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La conquista di Roma

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Caffè 150 – Continua il nostro viaggio nella Storia della politica estera italiana. La tappa di questa settimana descrive le fasi che hanno portato il “neonato” Regno d’Italia alla conquista di Roma, decretando la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale della Chiesa. Ecco le azioni militari e le mosse diplomatiche che hanno consentito il raggiungimento di questo risultato

 

LA QUESTIONE ROMANA – Al pari delle altre tappe del processo di unificazione italiana che l’hanno preceduta, la conquista di Roma è il risultato di un complesso intreccio tra fattori politici interni a quello che il 17 marzo 1861 viene proclamato Regno d’Italia e considerazioni di politica estera. Per quanto riguarda il primo profilo la scomparsa improvvisa del conte di Cavour, il 5 giugno 1861, genera un deficit di direzione politica (R. Martucci) che nessuno dei successori riesce a colmare, complice la volontà del re di impedire la formazione di una premiership stabile. Ed è proprio sulla “questione romana” che tutti i numerosi governi che si susseguono nei primi anni del nuovo Regno – Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, La Marmora – sono destinati a cadere, spesso e volentieri in aperto conflitto con la Sinistra risorgimentale e garibaldina.

 

ITALIA E FRANCIA – Sul piano internazionale l’interlocutore obbligato del governo di Torino – che continua a godere del sostegno diplomatico dell’Inghilterra – è ancora una volta la Francia, che dal 1849 mantiene un proprio contingente armato nello Stato pontificio, in appoggio al piccolo esercito del Papa  composto per oltre un terzo da volontari provenienti da numerosi Paesi europei e non solo. È utile rimarcare che la “minaccia” costituita dalla presenza di qualche migliaio di militari stranieri nell’Italia centrale a difesa del Pontefice è uno dei pretesti – insieme allo scoppio di improbabili moti insurrezionali organizzati ad arte da agenti paragovernativi – di cui il governo italiano si serve per giustificare il proprio intervento armato nei territori pontifici, secondo un copione destinato a ripetersi più volte dal 1860 al 1870.

 

IL “SOSTEGNO” FRANCESE – Il sostegno del Secondo Impero francese a Pio IX, in ogni caso, è ambiguo: Napoleone III è personalmente convinto che il territorio dello Stato della Chiesa debba ridursi al minimo indispensabile, ma deve fare i conti con l‘opinione pubblica cattolica in Francia e con le proprie esigenze di prestigio internazionale. Questa ambiguità fa da sfondo alla campagna militare con cui l’esercito piemontese, al comando dei generali Fanti e Cialdini, nel settembre 1860 invade le Marche e l’Umbria per ricongiungersi con le forze garibaldine impegnate nel Mezzogiorno. L’invasione, che culmina nella battaglia di Castelfidardo (17 settembre) e nell’assedio di Ancona, può contare sull’imbarazzata acquiescenza della Francia, intenzionata a limitare la propria tutela armata al solo Lazio. L’annessione al Regno di Sardegna dei territori così conquistati verrà sancita – come già accaduto nel marzo 1860 per le Legazioni pontificie della Romagna, i Ducati dell’Emilia e il Granducato di Toscana – da plebisciti di tipo bonapartista, i cui esiti sono già scritti in partenza.

 

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INDECISIONI – Due anni più tardi, nell’agosto 1862, Garibaldi – con la benedizione di Vittorio Emanuele II e del presidente del Consiglio Rattazzi – organizza una spedizione armata alla volta di Roma. L’iniziativa rivela tutta l’improntitudine del governo di Torino, che di fronte alla sicurezza di un immediato intervento francese è costretto a fare marcia indietro e a sguinzagliare i generali La Marmora e Cialdini per dare la caccia a Garibaldi: il “tradimento” si consuma il 29 agosto 1862 sull’Aspromonte, con il celebre ferimento del generale nizzardo. A rimediare al grave errore strategico – che costa “la testa” a Rattazzi e al suo governo – provvederà il bolognese Marco Minghetti il quale, grazie all’abilità del giovane ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, otterrà un rilevante successo diplomatico con la Convenzione di Settembre (15 settembre 1864). L’accordo prevede l’evacuazione delle truppe francesi (in assenza di minacce all’integrità dello Stato pontificio) entro due anni, a condizione che il Regno d’Italia sposti la propria capitale da Torino a un’altra città (Firenze). La decisione tuttavia, presa all’insaputa delle Camere e dei torinesi, genera un profondo malcontento a Torino, che sfocia in un’aperta contestazione. Le proteste vengono represse in modo brutale quanto assurdo dai reparti militari mobilitati dalle autorità, che lasciano sul terreno più di cinquanta morti.

 

LE ULTIME MOSSE – Nel 1867 l’ennesimo tentativo garibaldino di marciare su Roma – appoggiato da Rattazzi, che cerca di suscitare un moto rivoluzionario nella città a cui la popolazione rimane pressoché indifferente – trova il suo epilogo a Mentana (3 novembre), in uno scontro con le truppe pontificie e un contingente francese appositamente inviato da Napoleone III. L’inevitabile raffreddamento dei rapporti con la Francia pesa sulla disponibilità italiana ad aderire a un’alleanza contro la Prussia alla vigilia della guerra del 1870; ad ogni modo il ritiro del contingente francese e la disfatta di Sedan (2 settembre 1870) aprono la strada all’iniziativa del Regno d’Italia, che dopo aver denunciato la Convenzione di Settembre marcia alla volta di Roma con un esercito di 65.000 uomini. Alle proprie truppe Pio IX dà ordine di resistere fino a che il nemico non riesca ad aprire un varco nelle mura della città, rifiutandosi di abbandonare un territorio che gli spetta di diritto ma volendo allo stesso tempo evitare un inutile spargimento di sangue.

 

FUTURO INCERTO – Con la breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870, si chiude una fase della politica estera italiana e se ne apre un’altra, carica di incognite. Se da un lato il non intervento italiano contro la Prussia fa dell’Italia una “potenza moralmente autonoma e indipendente del concerto europeo” (E. Visconti Venosta), dall’altro la questione romana la pone in una situazione di isolamento diplomatico – esponendola al pericolo di una restaurazione del Pontefice ad opera delle potenze cattoliche – tanto più rischiosa data la debolezza politica, finanziaria e militare del nuovo Stato. È questo uno dei fili che porterà l’Italia della Sinistra storica alla stipulazione della Triplice Alleanza (1882).

 

Sul piano ideologico, inoltre, la volontà di sostituire nell’immaginario collettivo l‘universalismo della Roma imperiale e della Roma papale con il mito mazziniano di una “Terza Roma”, contribuisce a generare il senso di una “missione civilizzatrice” dell’Italia, che influirà a sua volta sulla nascita di una politica estera nazionalistica e più aggressiva, anche in campo coloniale. “Era come se, nel momento in cui sorgeva a frantumare definitivamente ogni anche lontana reminiscenza della vecchia respublica christiana, l’individualità nazionale, la nuova idea-forza dei tempi moderni, abbisognasse di una giustificazione morale di valore universale, che ne legittimasse la nascita”. (F. Chabod)

 

Paolo Valvo

Davide e Golia

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I rapporti tra Cina e Vietnam storicamente sono stati molto burrascosi; dopo lunghi e ripetuti periodi di occupazione Cinese il Vietnam ha sempre visto il potente vicino come una minaccia. Tuttora molte questioni rimangono aperte in primo luogo la controversia, già trattata dal “Caffè” in marzo, relativa alla sovranità sugli arcipelaghi Paracel e Spratly e inoltre quella per la definizione del confine Settentrionale tra la province Vietnamite di Lao Cai e Lai Chao e quella Cinese dello Yunnan. Tuttavia il recente miglioramento delle relazioni tra i due paesi ha favorito l’incremento dei flussi commerciali con conseguenti benefici e nuove problematiche. Vediamone gli aspetti più salienti.

UN PO’ DI STORIA – Vent’anni sono ormai passati da quando nel 1991 il governo Vietnamita ritirava le sue truppe dalla Cambogia e le relazioni tra Hanoi e Pechino si normalizzavano. Vietnam e Repubblica Popolare Cinese avevano sospeso le relazioni diplomatiche a seguito dell’invasione Vietnamita in territorio Cambogiano alla fine del 1978. Pechino, unico alleato della Cambogia, si vide chiamata in causa e invase da nord il Vietnam, con il quale i rapporti erano già tesi dal tempo della riunificazione nel 1975 a causa dell’alleanza con l’URSS e delle numerose epurazioni di cittadini di etnia cinese. Il conflitto si svolse all’interno delle dinamiche della guerra fredda e questa volta Hanoi ebbe la meglio perché le truppe Cinesi ben presto batterono in ritirata. In realtà Pechino puntava solo a dimostrare che l’URSS non era in grado di fornire sostegno ai suoi alleati. Deng Xiao Ping non era interessato a coinvolgere il paese in una guerra proprio nel momento in cui era impegnato nel rilanciare dell’economia attraverso l’apertura al mercato e il miglioramento delle relazioni con l’Occidente.

INTEGRAZIONE O COLONIZZAZIONE? – Le relazioni commerciali tra i due paesi si sono notevolmente rafforzate nel periodo 1998-2010. I volumi import-export sono passati da 3 milioni di US$ del 2000 a ben 19 miliardi lo scorso anno con una crescita media che supera il 25% annuo. La Cina ha da poco superato il Giappone diventando il più importante partner commerciale del Vietnam. Tuttavia questo sodalizio ha visto aumentare progressivamente la dipendenza di Hanoi da Pechino. Le merci vietnamite, infatti, non sono riuscite a replicare il grado di penetrazione di quelle cinesi nel mercato domestico. Il Vietnam contribuisce solo per lo 0.76% al commercio cinese esportando principalmente materie prime agricole, beni di consumo a ridotto contenuto tecnologico e basso valore aggiunto. Di contro, Pechino rappresenta un elemento essenziale per la crescita Vietnamita poiché fornisce il 25% dell’import totale con macchinari industriali a buon prezzo, attrezzature e materiali per l’attività agricola, materie prime raffinate e beni di consumo ad alto valore aggiunto come medicine e software. Questa disparità commerciale non è altro che lo specchio di due diversi livelli di sviluppo economico: la Cina utilizza il suo vicino in primo luogo come riserva di lavoro materie e prime a basso costo e in seguito come mercato di sbocco per le merci lavorate in patria.

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I PRO E CONTRO DEL SODALIZIO – L’intervento cinese in Vietnam si è concentrato principalmente nelle province settentrionali di Lai Chau, Dien Bien, Son La e Lao Cai, più facilmente controllabili per via della prossimità geografica. Qui Pechino ha applicato la sua tradizionale strategia d’investimento estero fornendo capitali per la modernizzazione delle infrastrutture, dell’industria pesante (ferro, rame e alluminio) e aiuti per la ricerca, in cambio di contratti privilegiati per l’estrazione di risorse naturali e per l’esportazione di macchinari cinesi.

In realtà le province del Nord, dove si registrano i più alti tassi di povertà del paese, hanno ampiamente beneficiato dell’attenzione cinese. La coltivazione del riso è migliorata in qualità e volumi grazie a nuove varietà di semi, selezionate nella provincia cinese del Sichuan e sono state introdotte nuove colture più remunerative. I flussi di commercio sul confine hanno migliorato il reddito delle popolazioni delle regioni periferiche, che riescono ad ottenere i beni più facilmente e a prezzi inferiori. Le province di Lai Chau e Lao Cai, che contribuivano al GDP rispettivamente per il 2.08% e l’8.3% nel 2000, sono passate a 9.41% e 16.65% nel 2005.

L’intensificazione delle relazioni commerciali sul confine ha favorito anche la fioritura di attività malavitose come il gioco d’azzardo, la prostituzione, il traffico di droga, di beni contraffatti e di esseri umani. Sembra che negli ultimi dieci anni più di 20.000 donne e bambini provenienti dalle zone rurali del Vietnam siano stati venduti per alimentare la prostituzione nei bordelli del Guandong o utilizzati per il traffico di organi. Il governo Vietnamita è riuscito a riportarne in patria circa la metà, ma molti di loro avevano contratto l’HIV.

Il traffico di droga e di beni contraffatti si è diffuso in tutto il Vietnam; grazie a permessi giornalieri cittadini cinesi possono entrare in Vietnam facilmente con carichi di droga da spacciare nei grandi centri. Infine nelle zone di confine si sono registrati molti casi di falsificazione del Dong vietnamita, anche se il 90% delle transazioni commerciali avviene in Yuan. L’episodio più clamoroso è la scoperta di 11 camion contenenti denaro falso nel 2009,  che ha messo le autorità governative in allarme.

Valeria Giacomin

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Cavour: l’uomo di Stato, per uno Stato che ancora non c’era

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Caffè 150 – Cavour appartenne ad una generazione che si era formata sulla scia della eredità rivoluzionaria e napoleonica, liberale ma non repubblicano. Fu uomo privo di scrupoli che confidava nel genio dell’intrigo spinto fino all’eroismo. La sua figura è però meglio presentata come il ministro piemontese che sovrastò ai suoi contemporanei perché guardava agli stessi problemi, ma con l’occhio dell’uomo di stato.

 

CAVOUR E IL SUO TEMPO Gli avvenimenti del 1848-49 avevano messo in evidenza di quale importanza fosse per lo sviluppo dell’indipendenza italiana il coinvolgimento della popolazione, in particolare la cittadinanza borghese ed emergente che si era posta come guida fin da subito e che in alcuni casi era uscita inizialmente vittoriosa. Ma il fallimento ultimo dei moti spontanei, se pure proponeva la possibilità di riprendere la via regia all’indipendenza, poneva un problema di fondo: come legare le aspirazioni e le forze popolari a un progetto nazionale coordinato, e riuscire a tradurre ciò in un efficace programma politico?

 

In Italia fu nel 1848 che la questione politica innescò la questione nazionale, consistente nel richiedere l’indipendenza dall’Austria e l’unificazione del territorio in un unico stato. L’unità d’Italia, attuata nel 1861 dopo la II Guerra d’Indipendenza e la spedizione garibaldina nel Regno delle Due Sicilie, fu per Cavour solo un espediente per bloccare i movimenti democratici dei mazziniani, e non l’avverarsi di un sogno unitario che il mito fa risalire addirittura a Dante e ai suoi canti politici. L’ambizione romantica di un’unica realtà geopoliticauna d’arme, di lingua, d’altar/ di memori, di sangue e di cuoreapparteneva alla sinistra mazziniana e non alla destra storico-liberale di Cavour, che da buon ministro dei Savoia non pensava ad altro che all’ingrandimento del regno di Sardegna.

 

Da abile politico quale era seppe però subito adattarsi alla nuova “unità nazionale” ed è ricordato nella storia come uno dei massimi artefici dell’unità d’Italia.

 

Altro che Italia; questa è Africa. Verso le province meridionali la diffidenza del Cavour fu epocale, tanto che lo statista piemontese tardò il più possibile l’avvento al governo dei meridionali, riducendo le circoscrizioni elettorali in modo da mantenere il potere saldamente in mano alle élites centro settentrionali.

 

CAVOUR NEL PANTHEON DEGLI ITALIANI – Il mito di Cavour nacque nel momento stesso della sua morte. Furono scritti carmi latini, dettate iscrizioni storiche, scolpite epigrafi, scalpellati marmi, fusi bronzi e pubblicate alcune dozzine di opuscoli commemorativi. Rivestito di tutte le virtù che la retorica italiana ama attribuire ai suoi eroi – bontà, generosità, coraggio, idealismo, lungimiranza – Cavour divenne immediatamente il primo monumento nazionale dell’ Italia risorta.

 

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IL SUO PROGRAMMA – Non aveva ancora un programma italiano, ma fu tra i primi a comprendere che le rivoluzioni del 1848-49 avrebbero cambiato profondamente il quadro delle relazioni internazionali. Si pose in un duro confronto con le grandi potenze da un lato, e con la rivoluzione mazziniana e garibaldina dall’altro. Cavour rivelò una straordinaria capacità d’ invenzione, creazione, manipolazione. La mancanza di un disegno prefissato lo rese pragmatico ed efficace, considerando che egli non era né un sovrano né un generale né un leader carismatico per le masse. Poté tuttavia, come in alcune arti marziali, sfruttare la forza degli altri e dirigerla verso i suoi scopi. Per governare e fare uso del suo talento anzitutto si affrancò dal re e rafforzò l’istituzione parlamentare, di cui era un convinto sostenitore come strumento di stabilità e progresso in contrapposizione alle rivoluzioni. Raggiunge lo scopo assicurando ai Savoia un bene di cui tutte le dinastie europee, dopo il 1848, ebbero un drammatico bisogno: il consenso della borghesia liberale e delle classi emergenti. Creò il proprio partito (un “connubio” fra la destra di D’ Azeglio e la sinistra di Rattazzi) con il quale guidò il parlamento nella direzione da lui voluta e cominciò a tessere la grande tela dell’unità italiana. Gli serve una leva esterna con cui agire sul potere asburgico, e si rivolge a Napoleone III. Gli serve una spada popolare, e non esita a servirsi di Garibaldi. Gli serve un nemico per meglio accreditarsi agli occhi dell’ Europa come garante dell’Italia moderata, e agita il drappo rosso di Mazzini di fronte alle cancellerie impaurite.

 

LA SUA EREDITA’ – Cavour non fu soltanto il mediatore che portò all’unità nazionale; fu anche l’ autore delle regole con cui abbiamo giocato da allora il “gioco italiano”. Appellandosi a Napoleone III ha anticipato l’ importanza che il “fattore allogeno” avrebbe assunto nella storia nazionale: la Triplice per Crispi, la Germania per Mussolini, l’ Urss per Togliatti, l’ Europa e l’ America per De Gasperi e Sforza . Creando il primo “destra – sinistra” ha aperto una lunga sequenza di trasformismi, centrismi e “convergenze parallele”, da Depretis a Giolitti, da Mussolini a Moro. E con il successo delle sue straordinarie manipolazioni politiche ha indotto nei suoi successori la convinzione che la politica italiana e’ in buona parte “alchimia”, vale a dire quella tecnica o arte, “che tenta di far venire fuori l’ oro da una combinazione di metalli vili“.

 

Adele Fuccio

Elezioni presidenziali: l’anomalia nella regola

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In Kazakhistan, uno dei Paesi più ricchi di risorse energetiche di tutta l’Asia, le elezioni presidenziali tenutesi il 3 aprile scorso hanno decretato la vittoria del Presidente in carica, Nursultan Nazarbaiev, che ha riscosso un consenso quasi totale in una tornata elettorale ricca di irregolarità e con pesanti sospetti di brogli

UNA LUNGA STORIA – Da quando nel 1991 Nazarbaiev (nella foto) fu chiamato per la prima volta a guidare il Kazakistan sono trascorsi venti anni, durante i quali il Presidente ha tentato di consolidare ed estendere la durata del suo potere attraverso elezioni poco rispettose delle regole democratiche condivise dalla comunità internazionale, a detta degli osservatori, ed emendamenti costituzionali particolarmente favorevoli.

Di recente la Corte Costituzionale di Astana il 31 gennaio ha bocciato, per non conformità alla Costituzione, la proposta referendaria che contemplava l’ipotesi di saltare le due tornate elettorali del 2012 e del 2017, prolungando il mandato del Presidente almeno fino al 2020. Bocciatura che Nazarbaiev e i suoi accoliti parlamentari del Nur Otan non sembrano aver gradito, tanto da indurli pochi giorni a votare all’unanimità un ulteriore emendamento costituzionale che ha autorizzato l’indizione di nuove ed anticipate elezioni presidenziali.

Al voto del 3 aprile, dopo numerose defezioni, erano stati ammessi all’agone politico, oltre al Presidente in carica, Zhambyl Akhmetbekov, Gasi Kasimov e Mels Eleusizov: i primi due direttamente controllati dal partito di Nazarbaiev, mentre l’ambientalista Eleusizov ama dirsi “autonomo”. Gli storici partiti di opposizione hanno rifiutato di prendere parte a quello che hanno definito un bluff elettorale, rinunciando alla candidatura e denunciando come arbitraria ed immotivata la decisione di anticipare il voto.

UN SISTEMA SALDO – Per comprendere la dimensione del sistema autocratico e monolitico di Nazarbaiev è utile citare il totale dei voti ottenuti durante l’ultima tornata elettorale nella quale il Presidente ha ottenuto un consenso pari al 95,5%, addirittura accresciuto rispetto al 2005 quando vinse le elezioni con il 91,15% delle preferenze. “I risultati hanno stabilito che il popolo kazako approva il lavoro che ho svolto negli ultimi 20 anni” così ha tuonato Nursultan Nazarbaiev. Difficile scorgere il limes tra assenso al leader e acquiescenza degli assoggettati, tra apprezzamento e arrendevolezza, tra accettazione dello status quo e rinuncia al mutamento. Quello che è certo è che l’indizione anticipata delle elezioni si presenta come una anomalia senza precedenti, e la rigidità del sistema politico, altamente personalizzato, non concede alla debole opposizione alcuno spazio di negoziazione o acquisizione di potere.

Ma dunque, se il Presidente settantenne è l’uomo forte che non cede il passo e mantiene salda la posizione, come si spiega l’urgenza di giocare anticipatamente questa partita elettorale?

UNA GIOCATA D'ANTICIPO – Per rispondere ad un tale quesito occorre volgere lo sguardo verso occidente, e guardare alla primavera rivoluzionaria che ha sconvolto gli equilibri dei poteri e delle forze in nord-Africa, ha spodestato dagli scranni del governo potenti come il tunisino Ben Ali e l’egiziano Mubarak, ha scatenato l’intervento armato della NATO sulla Libia e minaccia di spostarsi oltre il Medio Oriente, verso l'Asia centrale.

In accordo con quanto ha dichiarato l’analista politico Christya Riedel, la strategia adottata dal Presidente è finalizzata a “reprimere le manifestazione anti-governative sul fronte interno”. Per assicurarsi che il sentimento rivoluzionario popolare non arrivi alle porte di Astana, il leader kazako ha acutizzato la censura di numerosi siti web e soprattutto dei notissimi social network, Facebook e Twitter, che hanno veicolato le proteste tunisine ed egiziane, adottando quindi hard policies per soffocare il dissenso.

Attraverso le elezioni Nazarbaiev mira ad agire a livello nazionale, rinforzando la stabilità del governo e rigettando preventivamente ogni eventuale contagio nord-Africano, mira riformista o agitazione popolare; per quanto invece concerne la politica estera, il Presidente cerca di potenziare la credibilità della sua carica propagandando al mondo intero la sua capacità di disciplinare l’ordine pubblico e promuovendo il Kazakistan come baluardo di sicurezza e difesa degli interessi e dei contrappesi nello spazio geopolitico centro-asiatico degli Stati Uniti, della Russia e della Cina.

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STRATEGIA REGIONALE – È necessario rilevare, nondimeno, un ulteriore elemento che conferma gli orientamenti strategici del governo kazako, ossia la competizione tra il Kazakistan e l’Iran per aumentare il proprio peso a livello regionale e per la leadership energetica, nel tentativo di guadagnare interessi e favori di investitori esteri e rafforzare la partnership della Cina. Proprio a partire dalle accuse che Narzabaiev lanciò nel 2006 contro l’Iran, tacciato di essere il fulcro dell’instabilità nella regione, prende corpo l’impegno del leader kazako di promuovere una nuova immagine del Paese quale bilanciere per la sicurezza in Asia centrale. Dopotutto, il pragmatismo politico del governo di Astana che punta tutto sulla sicurezza regionale risponde pienamente agli obiettivi programmatici disposti dalla Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO/OCS), della quale il Kazakhistan è membro effettivo, corteggiato per la ricchezza delle sue risorse energetiche e per l’importanza del suo contributo alla cooperazione per la difesa contro le minacce del terrorismo transnazionale di matrice islamica.

DUE PESI E DUE MISUREL’appoggio dell’Organizzazione di Shanghai al Presidente Nazarbaiev è forte, tanto che il Segretario Generale Muratbek Imanaliyev, in rappresentanza del comitato di osservatori inviati per le elezioni del 3 aprile, ha dichiarato: “La missione ritiene che le elezioni presidenziali del Kazakistan siano state libere e aperte, soddisfacendo tutti i requisiti della normativa nazionale e degli standards elettorali internazionali”. Tuttavia, secondo quanto hanno riferito all’indomani della votazione gli operatori dell’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa (OSCE) attivi sul campo, le elezioni “hanno visto una vittoria quasi plebiscitaria di Nursultan Nazarbaiev e sono state carenti di standard genuinamente democratici”.

Gli osservatori dell’Osce hanno rilevato “una serie di gravi irregolarità, compresa una serie di firme apparentemente identiche sull’elenco degli elettori (219 casi) e forti indizi di voti fraudolenti (28 casi) […] le urne non sono state chiuse correttamente (98 casi), il voto di gruppo (128 casi), il voto multiplo (34 casi), e il voto per delega (63 casi). In 80 dei seggi elettorali visitati sono state ammesse al voto le persone che non hanno presentato il documento d’identità prescritto”.

L’esito di questa sessione elettorale era prevedibile ma la chiamata alle urne dei kazaki mostra un disegno strategico basato sull'opportunismo politico di Nazarbaiev, in risposta al bisogno di confermare al mondo l’irrinunciabilità del suo ruolo di stabilizzatore e nodo degli equlibri regionali.

Dolores Cabras

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Il cancro o l’Aids?

Con queste parole il Premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa ha descritto la scelta alla quale saranno chiamati gli elettori peruviani per il ballottaggio delle elezioni presidenziali previsto per il 5 giugno. I due candidati che hanno superato il primo turno, Ollanta Humala e Keiko Fujimori, rappresentano due versioni dei populismi che per decenni hanno imperversato in America Latina. Rappresentano davvero un pericolo per la democrazia e lo sviluppo del Paese?

ESITO PREVEDIBILE? – Domenica 10 aprile, in occasione delle elezioni parlamentari e presidenziali, le urne peruviane hanno restituito un verdetto in parte atteso, e in parte preoccupante. Il primo turno è stato superato da Ollanta Humala, candidato della coalizione di sinistra “Alianza Gana Perù”, che ha ottenuto il 31,78% delle preferenze contro il 23,49% di Keiko Fujimori, esponente della coalizione di destra “Fuerza 2011” e figlia dell'ex dittatore Alberto, che attualmente sta scontando una condanna in carcere per essere stato riconosciuto come mandante di diverse uccisioni di oppositori. Al terzo posto si è classificato Pedro Pablo Kuczynski, mentre l'ex Presidente Alejandro Toledo non è riuscito ad andare più in là del quarto posto, confermando il trend dei sondaggi che lo davano in calo di consensi. Si tratta di un risultato che conferma in parte i pronostici, rivelando l'elevata frammentazione politica del Perù, una democrazia ancora giovane in cui le organizzazioni partitiche non sono ancora riuscite a mettere radici salde: non è un caso se il cartello elettorale della Fujimori è stato creato appena lo scorso anno.

 

LA SITUAZIONE – I cittadini della nazione andina saranno quindi chiamati nuovamente a votare il 4 giugno, giorno nel quale, parafrasando le parole del Premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa, “dovranno scegliere tra l'Aids o il cancro”, riferendosi a Humala e Fujimori. Come mai tanta durezza nel descrivere i due candidati preferiti dall'elettorato? Il fatto è che i vincitori del primo turno sono esponenti delle due facce del populismo, di sinistra e destra, che tanta fortuna ha avuto in America Latina negli ultimi decenni (e che ancora continua ad averne: citiamo solo gli esempi di Hugo Chávez in Venezuela e di Evo Morales in Bolivia). Per questo motivo i due candidati alla poltrona presidenziale sono visti con sospetto da più parti. Da una parte c'è Ollanta Humala, che nel 2006 si presentò alle elezioni con un programma elettorale di matrice socialista e anti-statunitense, in aperta ostilità agli USA che hanno oggi invece nel Perù uno dei maggiori partner in Sudamerica. L'Humala del 2011, che si definisce come nazionalista, appare a dire il vero piuttosto cambiato e il suo programma decisamente più moderato, nonché la decisa presa di distanze da Chávez, che aveva tentato di “tirargli la volata” nei giorni precedenti al voto, devono avere giocato un ruolo positivo per il suo successo. Si tratta solo di sapiente strategia di comunicazione (i responsabili della campagna elettorale di Humala sono gli stessi di Lula in Brasile) o di una vera virata verso il centro dello schieramento politico?

Dall'altra parte c'è Keiko Fuimori, figura relativamente nuova della politica peruviana. La discussa eredità politica del padre, presidente autoritario del Perù dal 1992 al 2000, sembra avere giocato più a suo favore che a suo svantaggio, a testimonianza del fatto che sono ancora diversi nel Paese i sostenitori di Alberto Fujimori, che per primo aveva intrapreso le riforme economiche improntate alla liberalizzazione e all'attrazione di capitali esteri che hanno posto le basi per lo sviluppo economico peruviano. Anche Keiko ha cercato di presentarsi come moderata, assicurando che in caso di vittoria non utilizzerà la sua posizione per concedere un'amnistia al padre e puntando su sviluppo delle politiche sociali e della sicurezza.

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QUALI SCENARI? – Si dovranno fronteggiare indubbiamente i candidati che hanno condotto le migliori campagne elettorali, dal punto di vista della comunicazione e della coerenza del messaggio proposto. E' anche indubbio che l'elezione di entrambi potrebbe rappresentare alcuni rischi: la vittoria di Humala, ad esempio, potrebbe intimorire gli investitori stranieri per il pericolo di nazionalizzazioni e quindi scoraggiare l'afflusso di capitali di cui il Perù ha bisogno per alimentare la propria impetuosa crescita economica.

E' presto per il momento prevedere chi vincerà: Humala sembra il candidato con più possibilità di successo, anche se entrambi avranno bisogno di drenare consensi dal grande “calderone” di elettori che hanno votato per gli altri tre principali pretendenti. Il presidente uscente Alan Garcia aveva già annunciato il proprio appoggio per la Fujimori, il che potrebbe giovarle soprattutto nella capitale Lima. Toledo, sconfitto un po' a sorpresa al primo turno, potrebbe tornare in gioco come ago della bilancia per il secondo turno: il suo 16% messo sul piatto a favore di Humala potrebbe risultare quasi decisivo per arrivare al 50%, così come i circa venti seggi che il suo partito dovrebbe avere in Parlamento e che saranno fondamentali per la stabilità del futuro esecutivo.

Forse la previsione di Vargas Llosa è troppo pessimistica, è abbastanza probabile però il rischio che il Perù entri in una fase di instabilità politica, il che potrebbe avere conseguenze negative anche per lo sviluppo economico. Ecco perchè i prossimi mesi saranno decisivi per la nazione erede degli Inca.

 

Davide Tentori

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Pensare in grande – Cavour crea l’Italia guardando oltre confine

Caffè 150 – I fallimenti dei moti popolari continuarono anche negli anni Cinquanta del XIX secolo, lasciando così spazio a un’altra iniziativa regia. Si può dire che proprio dall’esperienza delle sconfitte della I Guerra d’Indipendenza nacque una vera politica estera italiana, grazie all’osservazione degli errori commessi e dei problemi affrontati. L’importante era cercare una soluzione che andasse anche all’esterno dei propri confini.

 

NUOVI PROTAGONISTI – Nel 1849 il trono Sabaudo è passato al figlio di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II, che si era distinto durante la guerra ma era forse più adatto all’azione che alla pianificazione. Ora infatti non è il re a rendersi protagonista, bensì un Primo Ministro che aveva già dato prova di sé come Ministro delle Finanze e poi della Guerra e aveva le idee molto chiare: Cavour.

 

Invece di farsi trascinare dagli eventi fu lui a guidarli nella direzione auspicata, tramite l’ideazione di una strategia ampia e ben congeniata. Andiamo ad osservarla.

 

L’ESERCITO SI RINNOVA – La politica estera non può risolvere i problemi organizzativi di un esercito, solo nasconderli; ecco perché giova alla causa sardo-piemontese la figura di Alfonso La Marmora, fratello del fondatore dei Bersaglieri, che si impegna ad applicare numerose riforme. Tra le varie migliorie apportate ricordiamo la creazione di servizi di sussistenza decenti: spesso durante la I Guerra i soldati avevano dovuto combattere senza mangiare, con problemi di morale ed efficienza. Il numero dei soldati viene ridotto ma riorganizzando quali classi di età dovevano prestare servizio e allungandolo; il risultato era un esercito con meno uomini ma più addestrati e motivati. A questo si aggiungono altre modifiche organizzative e decreti per ottenere che un numero sempre maggiore di ufficiali venisse promosso per meriti e non per semplice anzianità. In breve, l’esercito che prima contava sulla quantità ora punta sulla qualità.

 

Tuttavia nessuna riforma poteva risolvere il problema principale: affrontare nuovamente l’Austria da soli avrebbe portato a un’altra sicura sconfitta. Come fare per ribaltare la situazione?

 

SERVE PARIGI – La speranza è che la potenza militare degli Asburgo venga rivolta altrove o, ancora meglio, che un’altra grande potenza combatta a fianco dei Savoia. La Francia appare la scelta ideale, perché da secoli la rivale dell’Austria in Italia e potrebbe vedere favorevolmente la formazione di un forte stato almeno nord-italiano suo alleato che si possa opporre a Vienna.

 

Parigi però non mostra uno spontaneo interesse verso questa possibilità, quindi Cavour deve trovare l’opportunità adatta ed essere convincente. E’ necessario uscire dai confini e diventare un – seppur piccolo – giocatore sulla scacchiera europea, una pedina della quale gli altri siano costretti ad accorgersi.

 

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SCACCO IN 4 MOSSE – Cavour gioca la sua partita in quattro fasi.

 

1)      Fa partecipare un contingente sardo-piemontese alla spedizione in Crimea, zona diventata il fulcro delle sfide europee con la Russia opposta a Francia, Gran Bretagna, Austria, Impero Ottomano e… Regno di Sardegna appunto. La partecipazione sabauda è modesta come numeri e marginale come effetto, ma conferma l’efficacia delle riforme di La Marmora e permette a Cavour di partecipare al congresso di pace indetto dai vincitori a Parigi

 

2)      Al Congresso di Parigi Cavour può esporre la situazione italiana agli statisti europei, con disappunto degli Austriaci, guadagnandosi simpatie e interesse da parte di un ambizioso Napoleone III e dell’Inghilterra.

 

3)      Con i successivi accordi di Plombières, Cavour e Napoleone III siglano l’intesa che porterà alla guerra comune contro l’Austria. Il Ministro piemontese sfrutta la vanità dell’Imperatore di Francia, desideroso di mostrare il suo valore… ricordiamo infatti che anche il primo Bonaparte iniziò la sua sfolgorante carriera proprio in Italia, e forse Napoleone III desidera emulare le gesta del suo illustre omonimo predecessore. Torino ha ora il forte alleato che desiderava.

 

4)      Esiste però un problema: l’alleanza è difensiva, ovvero si attiva solo se sono gli Austriaci ad attaccare. Cavour allora ordina la mobilitazione dell’esercito che, pur senza uscire dai confini, si mostra minaccioso, e spera in una sproporzionata risposta austriaca. Vienna ci casca, dichiara guerra e invade per prima. E’ fatta, i Francesi iniziano a passare le Alpi e la guerra per liberare il Lombardo-Veneto ha inizio.

 

L’UNITA’ – La II Guerra d’Indipendenza è un successo, ma ancora una volta sono le grandi potenze e la geopolitica a decidere del futuro italiano. Dopo la vittoriosa, ma sanguinosa, battaglia di Solferino e San Martino Napoleone III decide di firmare la pace con l’Austria prima di aver recuperato il Veneto, anche perché teme che si formi uno stato italiano troppo forte. Ma è un botta e risposta, con Cavour che allora annette tramite plebiscito i principati del centro-nord.

 

Manca ancora un tassello all’unità della penisola, ed è Garibaldi a fornirlo con la spedizione dei Mille. Noi preferiamo ricordarlo puntando ancora l’attenzione sulle dinamiche internazionali: si ritiene che Cavour usi Garibaldi come arma contro i Borbone, tuttavia è un’arma che potrebbe sfuggirgli di mano. Esiste infatti il timore che l’”Eroe dei due mondi” possa dirigersi anche verso Roma, protetta dai Francesi: questo potrebbe causare una nuova guerra con Parigi! Con l’approvazione di Napoleone III allora fa invadere il Centro Italia pontificio e sfrutta la fedeltà assoluta di Garibaldi al re per ottenere il passaggio di poteri del sud Italia alla monarchia sabauda, prima che la situazione precipiti. Il piano funziona anche questa volta.

 

E’ il 1861: il Regno d’Italia è nato, e Cavour ne è l’artefice. Nonostante fosse la guida di un piccolo stato ha pensato in grande, e così facendo ha cambiato la faccia d’Europa.

 

Lorenzo Nannetti

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I tre giorni del destino

2, 9 e 16. Niente cabala né lotterie. Sono i tre giorni di aprile in cui la Nigeria doveva andare alle urne, e decidere del suo destino. La Independent National Electoral Comission (Inec), a causa della mancanza di schede e scrutatori in buona parte dei seggi allestiti nel Paese, ha rinviato le elezioni. Così, il 9 aprile si è votato per il rinnovo della camera bassa del Parlamento, il 16 si terranno le presidenziali, mentre il 26, nei 36 Stati della federazione, si sceglieranno governatori e parlamenti locali. Tra rischi di caos politico e nuovi brogli, nuove speranze nascono da una più attiva partecipazione politica dei giovani, che rappresentano il 70% della popolazione

IL PREZZO DELLA LIBERTA’ – Le elezioni parlamentari del 9 aprile hanno dato inizio ad una vera maratona elettorale, che prosegue sulla scia di una campagna funestata da numerosi attentati e violenze. Human rights watch ha stimato che almeno 85 persone sono state uccise dal novembre scorso ad oggi in violenze legate alle primarie dei partiti e alla campagna elettorale.

La Nigeria non è un Paese come altri, in Africa: è lo Stato più popoloso del continente, e potrebbe diventare entro breve il gigante economico e la potenza di riferimento dell'Africa. Ha un mercato interno dalle enormi potenzialità, e l'immensa disponibilità di idrocarburi (gas e petrolio) sono i formidabili motori della crescita di un Paese ambizioso, che guarda lontano e pensa in grande. Promesse che si realizzeranno solo a patto che la Nigeria riesca a fare i conti con se stessa e superi le sue grandi fragilità istituzionali e la forte instabilità politica.

Le già citate tre date di aprile rappresentano una sorta di roulette russa in cui il Paese si gioca tutto. Il clima che si respira è tutt’altro che disteso. La violenza continua a costituire una grave minaccia per la sicurezza e l'ordine del Paese, e la cronaca non manca di segnalare i diversi morti causati da tali violenze.

I supporter del partito del governo federale, il Peoples Democratic Party (Pdp) e i rivali del Labour Party (Lp) si sono scontrati più volte, in molti casi con la benedizione di strutture occulte degli stessi partiti che da anni coltivano milizie e gruppi paramilitari. Le tensioni più forti si sono avvertite a Jos, capitale dello Stato di Plateu, dove la maggioranza cristiana si è scontrata con la minoranza musulmana che vorrebbe imporre la Sharia, la legge islamica.

LO SPETTRO DEL CAOS POLITICO – Il Presidente uscente Goodluck Jonathan (foto sotto) ha detto dichiarato di non volere "che le elezioni di aprile finiscano in un bagno di sangue". Certo però il sangue continua a scorrere, ed è lo stesso Presidente ad aver fortemente innalzato il livello di tensione, infrangendo una regola non codificata che era garanzia di stabilità, prevedibilità politica e alternanza. Si tratta dello zooning, il criterio guida nell'assegnazione dei posti chiave nell'amministrazione statale, che vale soprattutto all'interno del Pdp, al governo dal 1999, anno della fine del regime militare. In base a tele regola, ad un candidato del nord musulmano si abbinava un vice del sud cristiano, e nelle elezioni successive si invertiva il ticket.

Jonathan è un cristiano del sud che era stato eletto nel 2007 come vice di Umaru Yar'adua, uscito di scena per malattia nel 2009 e morto nel maggio 2010. Per mesi si è discusso se fosse giusto o meno che Jonathan si candidasse ancora. Sarebbe dovuto toccare a un candidato del nord, eppure il Presidente si è presentato di nuovo, spaccando il suo partito e creando una fronda nordista che mette insieme tre candidati delusi, con la benedizione del principale avversario interno, il generale Ibrahim Babangida. Il Pdp appare dunque come un partito logorato, e la sua presa sul potere si sta allentando. Jonathan lo sa, ma sa anche che la posta in palio è alta. In un Paese ricco ma in cui il 92 per cento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno, l'accesso alle risorse è vitale. E la politica, che usa identità etniche e religioni come facili strumenti di aggregazione del consenso, garantisce proprio questo. Anche così si comprendono le morti negli scontri etnici, di matrice politica e religiosa. Jonathan non vuole passare la mano, e il sistema di potere da lui creato si è già messo in moto. Ad oggi, secondo alcune statistiche preliminari, sarebbe proprio il presidente in carica il favorito alle elezioni.

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PROSPETTIVE: LA SPERANZA GIOVANE DEL PAESE – In questo quadro un dato significativo è rappresentato dalla prospettiva di avere un’affluenza massiccia alle urne. Ci si aspetta che quasi il doppio dei nigeriani si rechi ai seggi rispetto alla tornata elettorale del 2007. Il merito è dei giovani, che cominciano a rivendicare un ruolo attivo in politica. Per molto tempo la politica ha ignorato i giovani, a loro volta poco impegnati. Ma le cose stanno cambiando, considerando anche che il 70% dei nigeriani ha meno di 35 anni. Di recente è partita una campagna tramite Facebook e sms per convincere i giovani ad iscriversi alle liste elettorali. Inoltre, negli uffici di registrazione degli elettori, i giovani hanno portato acqua e cibo per aiutare gli impiegati a svolgere al meglio il loro lavoro.

E così, tra immagini di giovani donne che allattano mentre aspettano in fila e alcuni ragazzi che passano la notte fuori per essere sicuri di riuscire ad iscriversi, si sono registrati al voto 67 milioni di nigeriani, contro i 35 milioni del 2007. La percentuale di nuovi giovani elettori è dunque altissima. Molti sono ancora convinti che il partito al potere riuscirà a vincere con i brogli, anche se si percepisce con forza un nuovo dinamismo ed una rinnovata voglia di impegno da parte della popolazione. Dalla fine della dittatura militare, la politica nigeriana è stata in gran parte senza ideologie. Invece di una battaglia tra idee, vi è stato uno scontro tra chi poteva investire più soldi per comprarsi la vittoria, tra denaro contante ai leader locali e sacchi di riso alle donne, tra promesse di strade nuove o riparate alle quali nessuno credeva. In tale contesto, la partecipazione dei giovani potrebbe stimolare un dibattito più concreto. I candidati non si limiteranno più ad organizzare i comizi, ma saranno tenuti a rispondere a domande su questioni importanti. Anche se dovranno cambiare molti aspetti, dalla violenza occasionale al clientelismo, sino alla tiepida partecipazione alla classe media, non si può ignorare il risveglio, lento ma intenso, della fascia più giovane della popolazione. Così, tra sogni di grandeur e il rischio del caos politico, la Nigeria va alle urne giocandosi i suoi tre numeri.

 

Adele Fuccio [email protected]

 

Analisi correlate: leggi qui gli articoli del Caffè Raschiare il fondo del barile e Giovani democrazie crescono (o muoiono)

Cambiare? No grazie

Secondo espresso relativo agli eventi che stanno sconvolgendo Damasco. Chi vuole una nuova Siria? Nessuno, praticamente. Sia gli amici che gli avversari concordano su un punto cruciale: cambiare regime – e minare fortemente la stabilità regionale – rischia di non convenire a nessuno. Sembra una semplificazione eccessiva, ma in politica il detto popolare è quanto mai considerato e rispettato: chi lascia la strada vecchia per quella nuova…

 

(2. segue. Leggi qui la prima parte: Non è (solo) effetto domino)

 

STATUS QUO – Riguardo alle proteste, la reazione del governo siriano è tutta sintetizzata nel discorso di Al-Assad, il quale, viste le sue affermazioni, sembra cosciente del fatto che la situazione non stia prendendo la giusta piega. Non per niente, attraverso l’impegno nel soddisfare le richieste dei siriani (quelle stesse richieste che negli anni sono rimaste inascoltate), il regime sta cercando di dare prova di stabilità sia all’interno che all’estero. Infatti, è proprio quest’ultimo aspetto a impensierire maggiormente gli outsiders. La Siria sta tentando di ottenere l’appoggio non solo dei suoi più amichevoli vicini come la Turchia e l’Iran, ma persino dei paesi con i quali non intrattiene rapporti particolarmente buoni (USA e Arabia Saudita tra gli altri) o con Israele, con il quale è ancora formalmente in guerra. Bashar sa perfettamente che tutti (ma proprio tutti) nella regione sono convinti che mantenere lo status quo sia la migliore garanzia di sicurezza e che, viceversa, un ribaltamento di equilibri potrebbe sfociare nel medio periodo nell’instabilità. Il complicarsi dello scenario nordafricano e lo scricchiolare delle fondamenta del mondo arabo gettano il panico su chiunque abbia qualche interesse in Medio Oriente, ma soprattutto sui principali attori regionali.

 

GLI AMICI – In primis, è la Turchia della “Strategic Depth” (la visione turca della politica estera, dal saggio di Ahmet Davutoglu, attuale Ministro degli Esteri) lo Stato che che, mirando ad espandere una certa influenza nell’area – anche in vista di un peggioramento delle relazioni con Israele – non beneficerebbe affatto (si pensi alla questione curda) di una eventuale caduta del regime siriano con il quale è in ottimi rapporti. Stesso si può dire per gli altri tre attori vicini: cioè Libano, Arabia Saudita e Iran. A Beirut, ma soprattutto a Teheran, è evidente che se il governo di Assad dovesse cedere, verrebbe meno un potenziale alleato nella regione, e si troverebbero senza l’appoggio del quarto importante attore anti-israeliano (e anti-americano) nella regione. Riyad, all’unisono, ha chiosato affermando che tiene molto alla piena stabilizzazione dei conflitti che stanno agitando la Siria, essendo in sostanza pienamente favorevole al regime.

 

GLI AVVERSARI – Infine, nelle posizioni probabilmente più scomode ci sono Israele e gli Stati Uniti. Andando con ordine, per Tel Aviv l’eventuale crollo siriano potrebbe cambiare tutto oppure niente. Damasco è già percepita come un avversario nel mondo israeliano, ma certo non come il peggiore. Infatti nonostante sia risaputo che la Siria sostiene Hezbollah in Libano, dalla guerra del Kippur (1973) in poi, il confine del Golan – le cui terre, contese dai due Paesi, sono tuttora occupate da Israele – è stato senz’altro quello che ha creato meno problemi. Così, per quanto possa sembrare paradossale, il governo Netanyahu non vedrebbe affatto di buon occhio la nascita di un nuovo governo siriano (magari meno laico e maggiormente fondamentalista).

Per finire, gli Stati Uniti. È ormai sotto gli occhi di tutti come Washington non solo abbia serie difficoltà a gestire (e comprendere) la situazione nel mondo arabo che si va man mano infiammando, ma soprattutto cerchi di metterci bocca il meno possibile per limitare i danni. L’onda che si espande verso il Golfo rischia di generare una serie di ribaltamenti nell’attuale assetto che potrebbero minacciare in larga parte interessi americani nell’area mediorientale. La Siria è ovviamente uno scenario particolarmente sensibile in questo contesto, e per tale ragione – nonostante non scorra buon sangue tra i due Paesi – la Casa Bianca ha subito cominciato ad adoperarsi per fare in modo che Bashar sia credibile e garantisca l’assoluta stabilità del regime alawita.

 

Paolo Iancale

Questo vertice non s’ha da fare

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La III° Cumbre América del Sur – Paìses Arabes (ASPA), che doveva realizzarsi a Lima nel mese di febbraio di quest’ anno è stata dapprima spostata ad aprile per poi essere definitivamente rinviata a data da destinarsi a causa della guerra in Libia e dell’ aggravarsi della situazione in Nordafrica. Vediamo brevemente di cosa si tratta, come si collocano i paesi latinoamericani rispetto alla situazione in Africa settentrionale e quali sono le prospettive future.

LE ORIGINI DELLA CUMBRE – Questo importante vertice di cooperazione interregionale tra America Latina e Medio Oriente è nato con l’ intento di creare una sinergia a livello economico e commerciale ma anche politico tra queste due importanti regioni del mondo.

Da questa premessa si è quindi passati ad una cooperazione di fatto, che ha però preso forma solo recentemente con la Cumbre ASPA, celebrata a Brasilia il 10 e 11 di maggio del 2005, sotto l’ impulso del Brasile, nuova potenza mondiale, e con l’ intento di aprire le porte dell’ Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR) anche a blocchi regionali esterni alla zona, come quello della Lega Araba. Nelle intenzioni dei Paesi partecipanti vi era la volontà di creare un’ agenda “biregionale” di sviluppo economico e sociale sostenibile, da portare avanti nei diversi fora regionali ed internazionali. Si può concludere che questo primo vertice ha avuto risultati abbastanza incoraggianti sul piano commerciale, soprattutto per gli Stati sudamericani, dato che ha permesso, ad esempio, all’ Argentina di esportare nella regione mediorientale un flusso di 4.500 milioni di dollari (circa il 6% circa del totale delle sue esportazioni) e al Brasile un totale di 20.000 milioni di dollari nel 2008 (quasi il doppio di quanto esportato nel 2005, prima della Conferenza).

La II° Cumbre ASPA ha avuto luogo il 31 marzo del 2009 a Doha, Qatar, ed è stata invece caratterizzata dalla comune preoccupazione per la crisi economica mondiale. Così gli Stati dell’ UNASUR e quelli della Lega Araba hanno concertato misure e posizioni congiunte volte a mitigare le conseguenze della profonda recessione economica. La dichiarazione finale fa infatti riferimento all’ esigenza di adeguare il sistema finanziario internazionale di fronte alle minacce della crisi e aggiunge due obiettivi relativi alla cooperazione in temi ambientali e di sviluppo sostenibile ed in ambito scientifico, tecnologico ed educativo.

BRASILE PROTAGONISTA – Si arriva dunque ai giorni nostri, con la progettata e poi rinviata III° Cumbre ASPA, che vedrà sicuramente come protagonista, ancora una volta, l’attore principale della regione latinoamericana: il Brasile. Brasilia si presenta come l’ interlocutrice più importante per le principali potenze della Lega Araba, come Egitto ed Arabia Saudita, tanto per l’ampliamento dei mercati quanto per la cooperazione in nuovi spazi culturali e sociali.

In quest’ ottica è di fondamentale importanza il riallacciamento dei rapporti diplomatici e commerciali con gli USA di seguito alla recente visita di Obama perché ha obbligato il Brasile ad assumere una posizione di equilibrio sulla guerra in Libia, non criticando apertamente l’ operazione militare e al contempo auspicando un immediato cessate il fuoco nel paese nordafricano. La presidentessa Dilma Rousseff ha infatti sottolineato la necessità della ricerca di un dialogo tra le forze in conflitto e la protezione dei civili nell’ area. Non dimentichiamo che il Brasile è stato uno dei cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’ ONU che si è astenuto nella votazione della risoluzione 1973, che aveva creato una “no fly zone” nei cieli libici.

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COSA DICONO GLI ALTRI SULLA GUERRA – Dall’ inizio delle rivolte in Africa settentrionale, che hanno causato dapprima la caduta dei regimi tunisino ed egiziano e poi l’inizio della guerra in Libia, i paesi latinoamericani hanno avuto occasione di prendere posizione nei confronti di questo intervento militare, le cui operazioni sono ora passate sotto l’ egida della Nato. Nella maggior parte dei casi i leader sudamericani ritengono i bombardamenti una misura eccessiva e non necessaria, come dimostrato dalla posizione assunta da Venezuela, Bolivia, Argentina ed Uruguay per citarne alcuni. Questi Stati considerano l’ intervento una vera e propria ingerenza nella sovranità dello Stato libico, criticano la posizione ambigua assunta dall’ Onu e chiedono espressamente una risoluzione pacifica della controversia e sanzioni per gli Stati responsabili dell’ attacco.

Dall’ altra parte del guado, una serie di paesi come Cile, Perù e Colombia, tra gli altri, sono su posizioni favorevoli all’ intervento militare. Il governo cileno, ad esempio, ha fatto sapere di appoggiare apertamente gli attacchi e di deplorare le azioni poste in essere del regime libico mentre quello colombiano ha dichiarato che il paese sosterrà sempre le iniziative volte a difendere la libertà e la democrazia nel mondo.

QUALE FUTURO? – Nonostante, quindi, negli ultimi anni si sia sviluppata una stimolante cooperazione interregionale tra America Latina e Medioriente, il futuro della prossima Cumbre ASPA è legato alla soluzione del conflitto libico e della situazione nordafricana in generale. Non solo, al momento, non è dato sapere quando e come finirà la guerra in Libia ma soprattutto sono ignoti i nuovi assetti socio-economici che assumeranno Stati di primo piano in seno alla Lega araba, come l’ Egitto, che dovrà decidere sul dopo – Mubarak, o come Siria e Bahrein dove le rivolte popolari contro i rispettivi regimi sembrano in fase di gestazione. In conclusione di questa III° Cumbre ASPA pare che non si dovrà decidere solo la data ma anche il contenuto dell’ agenda dato che cambieranno sicuramente le carte in tavola e gli interessi geostrategici e geoeconomici degli attori coinvolti.

Alfredo D’Alessandro

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Non è (solo) effetto domino

Tutto sembra essere cominciato lo scorso 17 dicembre, quando un ambulante tunisino si è dato alle fiamme dopo aver subito l’ennesimo sopruso da parte delle forze dell’ordine. Da allora egli è diventato il simbolo delle masse di giovani oppressi in cerca del riscatto e il mondo arabo è in subbuglio. Ma è davvero possibile pensare che tutti questi Paesi soffrano dello stesso male? No di certo. Non è solo un tam-tam tra giovani, come da semplificazioni eccessive di troppi media: ogni Stato ha sue specifiche particolarità interne. Un esempio su tutti è quello della Siria. Con questa analisi in due diversi “espressi”, cerchiamo dunque di capire cosa caratterizza i tumulti e le rivolte contro Assad

 

UN CASO A PARTE – A quanto pare, l’onda d’urto generata dall’esplosione di tumulti nel Maghreb prosegue la sua avanzata. La minaccia, che man mano si propaga verso il Golfo Persico, continua a tenere sulle spine i governi del mondo arabo-mediterraneo. Le evidenti cause della mobilitazione generale (malessere diffuso tra popolazioni giovanissime e senza futuro, ingiustizie sociali, corruzione negli ambienti economici e militari, dissapori tra comunità tribali, ma soprattutto forte voglia di cambiamento, largamente condivisa attraverso l’uso di tecnologie di comunicazione di massa) sono un cocktail che può essere rintracciato in ciascuno degli scenari che sono attualmente scossi dal possente “sisma”. Ma l’enorme carico di notizie che, giorno per giorno, affolla le prime pagine dei quotidiani può creare confusione, raggruppando ogni tipo di manifestazione rivoluzionaria sotto l’ombrello di questa “rivoluzione araba”, e quindi celando involontariamente aspetti particolari di determinati scenari. Il caso siriano è senz’altro peculiare e vale la pena quindi analizzarlo sotto due profili: quello interno per scoprire quali sono i sentimenti che muovono le folle che ultimamente si sono riversate nelle piazze di Dar’a,Banyas, Latakia e altre città siriane, per contestare, ma anche sostenere, il governo di Bashar Al-Assad; e quello legato al sistema regionale del quale fa parte per capire quanto la sopravvivenza di un governo può (forse) garantire la stabilità di una regione.

 

MINORANZA MAGGIORITARIA – La questione siriana trova le sue radici nei rapporti conflittuali, presenti già da tempo, tra gruppi etnici e religiosi presenti all’interno del paese. La Siria, come peraltro altri paesi della regione, ha una società multietnica e multi-confessionale. Sotto il profilo etnico, gli arabi in Siria sono il quasi l’85%, seguiti da ebrei, ameni e curdi (questi ultimi quasi il 9% del totale). La maggioranza dei cittadini è musulmana sunnita (70%), accanto alla quale esistono minoranze cristiane (10%) e sciite (circa 11-12%). Quest’ultima è formata propriamente da fedeli alawiti (minoranza sciita), ed è proprio a tale credo che appartiene il regime di Assad. Nonostante in Siria la libertà di professare il proprio credo sia formalmente garantita, la convivenza ha generato in moltissime occasioni atti di violenza sfociati nello spargimento di sangue. Nel periodo tra il 1976 e il 1982, il governo del Presidente Hafez Al-Assad, padre dell’attuale leader siriano, si trovò a dover fronteggiare la rivolta armata dei Fratelli Musulmani contro il regime laico del partito Ba’th (il partito al governo), che sfociò nel massacro della città di Hama, mietendo più di ventimila vittime. Da quel momento, non solo la minoranza alawita si è garantita la non interferenza dei Fratelli Musulmani (rendendo di fatto illegale la loro presenza nelle istituzioni) ma ha anche continuato a reprimere ogni tentativo di contestazione, da qualsiasi parte esso provenisse. I mezzi di repressione del malcontento usati durante queste settimane non sono quindi una novità per il regime di casa Assad.

 

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LE FAZIONI E L’ESERCITO – Verrebbe a questo punto da pensare che la situazione siriana non differisca molto da quella di altri Paesi che hanno assistito al repentino ribaltamento dei propri regimi, nei quali una minoranza agiata “affamava” una maggioranza di giovani senza speranza. La realtà è questa, ma non solo. Infatti qui, la differenza è rappresentata dalla presenza consistente delle altre minoranze (oltre a quella alawita al potere) che non hanno nessuna voglia di vedere un governo sunnita salire al potere. Le manifestazioni a favore del governo che si sono susseguite nei giorni scorsi ne sono la testimonianza diretta. Il propagarsi della rivoluzione araba ha gettato nel panico le élite siriane che, preoccupate al pensiero di perdere certi privilegi, agitano lo spettro del collasso iracheno dopo il rovesciamento del regime (i rifugiati in Siria sono quasi un milione) e inneggiano al predecessore dell’attuale leader, il presidente Hafez Al-Assad.

 

Quindi, come spiegato in maniera piuttosto chiara sul blog Syria Comment: «la Siria si divide dunque in fazioni – chi si schiera contro lo Stato e chi parteggia per il Presidente, oppure teme la rivoluzione. La maggioranza silenziosa si tiene ancora ai margini […]. L’esercito resta al fianco del Presidente, il che contrasta con i casi di Egitto e Tunisia. Fintanto che l’esercito resterà unito e fedele al Presidente, l’opposizione avrà problemi a prendere il sopravvento anche parziale del Paese o a far crollare il regime».

(1. continua)

Paolo Iancale

La strategia mediterranea della UE

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I recenti avvenimenti geopolitici che hanno interessato i Paesi nordafricani hanno riproposto i grandi  temi legati alla costruzione di nuovi rapporti Europa-Mediterraneo: la promozione delle riforme e dei diritti dell’uomo,  il dialogo fra culture diverse e l’immigrazione. Recentemente l’UE ha varato un Partenariato per rilanciare la cooperazione con l’altra sponda del mare. Questa volta alle intenzioni seguiranno davvero i fatti?

L’UE PIANIFICA – Lo scorso 8 marzo la Commissione Europea e l’Alta Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza hanno presentato una comunicazione relativa a un “Partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa” con i paesi del Mediterraneo meridionale. Questo per cercare di dare una soluzione ai problemi emergenti della regione.

Gli obiettivi prioritari che ne stanno alla base si fondano su tre pilastri fondamentali: a) sostegno mirato alla trasformazione democratica e allo sviluppo istituzionale, con particolare attenzione ai diritti umani, alle riforme costituzionali e giudiziarie e alla lotta contro la corruzione; b) stretta collaborazione con le persone, insistendo in particolare sul sostegno alla società civile, e maggiori possibilità di contatti tra i giovani; c) la crescita economica mediante lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro, il sostegno alle piccole e medie imprese, il miglioramento del sistema di istruzione e misure improntate allo sviluppo delle regioni più povere.

Con tali strumenti l’Unione vuole seguire un’impostazione basata su incentivi e differenziata a seconda dei paesi secondo il principio "more for more": in altre parole, verranno stanziati aiuti più consistenti a quei Paesi che  si dimostreranno più virtuosi e avanzeranno più rapidamente sulla via delle riforme politiche ed economiche. L'obiettivo è instaurare un dialogo più intenso finalizzato ad instaurare una più stretta cooperazione nel quadro della politica estera e comune (PESC).

IMMIGRAZIONI E COMMERCIO – In secondo luogo rimane di fondamentale importanza il controllo dei flussi migratori, anche  mediante operazioni congiunte quali Frontex HERMES 2011, di gestione delle frontiere, di lotta all'immigrazione irregolare e alla tratta degli esseri umani, di contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione internazionale.

Sul fronte del commercio e degli investimenti le misure adottate dall' Ue  sono mirate a garantire zone di libero scambio , mediante l' approvazione di accordi per favorire una  graduale e progressiva integrazione tra le economie dei paesi partner del Mediterraneo meridionale, anche attraverso interventi nei settori della politica della concorrenza, degli appalti pubblici, della tutela degli investimenti e così via.

ENERGIA E ISTRUZIONE – Rimane obiettivo prioritario la sicurezza energetica. La sua realizzazione richiede un approccio comune, anche mediante investimenti congiunti e in particolar modo nel settore delle energie rinnovabili. Si spera perciò di creare una sorta di "Comunità Ue-Mediterraneo meridionale dell'energia", meglio se basata sulla legislazione europea preesistente in materia.

Nel campo dell' istruzione sarebbe opportuno intensificare gli scambi e la mobilità giovanile attraverso il potenziamento dei programmi attualmente esistenti: in particolare Erasmus Mundus, Euromed gioventù e Tempus. La speranza è che siano proprio i giovani a trasmettere e divulgare i principi di democrazia e cooperazione che saranno alla base dei futuri rapporti.

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TURISMO E TRASPORTI – Ulteriore obiettivo è la promozione dei modelli di turismo sostenibile e della protezione e promozione delle diversità culturali: a tale scopo l'Unione vuole incentivare diverse iniziative culturali nell'area euro-mediterranea.

La cooperazione tra le due aree interessa anche il settore dei trasporti: su tale fronte è necessario un miglioramento della sicurezza e del traffico in particolare nel campo dei trasporti aerei e marittimi.

Infine, il miglioramento delle tecnologie di comunicazione e dei mezzi di trasmissione radiotelevisiva e satellitare sono prioritari nella misura in cui essi contribuiscono significativamente a favorire il processo  democratizzazione della società e la promozione della libertà di espressione.

In chiusura, parafrasando le parole usate dal presidente della Commissione Barroso "E' doveroso per l' Unione sostenere le trasformazioni e quei cambiamenti storici tuttora in atto nel Mediterraneo meridionale, che  recano con sé speranze di maggiore libertà, democrazia e una vita migliore per le popolazioni della regione".

Per tali ragioni l' Unione "è fermamente decisa a fare un salto qualitativo nelle relazioni con i suoi vicini che hanno la volontà e la capacità di intraprendere riforme politiche ed economiche".

L’intera strategia si limita tuttavia a fornire solo linee guida e dichiarazioni d’intenti, mentre non entra nei particolari di quali progetti concreti sia necessario portare avanti per raggiungere gli scopi proposti. Risulta perciò difficile valutare se tali dichiarazioni siano solo di facciata, anche considerando le molte differenze di vedute in materia tra gli stati membri.

Eppure si tratta di un appuntamento al quale l' Europa non può e non deve mancare.

Andrea Carrubba

[email protected]

Molto più che una partita

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Capita spesso che lo sport non sia solo un gioco. Mercoledì 30 Marzo si è tenuta a Mohal, Punjab, la semifinale dei mondiali di cricket tra India e Pakistan. Più di un miliardo di telespettatori hanno assistito alla cosiddetta “guerra senza armi”, che ha letteralmente paralizzato i due Paesi per tutta la durata della partita, otto ore. Il match, da cui è uscita vincitrice l’India, ha riportato a galla le antiche tensioni di un conflitto irrisolto

QUANTO CONTA IL CRICKET – Frammentata in una miriade di religioni, la popolazione indiana è unita dal cricket, il credo comune. Importato negli anni venti dai colonizzatori inglesi, è sempre stato più che uno sport: era ed è tuttora una prova di forza, il mezzo con cui imporre la propria supremazia. Sulla madrepatria prima, sui Paesi avversari ora.

Per questo, alla vigilia dello scontro, un’atmosfera febbrile aleggiava sul’intero subcontinente. Come se non bastasse, si trattava del primo scontro giocato sul suolo di uno dei due Paesi dagli attentati di Mumbai del 2008, nei quali l’India ha sempre visto lo zampino dell’eterno nemico. Nella semifinale del 30 Marzo, dunque, non si giocava solo l’accesso alla semifinale contro lo Sri Lanka, ma anche l’ennesima battaglia di una guerra antica come i due Paesi stessi.

QUANTO CONTA IL KASHMIR – La rivalità tra India e Pakistan ebbe inizio immediatamente dopo il crollo dell’Imperialismo coloniale inglese, quando il subcontinente fu diviso nelle due attuali nazioni, destinate ad ospitare rispettivamente Indù e Musulmani. Seguì successivamente una guerra per determinare i confini del Kashmir, confini mai accettati da ambo le parti. La regione, a maggioranza musulmana, è stata teatro di abusi dei diritti umani e (anche di recente) di rivolte popolari, sovente appoggiate dallo Stato pakistano. Da parte sua, invece, nel 1971 l’India aiutò il Pakistan Orientale a ribellarsi e a costituire il Bangladesh. Nonostante alcuni tentativi di porre fine alle tensioni da parte di premier illuminati, il terrorismo si inserì nel lessico del conflitto a partire dagli anni 90. La situazione precipitò ulteriormente il 26 novembre del 2008, quando dieci distinti attentati terroristici colpirono simultaneamente Mumbai, cuore vibrante e capitale finanziaria dell’India, provocando 195 vittime.

CRICKET DIPLOMACYData l’importanza del momento, il Primo Ministro Indiano Dr. Manmohan Singh ha invitato il Presidente pakistano  Asif Zardari e il Primo Ministro Yousuf Raza Gilani a guardare il match insieme allo stadio di Mohal, sul suolo indiano. Tale gesto, esplicitamente diretto a sciogliere la tensione, ha raccolto un’ondata di scetticismo. Infatti, la ben nota cricket diplomacy si è già dimostrata più volte non all’altezza della situazione: nel 1987 la visita del generale pakistano Zia-ul-Haq a Jaipur era stata più un’ostentazione delle testate nucleari da poco acquisite. Solo la visita di Pervez Musharraf a Delhi nel 2005 era stata produttiva, avendo posto fine al conflitto sul ghiacciaio Siachen e le acque del Sir Creek e gettato le basi per una risoluzione della questione Kashmir. Questi sforzi vennero vanificati nel 2007, quando al posto di Musharaff salì al potere il generale Ashfaq Kayani.

All’indomani della partita, comunque, il giudizio finale sembra coerente con i precedenti storici: l’amore per lo sport e in particolare per il cricket ancora può poco contro un patriottismo pronto a sfociare in odio. Infatti, nonostante i tentativi di nasconderle, circolano notizie contrastanti riguardo all’arresto di un autista della missione diplomatica pakistana a Delhi. Mentre il Pakistan sottolinea l’insensatezza del gesto, l’India minimizza riducendo l’accaduto ad una semplice misura di sicurezza.

Gloria Tononi [email protected]