venerdì, 19 Dicembre 2025

APS | Rivista di politica internazionale

venerdì, 19 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

Home Blog Page 588

Nuova musica ad Haiti

0

L’elezione del cantante Michel Martelly a Presidente della Repubblica della piccola nazione caraibica é stata ufficializzata lo scorso 20 aprile con la pubblicazione dei risultati finali del secondo turno elettorale. Com’é giunto uno showman ad occupare la piú alta carica dello stato? E, soprattutto, sará in grado di raccogliere le sfide che presenta la tempestosa politica haitiana?

 

MUSICA AL POTERE – Se fosse accaduto in Europa o in un altro paese occidentale la cosa  avrebbe probabilmente fatto scalpore o per lo meno sollevato commenti e qualche dubbio. Trattandosi invece di un paese del cosiddetto “terzo mondo”, e piú precisamente di Haiti, l’elezione a Presidente della Repubblica di un popolare cantante di “compas”,  l’equivalente della salsa e merengue nel resto dei Caraibi, non ha invece sorpreso piú di tanto. E con ció, non ci riferiamo alle reazioni internazionali, per le quali la politica interna haitiana é poco piú di una sconosciuta, ma alla stessa opinione pubblica del povero paese caraibico per cui la professione del nuovo leader non é stato tema di dibattito. Al contrario, la sensazione é che si trattasse della cosa piú normale del mondo.

 

VERO CAMBIO? – La ragione fondamentale, per lo meno per la maggior parte degli haitiani che hanno issato Michel Martelly (alias “Sweet Mickey” sul palcoscenico) alla piú alta carica della nazione é il “cambiamento” che il sorprendente candidato rappresenta ai loro occhi -oltre che per sua stessa ammissione durante la campagna elettorale- rispetto ad una classe politica che giudica vecchia e corrotta (Haiti occupa gli ultimi posti nella classifica della corruzione stilata annualmente da Transparency International, un think tank europeo) responsabile a suo dire del declino del paese durante gli  ultimi 20 anni. Haiti rimane infatti il paese piú povero dell’emisfero occidentale ed i suoi indicatori di sviluppo sono peggiorati durante questo periodo.

Se non é stato sorprendente, quindi, che un esponente della canzone popolare si candidasse, la sua vittoria elettorale é stata ricevuta con entusiasmo nel paese e soddisfazione della comunitá internazionale, USA, Francia e Canada e ONU in primis (gli “amici” di Haiti), che hanno cosí potuto tirare un respiro di sollievo per il fatto che l’esito delle urne non sia sfociato nelle temute manifestazioni di protesta che avevano invece caratterizzato il primo turno. Michel Martelly è così divenuto il 56° Presidente della Repubblica di Haiti ed il primo a non appartenere alla classe politica tradizionale, anche se alcuni critici segnalano i suoi legami con il vecchio regime duvalierista.

 

PERCHE’ MARTELLY – La popolaritá conquistata sulla scena musicale oltre che l’insoddisfazione della gente verso la politica tradizionale, comunque, non sono state l’unica arma a disposizione di Martelly. In parte grazie all’esperienza di showman accumulata  negli anni da musicista, in parte per il pubblico giovane al quale si rivolge, la sua campagna elettorale si é valsa anche di un’efficace macchina comunicativa L’appoggio di Wyclef Jean, membro della band americana Fugees, uno degli haitiani piú noti in patria e all’estero ha poi permesso di formare un “duo” che si é rivelato irresistibile per i suoi sostenitori che hanno invaso le strade delle principali cittá facendo presagire un’ampia vittoria ben prima della proclamazione dei risultati il 20 aprile scorso che hanno incoronato Martelly con il 70% delle preferenze. La comunicazione, per l’appunto, é il campo sul quale la sua ben piú anziana contendente, Myrlande Manigat, ha sicuramente perso la campagna. Giunta in testa al primo turno, le ambizioni di questa ex first-lady del primo governo democratico post-duvalierista della storia haitiana sono svanite completamente, sommerse dagli slogan pro-Martelly proclamati dalle manifestazioni spontanee dei suoi sostenitori. La responsabilitá di Manigat, sulla quale riponevano la loro fiducia alcune frange piú progressiste della borghesia haitiana é stata soprattutto di non saper modificare la sua strategia, orientandola verso i giovani, il nocciolo elettorale di Martelly, in un paese in cui il 70% della popolazione ha meno di trent’anni. E ció a discapito della lunga carriera da accademica in una prestigiosa universitá haitiana.

 

content_758_2

LUCI E OMBRE – Sull’esito elettorale calano comunque alcune ombre. La prima riguarda la partecipazione. Seppur in ascesa (16 % degli aventi diritto)  rispetto alla misera media del 10% per le elezioni in Haiti, questa rimane minima comparata con gli sforzi profusi dalle Nazioni Unite per organizzarle (oltre 30 milioni di dollari), un magro risultato influenzato -forse- dai rumori del ripetersi delle violenze prodotte in seguito all’esclusione di Martelly al primo turno, poi reintegrato nella corsa elettorale dalla revisione dei risultati effettuati da una commissione internazionale. Un secondo dubbio, legittimo, riguarda se Martelly incarnerá davvero il cambio nella politica haitiana, e ció non solo per il fatto d’appartenere alla piccola elite haitiana i cui interessi di fatto differiscono da quelli della maggioranza. Il partito del governo uscente, l’INITE, nonostante la sconfitta sul fronte presidenziale é forse il vero vincente delle elezioni essendo riuscito a strappare il maggior numero di deputati e senatori. Giá maggioritario al senato, si aspetta attualmente l’esito di 18 circoscrizioni contestate che se dovessero anch’esse essere assegnate all’INITE, come la prima pubblicazione dei risultati aveva stabilito, consegnerebbero al partito del presidente uscente René Preval, la maggioranza assoluta anche alla camera bassa, limitando cosí i margini di manovra del nuovo governo.

 

LE SFIDE – Peraltro, oltre alla leadership esposta da Martelly in campagna elettorale, questi dovrá rapidamente dimostrare capacitá strategiche e diplomatiche tali da discutere da pari a pari con le Nazioni Unite ed i donanti che assicurano con le loro contribuzioni l’80% del budget statale. Per il momento le azioni del presidente eletto suggeriscono moderazione. Il gruppo parlamentare che lo sostiene ha raccolto solamente tre deputati e un senatore, confermando la campagna “ad personam” diretta dal clan Martelly che ha snobbato l’altrettanto importante corsa per il legislativo. Ancor prima di assumere ufficialmente le sue funzioni il 14 maggio prossimo, Martelly si recherà a Washington dove ha assicurato a Hillary Clinton ed ai presidenti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale che “il paese é pronto a ricevere gli investimenti stranieri nell’industria ed il turismo”, in declino dopo due decenni d’instabilitá. Nonostante ció, tali politiche basate sullo sfruttamento della manodopera a basso costo (abbondante sull’isola)  giá applicate nel passato non hanno dato i risultati sperati. In contraddizione, lo stesso Martelly in campagna elettorale aveva messo in avanti il rilancio del settore agricolo che occupa il 60% della popolazione attiva e conta ancora, nonostante l’assenza di piani di sviluppo integrale, la deforestazione e la crisi imperante dei rifiuti ed ambientale, per il 30% della ricchezza del paese. In terzo luogo, un po’ alla sorpresa generale, Martelly ha dichiarato di voler ristabilire una forza militare nazionale -dissolta dal Presidente Aristide nel 1994 dopo che un colpo di stato lo evincesse per tre anni dal governo- un’affermazione che ha provocato una velata sorpresa ai vertici delle Nazioni Unite che dal 2004 assicurano la sicurezza per mezzo di 13,000 caschi blu dispiegati sul territorio nazionale.

Fra gli obiettivi dichiarati, inoltre, c’é la ricostruzione dal terremoto devastatore del 2010 che ha provocato 300,000 morti ed un milione di rifugiati interni -di cui 600.000 permangono oggi in accampamenti d’assistenza- , il rilancio dell’economia (i danni calcolati del terremoto ammontano a 120% del PIL nazionale) e l’educazione universale e gratuita. Martelly pensa inoltre che la riconciliazione nazionale é una condizione essenziale per rilanciare il paese sulla via dello sviluppo. Non sorprenderá, quindi, che –come lui stesso ha dichiarato- una delle sue prime decisioni sará d’amnistiare gli ex presidenti Jean Claude Duvalier e Bertrand Aristide, ritornati recentemente in Haiti dopo anni di esilio volontario, il primo, e forzato, per il secondo. Saggiamente, sembra che Martelly sia dell’avviso che eventuali problemi conviene risolverli all’inizio. Un’opinione che le organizzazioni di difesa dei diritti umani che reclamano giustizia per le vittime, in particolare del regime duvalierista, non condividono.

 

Gilles Cavaletto

Una crisi emblematica – 2

Ecco la seconda parte del nostro viaggio in Costa D'Avorio, uno dei Paesi potenzialmente più ricchi dell'Africa il cui sviluppo è stato frenato dalla instabilità istituzionale. Presentiamo la figura di Laurent Gbagbo, il Presidente che, dopo aver perso le ultime elezioni, per mesi si è rifiutato di lasciare il potere. Ripercorriamo infine le ultime tappe che portano fino agli eventi degli ultimi giorni

UN PROCESSO ELETTORALE INFINITO –  Nel frattempo, il mandato di Gbagbo, scaduto nel 2005, era stato prolungato da una risoluzione ONU sino al momento della tenuta di nuove elezioni. La risoluzione crea anche l’ONUCI, contingente dicaschi blu schierato per vigilare il cessate il fuoco. Le Nazioni Unite sono anche incaricate di “certificare” il risultato elettorale, una funzione chiave nello sviluppo della crisi.

Dal 2007 al 2010 le elezioni sono rinviate infinite volte, a causa del prolungarsi delle operazioni di censimento, rese estremamente complicate dalla carenza di uffici dello stato civile nel nord del paese, dalla distruzione di molti di essi, dalla pratica divisione in due del paese che rende complessa l’obiettività del processo di ricostituzione di tali registri, premessa per la successiva iscrizione nei registri elettorali.

L’operazione va avanti lentamente, per l’esasperazione sia della comunità internazionale, che finanzia il tutto, compresa una carissima informatizzazione di tutto il processo che ha come obiettivo quello di ricostruire su basi durature lo stato civile del paese che di una popolazione che stenta a capire i tecnicismi d’un processo divenuto bizantino. Il presidente Gbagbo pare non preoccuparsi troppo dei ritardo, installato comodamente com’è al potere e in pieno controllo delle maggiori fonti di divise del paese, situate nel sud. Il suo obiettivo era che si votasse solo quando la lista fosse stata sufficientemente depurata da tutti i casi sospetti di nordisti in modo tale da garantirgli la rielezione.

FINALMENTE SI VOTA – Dopo l’ennesimo blocco al processo, il presidente della CENI, inviso a Gbagbo, viene destituito. Si giunge finalmente al voto con una lista accettata dai tre principali candidati (Gbagbo, Ouattara, Bédié). Al primo turno prevalgono i primi due candidati (38 e 32%), con Bédié (25%) che invita i suoi elettori a votare Ouattara al secondo turno.

Diverse le cattive notizie del primo turno per Gbagbo: non solo i voti ottenuti sono meno di quelli che lui prevedesse, ma oltre alla scelta di Bédié, prevista, si rivelano delle tendenze elettorali che non seguono le divisioni etniche, scaricando quindi l’arma della retorica di Gbagbo.

Per il secondo turno, Gbagbo punterà su un’altro argomento, che userà anche nel dopo – elezioni: si presenterà come il difensore dell’africanità contro un Ouattara venduto ai bianchi (sposato con una francese, a lungo residente all’estero e in buoni rapporti con la comunità finanziaria internazionale). È questo un motivo sempre elettoralmente forte in Africa, usato specialmente da presidenti di lunga data a corto d’altri argomenti (la sua massima espressione ne è Mugabe, ma molti altri l’hanno usata in simili circostanze, lo stesso “re dei re africani” Gheddafi ci ha vissuto per anni).

UN PERIODO POST–ELETTORALE CONFUSO – Le elezioni andranno in un altro modo: al secondo turno s’impone Ouattara. Così lo proclama la CENI, e lo certificano le Nazioni Unite e le varie misisoni d’osservazione elettorale internazionali, compresa quella dell’UE. Gbagbo, che non aveva mai pensato di poter perdere (da antico oppositore al regime personalista di Houphouët, si era trasformato nel tipico presidente africano convinto d’avere il diritto – dovere di governare sino alla morte), viene preso alla sprovvista e forza il Tribunale Costituzionale, formato da fedelissimi, a rovesciare il risultato elettorale sulla base dell’annulamento selettivo del voto in intere sezioni elettorali del nord. Il tutto viene fatto senza il minimo elemento probante e senza nemmeno seguire i procedimenti previsti dalla legge. La proclamazione della rielezione di Gbagbo è una farsa ma, a differenza di simili farse successe in passato in Africa, non è accettata dalla comunità internazionale che riconosce praticamente in toto Ouattara come presidente legittimo.

content_756_2

UNA MEDIAZIONE IMPOSSIBILE – I differenti sforzi di mediazione dell’Unione Africana e le minacce d’intervento militare della CEDEAO, l’organizzazione regionale cui appartiene la Costa d’Avorio, non hanno sortito effetto alcuno su Gbagbo, rinchiuso nel suo palazzo in preda ad autismo e ai suoi proclami di guerra contro il mondo.

Ouattara, presidente riconosciuto del paese, nomina un governo (diretto da Soro) rinchiuso nell’Hotel Golf di Abidjan, cui si limita la sua giurisdizione e protetto dalle forze ONUCI.

Finchè Gbagbo riesce a mentenere accesso ad alcuni conti bancari statali può tenersi fedele l’esercito. Gli eventi nel Nordafrica distraggono l’attenzione internazionale da Abidjan, facendo sperare a Gbagbo di potercela fare. Lui perde tempo, ma il congelamento dei conto ivoriani alla banca centrale regionale (BECEAO) e l’embargo internazionale sul commercio ivoriano strangolano Gbagbo.

LE LEZIONI DELLA CRISI – La comunità internazionale ha fatto bene a appoggiare Ouattara: la sua vittoria elettorale è indiscutibile, e avallare una situazione di fatto avrebbe avuto conseguenze catastrofiche sullo stato della democrazia in Africa, un esercizio ancora in corso. Sicuramente non sarrebbe stata malvista una soluzione consensuale, sulla falsariga dei governi d’unità nazionale creati in Kenya e Zimbabwe per risolvere le crisi elettorali del 2007 e del 2008 rispettivamente. Ma quei governi sono asfittici e non governano, in preda a contraddizioni di fondo. È senz’altro preferibile assecondare l’idea che il risultato delle elezioni si rispetta, un concetto non ancora del tutto acquisito nel continente africano.

In questo la soluzione delle crisi ivoriana rappresenta un passo avanti, anche se purtroppo non è stato possibile evitare che la situazione si sbloccasse mediante l’offensiva militare delle Forces Nouvelles e l’intervento, su risoluzione ONU, del contingente francese.

L’alternativa sarebbe stata una nuova sanguinosa guerra civile e la delegittimazione della democrazia elettorale in Africa.

IL FUTURO DELLA COSTA D’AVORIO – Ovviamente, la crisi ivoriana, così prolungata nel tempo, ha avuto effetti disatrosi sull’economia nazionale, e ci vorrà tempo per superare le ferite di tale conflitto. Gbagbo verrà giudicato in patria, e sarà necessario vigilare sulla correttezza di tale processo. Oggi come oggi pare difficile una soluzione di compromesso tra parti profondamente divise.

La crisi ivoriana è emblematica delle difficoltà che affronta la democrazia per affermarsi in Africa, tra cultura tribale, gestione personale del potere, debolezza delle strutture statali e retorica populista ”anti bianca”. Il vero problema rimane il modo in cui gli uomini di stato gestiscono il potere, spesso a uso esclusivo del loro clan. Il vantaggio della Costa d’Avorio è la ricchezza del paese, che può rilanciarla rapidamente se usata in modo trasparente.

È questa la grande sfida di Alassane Outtara, divenuto finalmente presidente diciott’anni dopo la morte di Houphouët. Rilanciare il paese mediante una gestione finalmente democratica e ricostruire la concordia nazionale perduta.

La crisi ivoriana è stata tutto fourchè una delle qualsiasi indecifrabili crisi africane: è stato un momento di svolta che può marcare in positivo il futuro della democrazia africana.

Stefano Gatto

[email protected]

Burkina Faso: una rivolta invisibile

Vanno avanti da settimane le manifestazioni che hanno portato la popolazione a criticare violentemente l'operato del governo del presidente Blaise Compaoré, al potere da 24 anni. Le proteste anti-governative stanno guadagnando spazio, e Ouagadougou continua ad essere teatro di manifestazioni brutalmente represse dalla polizia

IL BURKINA IN GINOCCHIO – Quella che era iniziata come protesta studentesca, ora sembra trasformarsi in un movimento di protesta nazionale in Burkina Faso. Decine di soldati del reggimento presidenziale del Burkina Faso si sono ammutinati la notte fra il 14 e il 15 Aprile a Ouagadougou, la capitale, e si sono riversati nella strade sparando in aria per diverse ore. Gli ammutinamenti si diffondono nelle caserme di tutto il paese e secondo fonti militari è stata saccheggiata la residenza del generale Dominique Diendierè, Capo di Stato Maggiore del Presidente. I soldati si sono ribellati per il mancato pagamento di una indennità di alloggio che era stata loro promessa. Solo poche ore prima dell’ammutinamento, decine di migliaia di burkinabè avevano manifestato contro il carovita: all’origine del sollevamento ci sono infatti questioni essenzialmente economiche. Decine e decine di commercianti hanno voluto manifestare contro la decisione del Sindaco Seydou Zagre, membro del partito al potere, di chiudere una quarantina di negozi che non avevano pagato le tasse. In pochi giorni la rivolta si è estesa a quattro città nei pressi della capitale. Le manifestazioni che si diffondono in Burkina Faso sono un sintomo della grande povertà della popolazione, che non è in grado di far fronte agli aumenti dei prezzi.

COMMERCIANTI E MILITARI CONTRO COMPAORE – La crisi economica è forte e i burkinabé vogliono una più equa distribuzione delle ricchezze del paese, attualmente controllate da un clan privilegiato vicino al potere. Anche gli studenti hanno aderito alla manifestazione. Le proteste hanno già assunto in diverse occasioni dei contorni violenti, come ai primi di aprile, quando è stato dato fuoco alla casa del primo ministro uscente e alla sede del partito al potere in Koudougou. Le proteste sono state anche alimentate dalle repressioni delle forze di sicurezza, che avrebbero anche causato la morte di un studente.

L’ondata di proteste ha dunque visto in strada tanto i militari quanto gli studenti, e potrebbe addirittura continuare a rafforzarsi coinvolgendo altre parti della società. Probabilmente anche ispirate dal successo e dalla visibilità dei movimenti di protesta nell'Africa del Nord ed in Medio Oriente, queste forze sembrano unirsi in un'alleanza contro il regime di Compaoré. La rabbia ormai esplosa nelle piazze non sembra placarsi, nonostante il coprifuoco decretato dal Presidente, che ha sciolto il governo e rimosso dal loro incarico due importanti capi dell’esercito e sostituito sia alcuni ministri che il Capo dello Stato Maggiore e il capo della guardia presidenziale.

MISERIA E CORRUZIONE: UN COCKTAIL ESPLOSIVO – Le rivendicazioni salariali dei militari sono una delle tante facce di una situazione esplosiva a causa della grande povertà della popolazione. Una conseguenza sia della crisi economica sia della corruzione ai vertici dello stato. Il Burkina Faso è uno dei paesi più poveri al mondo, con un’economia che si basa soprattutto sull’agricoltura. Ma in questo momento la coltura principale, il cotone, di cui il paese è il primo produttore in Africa, è in crisi a causa della dura concorrenza del cotone americano. Anche il conflitto politico in Costa d’Avorio ha contribuito ad affossare l’economia burkinabè perché, in mancanza di un accesso al mare, buona parte dei generi di prima necessità passano per la Costa d'Avorio, i cui porti sono stati a lungo inservibili. Di conseguenza i consumatori hanno dovuto fare i conti con l’inflazione, che ha innescato le proteste contro il carovita. I burkinabè denunciano anche la corruzione ai vertici dello stato, che ha creato un abisso tra l’elite dei privilegiati e le masse impoverite. Il clan che si è formato intorno al presidente Compaoré somiglia a quello di Ben Ali in Tunisia, perché si è espanso in tutti i settori dell’economia, dall’agricoltura estensiva alle miniere.

In Burkina Faso non esiste un’opposizione in grado di sfidare il potere, creando alternanza politica. Anche per questo, nonostante sia al potere da 24 anni, Compaoré è stato rieletto presidente nel 2010 con l’80% dei voti.

PROSPETTIVE – Compaoré si era impegnato a rispondere alle esigenze degli ufficiali dell'esercito e a cercare di affrontare i problemi sollevati dai sindacati irritati dal costo della vita. Egli ha spesso ricoperto il ruolo di mediatore nell’Africa Occidentale, ma la sua immagine di peace-maker è ora offuscata e la sua posizione indebolita anche agli occhi dei paesi vicini. Inoltre, agli occhi dei militari, la sua posizione potrebbe ulteriormente aggravarsi a fronte della "mossa pericolosa" che ha compiuto assumendo il ruolo di capo della difesa il 21 aprile scorso. Il Presidente ha ancora spazio di manovra, a patto che egli affronti i problemi della impunità e i problemi economici del paese. Compaoré potrebbe anzitutto avere bisogno di intraprendere subito una riforma del settore della sicurezza, ciò che potrebbe garantirgli nuovo supporto dai militari, nuova capacità di gestire le sommosse e la possibilità di tentare di ripristinare l'ordine nel paese e di intraprendere le riforme che potrebbero consentirgli di rimanere ancora al potere.

 

Adele Fuccio

[email protected]

L’Italia unita con la forza (della diplomazia)

0

Caffè150 – Le vicende legate alla fine prematura della seconda Guerra d’Indipendenza e l’inizio della Terza mostrano quanto accordi segreti e retroscena diplomatici abbiano influito sul processo di unificazione italiana. I rapporti bilaterali con Austria, Francia e Prussia furono contraddittori e non sempre proficui e, insegnarono all’appena nata Italia (e agli italiani) quanto difficile potesse essere ottenere il rango di potenza europea

 

LA VITTORIA NON BASTA – La mattina del 27 giugno 1859, due giorni dopo le schiaccianti vittorie riportate a San Martino e a Solferino, il contingente Franco-Sardo riprese la marcia verso Est, puntando verso il “Quadrilatero” al di là del fiume Mincio, dove le truppe Austriache si era ritirate dopo la sconfitta. Qual mattino, dovette sembrare davvero che le sorti della guerra stessero volgendo a favore di Vittorio Emanuele II che, con l’aiuto delle armate di Napoleone III, era già riuscito a scacciare gli austriaci dalla Lombardia. A questo punto non rimaneva che puntare alla conquista del Veneto che, viste le recenti vittorie, sarebbe stata solo una questione di tempo. Ma nonostante l’ottimismo, il pragmatico sovrano di Francia sapeva perfettamente che ci sarebbe voluto tempo per espugnare le fortezze austriache e che, nel frattempo Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, avrebbe potuto approntare nuove armate da mettere in campo. Inoltre, sebbene gli accordi prevedessero, in caso di vittoria, un cospicuo bottino (la Savoia e Nizza) per i francesi, la guerra italiana stava costando moltissimo a Napoleone in termini di vite e, soprattutto di consenso sia nel suo regno che nelle corti Europee.

 

PERCHÉ FINIRE COSÌ? – Infatti, le vittorie messe a segno dalla coalizione, avevano innescato dei pericolosi dissesti sullo scacchiere internazionale. La Prussia, membro della Confederazione Germanica di cui l’Austria era la guida, era preoccupata da possibili ulteriore annessioni francesi e tentò la leva della mediazione attraverso una duplice e astuta mossa: cercò l’appoggio del primo ministro Palmerston in Inghilterra e dello zar Alessandro II di Russia, i quali, seppure in misura minore, non vedevano di buon occhio le vittorie piemontesi; e al tempo stesso, schierò sei divisioni lungo il Reno pronte all’ordine di invasione dell’Alsazia e della Lorena. La posta in gioco era alta e, una mediazione alla pace condotta da Regno Unito, Prussia e Russia avrebbe screditato Napoleone III agli occhi dell’intera Europa. Di fatto però, il sovrano francese decise di non correre rischi e, all’insaputa di Vittorio Emanuele II, cercò la pace con Francesco Giuseppe d’Austria.

 

LA PACE FORZATA – Il giorno seguente il sovrano piemontese venne messo al corrente della volontà dei belligeranti di firmare una tregua alla quale egli non poté rifiutarsi. Così, la mattina dell’8 luglio, il maresciallo Hess, il maresciallo Vaillant e il generale Della Rocca si riunirono a Villafranca, da qui il nome dello storico armistizio, dove decisero che la tregua sarebbe durata fino al 15 di agosto. In realtà tutto si sarebbe concluso due giorni dopo. Le trattative si tennero a Verona tra l’11 e il 12 luglio. La pace prevedeva la cessione della Lombardia (senza le fortezze di Mantova e Pesciera) alla Francia, che sarebbe passata al Regno di Sardegna come da accordi, il Veneto sarebbe entrato nella Confederazione Italiana rimanendo austriaco e, il Duca di Modena e il Granduca di Toscana avrebbero concesso amnistia.

 

content_755_2

UNA NUOVA OCCASIONE – Dopo le annessioni del 1860-61 l’Italia cercò di sfruttare le nuove tensioni presenti in Europa per riuscire a marciare finalmente su Venezia. La relazione tra Napoleone III e il Regno d’Italia si era particolarmente raffreddata (per via dell’invasione delle Marche e dell’Umbria), così il primo ministro La Marmora (nell’immagine sopra) e Vittorio Emanuele cominciarono a cercare, sebbene in modi diversi, rispettivamente un accordo di alleanza con la Prussia e un contatto diplomatico segreto con gli Asburgo.

 

UN NUOVO COMODO ALLEATO – Tra il 63 e il 64, l’Austria stava affrontando una pesante crisi finanziaria ed era minacciata dalla Prussia che, nel frattempo, aveva intrapreso la strada per diventare la maggiore potenza germanica. Vista la situazione, e temendo un intervento italiano a fianco della Prussia, Vienna cercò un compromesso offrendo il Veneto al neonato Regno in cambio della neutralità. Ma gli accordi segreti tra La Marmora e Bismarck (immagine a destra) erano già a buon punto e, il generale italiano era convinto che un intervento italiano avrebbe potuto portare all’annessione del Trentino, oltre a quella del Veneto. In realtà così non fu. Quando nel 1866, Prussia e Italia firmarono l’accordo definitivo, Berlino definì precisamente che in caso di vittoria il Trentino sarebbe stato prussiano. Per l’opinione pubblica Prussiana infatti rimaneva importante il concetto di “confini degli stati germanici”, qualcosa che andava in contrasto con le idee italiane. Per gli stati tedeschi infatti anche il Trentino e la Venezia Giulia erano da considerarsi storicamente “germanici” e dunque non potevano e non dovevano cadere sotto il controllo di una qualsiasi potenza non germanica (Austria o altri paesi tedeschi). Era una questione tanto di prestigio quanto di praticità: se un esterno avesse preso possesso di quelle provincie, allora sarebbe stato legittimato a proseguire anche con tutte le altre. Una minoranza intellettuale a Berlino arrivava ad allargare il concetto anche al Veneto, ma questa posizione (peraltro anche storicamente meno giustificabile) fu presto sacrificata davanti alla necessità dell’alleanza. L’accordo inoltre prevedeva che nessuno dei due paesi potesse concedere l’armistizio senza l’assenso ufficiale dell’alleato. Il conflitto ebbe inizio il 17 giugno dello stesso anno. L’Italia entrò in guerra il 20 del mese.

 

LA PACE FORZATA #2 – Il 26 luglio, acquisiti i propri obiettivi militari, Bismarck firmò l’armistizio con l’Austria senza interpellare il governo italiano, violando apertamente i patti dell’8 aprile. Vittorio Emanuele II, sconfitto più volte per terra (Custoza) e per mare (Lissa), si trovò nelle condizioni di non poter continuare il conflitto da solo nonostante alcuni progressi minori successivi ai due disastri; fece così arrestare anche l’avanzata vittoriosa di Garibaldi su Trento, il quale rispose al dispaccio con il celebre “Obbedisco”. Il 26 agosto del 1866 fu un giorno umiliante per il Regno d’Italia. Nessuna autorità italiana fu invitata a prendere parte alla Pace e il Veneto venne ceduto a Napoleone III (che indirettamente lo cedette all’Italia).

 

Paolo Iancale

[email protected]

Ultim’ora, Palestina

Da fonti locali attendibili apprendiamo che sarebbe saltata, per il momento, la firma dell'accordo tra Fatah e Hamas a causa di divergenze sulla politica estera del futuro esecutivo. Vi teniamo aggiornati sugli sviluppi, per vedere se il tutto rientra o sarà rottura vera. Altre volte si era bloccato tutto a un passo dall'accordo, quest'ultima sarebbe particolarmente clamorosa.

blank

Una crisi emblematica – I

Quanto accaduto nelle scorse settimane in Costa d'Avorio con l'arresto del presidente uscente Gbagbo (foto) non si può semplicemente catalogare alla voce “drammatico risvolto post elezioni”. La semplificazione mediatica è assai lontana dal comprendere le vere ragioni dello scenario ivoriano. Per andare a fondo della questione è necessario ripercorrere il cammino storico del Paese, per capire come la prosperità di un tempo sia potuta naufragare in guerra civile. Il Caffè, in due puntate, vi accompagna in questo viaggio

UNA CRISI AFFATTO BANALE – La crisi sviluppatasi in Costa d’Avorio e solo recentemente conclusa con l’esautorazione del presidente uscente Laurent Gbagbo è emblematica di alcune delle difficoltà cui deve far fronte la democrazia in Africa. I media e la maggior parte degli analisti si sono generalmente occupati dello stallo post-elettorale, con un presidente uscente che rifiutava di riconoscere il risultato proclamato dalle autorità elettorali e si rifugiava in quello, artefatto, del Tribunale Costituzionale e un presidente eletto riconosciuto dalla pratica totalità della comunità internazionale ma confinato in un albergo di Abidjan assieme al suo governo. La Costa d’Avorio ha avuto per quattro mesi due governi, uno legale ma pressochè impotente e uno di fatto ma isolato dal mondo.

In quest’ articolo vorremmo invece ritornare su alcuni aspetti a monte della crisi, che è non certo nata dal nulla, come un fulmine a ciel sereno, ma è il risultato di uno scenario conflittuale che per anni non ha fatto che prepararla. E valutare quali sono le lezioni per la governance africana. La soluzione di questa lunga crisi non è in effetti che l’ultimo atto di un processo di divisione di questo paese, ricco di risorse e per lungo tempo esempio di stabilità nel continente africano, iniziatosi con la morte del padre dell’indipendenza e presidente dal 1960 al 1993, Félix Houphouët-Boigny.

GIOIE E DOLORI DELLA FRANCAFRIQUE – Houphouët-Boigny fu il tipico esempio della Françafrique, quel modello di gestione del potere nelle neo–repubbliche indipendenti dell’Africa coloniale francese che univa al mantenimento di relazioni forti tra i paesi indipendenti e la Francia un rapporto di sudditanza / paternalismo tra Parigi e tali paesi, governati da presidenti totalmente francesizzati per cultura e percorso. Houphouët costituisce, con il senegalese Senghor, poeta e intellettuale e apostolo della négritude, l’esempio piu’ probante di tale concezione, che faceva tra l’altro così comodo all’antica metropoli, che pur perdendo formalmente un impero lo manteneva di fatto, sia in termini di penetrazione economica (supportata anche dal Franco CFA, moneta comune della regione, garantita dal Tesoro francese) che d’influenza geopolitica. Sparito l’impero coloniale, rimaneva appunto la Françafrique, backyard di dominazione esclusiva francese.

Il contro esempio di tale modello fu la Guinea di Sekou Tourè, l’unico paese che rifiutò il modello gollista d’indipendenza, ruppe del tutto i contatti con la Francia ed è rimasto a languire per cinquant’anni alla coda del plotone dei paesi africani.

Rispetto al Senegal di Senghor, la Costa d’Avorio aveva il vantaggio, che mantiene tuttora, d’essere un paese molto ricco in risorse naturali, in primis il cacao, di cui Abidjan è uno dei primi produttori mondiali. Ma anche il caffè, il legno, la frutta tropicale.  

TENSIONI ETNICHE SOTTO CONTROLLO – Sul rafforzamento di questo settore primario esportatore si costruisce la prosperità ivoriana, e il paese diviene la destinazione di migliaia d’emigrati dai paesi limitrofi. Il metodo politico di Houphouët, una dittatura paternalista finanziata dal benessere economico, mantiene sotto controllo anche le tensioni etniche, una costante preoccupazione nel contesto africano, che torneranno a emergere solo dopo la sua morte. In maniera simile al caos post–Tito in Jugoslavia, la morte del padre–padrone del paese nel 1993 fa saltare equilibri consolidati, aprendo il vaso di Pandora dell’instabilità, che accompagnerà la Costa d’Avorio sino ad oggi.

content_753_2

UNA SUCCESSIONE DIFFICILE – Laurent Gbagbo, sindacalista e socialista, si è contraddistinto sin dagli anni 70 come l’oppositore per antonomasia dell’houphouetismo. Ma non sarà l’alternanza che prevarrà al momento della sparizione di Houphouët, ma la continuità, nella persona del presidente dell’assemblea legislativa, Henri Konan Bédié, che ne diventerà il successore prevalendo sull’altro candidato, il primo ministro Alassane Ouattara. La costituzione ivoriana non era chiara su questo punto, ma Konan Bédié prevarrà su Ouattara anche per ragioni etniche: Ouattara era un mussulmano del nord, Konan Bédié un cristiano del centro – sud. Questa è la chiave di volta della crisi ivoriana da allora ad oggi.

Konan Bédié non aveva le doti carismatiche ed aggregatrici di Houphouët, nè la situazione economica negli anni novanta è paragonabile a quegli anni sessanta e settanta che furono la base del modello houphouetista. Dal canto suo, Ouattara inizierà una carriera internazionale nelle istituzioni di Bretton Woods che contribuirà a renderlo un candidato con contatti estesi nel mondo e riconosciute competenze professionali, che gli verranno buone più in là.  

IVORIETA', CHIAVE DI TUTTI I MALI – Nel 1994, un fragile Konan Bédié apre una battaglia che finirà per spaccare il paese: quella dell’”ivorietà”, che porta a una modifica del codice elettorale tesa a impedire la candidatura di Ouattara. Ricordiamo che all’interno dell’Africa Occidentale Francofona le frontiere amministrative erano molto labili. Quando i paesi divengono indipendenti, essi si creano frontiere internazionali, e centinaia di migliaia di cittadini non ivoriani risultano residenti in un paese che sappiamo prospero. La comunità più numerosa è quella “burkinabé”, mussulmani del nord, cui appartenevano anche i genitori di Ouattara, l’avversario politico più pericoloso per Bédié. La perniciosa scelta di costui, assecondata dal capo dell’opposizione, Gbagbo, di modificare il codice elettorale per far fuori polticamente Ouattara sarà il fattore che originerà la guerra civile del 2002, dando passo a uno sciovinismo che era sconosciuto nel paese.

Nel 1995 le elezioni sono boicottate da tutti i partiti d’opposizione. Bédié verrà poi spodestato in un colpo di stato nel 1999, diretto dal generale Robert Guéï. Nelle elezioni del 2000 questi verrà battuto da Gbagbo, ma non accetterà i risultati elettorali prima che inizino degli scontri che l’indurranno a ritirarsi.  

SCOPPIA LA GUERRA CIVILE – Nel 2002, la profonda divisione tra nord e sud provocata dall’acutizzarsi del dibattito sull’”ivorietà”, che aveva per obiettivo ritirare la cittadinanza a migliaia di persone, porta alla guerra civile tra les Forces Nouvelles, basate a Boauké, e le forze governative. Tra alti e bassi, la guerra continuerà sino al 2007, mantenendo il paese diviso di fatto in due, come rimane oggi.

Gli accordi di Marcoussis del 2003 vedranno il primo tentativo di ricomporre le differenze tra nordisti e sudisti, mediante l’entrata di ministri della ribellione al governo e l’interposizione di forze militari francesi (operazione Licorne) e della CEDEAO. Ma saranno solo gli accordi di Ouagadougou, simili a quelli di Marcoussis ma conclusi grazie alla mediazione del presidente del Burkina Faso Compaoré che permetteranno di concludere il conflitto armato. Ougadagou include la formazione di un governo d’unità nazionale, diretto dal leader politico dei ribelli, Guillaume Soro, la creazione di un organismo elettorale indipendente, la CENI, la derogazione della legge elettorale del 1994 che aveva tenuto fuori da tutte le elezioni il nordista Ouattara e la tenuta d’elezioni sulla base di un nuovo censimento elettorale che avrebbe dovuto fare chiarezza su chi avesse davvero diritto a votare (la tesi dei sudisti è sempre stata che i nordisti avessero intenzione di occupare il potere facendo votare in massa cittadini del Burkina).

(1. continua)

Stefano Gatto [email protected]

La carta Osama

0

La morte di Bin Laden è certamente un evento di enorme rilievo. Chiude in qualche modo una fase di scontri lunga 10 anni, tra occidente e mondo musulmano, durante la quale lo stesso oggetto del contendere è rimasto spesso sfumato, soprattutto a livello politico e di opinione pubblica. Guerra giusta o no? Guerra ai terroristi? Scontro di civiltà? Giustizia o vendetta? Al di là di questo, da un punto di vista più analitico, è importante circoscrivere e differenziare i diversi significati di questo evento

 

IL PUNTO DI VISTA TATTICO-OPERATIVO – In quest’ottica, la cancellazione fisica di Osama non cambia molto. Togliere oggi Osama ad Al Qaida non è come togliere Riina alla Mafia, Schiavone alla Camorra o Campana alla Sacra Corona Unita: non è stato eliminato un comandante in campo, uno che gestisce, uno che dà ordini. La stessa Al Qaida non è un organismo centralizzato, con una struttura di comando che rischia il collasso se perde il capo: è infatti da assimilarsi a un network di persone che in qualche modo condividono gli stessi “scopi e valori”, sotto l’ombrello fornito dalla ideologia di Al Qaida.

La minaccia costituita da gruppi come Al Qaeda nella Penisola Araba o Al Qaeda nel Maghreb Islamico (sospettata del recente attacco a Marrakech), nonchè dei “lupi solitari” e delle piccole cellule sparse nelle città occidentali rimane infatti inalterata. Questi sono soggetti indipendenti, capaci di condurre autonomamente attacchi su scala medio-piccola, attacchi comunque gravi, e semmai l’uccisione di Osama può fungere da molla per nuove iniziative.

 

blank

IL PUNTO DI VISTA STRATEGICO – E’ stato però eliminato un simbolo, con una operazione americana nel cuore del Pakistan, e questo, dal punto di vista strategico, ha invece rilevanza.

La ha in relazione all’elemento emotivo, dato che le cellule terroristiche nel mondo potranno essere risvegliate da questo colpo; lo stesso vale per la coalizione a guida americana che può giustamente celebrare una vittoria e trovare slancio e forza per sostenere le proprie posizioni, ad esempio rispetto a come condurre le operazioni in Afghanistan.

La ha anche in relazione ai rapporti politici, soprattutto rispetto al triangolo Pakistan-Afghanistan-Stati Uniti, che adesso dovranno affrontare necessariamente una nuova discussione sul futuro: ci si chiederà che fare dopo Osama, che fare cioè dopo che il principale obiettivo presente nell’area è stato colpito. E gli Stati Uniti potranno vantare una posizione di forza.

La prima mossa dovrebbe adesso spettare al Pakistan, che a quanto pare è stato praticamente estromesso dalla impostazione dell’operazione e che quindi ha ancor di più la necessità di recuperare il tanto credito perso nei confronti degli USA, e garantirsi che gli americani continuino a supportare e finanziare Islamabad nel suo tentativo di bilanciare l’influenza indiana nella regione. D’altro canto Washington non può prescindere dall’alleato pakistano per cercare di arrivare a un compromesso politico con le fazioni talebane, per liberarsi dall’Afghanistan senza lasciare solo disastri.

In definitiva, la morte di Osama può essere usata come elemento di spinta nella trattativa americana per uscire dall’Afghanistan, ma potrà essere anche usata dai pakistani per riportare il confronto sul terreno afgano, con modalità attualmente difficili da prevedersi.

 

Pietro Costanzo

Di nuovo uniti… o no?

Dopo quattro anni di lotte, violenze, torture e durissimi scontri verbali, Hamas e Fatah hanno raggiunto un accordo di riconciliazione nazionale. Quattro anni durante i quali la politica palestinesesi non è stata che la cronaca di un ripetitivo scontro fra le due fazioni. Ma davvero oggi, dopo l'annuncio da parte del capo dell'intelligence egiziana Mourad Mouafi, i due maggiori partiti palestinesi hanno ritrovato l'unità? E perché proprio ora?

INTERIM AGREEMENT – Un accordo transitorio che permetta di indire nuove elezioni (sembra nel giro di meno di un anno). Questo si sa finora dell'accordo che Hamas e Fatah hanno siglato al Cairo grazie alla mediazione dell'intelligence egiziana. In queste ore Mahmoud al-Zahar e Moussa Abu Marzouk, alti rappresentanti di Hamas, stanno raggiungendo la capitale egiziana alla pari di alcuni importanti esponenti di Fatah. Secondo la Reuters, la quale ha raccolto le dichiarazioni di alcuni quadri dirigenziali di Hamas, tutte le distanze fra i due partiti sarebbero state colmati, tutti i dissidi appianati. Hamas e Fatah torneranno dunque a fare esclusivamente gli interessi della popolazione palestinese. Ma è davvero così?

Certo la notizia arriva un po’ a sorpresa. I colloqui sembravano ad un punto morto specialmente dopo la caduta di Mubarak e la rimozione di Omar Suleiman. Inoltre i durissimi scontri, verbali e non, fra i due movimenti facevano pensare ad una soluzione decisamente molto lontana dall'esser raggiunta. Poi però, andando a leggere ed interpretare l'attuale situazione palestinese si capisce, forse, qualcosa in più e l'iniziale sorpresa inizia col mitigarsi.

Lo scorso mese di  marzo la popolazione palestinese era scesa in piazza, tanto a Ramallah quanto nella Striscia di Gaza, per chiedere la fine delle divisioni fra Hamas e Fatah e sollecitando la formazione di un governo di unità nazionale. Uno spirito propositivo, costruttivo che aveva persino deciso di soprassedere alle clamorose rivelazioni dei Palestine Papers. Uno spirito però quello della popolazione palestinese che manifestava un'insofferenza ed un'insoddisfazione tali da renderlo potenzialmente esplosivo. Hamas e Fatah sembrano aver risposto in brevissimo tempo a quelle istanze. I due partiti politici sembrano aver intuito il nemmeno troppo velato pericolo che quelle pacifiche manifestazioni di piazza si trasformassero in aggressive rivolte contro una classe dirigente logora e corrotta.

Non c'è dubbio inoltre che la posizione di estrema debolezza, tanto di Hamas a Gaza quanto di Abu Mazen in Cisgiordania, ha ulteriormente contribuito ad accelerare il processo di riconciliazione. Da tempo ormai la legittimazione politica di Abu Mazen deriva quasi esclusivamente dall'appoggio delle diplomazie straniere, Israele incluso, mentre la posizione di Hamas a Gaza è costantemente messa in discussione da una sempre più nutrita schiera di gruppuscoli estremisti quelli che, tanto per portare all'attenzione del lettore un esempio, hanno barbaramente ucciso l'attivista italiano Vittorio Arrigoni. Un matrimonio d'interesse, come spesso del resto avviene in politica, le cui basi appaiono decisamente fragili.

AMBIGUITÀ IRRISOLTE – Restano dunque ancora irrisolte diverse ambiguità riguardo i contenuti dell'accordo, soprattutto per quanto concerne l'attuale condizione degli attori coinvolti. Hamas fatica a superare le proprie ambiguità interne e mentre firma un accordo di riconciliazione nazionale con Fatah, aprendosi nei fatti ad un nuovo dialogo con Israele, condanna gli Stati Uniti per quello che viene definito l'assassinio di Osama Bin Laden. Nessun dubbio che critiche possano essere portate nei confronti dell'azione statunitense (per quanto forse utopico portare Bin Laden al giudizio di un tribunale sarebbe stato un enorme successo), Ismail Hania ha dimostrato, ancora una volta, una scarsa attitudine alle logiche della politica, esponendosi con le sue dichiarazioni a facili critiche. Dichiarazioni che sembrano ancora più difficili da comprendere se osserviamo quanto Hamas abbia combattuto, e stia a tutt'ora combattendo, contro le forze estremiste di matrice qaedista presenti nella Striscia di Gaza. Ancora una volta Hamas dimostra di non riuscire a superare quell'ambiguità ideologica di fondo che ancora lo costringe a mantenere il piede in due scarpe.

La posizione di Abu Mazen non è certamente migliore. Di sicuro l'accordo con Hamas potrebbe portare nuovo vigore anche alla sua immagine sul piano interno al partito. La riconciliazione con Hamas sancisce la sconfitta di Muhammad Dahlan e di quella frangia di Fatah decisamente troppo vicina agli interessi israeliani. Non è un caso che gli uomini vicini a Dahlan abbiano preferito in questi giorni la via dell'esilio sperando così di salvarsi da eventuali ripercussioni.

Questo  senza voler considerare infine, l'atteggiamento che Israele manterrà nei confronti di un eventuale nuovo governo di unità nazionale. Il premier Netanyahu ha già affermato che Fatah deve scegliere fra Israele ed Hamas. Un atteggiamento prevedibile, quasi scontato. Il governo israeliano vuole evitare che le due fazioni politiche ritrovino quell'unità nazionale che potrebbe, almeno sul piano ideale, rilanciare il processo di pace. Con Hamas e Fatah nuovamente uniti, con un nuovo governo legittimato dal voto popolare e sull'onda delle recenti proteste nel mondo arabo, la politica palestinese potrebbe realmente mettere in difficoltà il governo israeliano.

content_751_2

PROSPETTIVE – Tuttavia le incognite restano ancora troppe per stilare anche solo un bilancio preventivo dell'accordo del Cairo. Ancora non si conoscono i reali contenuti del documento di riconciliazione e non sappiamo se alcune delle questioni più spinose, vedi la gestione delle forze di sicurezza, siano state risolte o meno. Anche in quel caso però, ossia nel caso che Hamas e Fatah abbiano realmente trovato un'intesa finanche sulle differenze più profonde che da quattro anni li dividono, le incertezze resterebbero ancora molte. Saranno indette elezioni? Ed in quanto tempo? Certo Abu Mazen, il quale ha già prorogato incostituzionalmente il suo mandato presidenziale, avrebbe avuto difficoltà a gestire un rinvio anche delle elezioni legislative considerando che proprio quest'anno scadeva il mandato elettorale conquistato da Hamas nel 2006. E le frange interne ostili al presidente palestinese si sono realmente dissolte? Di quanto potere politico dispone realmente  Abu Mazen per dare realmente vita all'accordo e far sì che non rimanga solo su carta?

Ma nonostante i dubbi, le critiche, le incertezze, quello che ci troviamo a commentare oggi è comunque un primo passo in direzione di un cambiamento. Cambiamento che certo avviene più per paura, per timore che le proprie debolezze diventino tanto manifeste da non poter più essere nascoste, ma che ha comunque luogo. Così come le rivolte arabe non possono cambiare in pochi mesi strutture di potere in vigore da decenni, così la notizia di un giorno non può cancellare quattro anni di violenza e durissima lotta. Per ora, Hamas e Fatah resteranno ancora distanti su molti punti, ma lo nasconderanno all'opinione pubblica nel tentativo di impedire che quest'ultima si rivolti alla ricerca di un cambiamento reale, profondo e radicale che non si limiti a manovre di facciata. 

Marco Di Donato

[email protected]

Una poltrona per due

I rapporti tra i due massimi esponenti della politica russa sembrerebbero esser giunti quasi al capolinea tanto da paventare un potenziale scontro elettorale tra i due leader per chi dovrà governare il paese dal 2012. Chi avrà la meglio tra lo “zar” Vladimir Putin e il suo (ex) alter-ego Dimitri Medvedev?

GENESI  – Correva l’anno 2000 quando Vladimir Putin, ex agente segreto sovietico, subentrò a Boris Eltsin come Presidente della Federazione Russa. Riconfermato dopo quattro anni per il secondo mandato, Putin dovette far fronte all’impossibilità di ripresentarsi per la terza tornata elettorale presidenziale consecutiva, individuando un potenziale alter ego, un delfino che potesse subentrare degnamente a scadenza del mandato nel 2008.

La scelta cadde su Dimitri Medvedev: già noto per aver presieduto il consiglio di amministrazione Gazprom, il maggiore estrattore al mondo di gas naturale. Fu così nominato prima capo dello staff presidenziale e poi vice Primo ministro nel 2005.

La consacrazione politica avvenne però nel 2008 quando, forte della sponsorizzazione di Putin, Medvedev divenne Presidente della Russia.

La sua nomina però fu vincolata a quella di Putin come Primo ministro, rafforzando in tal modo un duopolio che all’epoca sembrava realmente inattaccabile.

PRIME CREPE – Invertiti i ruoli, probabilmente più per una necessità legata ai vincoli costituzionali russi che per scelta vera e propria, pareva dunque che il destino di Medvedev fosse legato ad un ruolo da comprimario impostogli dallo “zar” Putin. Tale aspettativa però è stata disattesa già dopo il primo anno di presidenza: tra i due infatti è iniziata una lenta ma letale guerra di logoramento verbale che ha evidenziato, il più delle volte, un notevole grado di incompatibilità tra le parti.

In diverse occasioni, infatti, soprattutto nelle dichiarazioni rilasciate ai media, i due hanno mostrato differenti linee di pensiero, contraddicendosi spesso, più o meno volutamente.

content_748_2

SCONTRO SULLE OPERAZIONI IN LIBIA – L’apice del contrasto si è raggiunto poco più di un mese fa: approvata la risoluzione Onu 1973 per l’avvio delle operazioni miliari contro le truppe di Gheddafi in Libia, si è dovuto, infatti, prendere atto della netta spaccatura in materia di politica estera da parte del governo di Mosca.

Putin, in netta contrapposizione con l’operato dell’Onu, durante la visita ad una fabbrica missilistica russa non l’ha mandata a dire affermando che “la risoluzione è un errore. Assomiglia tanto ad una chiamata medievale alla crociata” aggiungendo inoltre che tale decisione “ permette a tutti di adottare qualsiasi tipo di azione contro uno Stato sovrano”. Parole di fuoco bollate da Medvedev come “inaccettabili”, in quanto “in nessuna circostanza è tollerabile l’uso di parole come “crociata” che rimandano inevitabilmente ad uno scontro di civiltà”.

CONSEGUENZE – Quest’ultimo alterco tra i due pesi massimi della politica russa, agli occhi di molti, potrebbe rappresentare l’inizio di una lunga campagna elettorale in vista delle elezioni del 2012. Una volata elettorale che, nonostante tutto, ancora con certezza non conosce né candidati né contenuti programmatici e che di conseguenza stenta a decollare.

In un paese che fatica per diversi motivi a rispettare i canoni classici delle democrazie occidentali questo duello frontale potrebbe, senza dubbio, rappresentare un’ulteriore motivo di preoccupazione da parte della comunità internazionale per il ruolo strategico ricoperto dalla Russia in diversi ambiti.

Andrea Ambrosino

[email protected]

Osama è finito. La guerra continua.

Le prime riflessioni del “Caffè” sulla notizia più importante di oggi. La morte dello “sceicco del terrore”, principale ricercato dell’FBI, quali scenari potrebbe aprire? La fine di Bin Laden sembra costituire un significato simbolico prima ancora che in termini effettivi della guerra al terrorismo: al Qaeda negli ultimi anni ha infatti perso potere e la guida di Osama non è più così decisiva.

 

OSAMA E’ MORTO – Bin Laden è morto e l’America festeggia. Non perché questo rappresenti una vittoria finale nella guerra al terrorismo, ma perché costituisce il segnale che nessuno, nemmeno il più protetto capo terrorista, è al sicuro dalla vendetta USA. Insomma, lasciateci in pace o noi, prima o poi, veniamo a prendervi.

 

Dal punto di vista internazionale, la morte di Bin Laden è un colpo al morale dei terroristi, ma non costituisce una vittoria definitiva: da tempo Al Qaeda è ridotta a un’ombra del passato per le molte perdite subite tra i suoi leader, e i molti gruppi che ad essa si ispirano sono in realtà piuttosto indipendenti e operano ciascuno con obiettivi e motivazioni personali. Non smetteranno dunque di combattere. Lo stesso Qaedismo come ideologia non muore con Bin Laden, e se ha perso forza negli ultimi tempi è stato anche per il recente risveglio della coscienza araba che ha mostrato la possibilità di ottenere il cambiamento in maniera differente dal ricorso al terrorismo internazionale.

 

content_749_2

SI CONTINUA A COMBATTERE – Gli USA e l’Occidente hanno vinto una importante battaglia morale nella Great War on Terror, ma la guerra è ancora lunga. Osama Bin Laden era da tempo marginalizzato come ruolo e i Talebani non dipendevano da lui, né lo facevano molti altri gruppi armati. Dunque non aspettiamoci un veloce termine al conflitto in Afghanistan. Cosa è cambiato? Forse il rapporto con i Pakistani, che per qualche motivo sono finalmente stati convinti a collaborare per un’operazione armata così importante sul loro territorio. La domanda principale dunque rimane: qual’è stato il prezzo? Una forte somma di denaro per gli alti ufficiali? Una maggiore influenza sul governo di Kabul? Un supporto nelle relazioni con l’India e altri paesi? Una combinazione di queste e altre opzioni?

 

Si sono accorti del pericolo dei Talebani e dei Qaedisti nelle aree tribali e dunque hanno cambiato politica o hanno solo approfittato di un’offerta vantaggiosa?

 

La risposta a tale domanda richiede informazioni che ora non sono disponibili e che andranno verificate nelle prossime settimane. Di sicuro la strategia americana non cambia solo perché il terrorista numero 1 è stato ucciso, né la determinazione dei terroristi di colpire gli USA e l’Occidente, visto che le minacce di vendetta di fatto non sono differenti da quelle fatte già abitualmente sui canali di informazioni dei terroristi. L’attenzione e le misure di sicurezza rimarranno alte.

 

La guerra continua.

 

Lorenzo Nannetti

La speranza del Sudan

Il successo del referendum sudanese, che porterà alla secessione del Sud Sudan da Khartoum, è il primo tentativo di ridefinire un confine dell’epoca coloniale attraverso il voto popolare. Il referendum in Sud Sudan è stato un evento storico infatti. In un paese grande quasi quanto l’Europa occidentale, ci sono volute due guerre civili e milioni di morti per giungere alla conclusione che il popolo del Sud Sudan poteva da solo determinare il suo destino nazionale

IL SUDAN VERSO L’INDIPENDENZA – Si chiamerà Sud Sudan il neo-stato africano che ha visto la luce dopo che il referendum del 9 gennaio scorso ha decretato la cessazione definitiva della lotta per l'indipendenza dal Sudan. Nonostante la grande tensione nel paese, dopo l'annuncio dei risultati ufficiali, il governo semi-autonomo di Juba ha iniziato i preparativi per la dichiarazione di indipendenza che verrà proclamata il 9 luglio 2011. La vittoria dei secessionisti ha portato all’indipendenza e alla conclusione del conflitto ventennale tra il nord musulmano e il sud cristiano e animista. Sono circa quattro milioni gli sfollati e due milioni i morti nella guerra civile che ha insanguinato il paese tra il 1983 e il 2005. Nonostante il referendum si sia svolto pacificamente e in modalità che hanno garantito credibilità e validità, il sangue non ha mancato di scorrere laddove era più prevedibile: lungo la martoriata e contesa frontiera tra il nord e il sud del Paese. Le violenze hanno accompagnato lo scrutinio in varie zone, soprattutto nel distretto di Abyei, una regione petrolifera a statuto autonomo che ancora non è chiaro se verrà o meno annessa al Sud Sudan. Ma la popolazione ha sentito tutta l'importanza di questo momento ritenuto storico, tanto che oltre 120 mila sudanesi originari del sud ma residenti nella cosiddetta "black belt" attorno a Khartoum, nelle ultime settimane sono tornati nelle terre d'origine per votare.

QUALCOSA E' CAMBIATO – La conferma della regolarità delle procedure elettorali e delle operazioni di spoglio sono stati accolti con entusiasmo anche dalla comunità internazionale. In primis dagli Stati Uniti che hanno subito chiesto al Nord di mantenere fede all'annuncio di riconoscere il risultato del voto, forti dell'accordo della rimozione del Sudan dalla lista nera degli Stati sponsor del terrorismo. L’affluenza ha superato il 60 per cento, quorum necessario perché il referendum fosse valido. L’entusiasmo e la voglia di cambiamento veniva assaporato nei canti e nei balli improvvisati lungo le code per andare a votare, mentre chi già lo aveva fatto mostrava soddisfatto l’indice macchiato d’inchiostro. La dichiarazione ufficiale di indipendenza è arrivata dopo un vertice dell'Splm (Sudan Peoples Liberation Movement), il partito che è alla guida del Sud. Il presidente sudanese Omar al Bashir si era detto sin da subito disposto a rispettare il risultato del referendum e a costruire uno stato stabile, ma non certo disposto a rinunciare alle risorse petrolifere del sud, e ha manifestato anche il timore che ciò incoraggiasse i movimenti separatisti in altre aree del Sudan, come il Darfur. Sicuramente dopo i risultati del voto, qualcosa è cambiato. Dopo mesi e mesi di assurde proposte e fantasiose teorie per mantenere lo status quo, Khartoum comincia a muoversi verso una nuova stagione di rapporti bilaterali con il Sud Sudan. Resta la questione della frontiera, una frontiera etnica ma anche religiosa, sulla quale passano anche interessi economici: basta dare un'occhiata ad una mappa satellitare per mettere a confronto le terre verdi della parte meridionale, già ricca di petrolio, e il brullo nord per capire perché Khartoum si opponesse alla secessione. Mancava prima del referendum e manca ancor oggi un serio accordo sulla demarcazione dei confini, sulla divisione dei proventi del petrolio e sulle acqua del Nilo. La tensione nel paese è tuttora palpabile.

content_747_2

IL PETROLIO CHE MINACCIA IL SUD SUDAN – L’economia del Sud dipende in buona parte dal petrolio. Nella regione dove operano molte compagnie straniere, si estrae l’85% del greggio. Secondo l'accordo del 2005, il Nord dovrebbe ricevere metà degli introiti derivanti dal greggio estratto nel Sud, che non ha sbocchi sul mare e dipende completamente dalle infrastrutture del settentrione e dal porto sul Mar Rosso per esportare il prodotto raffinato all'estero. Ma Juba non ha alcuna intenzione di continuare a cedere le ricchezze del proprio territorio e chiede che le regole siano ridefinite. Entrambe le parti, per sostenere le rispettive economie, hanno interesse a mantenere la cooperazione in materia di greggio, principale fonte di guadagno dello Stato, ma sulle condizioni c'è una netta spaccatura e il Sud ha le idee chiare su come gestire le proprie risorse energetiche. Se scoprisse nuove riserve petrolifere, sarebbe pronto a costruire altri oleodotti e a sviluppare una più ampia rete di trasporti verso i porti del Kenya, di Gibuti e della Repubblica democratica del Congo. Dichiarazione che ha irritato Khartoum e che rischia di provocare nuove violenze. Salva Kiir Mayardit, il Presidente del Sud Sudan, ha manifestato non pochi timori parlando di «ostacoli post-referendum che segnano l'inizio di una nuova lotta». Il timore che non parlasse solo in senso figurato dovrebbe far riflettere sul futuro che attende questo turbolento e instabile paese che si appresta ad affrontare l'indipendenza attesa cinque anni con un fardello di problematiche che schiaccerebbe anche il più navigato e stabile stato occidentale. E il timore è reale visto che non si arrestano le violenze e gli scontri per il petrolio all'interno di un Paese in cui le condizioni igienico sanitarie sono pessime e il tasso di mortalità è tra i più alti del mondo.

CARTA RELIGIOSA – Il leader ghaneano Nkrumah mise in guardia contro quello che definiva “pachistanismo”, cioè la separazione su basi religiose. Ed ora il pachistanismo è arrivato in Sudan, dove i sudanesi del sud hanno giocato la carta religiosa, accusando quelli del nord d’intolleranza. Ma al suo interno anche il Sud Sudan è multietnico. Passata l’euforia per l’indipendenza si teme che alcuni gruppi possano provare risentimento per la supremazia dei dinka, l’etnia dominante. Una cosa è certa: con la secessione il Nord diverrà un paese integralmente islamico, mettendo definitivamente da parte quelle misure elastiche di applicazione della legge coranica, previste dall’accordo di pace del 2005, per favorire una pacifica coesistenza delle due popolazioni.

 

Adele Fuccio

[email protected]

Wind of change in Kerala

0

Il vento del cambiamento soffia anche sui litorali del Kerala. Nello Stato all’Estremo Sud della Penisola Indiana, infatti, si sono tenute, Mercoledì 13 Aprile, le tredicesime elezioni dei membri dell’assemblea legislativa di Stato. I risultati, seppur saranno resi ufficiali non prima del 13 Maggio, sono già stati divulgati in parte e così anche la notizia dell’evidente tracollo del Partito Comunista, che nella regione aveva da sempre la propria roccaforte.

KERALA, TERRA DI COMUNISMO, CATTOLICESIMO E CULTURA– Stato di pescatori ed agricoltori, lo Stato del Kerala è del tutto particolare. Prima di tutto perché da sempre Comunismo e Cattolicesimo vi convivono, anzi si sostengono: è stata proprio la religione cattolica con le proprie idee di fratellanza ed uguaglianza universale a gettare le basi per una penetrazione dell’ideologia marxista in un tessuto sociale in fin dei conti omogeneo e privo di tensioni sociali. In secondo luogo, perché è l’unica regione indiana ad aver raggiunto un tasso di alfabetizzazione del 100% già nel 1990. Pertanto, il Kerala, pur essendo lontano dai livelli di sviluppo economico di altri stati quali  Punjab e Aryana, ha raggiunto con venti anni di anticipo l’eccellenza nel campo dell’istruzione, in cui l’intera India sta investendo maggiormente. Per questo motivo, gli abitanti di tale Stato e le loro preferenze politiche posso essere considerati come uno specchio emblematico delle tendenze, delle esigenze e dei cambiamenti che caratterizzano la popolazione indiana, sempre più colta ed istruita.

 

ELEZIONI A LUNGO ATTESE E MOLTO SENTITE – Le elezioni del 13 Maggio hanno registrato un afflusso record: dei 23.15 milioni degli aventi diritto al voto, ben il 75% si è presentato alle urne, segnando un picco storico per la regione. A riprova della consapevolezza politica dello Stato, in ben 127 seggi, su un totale di 140, il numero di donne ha superato il numero di uomini tra gli elettori. Anche quest’anno, come del resto è sempre stato dal 1957 in poi, le parti in competizione erano il Fronte Democratico Unito (UDF), guidato dallo storico Partito del Congresso Indiano, e il Fronte Democratico di Sinistra (LDF), coalizione di gruppi di sinistra sotto la leadership del Partito Comunista Indiano. Tuttavia, nonostante il tradizionale bipolarismo del sistema politico indiano, una terza forza ha partecipato alle elezioni, il Bharatiya Janata Party, partito nazionalista dalla forte matrice indù.

Queste tre forze hanno dovuto confrontarsi con due problemi crescenti e ben noti alla popolazione: da un lato, la crescita dei prezzi del cibo, che, inarrestabile, sta trascinando sempre più famiglie al di sotto della soglia di povertà, e dall’altro, un inaccettabile livello di corruzione della classe dirigente, da breve al centro del dibattito politico.

content_745_2

IL TRAMONTO DEL PARTITO COMUNISTA – In tale contesto, il Partito Comunista, irrigidito dalla propria propaganda ed ideologia anti-borghese ed anti-capitalista, appare anacronistico. Prima di tutto, la tanto contestata globalizzazione non ha fatto altro che giovare al Kerala: le rimesse dai parenti emigrati a lavorare in ogni dove contano per 4, 5 miliardi di dollari all’anno ed il tasso di crescita del PIL, 6.98%, è più alto della media nazionale che si assesta attorno al 6.53%. Anche lo slogan secondo il quale solo i 59 miliardi d’India starebbero guadagnando dall’apertura al mercato e alle compagnie estere è confutato quotidianamente da una crescente classe benestante ed istruita, frutto di un sistema scolastico globalmente apprezzato.

Lo stesso Mr Karat, dirigente a livello nazionale, ammette il proprio fallimento, anche se solo a livello locale e non di ideologia. Per esempio in Kerala il Partito Comunista fatica a trovare il proprio spazio. Da una parte, perché il BJP ha attirato a sé quei nazionalisti indù che non si identificano nel laicismo proprio del marxismo, dall’altro la convergenza del Congresso verso politiche di welfare e di giustizia sociale mina le ragioni stesse dell’esistenza del Partito Comunista. Infine, l’LFD non ha saputo dare la risposta sperata alla crescente corruzione del sistema politico, nonostante sia l’unica forza politica apparentemente non coinvolta. Tuttavia un atteggiamento sempre piuttosto neutrale ha chiaramente favore un BJP, che della campagna anti-corruzione ha fatto la propria bandiera.

Rimane, comunque, che il Partito Comunista ha contribuito molto alla crescita del Kerala, promuovendo l’istruzione, i diritti delle donne e l’abolizione delle caste, elementi che hanno contribuito ad imprimere nel DNA della popolazione i valori marxisti di uguaglianza e solidarietà sociale. Proprio per questo motivo, queste elezioni più che determinare la scomparsa del Partito dal panorama politico, ne possono indirizzare una riforma.

Gloria Tononi

[email protected]