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I nuovi Ottomani

La politica estera turca del secondo governo AKP e del suo Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu è da molti considerata come totalmente alternativa rispetto alla tradizionale politica estera turca. Essa infatti avrebbe compiuto uno spostamento del suo asse (shift), da posizioni atlantiste, fondate su una forte alleanza con gli Stati Uniti d’America, ad una concezione multilaterale e poliedrica del ruolo della Turchia nel suo contesto regionale, indicata come “Neo-ottomanismo”

UN NUOVO IMPERO? – Col termine “Neo-ottomanismo” si vorrebbe definire quindi una rivitalizzazione dei tradizionali legami storici, culturali, economici e geopolitici fra la Turchia e i suoi vicini, in particolar modo Mediorientali, che porterebbe alla ricostituzione di un blocco geopolitico simile a ciò che è stato l’Impero Ottomano. La dirigenza turca respinge in toto sia l’idea di un cambiamento dei tradizionali orientamenti della politica estera, sia la volontà di ricostituzione di un blocco internazionale che agisca come perno della regione mediorientale, caucasica e balcanica, come fatto per quasi cinque secoli dall’Impero ottomano.

Analizzando l’idea dello shift della politica estera turca in primis ci si dovrebbe chiedere verso dove questo spostamento sia stato attuato. Indubbiamente si possono rintracciare due grandi aree nelle quali tale spostamento appare evidente. La prima è l’orizzonte ideale della classe di governo turca: seppure essa non manchi di fare riferimento continuamente alla figura del fondatore Mustafa Kemal, la sua concezione storico-politica è tutta tendente a recuperare i legami della nuova Turchia con la sua storia ottomana, agendo implicitamente in contrasto con la ratio che aveva portato Ataturk a fondare la Turchia repubblicana. Questo recupero non solo riguarda una maggiore enfasi sulla religione, ma determina una rivitalizzazione di una concezione geopolitica di perno sia della regione mediorientale sia della totalità del mondo musulmano sunnita. La seconda area riguarda le relazioni internazionali e in particolare l’indebolimento della tradizionale alleanza con gli Stati Uniti, una minore enfasi del ruolo turco nella NATO e un maggiore dinamismo in politica estera, basato su una concezione apertamente multilaterale delle relazioni internazionali. Il processo di integrazione della Turchia nell’UE può essere ricondotto a questa nuova sensibilità multilaterale.

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QUALI EFFETTI – Ci si potrebbe ora chiedere se questi cambiamenti dei tradizionali orientamenti della politica estera turca abbiano effetti marginali, siano in qualsiasi modo trascurabili, oppure abbiano una valenza di fondo nel modificare le strategia politiche della Repubblica turca. Mentre molti osservatori indicano come indubbiamente la Turchia stia voltando le spalle all’Occidente, pare in assoluto più corretto dire come la Turchia resti, nei suoi orientamenti più profondi, ancora strettamente legata all’Occidente in particolare in ambito economico. Infatti, mentre molti analisti non fanno che sottolineare i rapporti economici fra Ankara e i Paesi del Golfo e l’Iran, tralasciano come buona parte dell’interscambio commerciale, degli investimenti diretti esteri provenga da occidente e in particolare dai Paesi europei. (Nel grafico: ammontare degli investimenti diretti esteri (IDE) in Turchia ad ottobre 2010 – tratto da www.invest.gov.tr)

Oltre a ciò è necessario ricordare come l’entrata della Turchia nella NATO e il suo processo di integrazione comunitaria facciano parte di un tradizionale orientamento della politica estera prima ottomana e poi turca iniziata con l’era Tanzimat, il cui fine era duplice: colmare il ritardo militare ed economico della Sublime Porta con le potenze europee e ottenere da esse un completo riconoscimento dello status di potenza europea dell’Impero ottomano.

UN RAPPORTO NECESSARIO – Su questi elementi si può indicare come la Turchia, data la sua posizione geografica, si veda obbligata a perseguire una politica europeista a patto di non voler rinunciare alla sua massiccia crescita economica. Infatti, seppure lo volesse, la Turchia non potrebbe voltare completamente le spalle all’Occidente e dovrebbe continuare a guardare, come un Giano bifronte del Bosforo,sia ad oriente che ad occidente. Infatti le modifiche che la classe di governo turca sta imponendo in politica estera fanno parte di un disegno coerente che mira a riproporre la Turchia come un attore internazionale di prima grandezza. Tale disegno si basa su una ambiguità di fondo, data dal perseguimento di due politiche apertamente in contrasto: l’integrazione nell’UE, infatti non appare in qualunque modo compatibile con il rafforzamento del ruolo internazionale della Turchia, che ha manifestato ad esempio la volontà di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Tale ambiguità si dovrà prima o poi scontrare con la realtà economica della Turchia e la sua necessità di mantenere stretti legami con i Paesi europei. Infatti sia il rafforzamento a livello internazionale della posizione turca, sia il consenso elettorale dell’Adalet ve Kalkinma Partisi si fondano su una massiccia crescita economica data da ingenti investimenti esteri e dalla partecipazione all’area doganale UE. Senza tali elementi la Turchia ritornerebbe alla marginalità che l’ha contraddistinta durante la Guerra Fredda. La domanda che ci si dovrebbe porre dunque non è se l’Occidente abbia perso la Turchia, ma se la Turchia possa permettersi di perdere l’Occidente.

 

Antonio Cocco

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Strauss Kahn’t

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L'arresto a New York di Dominique Strauss Kahn, ormai ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, apre diversi interrogativi sia per la politica internazionale che per quella interna francese. “DSK” era infatti intenzionato a partecipare alle elezioni presidenziali che si svolgeranno nel 2012, come principale rivale di Nicolas Sarkozy. Quali sono ora le prospettive per Parigi e il futuro del FMI?

CARRIERA FINITA – Qualunque sia l'esito del processo nel quale è imputato, Dominique Strauss-Kahn, direttore generale dimissionario del Fondo Monetario Internazionale (la principale istituzione economico-finanziaria internazionale insieme alla Banca Mondiale), è ormai al capolinea della sua carriera politica. L'accusa di violenza sessuale che gli è stata rivolta, e della quale si sarebbe macchiato in un albergo di New York, così come la pubblica umiliazione davanti ai media di tutto il mondo, che lo hanno mostrato ammanettato in un'aula di tribunale, sono state infatti abbastanza per far cadere l'economista francese dall'altare alla polvere in meno di ventiquattr'ore. Le porte del FMI, così come quelle dell'Eliseo, si sono ormai chiuse irrimediabilmente. Strauss Kahn era infatti intenzionato a partecipare alle elezioni presidenziali francesi, in programma l'anno prossimo, come candidato del Partito Socialista e quindi principale rivale di Nicolas Sarkozy.

 

SARKO-SI'? – E' probabile che dopo questo terribile autogol commesso da “DSK” (questo l'acronimo con cui viene chiamato in Francia), le chances di Sarkozy di ottenere un secondo mandato riprendano quota. Non c'è dubbio che Strauss-Kahn rappresentasse un avversario scomodo per il Presidente in carica, e molti transalpini credono che l'ex direttore del Fondo Monetario sia caduto vittima di un complotto. Non è questa tuttavia la sede per discutere di simili ipotesi, così' come delle vicende giudiziarie di Strauss-Kahn. Si possono invece tracciare alcuni scenari per il futuro della politica interna francese.

DSK era in testa nei sondaggi, sia per quanto riguarda le preferenze in confronto agli altri possibili candidati del Partito Socialista (il segretario Martine Aubry, Francois Hollande e Ségolène Royal), che per quanto riguarda le intenzioni di voto per le presidenziali, distanziando nettamente il “boccheggiante” Sarkozy, i cui consensi sono da mesi in caduta libera e preoccupantemente vicini a quelli della candidata dell'estrema destra, Marine Le Pen.

Perciò, Strauss-Kahn rappresentava il candidato ideale per i Socialisti francesi, che probabilmente per la prima volta dopo un ventennio (l'ultimo fu Mitterrand) avrebbero avuto la possibilità di tornare ad occupare l'Eliseo. Un partito considerato ormai “vecchio” e non ancora ricettivo delle evoluzioni della sinistra europea attuale, avrebbe avuto la possibilità di presentarsi rinnovato con una figura di altissimo profilo istituzionale. Ora, invece, le quotazioni di “Sarkò” potrebbero risalire, approfittando della riorganizzazione interna ai Socialisti.

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IL MONDO BUSSA ALLA PORTA DEL FMI – Le dimissioni di Strauss-Kahn dalla carica di Direttore Generale del FMI erano un atto dovuto, e sono persino giunte in ritardo rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato. Che succederà ora? Per il momento la carica di DSK è stata occupata dal vice-Direttore, John Lipsky, ma la contesa per la successione è appena cominciata e sembra già molto agguerrita. I principali Paesi in via di sviluppo, infatti, reclamano il proprio diritto ad occupare la poltrona al vertice e chiedono che venga cancellata la prassi in vigore dalla nascita di Fondo Monetario e Banca Mondiale secondo la quale il leader delle due organizzazioni sarebbe stato rispettivamente un europeo e uno statunitense: una “spartizione” che ormai a Cina, Brasile e Sudafrica sta troppo stretta. I tre Paesi hanno infatti già presentato informalmente la volontà di presentare propri candidati per la sostituzione di Strauss-Kahn. Quest'ultimo aveva effettivamente contribuito, nel corso del suo mandato (era in carica dal 2007), ad aumentare l'importanza dei Paesi in via di sviluppo nella gestione delle risorse del Fondo, promuovendo l'aumento delle quote di capitale sottoscritte da economie ormai leader mondiali come quella cinese e brasiliana. Il ruolo di Strauss-Kahn è stato molto importante anche nella gestione della crisi economica che sta colpendo la zona euro: i 51 miliardi di euro che il Fondo ha prestato ad Irlanda e Grecia superano la dimensione degli altri venti programmi di finanziamento rivolti ai Paesi non europei.

Se si combinano questi due effetti, zona euro in difficoltà e debitrice del FMI e peso sempre maggiore dei Paesi in via di sviluppo, si può vedere il delinearsi di una nuova dinamica che sta ridisegnando i rapporti di forza economica internazionale. La caduta di Strauss-Kahn è un episodio che non avrà ripercussioni decisive sul futuro del FMI, ma che potrebbe in qualche modo accelerare cambi nella struttura dell'organizzaione che si sarebbero comunque verificati nel giro di pochi anni.

 

Davide Tentori

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Ma quanta fame ha questa Cina?

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 Un interessante studio della Cepal (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi) evidenzia gli effetti economici prodottisi dopo l’ irruzione del gigante Cina sul mercato globale, con particolare riguardo alla regione latinoamericana. La crescita esponenziale dell’ “elefante” asiatico e la sua fame di materie prime ha fatto si che le esportazioni, nel periodo preso in considerazione dallo studio, si siano di fatto impennate con conseguenze notevoli sulle bilance commerciali degli Stati di tutta l’ area. Ma dall’ analisi è possibile ricostruire anche un nuovo quadro geoeconomico tutt’altro che omogeneo per gli Stati latinoamericani. Vediamo perché… 

L’ ANALISI DELLA CEPAL – Dal punto di vista squisitamente economico, in diversi studi si rileva una maggiore sincronizzazione nei movimenti commerciali tra la Cina e la regione centro e sudamericana negli ultimi anni. Ma la ricerca statistico-economica fatta dalla Cepal al riguardo è importante perchè aiuta a capire meglio l’ “effetto Cina” sui prezzi delle materie prime a livello non solo regionale ma anche mondiale. Le materie prime, prese in considerazione dallo studio, sono i prodotti energetici quali greggio e gas naturale, minerali e metalli quali rame, ferro e zinco, olii come la farina di pesce e la soia, alimenti e bevande come caffè, zucchero e banane, le carni ed infine prodotti forestali come il legname e la pasta di legno.

Lo studio, presentato ad aprile, calcola il valore totale delle esportazioni dalla regione latinoamericana delle 15 materie prime al fine di poter valutare le entrate sulla bilancia commerciale. Il periodo preso in considerazione va dal 2002 al 2007. Il totale delle esportazioni di questi 15 prodotti dall’ America Latina ammonta a circa 260.000 milioni di dollari nel 2007, il che rappresenta i due terzi delle esportazioni di materie prime della regione e circa un terzo del totale delle entrate derivate dalle esportazioni totali.

Concentrando l’ attenzione sulla Cina ed Hong Kong (Stato sotto amministrazione speciale della Cina), invece, il valore delle esportazioni delle 15 materie prime provenienti dall’ America Latina si aggira tra i 41.000 e i 73.000 milioni di dollari, con un valore medio di 56.000 milioni di dollari, relativamente al 2007 e l’aumento dopo il 2002 è stato di ben 34.000 milioni. Il valore medio citato rappresenta il 21% del valore totale delle esportazioni delle 15 materie prime e il 7% delle esportazioni totali dell’ America Latina.

C’è da sottolineare che gli Stati latinoamericani che sono grandi esportatori in Cina hanno, oltretutto, beneficiato dell’ aumento generale dei prezzi mondiali delle materie prime indotti proprio dalla crescita della domanda cinese, anche nei rapporti commerciali con altri Stati.

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CHI CI GUADAGNA E CHI CI PERDE – L’ effetto delle suddette esportazioni sulle economie della regione, come anticipato, non è stato uniforme. In modo particolare, mentre l’ effetto è stato positivo per gli Stati esportatori netti di queste materie prime, per gli Stati importatori netti è stato negativo a causa dell’ aumento generale dei prezzi di tali materie originati dall’ aumento della domanda proveniente dalla Cina.

Nel dettaglio, gli  Stati sostanzialmente beneficiati dall’aumento del prezzo delle materie prime, hanno ottenuto entrate stimate tra il 20% e il 50%. Questi sono i maggiori esportatori di minerali: Cile, Bolivia e Perù. Un altro gruppo, con entrate che si collocano tra il 7% e il 20%, è formato da tre importanti esportatori di petrolio (Ecuador, Messico e Venezuela) e dalle due economie più diversificate della regione (Argentina e Brasile). Altri quattro Stati hanno avuto modesti riflessi positivi sulle loro bilance commerciali dovuti all’ “effetto Cina”, con incrementi delle entrate al di sotto del 10%. Tra questi si possono annoverare la Colombia e il Paraguay. Infine, ci sono cinque Stati nei quali l’ effetto netto della domanda cinese sui prezzi delle materie prime è stato negativo: le quattro economie centroamericane (Costa Rica, El Salvador, Nicaragua e Panama) e l’ Uruguay. Questo si spiega con il fatto che le entrate derivanti da esportazioni sono state insufficienti per compensare l’ aumento del costo delle importazioni.

Particolare è il caso dell’ economia del Messico che, nonostante gli introiti ottenuti con la vendita del petrolio alla Cina, ha subito comunque degli svantaggi perché ha dovuto vedersela con l’ aumentata competitività delle manifatture cinesi sul mercato statunitense. Questa nuova situazione geoeconomica ha avuto dei riflessi anche sulle bilance commerciali bilaterali tra Cina e i diversi Stati dell’ America Latina, lì dove il Messico e gli altri attori centroamericani presentano grandi deficit commerciali mentre quelli del  Cono Sud hanno registrato degli attivi o surplus.

IL GIOCATTOLO SI ROMPERA’? – In definitiva l’attuale situazione geoeconomica mondiale è questa: c’è un “gigante” come la Cina, che negli ultimi decenni ha avuto un boom economico e commerciale, che per il proprio sviluppo e crescita economica è quindi diventato il principale importatore mondiale di materie prime, soprattutto dalla regione latinoamericana. Dall’ altro lato abbiamo un sistema economico regionale, quello dell’ America Latina appunto, la cui crescita dipende a sua volta dalla massiccia esportazione delle sue materie prime, nonostante il notevole sviluppo industriale degli ultimi secoli. Finora il “giocattolo” commerciale tra queste due aree del mondo sembra quindi funzionare, ma la domanda è questa: cosa succederebbe  in futuro se uno di questi due presupposti o entrambi dovessero venir meno, ovvero se il “gigante” Cina placasse la sua fame o le esportazioni non rappresentassero più  per gli Stati latinoamericani un traino per le rispettive economie? Al momento comunque, per la situazione non solo congiunturale ma anche strutturale dei due sistemi economici, sembra che le cose non siano destinate a cambiare.

Alfredo D’Alessandro

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Crispi: costruire lo Stato per dar forma alla Nazione

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Caffè 150 – Divenuto Presidente del Consiglio nel 1887, Francesco Crispi fu uno dei principali rappresentanti della Sinistra Storica e uno degli uomini chiave dell’Italia unita. Ex mazziniano e garibaldino, Crispi fu fautore della politica interna autoritaria e della politica estera colonialista e filogermanica con la quale l’Italia si affacciò al nuovo secolo

 

INNOVAZIONE E PROTEZIONISMO – In politica interna va riconosciuto a Crispi il merito di aver promosso importanti riforme dell’amministrazione pubblica, ma anche il demerito di aver utilizzato mezzi violenti ed autoritari per reprimere le manifestazioni di dissenso. Nonostante la sua appartenenza alla Sinistra Storica, infatti, Crispi finì per attuare una politica sostanzialmente conservatrice e fu un sostenitore della monarchia dei Savoia da lui ritenuta il centro intorno a cui sviluppare l’unità nazionale e promuovere il prestigio internazionale del paese.

 

Sotto la sua egida si giunse all’approvazione del famoso Codice Zanardelli, il nuovo codice penale che sanciva la libertà di sciopero, allineando così l’Italia agli altri stati europei avanzati, e aboliva la pena di morte: un’innovazione di portata storica, dato che il nostro fu il primo paese ad abrogare la pena capitale nel mondo civilizzato. In economia, Crispi promosse una forte industrializzazione metallurgica e siderurgica del paese unita a una politica di protezionismo commerciale, con la quale tentava di proteggere i prodotti industriali italiani dalla concorrenza. Tale politica si rivelò tuttavia controproducente, poiché ostacolò l’esportazione di prodotti agricoli italiani e afflisse pesantemente soprattutto il mezzogiorno. Infine, deciso sostenitore di uno stato forte, Crispi impiegò l’esercito per reprimere con durezza alcuni moti popolari (fasci siciliani, moti in Lunigiana del 1893-94) che avevano come prima causa la povertà.

 

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L’ALLEANZA CON I POTERI CENTRALI E L’AVVENTURA COLONIALE Nella visione di Crispi, l’Italia avrebbe dovuto svolgere una politica estera di prestigio, potenza ed espansione coloniale. Seguendo questa linea, egli fu uno strenuo sostenitore della Triplice Alleanza: il suo ideale di governo si avvicinava a quello della Germania bismarckiana e a questo modello ispirò la sua azione politica con risultati non sempre pienamente soddisfacenti. La chiave pro-tedesca e antifrancese da lui sostenuta in politica estera fu infatti deleteria per l’Italia dal punto di vista commerciale (la guerra delle tariffe doganali aperta con la Francia nei primi anni del secolo ebbe un impatto negativo sul benessere dello stato italiano che venne privato di una consistente fetta delle sue esportazioni), mentre l’alleanza con gli imperi centrali venne vista in modo negativo da ampi segmenti della popolazione, che continuava a considerare l’Austria un nemico.

 

Crispi fu inoltre un accanito sostenitore del colonialismo, da lui ritenuto necessario per inserire l’Italia a pieno titolo tra le potenze europee. Famoso è il discorso in cui egli afferma “L’Africa vi sfugge! E non tarderanno a prendersela le grandi potenze marittime […] Noi non possiamo rimanere inerti […] altrimenti saremmo colpevoli di un gran delitto verso la Patria nostra: perché chiuderemmo per sempre le vie alle nostre navi ed i mercati ai nostri prodotti”. Crispi fu infatti presidente del Consiglio in un periodo centrale per il colonialismo europeo, nel momento dello Scramble for Africa che portò gli stati d’Europa a contendersi fette di territorio africano. Egli dunque, in linea con il suo tempo, portò avanti una politica di tipo coloniale piuttosto agguerrita, ma che risultò fallimentare. Il suo governo decise di partire alla conquista dell’Abissinia, un territorio poverissimo di risorse che però fu presentato come un una giusta rivendicazione dell’Italia, che con la conquista si sarebbe adeguata al rango delle altre grandi potenze europee. L’Italia aveva infatti recentemente subito delle umiliazioni a livello internazionale: al Congresso di Berlino del 1878 fu rilegata ad un ruolo marginale, e bruciava ancora lo schiaffo di Tunisi subito dalla Francia nel 1881. Nel 1890 anche l’Eritrea fu ufficialmente dichiarata colonia italiana e le ambizioni di grandezza spinsero Crispi, con il sostegno di alcuni ambienti militari e gruppi industriali, a promuovere un’avanzata italiana nella regione che portò nel1892 alla conquista della Somalia Italiana e a una successiva campagna in Etiopia. La pesante sconfitta di Adua del 1896 fu però un grave smacco e fermò i progressi italiani. L’intero progetto coloniale italiano subì una battuta d’arresto e Crispi decise di dimettersi, terminando così la sua esperienza di Presidente del Consiglio.

 

Tania Marocchi

Riformare l’ONU? L’Italia è in prima linea

Lo scorso 16 Maggio la Farnesina, sede del Ministero degli Esteri, ha ospitato un grande convegno al quale hanno partecipato 120  paesi membri delle Nazioni Unite con l’obiettivo di fare un altro passo in avanti rispetto alla proposta alternativa a quella mossa, nel febbraio 2009, dal cosiddetto G-4 (Giappone, Germania, India e Brasile) che vorrebbe l’allargamento dei seggi permanenti, all’interno del Consiglio di Sicurezza, proprio a favore di questi paesi. In questo contesto, l’Italia continua a giocare un ruolo importante che, storicamente la vede leader di quei paesi che sono stati (e restano) fortemente contrari alla proposta.

UN ORGANO OBSOLETO – Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite viene spesso considerato come un’istituzione ormai poco rappresentativa e scarsamente efficiente sotto il profilo della “gestione” della sicurezza internazionale. L’unico ampliamento di questo apparato risale al 1963, quando i seggi non-permanenti furono portati da 6 a 10. Da allora, non solo molti paesi in via di sviluppo sono diventati grandi economie (India, Brasile, ecc.) ma hanno cominciato a rivestire un ruolo politico di primo piano. Inoltre, dagli anni ’90, con la fine della Guerra Fredda (che non permetteva un corretto funzionamento del sistema ONU a causa di ovvii problemi di carattere politico e militare) il CdS ha visto un rilancio della sua importanza nella gestione di differenti conflitti (Cambogia, Iraq, Angola, Libia, ecc.).

L’attuale tendenza alla multi-polarizzazione del sistema internazionale rende sempre più urgente quindi una riforma strutturale di tale organo. Le proposte avanzate in questa direzione sono state spesso oggetto di aspri conflitti (tra gli Stati membri) in sede diplomatica e si sono gradualmente arenate a vantaggio di uno status quo  che  sembra tutt’ora apparentemente immodificabile. Ne sono esempi i vari summit tenutisi tra il 2003 e il 2008 (sotto la spinta dell’allora Segretario Generale Kofi Annan), nei quali nessun modello di allargamento ha prevalso sugli altri.

L’EQUA RAPPRESENTANZA – Il principale argomento di divisione tra gli Stati Membri riguarda precisamente il principio di rappresentanza all’interno del più importante organo in sede ONU che imporrebbe un allargamento del Consiglio e una revisione del potere di veto dei cinque membri permanenti. Durante i negoziati del febbraio 2009 si scontrarono tre differenti approcci:

G4 – India, Brasile, Giappone e Germania – i quali spingono ormai da anni per ottenere il ruolo di membri permanenti nel CdS (essendo tra i maggiori contributori dell’intera organizzazione);

Unione Africana – con circa 40 membri guidata da Nigeria, Sudafrica ed Egitto – contrari al veto dei cosiddetti Big 5 (Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e Regno Unito) , e ansiosi di ottenere una migliore rappresentanza, visto il loro cospicuo numero;

Uniting for Consensus” – quasi 70 paesi con Italia, Spagna, Cina, Pakistan, Canada – particolarmente attenti ai paesi emergenti e gli stati più piccoli, fortemente contrari alla creazioni di nuovi seggi permanenti e al potere di veto, ma particolarmente favorevoli ad un allargamento su base regionale. Quest’ultimo gruppo, fondato nel 1995 da Italia, Pakistan, Messico ed Egitto (e chiamato Coffee Club), ha conosciuto un forte allargamento nel corso degli anni e, lo scorso summit di Roma ne è una dimostrazione.

Sebbene tra gli obiettivi delle varie coalizioni ci sia quello di creare un meccanismo più  democratico e coerente con l’attuale situazione internazionale all’interno del Consiglio di Sicurezza, esiste, da parte di ciascuna di queste, un chiaro interesse di carattere politico. In particolare, tra i più accesi sostenitori della Uniting for Consensus figurano: Argentina, Colombia e Messico – che si oppongono al seggio per il Brasile; Italia, Olanda e Spagna – che preferirebbero un seggio per la UE piuttosto che per la Germania; Cina e Corea del Sud – che si oppongono all’ingresso del Giappone tra i membri permanenti; e infine il Pakistan (e ancora la Cina) contrario al seggio per l'India. Come ricorda infatti l’ambasciatore Ragaglini (intervistato da Repubblica): “Le alleanze si costruiscono intorno alle individualità: ciascuno insegue ovviamente i propri interessi".

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ROMA IN POLE POSITION – La proposta che pone l’Italia al centro della “battaglia” in sede ONU, è stata puntualmente ribadita dal Ministro Frattini durante i lavori del summit 'Global Governance and Security Council Reform' ospitati dalla Farnesina proprio nei giorni scorsi: "Siamo contrari ad un aumento puro e semplice di seggi permanenti" – ha affermato il ministro. L’attuale proposta di Uniting for Consensus prevede infatti l’allargamento dei membri da 15 a 25 con un mandato più lungo (3-5 anni) che dovrebbe garantire un miglioramento della rappresentatività nel Consiglio di Sicurezza. Lo stesso Ministro Frattini, riguardo poi alla questione del seggio unico per l’Unione Europea, ha affermato: “se pensiamo all'Europa, vogliamo il seggio unico al Consiglio di Sicurezza", altrimenti "parliamo di Europa che parla con una voce unica e poi litighiamo tra noi e la Germania per chi debba avere il seggio permanete. Questo non può accadere".

Nel frattempo, anche se durante il summit di lunedì scorso non è stata approvata nessuna bozza di risoluzione da presentare all’Assemblea Generale, la maggior parte degli Stati presenti, e soprattutto, il Presidente dell’Assemblea stessa, Joseph Deiss, si sono detti particolarmente soddisfatti dei lavori ed hanno sottolineato l’impegno dimostrato dalla diplomazia italiana verso una gestione più democratica degli affari internazionali.

Paolo Iancale

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Cambiare? Si, grazie

Le rivolte della “primavera araba” non sono affatto sopite, e le opinioni su cosa davvero succeda, su cosa queste rivolte significhino per la popolazione si confrontano spesso sotto traccia. Per questo pubblichiamo con piacere la lettera di un giornalista curdo alla nostra redazione, che accende la luce su un altro aspetto poco conosciuto del contesto siriano

LE RADICI DEL PROBLEMA – Tutto è cominciato il 17 febbraio scorso, quando decine di persone manifestarono nel cuore di Damasco contro l’oppressione del regime che ormai è al potere da 40 anni. Infatti, nel marzo 1963, con un colpo di stato arrivava al potere il partito Ba’th ossia “Resurrezione”, che fu fondata da Michel Aflaq nel 1940. Così veniva instaurato un regime autoritario militare.

Dal 1970 è al potere la famiglia al-Assad, che professa la confessione alawita, ramo sciita dell’Islam, che costituisce il 12% di un paese a maggioranza sunita (74%).

Hafez al-Assad è stato presidente dal 1970 al 2000. Dopo la morte del padre Hafez, diventa nuovo presidente Bashar al-Assad, suo figlio, nato nel 1965.

Prima di morire, Assad nel suo testamento aveva designato il primogenito Basil, però quest’ultimo morì in un incidente d’auto nel 1994. Bashar si ritrovò ad essere il nuovo successore del padre. Il suo mandato è stato rinnovato dalle elezioni del 2007, che però lo hanno designato come candidato unico, come accade in tutti paesi arabi.

Il regime ha poi continuato a negare ogni forma d’opposizione e la libertà di stampa, e la repressione è stata affidato alla famigerata polizia politica (Al – Mukhbarat), per cui, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein in Iraq, quello siriano è rimasto l’ultimo baluardo del regime baathista. 

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ANCORA STRANIERI – Il governo siriano, oltre ad opprimere la popolazione araba, opprime sia militarmente che politicamente la popolazione curda. Attualmente vivono nel Kurdistan della Siria oltre due milioni di curdi, che si trovano in tre regioni lungo il confine turco-siriano e siriano – iracheno.

La maggioranza della popolazione continua ancora oggi ad essere discriminata.

Come conseguenza di una massiccia politica di arabizzazione, già praticata anche da Saddam, a 300.000 persone dal 1962 è stata negata la cittadinanza siriana e tutt’oggi vengono chiamati “Ajanib”, stranieri. Da allora organizzazioni internazionali per i diritti umani chiedono che a questi cittadini venga ridata la cittadinanza. Richiesta mai esaudita.

In questo momento l’occidente sta commettendo un grave errore, quello di estrapolare solo la rivolta libica dal contesto di quanto sta succedendo in tutto il mondo arabo, dal Marocco allo Yemen. Perché non ci sono rivolte di serie A e serie B.

Shorsh Surme (giornalista Curdo)

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Le nuove sfide del rilancio

Caffè Nero – La rubrica "7 giorni in un ristretto" riparte con un focus speciale sull'Africa sub-sahariana. Con lo speciale “Caffè Nero”, vi offriamo un aggiornamento sulle questioni più calde che animano o scuotono le regioni africane a sud del Sahara, cercando di monitorare gli avvenimenti e di fornire spunti per degli approfondimenti tempestivi. Eccovi la prima puntata.

NIGERIA – Torna l’ombra della guerra civile sull’elezione di Jonathan. All’annuncio dei risultati delle presidenziali, nel nord della Nigeria sono scoppiate violenze a sfondo religioso.

Sia Jonathan, il vincitore delle elezioni, sia Buhari, il suo principale avversario hanno evocato i disordini e il caos che avvenne durante la guerra civile di quarant‘anni fa. E’ scoppiata la rabbia dei musulmani che avrebbero voluto che il Partito democratico del popolo candidasse un musulmano alle presidenziali anziché Jonathan, un cristiano del sud. Il 26 Aprile i nigeriani sono tornati alle urne per eleggere i governatori dei 36 stati federali, dopo settimane di sangue.

CIAD – Il 25 aprile i ciadiani sono andati alle urne per eleggere il presidente. Deby, capo dello stato dal 1990,è stato rieletto per la quarta volta e guiderà il Paese altri cinque anni. La rielezione di Deby lascia sorpresi i partiti dell'opposizione che avevano già boicottato le elezioni parlamentari di febbraio, accusando il partito del presidente, il Movimento patriottico della salvezza (MPS) di brogli e irregolarità, e minacciando di non riconoscere la legittimità dei risultati. Il tasso di affluenza è stato infatti molto basso. Deby si prepara dunque a guidare per la quarta volta il Ciad, uno dei Paesi più poveri dell'Africa, nonostante nel 2003 sia divenuto esportatore di petrolio.

ZIMBABWEMugabe deve dare l’addio alla sua poltrona. L'avviso di sfratto gli è arrivato mentre era a Singapore, ufficialmente per sottoporsi ad un'operazione agli occhi. Così, Robert Mugabe ha appreso che la sua carriera di presidente-despota dello Zimbabwe è giunta al termine. A dargli l'annuncio, i vertici dell'onnipotente apparato di sicurezza del Paese, in una teleconferenza ad alta tensione. I gerarchi, che all'ombra del dittatore hanno costruito impressionanti reti di potere, ora non hanno più bisogno di colui che negli ultimi anni era diventata la loro marionetta, e si apprestano a cambiare tutto perché non cambi nulla. Ma mentre preparano la exit strategy che porterà al giusto pensionamento di Mugabe, le anime nere del regime cominciano ad affilare le armi in vista dell'esplosione definitiva di quella faida interna da anni in corso sotterraneamente. 

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COSTA D’AVORIO – Il paese si appresta ad una lenta ripresa mentre Ouattara viene proclamato ufficialmente Presidente della Repubblica, e per Gbagbo si apre il processo in tribunale. Nel Paese intanto si continua a lottare contro la fame, i saccheggi e la violenza diffusa. In Costa d’Avorio si può però iniziare a guardare avanti. L’investitura per Ouattara è fissata per il 21 maggio, nella capitale politica Yamoussoukro.Coincidenza non priva di una certa ironia;nel giorno in cui per Ouattara si aprono le porte del palazzo presidenziale, per il suo rivale, Laurent Gbagbo, si spalancano quelle dei tribunali. L'ex presidente, che a lungo ha rifiutato di cedere il potere, con conseguenze terribili per il Paese, si trova ora agli arresti domiciliari nella città di Korhogo.

KENYA – Un paese a secco con distributori di benzina vuoti. La guerra del petrolio sta paralizzando il Kenya. Non lascia morti per le strade, semmai auto ferme, in colonne chilometriche, e migliaia di automobilisti e motociclisti in una isterica disperazione. Però il conto da pagare, in termini economici, politici e sociali è comunque estremamente oneroso. Molti analisti hanno parlato di "crisi artificiale". Ma prodotta da chi e soprattutto perché? La questione si fa ingarbugliata perché si inciampa facilmente in quella guerra sotterranea che da mesi oppone autorità nazionali e compagnie che operano nell'ambito della vendita al dettaglio, quelle che cioè gestiscono gli impianti: i due campi si rimpallano le responsabilità in uno scarica barile esasperante.

UGANDA – Una settimana di scontri e spari nel paese. Un'escalation della crisi politica in cui è precipitata l'Uganda da un paio di settimane, caratterizzate da una serie di marce organizzate dall'opposizione per protestare contro l'inflazione galoppante che sta trascinando fuori dal mercato una larga fetta della popolazione. Ad accendere la miccia è stata la voce diffusasi secondo la quale il leader dell'opposizione Kizza Besigye era morto. Poco importa che si trattasse di una indiscrezione non confermata, la violenza è esplosa immediatamente. Besigye è ormai è il fantasma del leader che ha sfidato Museveni ben tre volte. Sconfitto anche a febbraio, la sua stella era in declino ma adesso il presidente lo sta trasformando in un martire. C'è poca logica in questo, soprattutto perché molti ugandesi si stanno chiedendo quanto valga la loro vita per il regime se quella di un uomo così in vista conta così poco.  Il 4 maggio gli avvocati hanno indetto uno sciopero di tre giorni per protestare contro la linea dura del governo che ha represso con violenza le manifestazioni contro il carovita

SUDAN – Per la prima volta il presidente Bashir si è assunto la responsabilità del conflitto che dal 2003 tormenta la regione nordoccidentale del Sudan. Non ha però lesinato accuse, come già avvenuto in passato, alla Corte penale internazionale dell'Aja che nel 2009 lo ha incriminato per genocidio, crimini di guerra e contro l'umanità. Ma i colloqui di pace per il Darfur sono di nuovo a rischio. Khartoum vuole il referendum entro luglio, mentre il fronte dei ribelli si è spaccato. Il 1 maggio un convoglio militare di Khartoum è entrato nella regione contesa di Abyei innescando un conflitto con la polizia locale. Pochi giorni prima Bashir aveva minacciato che non avrebbe riconosciuto il Sud Sudan, se Juba avesse rivendicato la sovranità su Abyei. Bisognerà attendere e vedere come si muoverà l’Unamid che ha un ruolo cruciale. Inoltre dal 2 al 4 maggio nel Sud Kordofan si sono svolte le elezioni per il governatore e l’assemblea statale. Il voto è l’ultimo appuntamento elettorale previsto dall’accordo di pace del 2005, e suscita preoccupazioni perché nello stato sono presenti molte milizie armate.

A cura di Adele Fuccio

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L’Italia in un’Europa divisa tra grandi potenze

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Caffè150 – Con la conquista di Roma l’Italia ha aggiunto di fatto un tassello fondamentale al suo processo di unificazione (che si compirà totalmente soltanto con l’acquisizione del Trentino Alto Adige, della Venezia Giulia e dell’Istria dopo la prima guerra mondiale) e si prepara ad affrontare una serie di sfide nuove, legate soprattutto alla necessità di modernizzare il paese e di inserirlo a pieno titolo nel sistema internazionale europeo che andava definendosi verso la fine del XIX secolo

 

LA PRESA DI ROMA E I RAPPORTI CON IL VATICANO – Subito dopo la conquista di Roma, il parlamento italiano approvò la Legge delle Guarentigie, che regolava i rapporti tra Stato e Chiesa. La legge, emanata unilateralmente dallo Stato italiano, sanciva l’indipendenza di entrambe le entità: il Vaticano veniva escluso dalla giurisdizione italiana e gli veniva concesso il regime di extraterritorialità; al Pontefice erano riconosciute alcune prerogative, come l’inviolabilità alla persona, gli onori sovrani e il diritto di avere al proprio servizio guardie armate; infine, lo Stato accordava alla Chiesa un introito annuo per il mantenimento delle proprie funzioni. Nonostante i privilegi previsti, Pio IX rifiutò categoricamente di approvare una legge che riduceva il potere divino ad una mera concessione di un potere laico “ostile” e con la quale, a suo parere, il Papa diveniva suddito dello Stato italiano.

 

La reazione della Chiesa fu dunque molto forte e il 15 maggio 1871 Papa Pio IX pubblicò l’enciclica Ubi Nos, con la quale rifiutava ufficialmente la Legge delle Guarentigie. Il rifiuto categorico da parte cattolica ebbe diverse conseguenze: da un lato, aprì la Questione Romana – la protesta da parte della Chiesa e dei suoi funzionari contro lo Stato – che si risolse soltanto con la stipula dei Patti Lateranensi nel 1929. Dall’altro causò un aumento dell’anticlericalismo in Italia che ebbe come immediata conseguenza la promulgazione delle Leggi Siccardi nel 1873, che abolivano i privilegi del clero cattolico e allineavano la legislazione italiana a quella degli altri stati europei. A questa presa di posizione seguì l’enciclica Non Expedit, che imponeva ai cattolici di astenersi dalla vita politica italiana e che ebbe dunque come conseguenza la laicizzazione della politica di Governo.

 

LA POLITICA ESTERA DELLA SINISTRA STORICA – Con il 1870 si poté cominciare a dare una forma alla politica interna ed estera; la rivoluzione era finita e occorreva ritagliarsi un ruolo nel sistema internazionale dell’epoca: “ordine, pace, conservazione; prendere posto nella famiglia europea, nel concerto delle potenze come una persona ammodo, dopo esser stati per tanto tempo il guastafeste” (dal discorso del Ministro degli Esteri all’inaugurazione della XI legislatura 1870). Nel 1876, l’avvento al potere della sinistra storica guidata da Depretis (ritratto nell’immagine sotto) diede una nuova direzione alla politica estera del paese, caratterizzata da due elementi principali: l’Italia si unì all’avventura coloniale europea e conquistò Eritrea (1885) e Somalia (1889); il Governo decise di abbandonare la tradizionale alleanza con la Francia per unirsi agli imperi centrali con la Triplice Alleanza, stipulata nel 1882 tra Germania, Impero Austro – Ungarico e Italia. La scelta italiana era dovuta principalmente alla conquista francese della Tunisia del 1881 che minacciava la penisola e al sostegno francese alla causa papale. Tutto ciò era stato conseguenza dell’isolamento in cui Parigi si trovava sul piano diplomatico, isolamento voluto da Bismarck che cercava in questo modo di indebolire il suo maggiore avversario continentale. Lo stesso cancelliere tedesco sperava infatti fin dal 1860 di alleare la Prussia – poi Germania – alla nascente Italia in funzione antifrancese.

 

Esclusa dalle relazioni internazionali e dalle guerre, Parigi reindirizzò le proprie risorse verso altri obiettivi per lo più extraeuropei e, nel tentativo di rompere il proprio isolamento, stipulò un’intesa con la Russia, con la quale non condivideva interessi concreti, e che si prestava dunque semplicemente alla rottura dell’isolamento. Il continente europeo alla fine del XIX secolo era dunque diviso in due alleanze: la Triplice Alleanza da una parte e la nuova alleanza franco-russa dall’altra. A completare il cerchio, la Gran Bretagna seguiva una politica estera guidata dai suoi interessi commerciali e si trovava nel cosiddetto “splendido isolamento”.

 

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LA TRIPLICE ALLEANZA: L’ITALIA E GLI IMPERI CENTRALI – La Triplice Alleanza nacque nel 1882 come un’alleanza difensiva con la quale l’Italia cercava di rompere il proprio isolamento e di tutelarsi da una potenziale minaccia francese. Dopo la conquista della Tunisia da parte di Parigi infatti, la scelta più naturale per l’Italia fu quella di rivolgersi alla Germania – e di conseguenza, nonostante le numerose guerre combattute, all’Austria sua alleata.

 

L’alleanza in chiave antifrancese soddisfaceva sia il governo della Sinistra storica, risentito per lo sgarbo di Tunisi, sia la monarchia, che vedeva nella cooperazione con gli imperi centrali una possibilità di rafforzamento del potere monarchico. Con il trattato della Triplice Alleanza, Germania e Austria si impegnavano a prestare soccorso all’Italia nel caso in cui fosse attaccata dalla Francia, e l’Italia assicurava loro soccorso nel caso in cui esse fossero state attaccate da due o più potenze nemiche (Francia o Russia); inoltre, era prevista l’assicurazione di neutralità da parte delle altre due nel caso una delle potenze firmatarie avesse provocato essa stessa una guerra. Con questo accordo in chiave anti-francese e anti-russa, si consolidava il sistema di sicurezza austro-tedesco, l’Italia usciva dall’isolamento e otteneva dall’Austria il riconoscimento dei territori della Chiesa all’Italia e l’impegno a non tentare di restituire la sovranità al Papa. Il trattato fu poi rinnovato nel 1887, 1891, 1902 e nel 1912, con l’aggiunta di clausole e patti bilaterali che seguivano il corso degli eventi internazionali e aggiornavano l’alleanza. L’evoluzione dell’Alleanza mostrava chiaramente le intenzioni sempre più aggressive delle tre potenze, che si accordavano su spartizioni e sostegni nel caso di “eventuali” scontri sul territorio europeo.

 

Il rinnovo del 1887 vide l’aggiunta di patti bilaterali separati tra Italia e Austria-Ungheria e Italia e Germania. Italia e Austria si accordarono per politica di consultazione nel caso di un’occupazione dei Balcani e l’obbligo di compensazioni se lo stato aggressore avesse ottenuto delle conquiste maggiori dello status quo ante: in questo modo se l’Austria avesse conseguito delle vittorie nei Balcani, l’Italia avrebbe potuto ottenere come compensazione dei territori nelle Alpi. Italia e Germania si accordarono invece sul sostegno tedesco all’Italia in caso di un attacco francese verso la penisola. Il terzo trattato della Triplice Alleanza venne stipulato nel 1891: l’Italia fece pressioni per ribadire il patto austro-italiano sulle compensazioni nei Balcani, e riuscì a ottenere il supporto tedesco all’Italia anche nell’eventualità di azioni militari di quest’ultima in Cirenaica, Tripolitania o Tunisia. Gli intenti espansionistici delle tre potenze insomma risultavano evidenti e si inseriscono perfettamente nel quadro europeo di fine ottocento, in cui tutti gli stati di nuova formazione cercarono di costruire un proprio impero coloniale. Questo sistema di alleanze continuò in Europa fino al secolo successivo, quando la situazione e le tensioni europee esplosero nel primo conflitto mondiale: già nel 1892, infatti, Russia e Francia si unirono in un’alleanza che, come già anticipato in precedenza, permise ad entrambe di uscire dall’isolamento e che stringeva Germania, Austria e Italia in una morsa: nel caso di un conflitto infatti, la Triplice Alleanza avrebbe dovuto combattere su due fronti.

 

Tania Marocchi

‘Doccia scozzese’ per i Lib-Dem

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Crollo di consensi per i Liberaldemocratici britannici che perdono sia le elezioni amministrative sia il referendum sul cambio del sistema elettorale. Nel frattempo, in Scozia, si consuma la vittoria dei nazionalisti che ora minacciano un referendum per l’indipendenza da Londra.

BIPOLARSIMO RAFFORZATO – Il supergiovedì elettorale che nel Regno Unito ha accorpato elezioni amministrative locali e referendum per l’abbandono del maggioritario secco ha sentenziato una dura battuta d’arresto per i Liberaldemocratici e una altrettanto pesante sconfitta personale per il loro leader, il vice primo ministro in carica Nick Clegg.

Il dato puramente numerico relativo alla tornata amministrativa evidenzia una debàcle della forza di governo liberale a vantaggio dei due partiti che rappresentano al meglio la tendenza bipolare della politica britannica: conservatori e laburisti.

Il partito di David Cameron esce indenne dal voto; una lieve flessione del 2% è fisiologica e non inciderà in alcun modo sulla tenuta al governo dei tories.

Cameron dunque, almeno per il momento, può dormire sogni tranquilli avendo superato senza troppe difficoltà uno scoglio tipico del principio d’alternanza britannico: nel Regno Unito infatti, il più delle volte avviene che la prima chiamata alle urne successiva alle elezioni politiche tenda a sfiduciare il partito di governo a favore della forza d’opposizione.

Sei i Conservatori si mantengono stabili nella loro posizione privilegiata i laburisti, guidati dal giovane Ed Miliband, possono ben sperare dopo il voto delle amministrative di maggio.

Ad un anno esatto dalla pesante batosta elettorale targata Gordon Brown sono più che evidenti alcuni segnali di ripresa: la sconfitta del 2010 infatti, più che un normale passaggio di consegne ha rappresentato un vero e proprio anno zero per il Labour Party. Terminata l’era Blair-Brown, il partito ha dovuto rinnovarsi non solo nella leadership ma soprattutto nei contenuti politici. In questo senso è sicuramente da sottolineare l’operato di Miliband che, sfidando i predecessori ha scelto di rinnovare il partito cambiando strategia, rinnegando nei fatti il New Labour per una posizione più vicina agli ideali socialdemocratici.

C’ERA UNA VOLTA IL SOGNO LIBERALDEMOCRATICO – Duro è invece il colpo incassato dal partito dei Liberademocratici che si giocavano un’importante partita su due fronti. Nel rinnovo dei consigli comunali britannici e dunque nel computo dei voti il ridimensionamento è stato evidente: persi 12 dei 17 seggi in Scozia, un terzo dei voti in Galles e numerosi comuni finora controllati dai rappresentanti liberaldemocratici in Inghilterra.

Il partito che doveva proporsi ai sudditi di Elisabetta come valida alternativa al binomio tory/labour per provare a scardinare la logica bipolare dalla politica del Regno Unito subisce dunque una battuta d’arresto sostanziale, una brusca frenata evidenziata ulteriormente dall’esito del referendum proposto dal partito di Clegg sulla modifica della legge elettorale.

La netta affermazione dei “no” relativo alla volontà di cambiare il vigente sistema elettorale maggioritario basato sul “first past the post” a vantaggio di una graduale reintroduzione del principio proporzionale (punto cardine programmatico e ragion d’essere del partito Liberaldemocratico) getta numerose ombre sulla leadership di Nick Clegg e sulla stessa credibilità del suo partito.

Circa il 70% degli elettori ha così bocciato un punto programmatico fondamentale dei liberali d’Inghilterra, allineandosi così alle posizioni contrarie alla riforma sposate all’unisono dei laburisti e dei conservatori.

Bisognerà verificare come questa sconfitta inciderà sui rapporti di forza tutti interni al governo di Londra che vede Conservatori e Lib-dem far parte della medesima coalizione.

La riforma del sistema sanitario, prossimamente all’ordine del giorno del governo Cameron, e decisivo punto programmatico per i conservatori, rappresenterà molto probabilmente un importante banco di prova per verificare l’omogeneità e lo stato dei rapporti con il partito di Clegg, che per il momento non sembra a rischio sfiducia.

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VOGLIA D’INDIPENDENZA – Il clamore della sconfitta patita dai liberaldemocratici è passato in parte in secondo piano se confrontato con la pesante affermazione dei nazionalisti scozzesi.

Lo Scottish National party di Alex Salmond ha conquistato la maggioranza assoluta del Parlamento di Edimburgo con 69 deputati, ben 23 in più rispetto alle passate elezioni.

Salmond dunque, premier uscente in coalizione con i laburisti, possiede al momento tutti i numeri per governare da solo ed evitare compromessi ed alleanze con gli altri partiti.

Tuttavia, ciò che al momento preoccupa Cameron riguarda la proposta che verrà con ogni probabilità presentata dai nazionalisti scozzesi di un referendum per l’indipendenza di Edimburgo da Londra.

Ogni tentativo sarà effettuato pur di tenere unito il Paese” ha affermato il primo ministro Inglese relativamente a questo rischio.

Ad ogni modo l’impressione è che presto Cameron dovrà fare i conti con la pressante volontà della Scozia di non dipendere, anche se in parte, dal centralismo londinese.

Una vera e propria bomba ad orologeria che presto il leader conservatore potrebbe trovarsi tra le mani.

Andrea Ambrosino

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Un fiume in piena: idropolitica del Mekong

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Il Laos, uno dei Paesi più poveri dell’Asia ma con un tasso di crescita del 7% annuo, è nelle ultime settimane al centro di un acceso dibattito che coinvolge interi apparati governativi, l’opinione pubblica mondiale, ambientalisti e organizzazioni non governative. A turbare gli equilibri regionali asiatici è il piano di costruzione della diga dello Xayaburi, sul fiume Mekong, punta di diamante del programma energetico del Laos

 

COMPETIZIONE SERRATA – La disputa sulla costruzione della diga dello Xayaburi (immagine sotto), 1260 megawatt e un costo di 3,5 miliardi di dollari, trova spiegazione nella competizione tra Stati per lo sfruttamento del Mekong, quindi nella dimensione geopolitica della risorsa idrica. Se, come molti affermano, l’acqua è “l’oro nero del XXI secolo”, allora la questione del Mekong afferisce alla sfera della idropolitica.

L’attuale capacità di generare energia idroelettrica del Laos è di 2,54 GigaWatt, che il governo mira ad accrescere almeno fino a 8,04 Gigawatt. Tenuto conto che la capacità idroelettrica totale prevista è stimata intorno ai 18 GW, e che 12,5 GW di tale potenziale energetico sono da ricavarsi dal Mekong, si chiarisce l’importanza dello sfruttamento del fiume per il Laos, che non ha sbocco sul mare.

A fronte dei preoccupanti attuali sviluppi della crisi nucleare in Giappone, l’energia idroelettrica è divenuta il baluardo del piano energetico regionale, registrando un tasso di crescita della domanda del 7% annuo.

Il Vietnam, la Cambogia e la Thailandia hanno espresso dubbi rispetto alla costruzione della diga e agli effetti negativi che potrebbero ripercuotersi sull’ecosistema del Mekong, sulla migrazione dei pesci e sull’acquacoltura, attività lavorativa praticata da 60 milioni di persone che vivono proprio grazie alle acque del grande fiume.

In armonia con quanto pattuito negli Accordi di cooperazione regionale sull’utilizzo del Mekong (1995), i tre Paesi hanno reclamato il loro diritto di indire consultazioni e maggiore approfondimento dei probabili effetti transfrontalieri prima che venga realizzato il progetto. Non potendo opporre alcun veto, potere non disposto negli Accordi, il Vietnam, la Cambogia e la Thailandia mirano ad ostacolare il progetto laotiano, rallentandone il piano esecutivo e mobilitando l’opinione pubblica internazionale ambientalista rispetto all’impatto ecologico della diga.

 

L’OPPOSIZIONE DEL VIETNAM – Il Vietnam, primo fra tutti, ha proposto in seno alla Commisione per il Mekong la sospensione della costruzione delle 11 dighe previste (9 nel Laos e 2 in Cambogia) per i prossimi 10 anni, che rischierebbero di abbassare il livello di acqua del Mekong, favorendo la siccità e riducendo la possibilità di utilizzo del fiume per l’irrigazione e la coltivazione agricola, essenziali per l’economia vietnamita.

Allo sviluppo idroenergetico del Laos è strettamente connessa la crescita economica del Paese, e quindi anche il suo affrancamento dal regime di dipendenza dalle economie regionali più forti, il Vietnam e la Thailandia, suoi maggiori partners commerciali.

La decisione del Laos di proseguire la realizzazione del programma idroelettrico, contravvenendo così alle raccomandazioni del suo storico partner vietnamita, potrebbe provocare una falla nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi, creando un vuoto politico che la Cina sarebbe pronta a colmare, visto il valore degli interessi energetici laotiani.

D’altra parte, l’opposizione del Vietnam al programma energetico del Laos rischia di avvicinare inevitabilmente il Paese alla Cina.

 

GEOPOLITICA E IDROPOLITICA – Il confine territoriale del Laos, che confina con il Vietnam, la Cina, la Thailandia, il Myanmar e la Cambogia, attribuisce al Paese un considerevole valore geostrategico e geopolitico per la sua posizione geografica e per la sua morfologia, caratterizzata da un paesaggio prevalentemente montuoso, con altipiani, fiumi lunghi a navigabili e immense foreste che ricoprono la metà della superficie.

È proprio la geopolitica dei confini laotiani che ha reso il Paese, per secoli, il nodo focale delle mire espansionistiche ed egemoniche dei vari potentati dominanti in lizza per il controllo regionale, come i Cham vietnamiti, i Thai thailandesi e i Khmer cambogiani.

A rendere straordinariamente rilevante il Laos, nel contesto del sud-est asiatico, è proprio il limite naturale costituito dal fiume Mekong, l’undicesimo fiume più lungo al mondo (4880 km), che discende dalle sorgenti dei monti tibetani e attraversa il Laos per 1898 km, separandolo dal Myanmar e dalla Thailandia, percorrendo anche il Vietnam e la Cambogia. Quello che laotiani e thailandesi chiamano Maè Nam Khong, ossia “madre di tutti i fiumi”, è lo spazio territoriale nel quale si riflettono le ambizioni e gli interessi strategici regionali, nel quale si consolidano le intese e le contese intrastatali.

La posta in gioco è lo sfruttamento di un bacino di 800.000 km cubici di acqua, volano dell’economia interna degli Stati rivieraschi e bene comune per questi paesi, per il quale essi si sono impegnati già negli accordi del 1954 “ad astenersi da ogni misura suscettibile di arrecare danno direttamente o indirettamente alla navigabilità”.

 

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IL MEKONG, UN FIUME INTERNAZIONALE – Secondo quanto disposto dal diritto internazionale, un fiume che attraversa i territori di due o più stati, quale il Mekong, è un fiume internazionale. Il riconoscimento dello status internazionale del corso d’acqua condiziona la dimensione dei diritti e dei limiti, che disciplinano l’azione degli Stati rivieraschi rispetto all’utilizzo della risorsa idrica. Tutti gli Stati attraversati dal fiume internazionale godono dei medesimi diritti sulle acque; è concesso lo sfruttamento della risorsa energetica per usi di navigazione, industriali, per la pesca, per usi idroelettrici, agricoli e domestici, per l’irrigazione e il controllo delle inondazioni, ciascuno Stato secondo i propri bisogni.

Nel tempo si è cercato di bilanciare gli interessi degli stati attraversati dal fiume con degli accordi (Accordo di cooperazione stipulato il 5 aprile 1995 tra Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam): gli Accordi ribadiscono non solo la libertà di navigazione ma prevedono anche il disciplinamento, la prevenzione e la cessazione degli effetti transfrontalieri dovuti allo sfruttamento unilaterale del Mekong.

 

EQUILIBRI REGIONALI E SFERE DI INFLUENZA – Alle fondamenta dell’esercizio dell’influenza del Vietnam sul Laos, oltre alla tradizionale influenza culturale, vi è anche una esperienza coloniale comune, quali parti dell’Indocina francese dal 1899.

Dopo una sofferta guerra di indipendenza (1954) e una violenta guerra civile, il Laos divenne il teatro delle contese dei due blocchi, filoamericani e filosovietici, in piena guerra fredda. Nel 1975 il Pathet Lao, il partito comunista laotiano, conquistato il potere, proclamò la nascita della Repubblica Popolare Democratica del Laos (RPDL), regime ispirato al modello nordvietnamita.

La gestione del governo, la strutturazione dell’apparato amministrativo e l’organizzazione del Pathet Lao venne ricalcata sull’esempio del Vietnam.

 

LA CINA COME POTENZA REGIONALE – A partire dal 1986, il Laos iniziò a svincolarsi dall’egemonia politica vietnamita, avvicinandosi sempre più alla Cina, con cui ristabilì i rapporti diplomatici interrotti nel 1979, adottandone anche parte del modello economico.

Attualmente la Cina è il più grande investitore nel Laos. La liberalizzazione economica è stata la pietra angolare del progressivo rafforzamento delle relazioni cino-laotiane, e conseguentemente la causa dell’indebolimento dell’influenza vietnamita.

Uno degli obiettivi strategici della Cina è quello di stabilirsi come potenza egemonica regionale: in tal senso, la Cina mira anzitutto a rinforzare le relazioni economiche e politiche con i Paesi dell’Asia sud-orientale, attraverso gli investimenti diretti nel settore infrastrutturale, la concessione di ingenti aiuti allo sviluppo, la formazione del personale tecnico e il passaggio di tecnologia, il supporto militare e di intelligence, la cooperazione nel settore della sicurezza.

La conquista di un posto al sole nella regione è fondamentale per la Cina, che guarda al sud-est asiatico come ad un enorme bacino di risorse energetiche e naturali, molte delle quali ancora inesplorate, necessarie per garantirgli la costante crescita economica, per neutralizzare il rapporto di interdipendenza economica che lega quei Paesi a Stati Uniti e Giappone, per contrastare la crescita indiana.

 

Dolores Cabras

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La via d’uscita

Torniamo a occuparci di Libia, dove apparentemente non sembra cambiato nulla: Misurata è ancora assediata, i ribelli e i lealisti si affrontano ancora attorno a Brega, la NATO continua a bombardare. Eppure gli eventi recenti hanno mostrato al mondo che qualcosa si muove. Gheddafi è rimasto ucciso? Oppure è nascosto da qualche parte? Forse proprio la sua morte sarebbe il modo più rapido per chiudere la guerra.

QUIETE APPARENTE – L’apparente calma delle ultime settimane è stata mediatica più che reale, con gli organi d’informazioni impegnati a coprire altre notizie (il matrimonio reale britannico, la beatificazione di Giovanni Paolo II e l’uccisione di Bin Laden); la guerra civile in Libia e l’Operazione Unified Protector hanno invece proseguito costantemente, e hanno registrato un’intensificazione.

Innanzitutto le critiche ripetute rivolte da più parti (e anche da noi: v.articolo  Né Unified Né Protector) sull’efficacia della missione NATO, combinate con una stretta sempre maggiore dei lealisti sulla città di Misurata, hanno infine convinto i vertici dell’Alleanza a intensificare le proprie operazioni contro l’apparato militare libico. Non intendiamo qui andare a vedere i complessi negoziati – che hanno coinvolto i rapporti europei interni su temi anche non legati alla crisi libica – che hanno portato paesi come l’Italia ad accettare di partecipare anche ai bombardamenti delle truppe lealiste e non solo degli apparati radar. Andiamo invece a vederne gli effetti.

AVANTI E INDIETROIn primis, i maggiori bombardamenti hanno contribuito a ribaltare nuovamente la situazione sul campo, portando la linea del fronte a muoversi ancora verso ovest. Le perdite lealiste sono aumentate (in particolare carri armati e veicoli in genere) e le truppe fedeli a Gheddafi ora fanno fatica a muoversi. L’intensità dei bombardamenti non è paragonabile a quella USA di Odyssey Dawn, ma è stata comunque sufficiente a fermare l’offensiva dei lealisti e a consentire qualche piccola avanzata dei ribelli, che hanno raggiunto nuovamente i dintorni di Marsa el-Brega. La maggior parte delle missioni aeree è infatti stata rivolta verso i dintorni di Misurata, per eliminare l’artiglieria e i raggruppamenti di carri armati che i generali del Colonnello avevano riunito per entrare una volta per tutte nella città contesa. L’intervento NATO ha invece sventato tale piano e, per un breve periodo, addirittura costretto i lealisti a ritirarsi. La situazione di Misurata è ancora critica, perché comunque gli uomini di Gheddafi rimangono abbastanza vicini da minacciarla e sono ancora capaci di bombardare alcuni quartieri e il porto, ma la città non appare più a rischio di cadere a breve.

I ribelli da parte loro rimangono ancora sostanzialmente disorganizzati e male armati, nonostante gli istruttori occidentali a Bengasi e la ventilata promessa di invio di armi dall’Italia. La loro avanzata, anche se aiutata dall’ombrello aereo NATO, appare perciò ancora incerta e soprattutto lenta, molto lenta.

A QUANDO LA FINE? – La lentezza è proprio il problema principale della NATO, poiché per i governi europei è particolarmente importante terminare il conflitto il prima possibile con la caduta del regime.

Esistono solo tre modi per terminare il conflitto: il volontario esilio del Colonnello e della sua famiglia – opzione più volte proposta ma per ora mai accettata dal regime – la vittoria dei ribelli tramite sconfitta delle forze lealiste e conquista del resto del paese (o almeno la capitale e gran parte delle altre città principali), o la morte di Gheddafi.

Altre opzioni non appaiono realistiche: l’intervento NATO non rende plausibile un successo delle forze del Colonnello, mentre dividere il paese in due parti, per quanto teoricamente possibile, creerebbe numerose tensioni legate al controllo delle risorse naturali al centro del paese, gettando i semi di un nuovo futuro conflitto.

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OBIETTIVO GHEDDAFI – Come accennato però non si ritiene che i ribelli possano spodestare Gheddafi a breve sul campo: non ne hanno né le forza né le capacità militari e scegliere questa opzione significa accettare che il conflitto prosegua a lungo. Dunque, se il Colonnello non vuole andarsene, rimane un’unica opzione: eliminarlo. Nonostante le comprensibili negazioni al riguardo, questo appare proprio uno degli obiettivi dell’azione NATO, come suggerito dai numerosi attacchi a centri di comando ed edifici che potrebbero ospitarne il nascondiglio, non ultimo il luogo dove sono stati recentemente uccisi il figlio Saif e i nipoti. Che piaccia o meno da un punto di vista morale, si ritiene che l’uccisione di Gheddafi provocherebbe la rapida caduta del regime e fermerebbe gran parte dello spargimento di sangue (anche se è plausibile che nuclei di lealisti guidati dal resto della famiglia resterebbero attivi).

La NATO stessa ha affermato di non sapere se egli sia ancora vivo o morto: certo è che l’averlo costretto a nascondersi può avere per il suo regime effetti simili, poiché il dubbio potrebbe facilmente insinuarsi tra i suoi sostenitori, minandone il morale e portando a un maggiore tasso di diserzione. A questo punto Gheddafi verrebbe costretto a riuscire allo scoperto, cosa che permetterebbe di raccogliere nuove informazioni utili per colpirlo, con una meccanica non dissimile a quanto avvenuto per i leader di Hamas durante l’operazione Cast Lead.

In realtà proprio tenendo conto di queste considerazioni i tentativi di eliminarlo potrebbero avere anche un effetto secondario meno cruento e altrettanto vantaggioso per la fine del conflitto: man mano che Gheddafi vede la morsa NATO stringersi attorno a sé, con la sempre maggiore possibilità di tradimento da parte dei suoi sostenitori, potrebbe temere abbastanza per la propria vita da decidere l’esilio volontario come ultima ratio. La speranza occidentale rimane che questo possa accadere il prima possibile; ora come ora sono però ancora scarse le informazioni in merito.

Lorenzo Nannetti

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Una miccia pronta all’innesco?

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Il 6 maggio 2011 il Primo Ministro thailandese Abhisit Vejjajiva ha presentato alla Corte Reale il testo del provvedimento con il quale si scioglie il Parlamento e si indicono nuove elezioni per il prossimo luglio. Si tratta di una tornata elettorale di importanza cruciale per la stabilità del paese più ricco e democratico del sud-est asiatico, che attualmente rischia di scivolare in una guerra civile o nelle mani di un regime militare, con la probabilità che nella sua caduta trascini con sé anche gli altri paesi della regione.

LE RADICI DELL’ATTUALE INSTABILITA’ POLITICA: Con l’ascesa al potere della controversa figura di Thaksin Shinawatra, che vinse con la maggioranza assoluta dei voti le tornate elettorali del 2001 e del 2005, ha inizio il lungo periodo di destabilizzazione politica della Thailandia. Ex colonnello di polizia, Thaksin si dedicò all’imprenditoria investendo prima nel settore informatico e in seguito in quello della telefonia, diventando il proprietario della maggiore compagnia telefonica del sud-est asiatico. Dopo la crisi finanziaria del 1997, le sue ambizioni politiche lo portarono a fondare il partito Thai rak Thai (Thailandesi per la Thailandia) col quale vinse per due volte consecutive le elezioni.

Adottò fin dall’inizio una politica populista che garantiva alcune misure concrete a sostegno dello stato sociale, ma allo stesso tempo la politica anti-aristocratica e gli scandali legati alla vendita della sua compagnia telefonica ad un fondo sovrano di Singapore – avvenuta attraverso società estere per evitare il pagamento delle tasse – diedero vita ad una serie di proteste capeggiate da un movimento ultramonarchico anti-Thaksin, chiamato yellow shirts (dal colore delle maglie indossate dai manifestanti in segno di rispetto per il sovrano) le quali accusavano il Primo Ministro di corruzione, nepotismo e abuso di potere.

GLI AVVENIMENTI DEL BIENNIO 2006-2008: Nel 2006 l’esercito, organizzò un colpo di stato, il primo dopo quindici anni, mentre Thaksin si trovava a New York impegnato al vertice dell’Assemblea Generale dell’ONU, giustificandolo come la necessaria risposta alla corruzione del governo. Nel dicembre del 2007 vennero indette nuove elezioni. Il nuovo partito fondato dai fedeli di Thaksin, il People's Power Party, vinse ancora una volta le elezioni confermando il sostegno popolare all’ex Premier, ma le nuove proteste delle yellow shirts organizzate dal PAD (People’s Alliance for Democracy) e l’apertura dei casi giudiziari nei confronti del Premier obbligarono il governo alle dimissioni e lo stesso Shinawatra all’esilio definitivo. Alla fine del 2008, peraltro, una parte dei suoi sostenitori si alleò con il PAD (espressione dell’elite di Bangkok, dell’aristocrazia e quindi ben visto dalla casa reale) permettendo la vittoria elettorale dei democratici e l’ascesa al potere dell’attuale Premier Abhisit Vejjajiva.

IL GOVERNO DI ABHISIT VEJJAJIVA: Il nuovo governo ha senz’altro acquisito una certa popolarità tra i thailandesi, ma fondamentalmente è rimasto un partito d’élite radicato soprattutto nella capitale. Per questo, nonostante l’avvicendamento politico, i thaksiniani non hanno mai smesso di essere una spina nel fianco per il nuovo governo. Hanno dato vita ad un nuovo partito l’UDD (Union for Democracy against Dictatorship) affiancato da un movimento di protesta molto forte chiamato red shirts (in contrapposizione a quello delle yellow shirts) che ha contribuito non poco a rendere ancora più instabile la scena politica thailandese. Gli eventi più gravi si sono verificati tra aprile e marzo del 2010. Veri e propri scontri di piazza tra i manifestanti e l’esercito hanno causato la morte di 91 persone e più di un migliaio di feriti. Le red shirts hanno chiesto le dimissioni del Primo Ministro, che reputano abbia assunto il potere in modo illegittimo, lo scioglimento del Parlamento e l’indizione di nuove elezioni.

LE PROBLEMATICHE ATTUALI: Ad oggi i problemi sono tanti e di difficile soluzione. All’inizio dell’anno il Premier ha presentato un piano di riforma della Thailandia, chiamato “nove doni di Capodanno alla Thailandia”, descritto come un tentativo di accogliere le rivendicazioni politiche della popolazione, ma che in realtà ha il sapore di una mera emulazione della politica populista di Thaksin e di manifesto politico per le prossime elezioni. Abhisit aveva promesso da tempo lo scioglimento delle camere e l’indizione delle elezioni entro la prima metà dell’anno, rinunciando a portare a termine il proprio mandato per evitare l’esplodere di ulteriori proteste che potrebbero portare il paese sull’orlo di una guerra civile. Nonostante ciò il partito democratico sta cercando fortemente di assicurarsi la vittoria alle elezioni e ha già ottenuto in Parlamento la modifica della legge elettorale, nella speranza che il nuovo sistema gli garantisca l’acquisizione di un numero maggiore di seggi. Tuttavia, un problema ancora irrisolto per l’attuale Primo Ministro e il suo partito è la possibile opposizione dell’esercito all’indizione di nuove elezioni che potenzialmente potrebbe rivelarsi più pericolosa del ritorno di un governo di pro-Thaksin.

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UNA CRISI ARRIVATA AL MOMENTO GIUSTO: A tal proposito, non sono pochi a pensare che l’intensificarsi degli scontri che si stanno verificando lungo la frontiera con la Cambogia, a causa dell’irrisolta disputa territoriale sulle rovine dell’antico tempio khmer di Preah Vihear, assegnate nel 1962 alla Cambogia dalla Corte Internazionale di Giustizia, ma da sempre rivendicate dalla Thailandia, sia stato provocato ad arte dall’esercito proprio per far precipitare il paese in uno stato di crisi, attuare un altro golpe, rovesciare il governo, e annullare così le elezioni. L’attuale crisi di confine sembra infatti arrivata proprio al momento propizio. Alla fine dello scorso dicembre il provocatorio sconfinamento di sette nazionalisti thailandesi, arrestati poi dai militari cambogiani, ha dato all’esercito Thai il pretesto per mobilitare le truppe lungo il confine e al movimento delle yellow shirts di scendere in piazza per chiedere le dimissioni del Premier perché reputato troppo morbido nei confronti del governo cambogiano, e per opporsi alla manovra populista promossa dal governo.

I POSSIBILI SCENARI FUTURI: La situazione del paese, quindi, nonostante il Premier abbia confermato lo scioglimento del Parlamento e l’indizione di nuove elezioni entro il mese di luglio resta profondamente complessa e la tensione molto alta. Difficilmente il governo attualmente in carica sarà in grado di vincere le prossime elezioni. Una nuova vittoria di Abhsit, inoltre, verrebbe interpretata come una cospirazione da parte dei democratici e dei militari, e le red shirts  potrebbero nuovamente mobilitare la popolazione portando il paese alla guerra civile. D’altra parte, la discesa in campo dell’esercito prima delle elezioni o dopo la possibile vittoria del Pheu Thai potrebbe portare ad un colpo di stato militare trasformando la Thailandia  in una seconda Birmania retta da una gerarchia militare. Tali prospettive provocherebbero danni incalcolabili non solo alla stessa Thailandia, ma all’intero sud-est asiatico. Nel caso in cui una destabilizzazione di tal genere dovesse dilagare nei paesi vicini, che hanno una tradizione democratica meno radicata e pertanto meno stabile, si potrebbe scatenare una escalation e una decadenza politica ed economica in tutta la regione.

Anche l’Occidente, finora grande assente in questo drammatico scenario, potrebbe riportare conseguenze negative, venendo indebolito nella sua campagna a favore dei diritti umani e della democratizzazione nel mondo, se lasciasse scivolare un paese democratico ed economicamente fondamentale in una guerra civile o in regime militare che paralizzerebbero il paese limitando se non annullando le libertà individuali e gli scambi commerciali.

E’ senz’altro necessario trovare delle soluzioni intermedie tra le fazioni in lotta in modo che il vincitore non si trasformi “nell’asso piglia tutto” scatenando le ire delle controparti. Sarebbe auspicabile a questo proposito una mediazione da parte delle istituzioni internazionali preposte alla prevenzione e risoluzione dei conflitti che porti a una soluzione incruenta e alla stabilizzazione della Thailandia e dell’intera regione.

Marianna Piano

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