata non solo come una risorsa in Cina per finanziare le riforme economiche sia nel passato che nel presente, ma ha rappresentato un’importante risorsa simbolica per la costruzione del nazionalismo cinese.

 

CG – Il soft power cinese e quello statunitense: quali similitudini e quali differenze?

JDS – A differenza di George Bush, l’amministrazione Obama ha emulato parte della strategia cinese di soft power e minimizzato l’ossessione realista per il terrorismo.

Ora Hillary Clinton si concentra sullo smart power e mira ad ottenere la leadership nel Sud-Est asiatico in modo “intelligente”.

Tenute in conto le altre importanti implicazioni, occorre sottolineare che gli Stati Uniti hanno negoziato un accordo per stabilire una base militare nell’ex teatro di guerra del Vietnam, come un modo per contrastare l’emergente egemonia della Cina nella regione.

Washington ha inoltre adottato un atteggiamento più amichevole e collaborativo nei confronti delle elite militari e civili nella regione, nel tentativo di reinserire e riequilibrare la sua influenza.

 

CG – China’s climate change policy: un modello per i Paesi del Sud-Est asiatico?

La politica climatica della Cina sta cambiando rapidamente e questo fatto, unitamente alla maggior parte delle altre politiche adottate nel Paese, è potenzialmente in grado di influenzare e cambiare la prospettiva piuttosto conservatrice del “climate change” nella regione. Anche in questo caso gli effetti non sono immediati ma si proiettano nel futuro.

 

Dolores Cabras

Presentazione della rubrica

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7 giorni in un ristretto Il Mondo settimana prossima Presentazione della rubrica

 

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7 giorni in un ristretto Il Mondo settimana prossima

I temi

7 giorni in un ristretto – a cura della Redazione

Questa nostra Rubrica è dedicata agli eventi più importanti attesi nella settimana appena iniziata. Vi proponiamo uno sguardo rapido sugli incontri tra i leader dei Paesi del mondo, le decisioni, le incertezze che potrebbero avere dei risvolti importanti per la politica e le relazioni internazionali. Godetevi quindi questo caffè ristretto: una lettura breve per orientarsi su quanto succederà intorno a noi.

Speciale "Caffè Nero" – a cura di Beniamino Franceschini

Questa breve rubrica è pensata per parlarvi dell’area sub sahariana e il nostro scopo è riuscire a dare, seppur in piccole dosi, un ventaglio di ciò che succede settimanalmente in questo contesto.

Quest‘area dell‘immenso continente nero spesso rischia di restare nell’anonimato, dimenticando che molte crisi internazionali affondano le loro origini proprio nei territori di quest’area, i cui nomi sono spesso sconosciuti.

La rubrica ha una cadenza settimanale e metterà in luce ciò che è successo o è previsto succeda in alcune regioni dell’Africa sub-sahariana, dando anche, quando possibile, dei riferimenti a cui riallacciarsi.

I contenuti sono rilasciati secondo i consueti termini previsti dalla nostra Licenza Creative Commons Per maggiori informazioni: redazione @ ilcaffegeopolitico.net

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Come nasce un Paese

Il 9 luglio 2011 è una data storica. Questa data segna l'ultima tappa di un lungo percorso fatto di guerra, dolore, speranza, tradimenti e un mucchio di interventi internazionali. Il 9 Luglio 2011 un nuovo paese è nato. In Africa. E per la prima volta, un nuovo paese in Africa nasce passando attraverso un voto, un referendum popolare

Da Juba, Sud Sudan

Vi offriamo questa testimonianza diretta dal neonato Sud Sudan: un articolo ricco di slanci emotivi più che un'analisi geopolitica… ma non capita certo tutti i giorni di celebrare la nascita di un Paese.

LA STORIA IN UN GIORNO – Raccontare come si è arrivati al 9 Luglio in modo esaustivo vorrebbe dire cominciare dal periodo in cui il Sudan, il piú grande paese dell'Africa, era ancora una colonia inglese gestita con "l'aiuto" egiziano, o da ancora prima, quando gli inglesi arrivarono e colonizzarono.

Questa vuole essere semplicemente la cronaca del 9 Luglio 2011, il racconto di una nascita.

Il 9 Luglio 2011 è nata la Repubblica del Sud Sudan.

Vivo a Juba dal dicembre 2009. Si tratta della mia prima esperienza in Africa sub sahariana, per cui non ho molti metri di paragone, ma posso dire che i sud sudanesi non sono esattamente il popolo più amichevole che ci sia. Ho imparato che i tanzaniani e gli ugandesi sorridono e scherzano e, insieme ai keniani, sono maestri nell'arte del guadagnarsi le simpatie del turista da spennare. Si tratta di paesi confinanti (Uganda e Kenya) o, comunque, non lontani (Tanzania), ma i sud sudanesi sembrano diversi. Lo sguardo è generalmente cupo, l'atteggiamento sulla difensiva, l'uomo bianco è visto con un misto di sospetto, invidia e incomprensione.

SESSANT'ANNI DI CONFLITTI… – …hanno lasciato il segno, infatti. L'ultimo periodo di guerra è durato 22 anni e si è concluso solo nel gennaio 2005 con la firma del CPA (Comprehensive Peace Agreement). In pratica, i ragazzi della mia età (ho 29 anni) sono cresciuti con il fucile in mano e sotto le bombe, o nei campi organizzati dalle Nazioni Unite. Potete, quindi, comprendere, con un piccolo sforzo di fantasia, la mia esaltazione quando la mattina del 9 luglio 2011 la gente che incrociava il mio sguardo si profondeva in sorrisi, invitando il kawaja (uomo bianco) a scattare foto (solitamente cosa non molto apprezzata e vietata dal governo) e salutando con energia e allegria me e chiunque per strada. Anche la polizia locale, solitamente composta da uomini arcigni e poco avvezzi alle espressioni di allegria, si sbracciavano in saluti energici e sorridevano mostrando i denti bianchi.  Il 9 Luglio 2011 a Juba c'è tanta felicità. Parole come libertà, indipendenza, orgoglio sono gridate con gioia da adulti e bambini, spesso felici fino alle lacrime.

LA CELEBRAZIONEParcheggio la mia macchina in una strada laterale. Per arrivare al memoriale di John Garang, dove si svolgerà la celebrazione ufficiale della nascita del paese, percorrerò un paio di chilometri a piedi, lungo una delle strade principali (una delle poche asfaltate) che è stata chiusa per consentire alle sole vetture ufficiali, che trasportano i Capi di Stato e le delegazioni invitate a partecipare, di sfrecciare indisturbate dall'aeroporto fino al luogo della festa.

Per la festa sono attese piú di tremila persone. Ospiti da tutto il mondo, rappresentanti di governi da tutti i continenti. Le piú consistenti sono le delegazioni africane. Questa indipendenza è molto sentita nel continente, soprattutto nella parte nera.

Nel 2005 i fucili hanno smesso di sparare. La guerra tra nord e sud del Sudan si è conclusa con la firma di un pezzo di carta e con l'aiuto di diversi paesi occidentali. Quel pezzo di carta aveva messo tutti d'accordo e determinava degli eventi fondamentali per il futuro del paese, una sorta di scaletta temporale di compiti da assolvere per diventare un paese pacifico. Ci sarebbero state le prime elezioni politiche democratiche dal colpo di stato di Al Bashir (si sono svolte nell'aprile 2010 e sono state vinte dallo stesso Al Bashir, che non è più un dittatore, ma un Presidente eletto) e ci sarebbe stato il Referendum. Si sarebbe chiesto al popolo del Sud se voleva la separazione. Pacificamente, dopo anni di lotte. Una scelta popolare, niente pallottole, niente esplosioni, solo una scheda elettorale con due simboli, una boccetta di inchiostro in cui intingere il dito e un voto. E tutto sarebbe finito.

VECCHI E NUOVI LEADER – John Garang, combattente del Sud Sudan e grande leader carismatico, in grado di ottenere consensi anche nel Nord, muore tragicamente proprio nel 2005. L'elicottero sul quale si trovava ha un guasto. Esplode, precipita. La morte di un uomo, la nascita di un eroe. I suoi sforzi e i suoi sogni sono quelli di un popolo che, però, resta orfano del suo uomo migliore. È Salva Kiir Mayardit a raccoglierne l'eredità. Il carisma non è lo stesso, ma il popolo è con lui. Il CPA determina che al Sudan Meridionale sia concesso un governo semi autonomo e che il presidente di questo governo sia nominato "primo vice presidente" del governo del Sudan intero, presidiato da Al Bashir. Salva Kiir è il primo Presidente del Governo semi autonomo del Sudan Meridionale. E aspettando Salva Kiir e le altre personalità, il popolo continua a riversarsi al memoriale di John Garang. Già alle prime luci dell'alba del 9 Luglio 2011, molte persone si trovano nel grande piazzale di fronte al palco costruito per l'occasione su un fianco del memoriale. Il clima è estatico. Nell'attesa balli e canti vengono improvvisati e tutti, davvero, tutti si esercitano nel canto del nuovo inno nazionale, quello del nuovo stato.

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QUALE SOCIETÀ? – Inizia la parata militare, seguita da quella della società civile. A fare da collegamento tra le due sfilano i veterani feriti e menomati. Hanno un cartello a forma di mano in cui è scritto a grandi lettere che giurano solennemente di proteggere la propria nazione. Sfilano sorridendo, cantando e piangendo di felicità e mostrano con un orgoglio feroce le proprie menomazioni, come se quella sfilata rappresentasse il giusto compenso per quella sofferenza e quella sofferenza non sia nulla se paragonata al motivo per cui stanno sfilando. Il pubblico dedica loro un'ovazione. 

La Repubblica del Sud Sudan nasce povera, poverissima, e con mille sfide da affrontare sin dal primo giorno. Ora che il Nord non è più il nemico da battere, la coesione del popolo del Sud potrebbe venire a mancare. Le tribù che compongono il territorio del Sud Sudan sono molte e storicamente in guerra tra di loro. Già da prima dell'arrivo degli inglesi. Sarà molto importante che il governo sappia mantenere unito un popolo orgoglioso e diviso da elementi culturali e produttivi, economici e sociali. E non sarà facile. La questione del petrolio con il Nord, in oltre, non è ancora del tutto risolta.

IL PETROLIO IN MEZZO Abyei è una regione tuttora contesa. Si tratta di un piccolo "stato" (così sono chiamate le regioni che a loro volta formano il Sud Sudan) proprio al confine tra Nord e Sud. Si dice sia il più ricco di petrolio (piuttosto "sporco" e che necessita di un forte investimento per essere raffinato) e, inizialmente, si sarebbe dovuto svolgere qui un referendum interno, dove si sarebbe dovuto chiedere al popolo se, in caso di separazione, avrebbero preferito essere parte del nuovo Sud Sudan o essere annessi al Nord. Il negoziato per Abyei è naufragato, e alla fine si è scelto di non scegliere. Oltre alla questione Abyei, che è quella di cui si parla di più, ci sono altre situazioni non risolte: gli stati di Upper Nile, Southern Kordofan e Jonglei, tutti al confine, non hanno mai visto la fine delle azioni violente. Che siano scontri tra il Nord e il Sud o che siano i generali dell'esercito del Sud (SPLA) nominati governatori che si ribellano al loro stesso governo chiedendo piú potere per se e per la propria tribù, il risultato è sangue che bagna questa terra senza pace.

PRESENZE IMPORTANTI – Ma durante la festa non c'è spazio né tempo per discutere di quello che ancora non va. Le personalitá internazionali sono arrivate quasi tutte…. Capi di stato, sottosegretari, importanti rappresentanti di grandi organismi internazionali. Viene anche Al Bashir, Presidente del Sudan, ex dittatore e generale che ha combattuto contro Garang e Salva Kiir. La sua presenza è importantissima. Giá durante la notte, allo scoccare delle 12, quando il giorno del 9 luglio è appena iniziato, il Sudan è il primo paese a riconoscere la Repubblica del Sud Sudan. Fino a tre settimane prima la SAF, l'esercito Sudanese, ingaggiava dei combattimenti contro l'SPLA, l'esercito del Sud Sudan, occupando alcuni territori al confine con il Sud. Quando arriva Salva Kiir si alza un boato. Prima di salire sul palco, si dirige in mezzo alla folla, punta a qualcosa di coperto proprio sotto il grande pennone su cui verrá issata la bandiera del nuovo paese. La prima cosa che il Presidente Salva Kiir fa, è scoprire una statua di bronzo che raffigura John Garang, il grande eroe. Prima della lunga serie di discorsi, ci sono tre momenti fondamentali: innanzitutto la bandiera del Sud Sudan viene innalzata. È la bandiera dell'SPLM, il partito governativo. Ma, adesso, è la bandiera di una nazione, di uno stato. Viene restituita a Al Bashir la bandiera del Sudan. La Repubblica del Sud Sudan è nata. Attorno a me, il delirio. L'inno nazionale è cantato a squarcia gola, le braccia al cielo e i sorrisi bagnati di lacrime. C'è chi grida "free at last!!!". Il secondo momento importante e la firma, da parte di Salva Kiir, della Costituzione provvisoria, approvata dall'Assemblea Legislativa, il parlamento locale, meno di una settimana prima. Davanti ai miei occhi si sta ufficializzando la costituzione piú nuova del mondo. Il terzo momento, quello che ha segnato l'apice della gioia delle persone attorno a me, è il giuramento di Salva Kiir, sulla Costituzione appena siglata, come primo Presidente della Repubblica del Sud Sudan. È fatta. È nato un paese. La filosofia, la teoria, qui si sostanziano. Come per uno studioso dei corpi celesti che osserva l'esplosione di una stella, la nascita di una galassia. Le parole, l'inchiostro, perdono significato. I fatti, i colori, le voci, e, soprattutto, le emozioni e i sentimenti ti spiegano tutto. È l'apertura del vaso di pandora. È un morso alla mela della conoscenza. Mi sento estremamente fortunato di poter dire che io c'ero.

PROSSIMI PASSI – La Repubblica del Sud Sudan ha un lungo percorso davanti a se. Moltissime cose da risolvere e il governo ha grandi responsabilità cui non può sottrarsi. Il popolo sembra si aspetti che ora il loro paese si trasformi in Svizzera. Questo perché l'enfasi populista, con cui è stata arringata la folla negli ultimi trent'anni, accusava il Nord di essere l'origine di tutti i mali. Ora il Nord li ha lasciati e ci si accorgerà che i problemi sono più complessi. Il governo deve riuscire a gestire la situazione, a riprendere il controllo delle regioni ribelli e a lavorare in modo costruttivo. E non sarà facile. Quello del Sud Sudan è un paese che ha perso la propria cultura a causa dei troppi anni di guerra. I contadini sono pochi e le terre fertili sfruttate poco e male. Viene importato tutto. I prezzi sono semplicemente folli. Le sfide, dunque, sono moltissime. E la Repubblica del Sud Sudan è, per ora, troppo impegnata a festeggiare la propria nascita per concentrarsi sui problemi. Ma, tutto sommato, dopo tanta sofferenza, quella che ha cancellato il sorriso nei volti di un popolo intero, qualche giorno di gioia pura credo che sia assolutamente legittimo. La realtà verrà affrontata più tardi.

Testi e foto di Stefano Amato [email protected]

Benvenuti nel Paese senza governo

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CaffEuropa – Da oltre un anno il Belgio è alle prese con una situazione che ha del paradossale: la forte contrapposizione politica tra i partiti, aggravata dalle storiche lacerazioni culturali ed etniche che spingono verso interessi contrastanti ha determinato la mancata formazione di un governo nazionale. Il paese, dunque, versa da tempo in una prolungata fase di stallo governativo che potrebbe causare ripercussioni su diversi fronti

VUOTO DI POTERE – Anche ai più attenti osservatori politici potrebbe risultare difficilmente preventivabile la possibilità che uno dei primissimi stati fondatori dell’Ue, con una capitale importante come Bruxelles, città simbolo per eccellenza delle istituzioni comunitarie, possa ritrovarsi nel giro di pochi mesi catapultato in una prolungata impasse politica che non lascia presagire nulla di buono.

Eppure, come spesso avviene, la realtà dei fatti travalica l’immaginabile dando vita a situazioni al limite del prevedibile. Accade così che il Belgio, da diversi mesi a questa parte, stia attraversando una crisi governativa senza precedenti, un vuoto di potere che affonda le radici nelle connaturate divergenze sociali di un paese alla disperata ricerca di una parvenza di stabilità politica.

ROTTURA LINGUISTICA – Nell’aprile del 2010 il governo di Yves Leterme entrava ufficialmente in crisi a causa di una frattura tra i principali partiti nazionali riguardante alcune facilitazioni linguistiche relative alla circoscrizione elettorale di Bruxelles.

Una rottura etichettabile come “linguistica” poiché la periferia della capitale belga, a maggioranza fiamminga, ospita evidenti diversità etnico-culturali al proprio interno: basti pensare che alcuni centri attorno alla capitale e dunque, (importante ricordarlo) in una zona a prevalenza fiamminga, contano nonostante tutto altissime percentuali di popolazione francese.

Questa zona calda, da sempre fonte di tensioni tra le componenti politiche belghe, ha comportato negli anni la necessità di una costante di mediazione, un compromesso amministrativo tra le differenti aree di influenza.

Una sorta di riproduzione su scala minore rispetto a quanto avviene in ambito nazionale dove il territorio si presenta suddiviso tra Vallonia (francofona), Fiandre (fiamminga) e la regione di Bruxelles (ufficialmente bilingue).

LA FALLITA MEDIAZIONE – Il re del Beglio, Alberto II, dopo aver accettato le suddette dimissioni istituiva nel giugno 2010 nuove elezioni nella speranza di recuperare un po’ della stabilità andata perduta. Tuttavia, nonostante la validità del voto elettorale, in sede di contrattazione per la formazione del governo, le parti restavano comunque distanti, palesando la non volontà di accordarsi nel comune interesse.

Ad oggi, dopo oltre un anno di tentativi affidati al leader del partito socialista francofono Elio Di Rupo non vi è stato alcun passo in avanti significativo.

Di fatto dunque, la situazione di stallo politico prolungata ha reso necessaria la permanenza del governo dimissionario di Leterme che opera in una complessa situazione di autogestione regolata, limitandosi alla promulgazione controllata di alcune manovre di bilancio.

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SCENARI FUTURI – Una crisi sui generis rischia di aprire un dibattito che va ben oltre la mera formazione di un governo che possa unire nell’interesse comune le diverse anime che compongono lo stato del Belgio. In un momento storico di stagnante crescita economica la situazione di Bruxelles preoccupa molto sia le istituzioni comunitarie che i mercati finanziari, votati per natura a puntare sulla stabilità politica dei paesi/attori del sistema economico.

In questa situazione emergono alcune delle storiche differenze che separano il Belgio; tra un nord fiammingo apparentemente più sviluppato ed un sud francofono che rivendica orgogliosamente alcune delle sue peculiarità territoriali.

L’importanza di un compromesso sarà dunque imprescindibile sia per superare l’impasse politica che per scacciare una volta per tutte le voci di chi minaccia una secessione che aprirebbe un solco profondissimo nelle sorti dello stato belga.

Andrea Ambrosino

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L’importanza di essere asiatici

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Nell’attuale clima di riassetto dell’equilibrio globale, l’Australia si trova costretta a perfezionare la propria politica estera. Attraverso una strategia di “assecondamento” infatti, mira a sfruttare i vantaggi economici offerti dalla vicinanza geografica con le tigri asiatiche, e d’altra parte, non dimentica la sua storica vicinanza al Regno Unito, nonché la presenza americana nel sud Pacifico. Quali sono le priorità strategiche dell’Australia?

UN VIAGGIO E TRE SERVIZI – Il 28 Aprile scorso si è concluso il viaggio del primo ministro Julia Gillard in visita presso i paesi che sembrano profilarsi come i tre possibili partner strategici di Canberra. Tokio, Seul e Pechino sono state le mete prescelte dalla leader australiana la quale, sebbene su piani differenti, ha ribadito la volontà del suo esecutivo di cooperare per rafforzare le relazioni (più o meno buone) esistenti; cosa che porterà non pochi benefici al paese oceanico. Per quel che concerne la Corea del Sud, la Gillard, forte del grande impegno profuso dall’Australia per il mantenimento della pace sulla frontiera tra le due Coree, è riuscita ad ottenere un Accordo di Libero Scambio del quale beneficeranno entrambi i paesi.

La visita in Giappone è stata decisamente più importante per due ragioni. La prima riguarda gli aiuti e le risorse che Canberra fornirà a Tokio per stimolare una veloce ripresa dopo il disastro di Fukushima. Il Giappone rimane il maggior partner economico e strategico dell’Australia e gli accordi di fornitura per gas naturale (di cui i giapponesi hanno davvero bisogno) andranno a vantaggio sia dell’uno che dell’altro paese. La seconda ragione per cui ritenere importanti i colloqui nippo-australiani è che questi accordi ridurranno sensibilmente il ruolo della Cina nell’opera di ricostruzione prevista in Giappone limitandone gli investimenti.

L’incontro di Pechino con il Presidente Hu Jintao e il Premier Wen Jiabao è stato indiscutibilmente il momento cruciale del tour del primo ministro Gillard. Cina e Australia sono ormai legate strettamente da una relazione che le vede in un certo modo responsabili reciprocamente della propria crescita economica.

UNA RELAZIONE, TANTI INTERESSI – La Cina è il maggior consumatore dell’uranio, del manganese e del gas naturale liquido (che arriva dalla West Shelf australiana fino alle raffinerie di Guandong via mare) che si estraggono in Australia. L’accordo relativo al gas naturale è stato il più grande affare della storia australiana. Allo stesso tempo, Pechino ha dimostrato non poco interesse riguardo alle riserve minerarie australiane siglando accordi di estrazione e sfruttamento per 614 milioni di dollari. Le relazioni sino-australiane inoltre, non si fermano alla mera collaborazione commerciale ma si estendono fino alla sfera della difesa e della sicurezza. La Premier australiana infatti ha ribadito l’importanza delle esercitazioni militari congiunte tra Cina e Australia (soprattutto tra le rispettive Marine militari) che già si tengono da diversi mesi nel Mar Cinese Meridionale. Tale posizione potrebbe essere spiegata attraverso due riflessioni. La prima riguarda la maggiore assertività (sebbene condita di multilateralismo) di Pechino e l’impegno del governo cinese nello sviluppo di moderne tecnologie militari tra cui velivoli caccia di quinta generazione e una nuova portaerei. In secondo luogo, l’Australia potrebbe sentire l’esigenza di sviluppare forme di collaborazione militare con il paese che sente essere prossimo a divenire l’egemone regionale, visto anche l’affievolirsi dell’impegno statunitense nel Pacifico.

DIFFICILE EQUILIBRIO – L’attuale politica estera australiana sta affrontando un grosso dilemma. Sebbene infatti il suo attuale indirizzo sia rivolto verso la costruzione di più profonde relazioni con i suoi diretti vicini (si pensi all’ingresso dell’Australia nei ten dialogue partners dell’ASEAN – Associazione degli Stati del Sud-Est Asiatico), Canberra non ha dimenticato la sua storica relazione con gli Stati Uniti. Attraverso una politica di “riavvicinamento” (re-engagement policy) infatti, l’Australia sta cercando di mantenere buoni rapporti anche con i “cugini” americani che, nonostante i “momenti di affaticamento” dovuti ai tanti impegni su scala globale, resta ancora l’unica grande potenza. In effetti, l’equilibrio sembra piuttosto delicato. Ogni mossa in favore di uno dei due grandi attori del sistema regionale (Cina e Stati Uniti) nel quale l’Australia gravita produce un allontanamento dall’altro. Il dilemma resta irrisolto: da che parte stare? Se Canberra riuscirà ad approfondire proficui rapporti con Pechino, e allo stesso tempo, supportare Washington nel riconquistare spazio di influenza nel Sud-Est asiatico senza assumere posizioni nette, certamente ne trarrà moltissimi benefici, oltre che una splendida vittoria diplomatica.

 

Paolo Iancale

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Il cambio di rotta: verso la Germania – parte II

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Parte II – Le mire espansionistiche italiane determinarono un graduale allontanamento del nostro paese da Francia e Regno Unito, con la inevitabile conseguenza di un avvicinamento sempre maggiore alla Germania hitleriana. Questo cambio di rotta non fu però accompagnato da una chiara strategia e comportò una graduale perdita di posizione italiana rispetto alle posizioni tedesche, che finirono per prevalere, determinando di fatto le più importanti decisioni italiane

 

Parte II (leggi qui la parte I)

 

LA QUESTIONE ETIOPICA – Nell’ottobre del 1935 Mussolini considerò che i buoni rapporti sviluppati con la Francia e il generale sentimento di appeasement degli inglesi costituissero condizioni proficue per iniziare la guerra contro il Negus Hailè Selassiè. La conquista etiopica aveva una molteplice valenza poiché rappresentava per l’Italia povera di risorse prime un buon bacino da cui approvvigionarsi, inoltre forniva l’opportunità di sviluppare ulteriormente i propri commerci realizzando la continuità territoriale tra le colonie. Altro elemento da considerare era la valenza politica, la conquista d’Etiopia si traduceva non solo nel riscatto dalla umiliante sconfitta di Adua del 1896 ma permetteva all’Italia di avere il suo impero coloniale e conquistare definitivamente rango di potenza internazionale. Ad onor del vero, tra le motivazioni si deve anche menzionare il desiderio di sfogare in Africa le ambizioni frustrate nella zona del Danubio e l’esigenza di giustificare al popolo le ingenti spese militari sostenute.

 

TRA STRESA E LA GERMANIA – Nelle strategie italiane, la conquista di un ruolo di rilievo in Europa non doveva portare alla rottura col fronte anglo-francese. Al contrario, Mussolini era persuaso di poter acquisire il suo “posto al sole” e allo stesso tempo mantenere intatto il fronte di Stresa. Al momento era la Francia, sempre più preoccupata dal riarmo tedesco, ad essere l’interlocutore privilegiato, mentre il governo britannico, ispirato dal sentimento popolare pacifista e anti-fascista, era più distante. Tuttavia, la volontà delle parti di non rompere il fronte era testimoniata dai continui contatti per trovare una soluzione diplomatica. Nel dicembre del ’35, la soluzione diplomatica sembrava esser stata raggiunta grazie all’Accordo Hoare-Laval, ben accolto da Mussolini. L’accordo prevedeva l’interruzione della guerra e il passaggio sotto gestione italiana di gran parte del territorio Etiopico mascherato dietro una sorta di protettorato sotto l’egida della Società delle Nazioni (SdN). L’intesa dovette essere però ritirata dopo che, divenuta a mezzo stampa di dominio pubblico, suscitò soprattutto in Inghilterra forti protesti e indignazione popolare. La denuncia dell’accordo determinò uno strappo determinante e avviò lo sfaldamento del fronte di Stresa con le successive prime aperture di Mussolini verso Hitler.

 

GLI ULTIMI TENTATIVI DI RICOSTRUZIONE DEL FRONTE – Una volta vinta la guerra in Africa nel maggio del ’36, Mussolini tentò di riallacciare la vecchia intesa con l’Inghilterra, segno evidente di quanto la contrapposizione di interessi con la Germania e la diffidenza verso Hitler poneva il nostro paese ancora dalla parte delle due grandi democrazie europee. Il primo passo fu una nota del 28 marzo indirizzata all’ambasciatore francese a Roma in cui si auspicava il ripristino del fronte comune. Soprattutto dopo la rioccupazione tedesca della Renania, la Francia era più che mai ben disposta al riavvicinamento mentre ben diversa era la posizione dell’Inghilterra. Qui, il forte sentimento antifascista della popolazione unita all’avversione di alcuni elementi del governo e la questione ancora in piedi delle sanzioni di guerra rendeva difficile il processo di riavvicinamento. Mussolini tentò di riguadagnare l’appoggio inglese attraverso il lavoro e i contatti dell’ambasciatore a Londra Dino Grandi con influenti esponenti del parlamento inglese (Churchill su tutti) e attraverso concilianti messaggi fatti apparire sui quotidiani britannici. Molti esponenti del Foreign Office (Wigram, Vansittart Stanhope e l’ambasciatore a Berlino Phipps) caldeggiavano il riavvicinamento all’Italia, non però il capo degli esteri Eden ancora deciso (vanamente) a privare l’Italia dei frutti della conquista in Africa attraverso lo strumento delle sanzioni. I tentativi sembravano aver dato i frutti sperati quando il 17 giugno il consiglio di gabinetto britannico approvò l’annullamento delle sanzioni. Ma il 1° luglio alla SdN in seno alle discussioni per la cessazione delle sanzioni Eden pronunciò un discorso dai toni anti-italiani in cui si deplorava il gesto italiano e si invitavano i paesi in assemblea ad astenersi dal riconoscimento della conquista italiana. In un momento in cui sembrava possibile il ritorno alla vecchia amicizia, le parole di Eden segnarono un solco decisivo nelle relazioni tra i due paesi.

 

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LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA – Venuto definitivamente meno l’appoggio inglese nelle questioni internazionali e soggiunta l’impraticabilità dell’espansione ad est, l’Italia vide nella guerra civile spagnola una buona chance per aprire nuovi fronti di espansione. Difatti, porre in Spagna la propria influenza e magari acquisire una base navale in Marocco avrebbe posto l’Italia in posizione di vantaggio a scapito della Gran Bretagna e soprattutto della Francia per il dominio del Mediterraneo. L’inevitabile diretta conseguenza della nuova direttrice di sviluppo italiana in contrapposizione con gli interessi anglo-francesi fu un nuovo e più deciso avvicinamento ad Hitler. Si delinearono, dunque, le premesse per la nascita del così detto Asse Roma-Berlino scaturito dagli incontri di ottobre tra Ciano e Von Neurath e sanciti dal discorso del 1° Novembre che Mussolini tenne in Piazza del Duomo a Milano. Nel discorso Mussolini fece spesso riferimenti all’importanza che il Mediterraneo aveva per l’Italia non facendo mai riferimenti alla zona danubiana e balcanica. La Germania diveniva così l’unico possibile alleato con la conseguente necessaria rinuncia ad ogni interesse in Europa orientale e alla difesa dell’Austria.

 

IL 1937 E I TENTATIVI DI RIAVVICINAMENTO ANGLO-ITALIANO – Mussolini non era ancora del tutto convinto della bontà dell’alleanza con la Germania e l’anschluss avvenuto senza preavviso aveva irritato non poco i vertici del governo italiano. Questi avvenimenti insieme all’avvicendamento di Eden con Halifax al Foreign Office favorirono il riavvicinamento con l’Inghilterra sfociato nell’intesa sugli otto punti dell’accordo di Pasqua (Aprile 1938). Tuttavia, il riavvicinamento non riuscì dato che oramai la storia e il mutamento delle aree di interesse avevano tracciato una certa distanza tra le due potenze e le relazioni erano comunque caratterizzate da una evidente diffidenza. Inoltre, gli inglesi premevano per la firma di un analogo gentlemen’s agreement tra Francia e Italia al momento impraticabile alla luce degli ultimi orientamenti italiani che consideravano la Francia come la nazione su cui rifarsi per ottenere nuove conquiste (lo slogan che risuonava nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni era: Gibuti, Tunisi e la Corsica). Nel contempo l’Italia, muovendosi su più fronti, aveva aderito al Patto Anti-Komintern con Germania e Giappone e aveva aggredito militarmente l’Albania che di fatto era già sotto influenza italiana. Questo gesto nevrotico e dalla dubbia utilità unito alle esitazioni sulle “scelte di campo” denotava una certa perdita di equilibrio e lungimiranza finendo per perseguire risultati a corto impatto e difficilmente inseribili in un organico progetto di espansione commerciale e politica.

 

IL PATTO D’ACCIAIO E L’ENTRATA IN GUERRA – Nel 1939 l’Europa viveva la consapevolezza che la guerra era ormai alle porte per cui anche le scelte di campo e le alleanze si andavano consolidando. Francia ed Inghilterra avevano approfondito i loro legami, la Germania premeva per tramutare il Patto anti-Komintern in un alleanza militare. Il governo italiano titubava, rendendosi conto che non si era pronti ad entrare in guerra e non lo si sarebbe stata prima del ’43, ossia il tempo necessario per pacificare i territori assoggettati, ammodernare l’artiglieria e costruire nuove corazzate. Inoltre, c’era preoccupazione per l’Alto Adige divenuto italiano nel 1920 ma popolato in gran parte da germanofoni. Due elementi furono però fondamentali per la stipula dell’alleanza. L’Italia a causa delle ultime vicende era rimasta isolata senza molte alternative all’alleanza con la Germania, inoltre Mussolini si era illuso che la politica di accodamento alla politica hitleriana poteva dare grandi frutti in termini di conquiste territoriali a seguito dall’impatto che la forza militare tedesca avrebbe avuto in Europa. La conseguenza fu la firma dell’Italia di una patto offensivo redatto in gran parte dai tedeschi e che era in tutto e per tutto espressione della loro volontà. Particolarmente scomodo e compromettente per l’Italia fu l’art. 3 del così detto “Patto d’Acciaio” che obbligava l’Italia ad entrare in guerra accanto alla Germania qualora questa fosse stata coinvolta in complicazioni belliche. Il trattato aveva evidentemente posto l’Italia alle dipendenze della Germania e condannato gli italiani ad entrare frettolosamente ed impreparati in una guerra i cui obiettivi di espansione nel mediterraneo e in Africa erano evidentemente mal ponderati e mal commisurati alla reale capacità italiana e ai rapporti di forza con la Germania.

 

Cristiano Proietti

Viaggio nel cuore del Kosovo indipendente (II)

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Seconda e ultima parte del nostro viaggio in Kosovo. In questa puntata facciamo luce sui gruppi etnici più penalizzati e sfortunati, rom e ashkali, e sui complessi problemi giuridici connessi. Ma gettiamo anche un seme di speranza per un Paese appena nato che vuole però provare a dimenticare le violenze degli anni passati per avviarsi con dinamismo verso un futuro migliore

 

(Seconda parte) – Leggi qui la I parte

 

OCCHI PUNTATI SULLE CASE DI NESSUNO – Oltre alla chiara spaccatura tra serbi ed albanesi, esiste anche un’altra contrapposizione, quasi impercettibile agli occhi del visitatore eppure indubbiamente presente: quella tra chi è rimasto in Kosovo durante la guerra e chi invece è fuggito e poi tornato.

 

Dal 1999 ad oggi, sono moltissimi i kosovari, sia serbi che albanesi, che hanno abbandonato il paese cercando rifugio all’estero, soprattutto nei paesi dell’Europa occidentale (Italia e Germania in testa). Tuttavia, ora che la transizione democratica sembra essere finalmente avviata, molti stanno cercando di rientrare (oppure sono costretti a rientrare, visto che lo status giuridico di rifugiato è per sua natura temporaneo).

 

Il ritorno in massa di migliaia di ex rifugiati rischia di paralizzare il neonato sistema giudiziario kosovaro, letteralmente travolto da dispute che ruotano attorno al diritto di proprietà. Uno stuolo di legittimi proprietari bussa alle porte di appartamenti illegalmente occupati per più di dieci anni. E’ il caos, per le strade così come nelle corti di giustizia. Il backlog giudiziario è impressionante: non ci sono abbastanza documenti per sostanziare le cause, non ci sono abbastanza magistrati per dirimere le controversie, non ci sono abbastanza avvocati per assistere le parti coinvolte.

 

Al quartier generale dell’OSCE, a Pristina, si fa il possibile per sciogliere tutti questi nodi: esiste un communities programme, che cura le problematiche legate al dialogo tra le diverse comunità etniche del Kosovo; esiste un ufficio interamente dedicato allo studio e alla documentazione delle dispute di proprietà ed esiste infine un ufficio legale che ha appena concluso un programma di vetting per magistrati ed ex magistrati kosovari. Quest’ultima, in particolare, è stata un’impresa titanica per i legal officers dell’OSCE, che hanno dovuto verificare che i magistrati (o aspiranti tali) avessero effettivamente i requisiti per esercitare la professione.

 

Ad esempio, come è possibile far sedere sulla trial bench qualcuno che non ha la più pallida idea del funzionamento del nuovo sistema giuridico kosovaro e che si ostina ad applicare i Codici serbi? Lungi dall’essere una disputa teorica ad appannaggio esclusivo di giuristi e operatori del diritto, il problema è decisamente pratico e tangibile, e il suo impatto sulla vita di migliaia di cittadini è enorme.

 

IL KOSOVO DEGLI ALTRI: ROM E ASHKALI – A pochi metri dall’ufficio OSCE di Mitrovica si trova una distesa di case anonime, coi panni stesi fuori dalle finestre e un vociare confuso di bambini che giocano. In questo quartiere, noto come Roma-Mahalla, abitano esclusivamente rom e ashkali. Per loro l’OSCE ha avviato un programma apposito, “Roma, Ashkali and Egyptians (RAE), che punta ad intensificare il dialogo con queste comunità troppo spesso dimenticate dalle istituzioni.

 

E’ bastata una mattinata trascorsa a chiacchierare con alcuni dei residenti di Roma-Mahalla per capire che, se la vita è dura per serbi e albanesi, per i rom e per gli altri nomadi del paese è quasi impossibile. “Sono stato per diciotto anni in Italia, a Bergamo, e lì facevo l’operaio e guadagnavo abbastanza per poter avere una vita dignitosa. Avevo una stanza in un piccolo appartamento e potevo uscire la sera. A Roma-Mahalla è diverso: la sera non si può uscire, rischi di essere picchiato e rispedito indietro. E poi non c’è lavoro. Ho fatto domanda per fare l’autista, l’elettricista, l’insegnante e tanto altro, ma non mi hanno assunto da nessuna parte. Sono disoccupato, e non riesco neppure a mangiare tutti i giorni” – ci racconta, in perfetto italiano, un residente di questo ghetto rom.

 

“In Germania avevo un lavoro, ma poi mi hanno rimandato in Kosovo, subito dopo la fine della guerra. Qui non ho trovato niente e nessuno ad aspettarmi, e non mi sono ancora rifatto una vita…. ma d’altra parte qui sono tutti disoccupati, non c’è lavoro neanche per gli albanesi, figuriamoci per i rom!” – aggiunge un altro, in perfetto tedesco.

 

Non c’è da meravigliarsi: il Kosovo ha un tasso di disoccupazione che sfiora il 60%, e i primi a farne le spese sono rom e ashkali: quasi nessuno di loro lavora o riceve sussidi dallo stato, e non è raro che bambini e anziani muoiano di fame e freddo nei rigidi inverni di Mitrovica. Come se non bastasse, al disastro economico si somma un feroce misto di razzismo e indifferenza. In un Kosovo che fatica a respirare, i rom sono solo un peso, sono gli ultimi tra i poveri, ai quali viene negato tutto o quasi. Durante un incontro organizzato dall’Università di Pristina e dall’Associazione KIPRED (ONG kosovara impegnata sul fronte della rule of law), chiediamo ai relatori di dirci, a parer loro, quale categoria sociale o gruppo etnico è maggiormente svantaggiato in termini di accesso alla giustizia.

 

La risposta non tarda ad arrivare. Un rappresentante delle ONG conferma le nostre impressioni: “I rom sono i più emarginati, vivono letteralmente privi di diritti”. Gli fa eco immediatamente il rappresentante dell’ufficio dell’Ombudsman, attivo in Kosovo da oltre dieci anni.

 

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KOSOVO A PIÙ VELOCITÀ – La strada è ancora lunga, e in salita, ma non si può non riconoscere che il Kosovo di oggi sia un paese dinamico e desideroso di mettere solide radici nel sistema internazionale. Stanco di essere preda di venti di guerra, l’ultimo nato tra gli stati balcanici sta compiendo i suoi primi passi nel mondo, dalla partecipazione politica internazionale al rispetto degli standard giuridici di diritti umani stabiliti nelle Convenzioni ONU.

 

Infatti, pur non essendo membro delle Nazioni Unite, il Kosovo ha già presentato due country report agli appositi meccanismi ONU, in materia di tutela dei diritti dei minori e di tutela dei diritti economici, sociali e culturali. Tutto ciò è potuto accadere grazie ad un accordo ad hoc realizzato durante l’amministrazione transitoria di UNMIK, la missione di peacekeeping facente capo proprio alle Nazioni Unite.

 

Ad ogni modo, i nodi irrisolti restano molti, e in questo articolo ho provato a raccontarne alcuni… quelli che mi hanno colpito di più, quelli che giudico più pressanti o semplicemente quelli che ho sentito nominare con maggiore insistenza e vigore durante il mio soggiorno a Pristina. Se è vero che bisogna essere consapevoli che la dichiarazione di indipendenza del Kosovo (17 febbraio 2008) rappresenta una partenza e non un arrivo, è anche onesto riconoscere, tre anni dopo, che non tutti sono “partiti”, o quanto meno che le varie comunità etnico-religiose e i vari gruppi socioeconomici si muovono a velocità nettamente diverse.

 

Non resta che osservare i prossimi passi del governo kosovaro e degli attori internazionali presenti in loco, sperando che la crescita del paese si sviluppi in maniera più armonica negli anni futuri.

 

Anna Bulzomi

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Viaggio nel cuore del Kosovo indipendente

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Il “Caffè” vi porta nel cuore del Kosovo, regione tormentata dell’ex Jugoslavia che rappresenta un caso del tutto peculiare e interessante per chi studia e si interessa di diritto internazionale. Una regione piccola ma martoriata da un lungo conflitto etnico tra serbi e albanesi, culminato nella missione NATO del 1999 che ha poi portato alla nascita, seppur lenta e faticosa, di un nuovo Stato indipendente. Ecco in esclusiva il reportage di una nostra collaboratrice, direttamente dal cuore dei Balcani: oggi pubblichiamo la prima parte

 

Prima parte – Leggi qui la II parte

 

I PERCHÉ DEL KOSOVO – Dubrovnik, Croazia. Dopo una mattinata in spiaggia tra ciottoli bianchi e onde turchesi salgo sull’autobus che mi porterà a Pristina, per una settimana fitta di appuntamenti, conferenze e briefing alla scoperta del nuovo Kosovo.

 

Faccio parte di una delegazione dello Human Rights Centre dell’Università di Essex, e a riceverci ci saranno i principali attori – kosovari  ed internazionali – che stanno cercando di dare forma e direzione al neonato Stato balcanico. Tra questi, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la missione di rule of law EULEX, che opera sotto l’egida dell’Unione Europea, la Corte Costituzionale del Kosovo e diverse organizzazioni non governative (ONG).

 

Il Kosovo è una realtà giuridica e politica incredibilmente stimolante. In una manciata di chilometri quadrati, pone lo studioso di diritto internazionale di fronte ad alcune grandi sfide del nostro tempo, dai meccanismi giuridici di tutela delle minoranze etniche e religiose alle grandi riforme istituzionali alla spinosa transizione tra peacekeeping e peacebuilding.

 

Immaginando tutto questo, lascio la splendida Dubrovnik con un misto di tristezza ed entusiasmo. Arrivo a Pristina quattordici ore dopo, e con tre diversi visti sul passaporto – Croazia, Montenegro e Kosovo. E’ l’alba, e la città è deserta e silenziosa. Qua e là si intravedono edifici semidistrutti, macchie grigie che parlano di un passato che non c’è più. Palazzi crollati e mai ricostruiti si mescolano a caseggiati nuovissimi, dall’intonaco fresco e colorato, dando vita ad un panorama che in fondo mette speranza.

 

E’ la ricostruzione che avanza, dieci anni dopo la guerra e sei anni dopo le rivolte del 17 Marzo 2004, il più grave episodio di violenza tra serbi ed albanesi dalla fine del conflitto.

 

LA FRATTURA E IL SILENZIO – Ovvero la storia comune di serbi e albanesi. Dal 1914 ad oggi, i popoli di questa regione hanno vissuto una tormentata storia di scintille ed esplosioni, che si saldano tra loro dando origine alla cosiddetta “questione balcanica”. Se dovessi spiegare in una sola frase cos’è l’ex Yugoslavia, non esiterei a definirla un mosaico di etnie e culture che stentano a trovare un equilibrio. In quest’ottica di continua destabilizzazione, il Kosovo rappresenta solo il tassello più recente. La sua storia è l’ennesimo episodio di una storia più lunga e più cruenta, segnata da aspri conflitti e da ferite mai rimarginate.

 

Elencare gli episodi bellici susseguitisi in questa regione a partire dai fatti del 28 giugno 1914 (uccisione di Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria) è un’impresa ardua, che lascio agli storici di professione.

 

Mi limiterò ad elencare i conflitti più recenti, quelli che sono vivi nei nostri ricordi, quelli che hanno popolato giornali e telegiornali nel corso degli anni ’90: guerra d’indipendenza slovena (1991), guerra in Croazia (1991-1995), guerra in Bosnia-Herzegovina (1992-1995), guerra in Kosovo e caduta di Milosevic (1999).

 

L’intreccio di delusioni, vendette, malcontento e rancore rende quasi impossibile scrivere una storia dei Balcani che sia “oggettiva”. E’ proprio questa faccenda dell’oggettività che mi tormenta, fin da subito, come un ronzio costante nella mia mente, un’eco che torna a farsi sentire ad ogni angolo durante le mie passeggiate e ad ogni meeting con le istituzioni.

 

Giunta in Kosovo, mi chiedo: “A chi appartiene la Storia di questo luogo?”

 

Se è vero che l’identità kosovara è albanese e musulmana, è però ugualmente vero che esistono diverse minoranze etnico-religiose, tanto che si potrebbe parlare del Kosovo come di uno “stato di minoranze”. A maggior ragione se consideriamo che in alcune parti del paese le minoranze diventano maggioranza. Lo si capisce benissimo quando si va a Mitrovica, enclave serba nel nord del paese. Lì non esistono “kosovari”, ma solo “serbi del Kosovo”, ovvero cristiani ortodossi politicamente rivolti verso Belgrado.

 

A Mitrovica non sventolano le bandiere albanesi e statunitensi che invece affollano le piazze di Pristina e Prizren. Si respira un’aria tesa, di sfiducia verso le istituzioni kosovare, bollate come “estranee”. Per fare un esempio legato all’ordinaria amministrazione, basti pensare che gli stipendi di molti insegnanti e operatori scolastici serbi di questa regione vengono ancora pagati dal Ministero dell’Istruzione serbo.

 

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I CASI DI GRAÈANICA E PRIZREN – Una situazione simile si trova anche a Graèanica, una delle maggiori comunità serbe del Kosovo centrale, sviluppatasi interamente attorno ad un imponente e suggestivo monastero ortodosso. Qui un giovane serbo che lavora presso il monastero non esita a rispondere alla mia domanda: “La Storia di questo paese è nostra, siamo stati qui per centinaia di anni”. Poi, indicando gli affreschi che rappresentano il re serbo Stefan Milutin e sua moglie Simonida, mi dice: “Questo luogo di culto, con le sue cupole, le sue decorazioni e il suo profondo significato religioso fu voluto da re Stefan nel 1321”, come a sottolineare che la presenza serba affonda le sue radici nei secoli passati, e non ha nulla a che vedere con gli eventi tumultuosi della Yugoslavia post-Tito.

 

Da quando, dopo la guerra del 1999, il Vescovo di Raška e Prizren ha deciso di trasferire la sua sede a Graèanica, al simbolismo religioso sembra essersi aggiunta anche una valenza politica, tanto da rendere il quieto e silenzioso monastero un vero e proprio centro politico per i serbi del Kosovo.

 

La frattura tra serbi e albanesi è dolorosa, come un dialogo interrotto e mai ripreso, come un silenzio pesantissimo popolato di fantasmi. E ciò che fa paura è che i fantasmi non sono i famigerati criminali di guerra che affollano le pagine dei quotidiani, bensì, molto più semplicemente, hanno nomi e volti di ex colleghi o ex vicini di casa. Durante le rivolte del marzo 2004, molte abitazioni serbe sono state saccheggiate, bruciate, rase al suolo. Lo stesso è accaduto a diversi luoghi di culto ortodossi, perfino nella bella Prizren, che vanta secoli di tolleranza e multiculturalismo ed è riconosciuta da tutti come la culla artistica e culturale del Kosovo. Non sono stati risparmiati neppure i cimiteri, dove le zolle di terra sono state rivoltate, le lapidi spaccate a metà e le tombe sono ormai coperte di erba, polvere ed indifferenza.

 

“Dov’erano i peacekeepers di KFOR mentre accadeva tutto questo scempio?” ci chiede la nostra guida, una signora di mezz’età, capelli scuri e sguardo fiero. “Qual è lo scopo di avere tutti questi soldati stranieri per le strade, in tutto il paese, se poi non ci proteggono?”

 

KFOR, la missione che opera sotto l’ombrello NATO, ha il mandato di proteggere tutti: albanesi, serbi, rom, ashkali, turchi (per nominare solo alcuni dei gruppi etnici presenti in Kosovo). Eppure, quel 17 marzo 2004 i soldati di KFOR sono rimasti a guardare, e hanno lasciato che la grande chiesa ortodossa di Prizren venisse distrutta.

 

Qualcuno fa notare con sconforto che non sono intervenuti neppure i peacekeepers di nazionalità greca, che con i serbi del Kosovo condividono la fede cristiana di rito ortodosso. Resto per un po’ nella chiesa, e vago tra le navate fissando le pareti bianchissime e i legni scuri dell’altare. Su quelle pareti, una volta, erano dipinte decine di icone sacre, secondo la tradizione bizantina. Oggi invece regnano indisturbati il bianco e il vuoto.

 

Siamo giunti all’ultimo atto? E’ questo il triste crepuscolo della Prizren tollerante? Forse no. Forse si tratta solo di un vuoto temporaneo, di un foglio bianco dal quale ripartire. O almeno così mi racconta un monaco ortodosso che incontro nel cortile, e che ci tiene ad informarmi che la comunità internazionale ha stanziato dei fondi per completare la ricostruzione della chiesa. “Gli aggressori venivano dalle campagne. Nessuno a Prizren odia il proprio vicino” – commenta infine a bassa voce, allontanandosi lungo i viali alberati che dalla chiesa ortodossa conducono alla moschea, e di lì all’hammam ottomano. In quelle poche strade si cela il segreto dell’antico Kosovo, pulsante crocevia di genti e culture.

 

(continua)

 

Anna Bulzomi

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Tante stelle, non solo calcio

E’ iniziata in Argentina la 43ª Copa America, il torneo calcistico per nazionali più importante del continente americano. Padroni di casa e Brasile sono i soliti favoriti, con Uruguay e Cile outsider di lusso. Ma questa Copa America è importante anche perché viene dopo i fatti seguiti all’evento sportivo più importante dell’anno in Argentina: la retrocessione del River Plate. Ed è inoltre un’ occasione per far girare l’ economia con i grandi introiti derivanti dalla ristrutturazione degli stadi, dalla vendita dei diritti tv e dagli sponsor.

UN EVENTO DI TUTTO IL PAESE – Molti sono gli spunti di questa edizione numero 43 della Copa America che si svolge dall'1 al 24 luglio in Argentina, dopo 24 anni dall’ultima volta nella patria di Maradona. A partire dal fatto che ci troviamo nel paese del giocatore più forte e rappresentativo del momento, Lionel Messi. Per questa edizione l’ Asociación del Futbòl Argentino (AFA) ha pensato bene di coinvolgere le autorità provinciali nell’organizzazione dell’evento così da distribuire gli incontri in maniera equilibrata nelle diverse province del paese, lasciando alla capitale Buenos Aires solo la finale. Così città come  La Plata, Córdoba, Santa Fe, Jujuy, San Juan, Mendoza e Salta vedranno le luci della ribalta e beneficeranno di una visibilità calcistica che generalmente è riservata alla Capital, vera patria del fùtbol argentino, con le due squadre più rappresentative, River Plate e Boca Juniors, e con la maggiore concentrazione di tifosi del paese.

STADI MESSI A NUOVO  – Un tema che ricorre sempre nell’organizzazione di competizioni sportive di questa importanza è quello degli stadi. I paesi ospitanti sono costretti a mettere mano al “monedero” (portafogli) per avviare una modernizzazione degli impianti, che devono essere ovviamente aggiornati agli standard qualitativi e di sicurezza richiesti dalla FIFA. Secondo Josè Luis Meiszner, presidente del Comitato Organizzatore di Argentina 2011 “c’è stato un grande contributo nazionale e delle diverse province sedi degli incontri. Senza questi contributi non sarebbe stato possibile avere gli stadi in condizioni ideali per la “Copa”. Il riferimento è al grande investimento in termini economici per la ristrutturazione degli stadi e la creazione di infrastrutture nelle città ospitanti.  Un’iniezione di denaro che viene a volte considerata uno spreco da parte delle pubbliche autorità ma che in realtà può rappresentare un’ occasione per incrementare il turismo in zone del paese solitamente poco visitate dagli stranieri.

L’ ATTENZIONE DEL MONDO – Altra fonte d’ ingresso economico rilevante per questa come per tutte le competizioni calcistiche è la grande attenzione mediatica attorno ai “campeones de la pelota. Si calcola che per questa edizione della Copa il circo sarà composto dalle tv di 210 paesi e si stima la presenza di circa 5.500 giornalisti accreditati. Senza contare che a stare incollati alla tv per seguire questa Argentina 2011 ci saranno circa 4.000 milioni di appassionati. Un bacino di utenza troppo ghiotto e per gli sponsor un’ occasione da non lasciarsi scappare.

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LA RETROCESSIONE DEL RIVER: UNO SPACCATO SOCIALE DEL TIFO ARGENTINO – L’ Argentina nel giro di pochi giorni è passata, calcisticamente parlando, dal pianto al riso. Infatti prima della gioia per l’ inizio di questa Copa America, il 25 giugno scorso buona parte degli argentini ha ricevuto lo shock della retrocessione della squadra più rappresentativa, il River Plate. La squadra bonaerense, la più titolata e antica del paese, ha subìto l’ onta della sua prima retrocessione dopo 110 anni di storia. Questo evento sportivo ha dato vita a violenti scontri  dentro e fuori dallo stadio Monumental di Buenos Aires e in altri quartieri della città tra la polizia e i famigerati barras bravas, ovvero gli ultrà del River. C’è un significato sociale oltre che economico e sportivo dietro questo evento sportivo, dato che gli scontri con le forze dell’ordine sono stati accompagnati da saccheggi a negozi e violenze di vario tipo perpetrate da un numero consistente di persone che fanno pensare ad un disagio che travalica i confini del tifo violento.                                                                                

Di fatto la violenza nel calcio ha radici ben più profonde e sarebbe riduttivo pensare che i barras bravas siano semplicemente dei tifosi esagitati. Il fenomeno del tifo organizzato in Argentina risale agli inizi del secolo ed è tradizionalmente il più antico dell’America Latina. Si pensi che il primo incidente storicamente rilevante in uno stadio argentino risale proprio alla prima edizione della Copa America nel 1916, in un incontro tra la stessa Argentina e l’ Uruguay. Da allora ai giorni nostri il fenomeno ha prodotto ben 249 vittime e un numero imprecisato di feriti. Ma le condanne per questi fatti di sangue sono stati puniti solo in 16 casi con delle condanne penali, dando così la dimensione di un fenomeno fuori controllo per lo Stato. La composizione dei diversi gruppi è eterogeneo, fatto di giovani ed adulti, molto spesso di estrazioni sociali diverse anche se prevale la rappresentanza della classe popolare. Negli ultimi decenni questi gruppi di tifosi violenti si sono “istituzionalizzati” e ad oggi possiamo annoverare le barras di Independiente,Newell's Old Boys , Boca Juniors e River Plate tra le più potenti. E non mancano gli intrecci economici con le dirigenze delle squadre e politici con le autorità locali che hanno consentito ai barras di inserirsi nella gestione del business dei biglietti delle partite, dei traffici illeciti della droga e delle scommesse clandestine. Allo stato dei fatti ben poco hanno potuto fare i governi che si sono succeduti, incluso l’attuale di Cristina Kirchner, che ha sempre risposto in maniera drastica, com’è successo lo scorso 25 giugno, reprimendo con la forza le manifestazioni di violenza.

DANNI ECONOMICI E SPORTIVI – Per quanto concerne il piano economico, non vi è dubbio che la retrocessione del River comporterà un danno palese per un club già in grave crisi finanziaria, che accusa, nonostante un cambio di gestione societaria, un deficit di oltre 140 milioni di dollari. In primo luogo diminuiranno gli introiti per i diritti tv pagati dalle emittenti, che passeranno dai 7 milioni della serie A al solo milione della B e si ridurranno anche le cifre milionarie versate dagli sponsors nelle casse del club bonaerense. In secondo luogo si ridurrà il valore di mercato della rosa dei giocatori del River e l’ inevitabile minor qualità della categoria diminuirà anche il numero degli aficionados che andranno allo stadio. Infine, sotto l’ aspetto sportivo è evidente che la scomparsa del River dalla serie A costituisca per il pubblico una grave perdita di spettacolo e gli altri clubs, come il rivale storico Boca Juniors, sentiranno certamente l’ assenza del grande nemico di sempre nella contesa del titolo.

Questa Copa America 2011 sarà quindi un’ occasione per risollevare l’ immagine e il morale di un calcio che fino a pochi giorni  fa era stato travolto da fatti che ben poco hanno a che fare con i princìpi dello sport. Le autorità in realtà temono che qualche strascico violento possa materializzarsi di nuovo nella finale che si disputerà proprio allo stadio Monumental di Buenos Aires il 24 luglio. A noi non resta che sperare che fili tutto liscio e che si possa godere di un bello spettacolo.

Alfredo D'Alessandro [email protected]

La strategia del filo di perle

Nuova puntata del nostro speciale. Questa volta vi spieghiamo la strategia, puramente geopolitica, che Pechino sta silenziosamente, ma inesorabilmente adottando in Asia sud-orientale, per tessere una fitta rete di alleanze in grado di proteggere i propri interessi strategici ed economici. Il tutto a spese dell’altro “gigante” geopolitico dell’area, l’India

 

AVANTI PIANO – Un’avanzata silente, ovattata e quasi inavvertibile è quella che il grande Stato continentale cinese sta muovendo da oriente verso occidente, insediando propri distaccamenti nei porti Thailandesi, in quelli birmani di Bassein e Akyab, sulle Coco Islands, in quello di Chittagong in Bangladesh, in quello di Gwadar nel Baluchistan pakistano. Come in un intreccio di trama e ordito, la Cina tesse pazientemente il suo “filo di perle”, consolidando la partnership strategica con alcuni Stati rivieraschi asiatici attraverso la cooperazione nel settore infrastrutturale e nel commercio, lungo un’invisibile linea marittima che connette il Mar Cinese Meridionale al Golfo del Bengala, quindi all’Oceano Indiano e al Mar rosso. È lungo questo filo impercettibile che si concretano le proiezioni marittime del Dragone e le sue ambizioni geopolitiche.

 

STRING OF PEARL STRATEGY – Il caposaldo della Far Sea Defence Strategy cinese e la sua nuova politica oceanica sembrano ricalcarsi sulle teorie di Mahan sulla strategia marittima: per consolidare il proprio Sea Power è necessario conquistare punti di appoggio, porti dai quali poter controllare le rotte e incoraggiare la flotta alla navigazione.  Attraverso il finanziamento e la partecipazione alle grandi opere infrastrutturali, Pechino ha conquistato nell’ultimo ventennio il suo “posto al sole” nello scacchiere marittimo asiatico, incuneandosi nelle aree costiere e portuali di maggiore rilievo geostrategico, trasformando queste basi di supporto dapprima in importanti snodi commerciali, poi in teste di ponte e sicuri avamposti militari per la propria Marina, perle sospese lungo il filo.

 

Si stima che oltre i 2/3 degli approvvigionamenti energetici asiatici che sostengono le nuove economie in ascesa, ma soprattutto Cina e Giappone, giungano dal Medio Oriente tramite i corridoi marittimi attraversando l’Oceano Indiano e lo Stretto di Malacca, ed è proprio su questi importanti nodi geostrategici che si riflettono gli orientamenti geopolitici cinesi.  Proprio come la politica di contenimento promossa durante la guerra fredda dagli Stati Uniti per limitare l’espansione sovietica, la strategia cinese del filo di perle punta sostanzialmente a circoscrivere e isolare l’India, rafforzando le relazioni commerciali con i suoi vicini d’oltreconfine, assicurandosi i diritti di navigazione e la protezione delle petroliere che giungono dal Medio Oriente, esercitando dapprima un’influenza economica sui nuovi partners, poi trasposta in condizionamento politico e militare. Perle che pendono già nel filo cinese, i porti di Akyab e Sitwe in Myanmar, quello di Gwadar in Pakistan e di Hambantota in Sri Lanka, consentono al Paese di Mezzo di accerchiare l’India sul fianco occidentale, su quello orientale e meridionale, garantendole un accesso sicuro all’Oceano Indiano. Le aree portuali rispondono certamente ad una duplice esigenza funzionale: da una parte fungono come basi di scalo commerciale, dall’altra estendono l’opportunità alla Marina militare cinese di utilizzarle come centri di rifornimento e di monitoraggio delle rotte marittime. Dal canto suo, l’India gioca d’astuzia e per regolamentare l’accesso cinese all’Oceano, assicura già dal 2010 alla Cina la difesa della sicurezza navale delle rotte marittime solcate dalle sempre più numerose petroliere cinesi perché, come ha affermato Pallam Raju, Ministro per la difesa indiano, “comprende che [la Cina] deve proteggere i suoi interessi petroliferi”. Tuttavia, nel progetto strategico cinese sono state previste anche alcune alternative per bypassare l’Oceano Indiano e lo Stretto di Malacca. È sufficiente concentrare l’attenzione sui numeri per intuire gli orientamenti cinesi. I 200 milioni di dollari investiti da Pechino nella costruzione della strada che congiunge Gwadar a Karachi e gli 8.500 lavoratori cinesi impiegati nelle opere infrastrutturali pakistane, ci indicano l’alternativa terrestre al percorso marittimo: il porto di Gwadar diviene una sicura base per lo scarico di merci e petrolio giunte dal Golfo Persico che poi vengono incanalati via terra verso il Xinjiang.

 

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IL CANALE DI KRA PER BYPASSARE LO STRETTO DI MALACCA – Per evitare il “collo di bottiglia” nello Stretto di Malacca, un choke point naturale, poco sicuro e infestato dai pirati, i cinesi hanno garantito alla Thailandia il finanziamento della costruzione di un canale lungo l’istmo di Kra (nella foto, il progetto), che collega la Malaysia al Ranong Thailandese. Il canale metterebbe in comunicazione il Golfo della Thailandia con il Mar delle Andamane, consentendo di bypassare lo Stretto e riducendo di 1500 miglia la rotta marittima. Inoltre, al progetto del Canale è corredato il Southern Strategic Energy Land Bridge, una sorta di condotto petrolifero che solcherà l’istmo di Kra. Se si pensa che oggi il 90% del petrolio arriva in Cina attraverso il passaggio per lo Stretto di Malacca, si può ben capire il potenziale rivoluzionario del canale di Kra, che neutralizzerebbe perfino le minacce indiane di bloccare lo Stretto per affamare i cinesi di petrolio in caso di un conflitto. Il costo del canale asiatico, la cui importanza sarebbe pari a quella di Suez e Panama, ammonterebbe attorno ai 30 miliardi di dollari ma i benefici politico-economici per la Thailandia, la Cina, il Giappone e per gli altri Paesi del Pacifico supererebbero di gran lunga i costi.

 

PHUEAN BAAN”: CINA E THAILANDIA, DUE PAESI VICINI – Tenuto in conto il notevole peso acquisito dalla Cina nello spazio geopolitico asiatico, la Thailandia, consapevole della necessità del Canale per realizzare i propri interessi geostrategici, richiamare gli investimenti esteri, incoraggiare l’economia del Paese ed ascendere come potenza marittima, ha rinvigorito le relazioni politico-economiche con Pechino. Tra i due Paesi i rapporti diplomatici sono ripresi solo nel 1975, in concomitanza con la riduzione dell’impegno statunitense nella regione e la fine del supporto cinese al Partito Comunista della Thailandia. Oggi la Thailandia ha il più alto numero di uffici consolari all’estero proprio in Cina e lo scambio commerciale fra i due è stato stimato intorno ai 12 miliardi di dollari. Quello tra Cina e Thailandia è un partenariato strategico, votato all’opportunismo pragmatico e finalizzato soprattutto alla cooperazione militare, allo scambio di tecnologia e armamentario bellico, alla preparazione del personale e alla condivisione di esercitazioni antiterrorismo.

 

Prima che Pechino stabilisse legami con l’ASEAN e il Myanmar, si poteva affermare senza alcuna remora che la Thailandia fosse il suo principale alleato. Non si sono mai frapposti tra i due Paesi veri e propri contenziosi territoriali, a differenza di quelli perduranti con Vietnam e Filippine per la sovranità sulle Spratly, o interetnici. La comunità cinese in Thailandia che rappresenta il 15% della popolazione, dopo aver superato la furia anticinese esplosa negli anni trenta, è oggi integrata e partecipa alla vita politica ed economica del Paese (lo stesso ex Primo Ministro Thaksin Shinawatra è sino-thailandese). A far convergere gli interessi thailandesi con quelli cinesi è anche la comune lotta contro il terrorismo di matrice islamica e l’esercizio della sua influenza sui movimenti separatisti e nazionalisti Malay nel Pattani thailandese e Uiguri nello Xinjiang cinese.

 

Le relazioni tra la Cina e la Thailandia, due Paesi vicini,phuean baan”, due “Paesi fratelli”, come ama definirli la retorica pubblica governativa, pendolano tra identità di interessi e cooperazione. La Thailandia cerca di conquistare un posto di rilievo nell’arena asiatica, mentre la grande Cina si affaccia con determinazione nello spazio marittimo, intrecciando le antiche vie della seta con le nuove rotte commerciali oceaniche.

 

Chi domina sul mare, domina sul commercio. Chi domina sul commercio mondiale domina sulle risorse mondiali e, di conseguenza, domina sul mondo intero”.

 

E pensare che a pronunciare queste verità fu Sir Walter Raleigh della Marina militare britannica nel lontano XVII secolo.

 

Dolores Cabras

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Libera informazione al Cairo?

L'Egitto sta considerando di approvare una legge sulla libertà di informazione: si tratterebbe di un bel passo in avanti sulla strada della democrazia per uno Stato che fino a pochi mesi fa era governato da un regime autoritario. Tra il dire e il fare, come sempre, la distanza è sempre ampia. Ecco dunque i dubbi e le perplessità sulla reale efficacia che avrebbe l'implementazione di tale progetto

Tratto da Notizie Radicali

VIA IL BAVAGLIO? – Per la prima volta nella storia del suo sistema legale e dopo vari tentativi falliti, nelle prossime settimane l'Egitto potrebbe finalmente elaborare la bozza di una legge sulla libertà d'informazione. La legge proposta dovrebbe istituire un procedimento volto a permettere ai cittadini egiziani di accedere alle informazioni del governo, a cui è richiesto tra l'altro di render pubblico un maggior numero di informazioni. La proposta di legge che l'Egitto sta considerando è stata elaborata da Toby Mandel, esperto di legislazione sull'informazione, Presidente del Centro per il Diritto e la Democrazia con sede negli Stati Uniti e consulente della Banca Mondiale.

Attualmente, il Centro per l'Informazione e il Sostegno alle Decisioni del governo (IDSC) sta esaminando la bozza insieme ad attivisti dei diritti umani, accademici e giornalisti.

Mohamed Ramadan, direttore dell'IDSC, ritiene che i recenti sviluppi siano positivi ma, al tempo stesso, prevedibili: “nel 2000, soltanto 19 Paesi avevano delle leggi sulla libertà d'informazione. Da allora al 2010, circa 90 Paesi si sono dotati di una legge in materia”. Sulla scena internazionale, le leggi sull'informazione sono state spesso utilizzate come misure anti-corruzione, soprattutto in quei Paesi in cui tale pratica è particolarmente radicata: basti pensare alla Legge Federale su Trasparenza ed Accesso alle Informazioni Pubbliche del governo in Messico (2002) o alla Legge sul Diritto all'Informazione in India (2005).

Secondo Ramadan, la legge attualmente in esame si inserisce perfettamente nella fase di transizione democratica che l'Egitto sta vivendo. “Dal punto di vista del governo, garantire l'accesso alle informazioni potrebbe rivelarsi il modo migliore per mostrare responsabilità e gestire le aspettative”, afferma.

LA BOZZA – Ramadan spera che si possano finalmente cogliere i frutti di questi sforzi di collaborazione, dopo gli almeno 10 tentativi falliti di elaborazione di una legge in materia.

“Si nota una predisposizione generale del governo a coinvolgere la società civile che va valutata positivamente”, afferma Amr Gharbeia, responsabile dei progetti su tecnologia e informazione dell'Iniziativa Egiziana per i Diritti della Persona e personalmente coinvolto nel processo di stesura della bozza.

La bozza, che consta di 38 articoli, disciplina il procedimento tramite il quale i cittadini possono accedere alle informazioni del governo. È divisa in 9 sezioni che si occupano di definizioni chiave, diritto di accesso, pubblicazione regolare delle informazioni, il procedimento necessario per richiedere e ottenere informazioni, eccezioni al diritto di accesso, meccanismi di promozione e sanzioni.

Per quanto riguarda la prima sezione della legge, i membri della società civile coinvolti nella stesura della bozza hanno insistito sulla definizione di alcuni termini che, altrimenti, la legge avrebbe soltanto citato, lasciando così la possibilità di restringere arbitrariamente l'accesso alle informazioni.

“Abbiamo lavorato sulla definizione di 'sicurezza nazionale', esercizio importante anche al di fuori del ristretto ambito di tale legge. Il 28 gennaio, ad esempio, le comunicazioni sono state interrotte ricorrendo alla scusa della 'sicurezza nazionale'”, ricorda Gharbeia.

Nell'emendamento proposto, i membri della società civile hanno definito la sicurezza nazionale in relazione alle informazioni militari, come quelle sull'acquisto e la produzione di armi, i piani militari e le minacce straniere alla sicurezza del Paese.

Per quanto riguarda le eccezioni, che istituiscono limiti legali al diritto di accesso alle informazioni, le parti coinvolte nella stesura della legge hanno cercato di minimizzarle. Fra le eccezioni previste, val la pena di citare: informazioni che potrebbero danneggiare indagini di polizia; informazioni private su un terzo; questioni di sicurezza nazionale così come definite nella prima sezione della bozza; informazioni che potrebbero danneggiare alle politiche di sviluppo del governo.

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DUBBI – Sebbene molti concordino nel ritenere che questa bozza sia promettente e ambiziosa, permangono comunque alcuni dubbi e preoccupazioni sulla sua implementazione. Le istituzioni governative, ma non solo, non hanno mai applicato un sistema di gestione della documentazione che permetta un facile accesso. “Abbiamo alle spalle una lunga storia di inefficienza nel sistema di gestione della documentazione che non ne facilita l'utilizzo e la circolazione”, aggiunge Gharbeia.

Un altro possibile ostacolo all'implementazione della legge consiste nell'attuale sistema normativo, potenzialmente in contrasto con quanto previsto da questa bozza. “Stiamo lavorando basandoci sul presupposto che la legge recente abroghi quella precedente”, afferma Ahmad Ezzat, avvocato dell'unità legale di Libertà di Pensiero e di Espressione, ONG che si occupa di queste questioni. “Ciò che conta è prevedere un meccanismo costituzionale che protegga la legge”.

Ezzat aggiunge che, nella Costituzione del 1971, il diritto all'informazione era limitato ai giornalisti a discapito della gente comune. Ciò vuol dire che gli attivisti per i diritti umani potrebbero trasferire la battaglia per la libertà di informazione al dibattito sulla nuova Costituzione, la cui stesura dovrebbe cominciare dopo le elezioni di settembre.

Ezzat nutre dei seri dubbi sulla possibilità che la proposta di legge sull'informazione, comprendente tutti gli emendamenti aggiunti, venga accettata dal governo e dal Consiglio Militare attualmente al potere. “Lo Stato, a partire dall'ultimo impiegato nella scala gerarchica fino ad arrivare ai livelli dirigenziali, tratta ancora le informazioni alla stregua di armi ed esplosivi. È un'eredità che ci portiamo dietro da tanto tempo e che potrà essere cambiata solo con una reale volontà politica in tal senso”, afferma.

La volontà politica di cui parla Ezzat non è scontata. L'adozione di una legge sulla libertà di informazione è stata da più parti associata alla volontà dell'Egitto di ricevere i fondi di sviluppo e di investimento di organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Perché questi fondi vengano erogati, la responsabilità del governo nei confronti dei cittadini è un prerequisito indispensabile.

“Cose come una legge sulla libertà di informazione dovrebbero essere viste come una condizione positiva”, afferma Amy Ekdawy, manager del programma regionale al Centro di Informazione Bancaria basato negli Stati Uniti e supervisore delle politiche della Banca Mondiale. “La gente è molto sensibile ai temi della condizionalità e della sovranità nazionale. Ma in questo caso si parla solo di responsabilità”.

Ekdawy aggiunge che i prestiti allo sviluppo della Banca Mondiale consistono in una forma di finanziamento che confluisce direttamente nel bilancio statale quindi l'esborso non può essere attribuito ad un progetto concreto. “Con un governo in transizione come quello che si vede oggi in Egitto, i donatori necessitano di misure straordinarie per assicurare la trasparenza e la responsabilità, soprattutto laddove si consideri che il debito ricadrà sulle spalle delle generazioni future”.

Sabato scorso, il Ministro delle Finanze Samir Radwan ha dichiarato che, dopo aver rivisto il bilancio e ridotto le previsioni di debito, l'Egitto non chiederà alcun prestito alla Banca Mondiale o al Fondo Monetario Internazionale.

Resta da vedere se questa mossa avrà ripercussioni sull'adozione della bozza di legge sulla libertà d'informazione che, come già sottolineato, potrebbe essere un incentivo all'approvazione di questi prestiti.

Lina Attalah Sun (per www.almasryalyoum.com ) – traduzione di Federica Favuzza

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