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L’ombra di Wikileaks su Tokyo

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Anche il Giappone cade nella trappola di Wikileaks: questa volta non si parla di primi ministri stanchi o dediti a festini, o ancora di scandali sulle forniture di gas. Nel mirino del sito di Julian Assange sarebbe l’incidente diplomatico avvenuto tra Cina e Tokyo per la rivendicazione delle isole Sengaku e delle acque territoriali, dopo i fatti dello scorso settembre.

BUFERA WIKILEAKSIl Primo Ministro giapponese Naoto Kan ha disposto dei provvedimenti legislativi, votati dal suo gabinetto, a seguito della falla nel sistema informativo causata dalla fuga di notizie riguardanti un video pubblicato su internet lo scorso settembre. Il materiale multimediale ritraeva la collisione avvenuta tra il peschereccio cinese e le due motovedette della Guardia Costiera giapponese in ricognizione nell’area territoriale marittima delle isole Sengaku, che aveva già interessato abbondantemente l’opinione pubblica mondiale e creato diversi screzi diplomatici tra Cina e Giappone. L’incidente, sul quale si è dibattuto molto, è stato considerato da alcuni come una mossa provocatoria giapponese nei confronti della Cina, ed aveva portato poi all’arresto del capitano del peschereccio cinese e all’incrinarsi dei rapporti economici tra i due paesi. Il Giappone ne è stato poi fortemente danneggiato, in particolare a causa della sua stretta dipendenza dal vicino cinese per il rifornimento di alcune materie prime utili, tra le altre cose, all’implementazione del settore tecnologico. Il videoclip riguardante la collisione tra le due motovedette e il peschereccio, della durata di 44 minuti, era stato pubblicato su You Tube nei primi giorni di novembre da parte di un membro della Guardia Costiera giapponese, che tuttavia non era stato implicato nella collisione, ma che aveva avuto accesso alle informazioni governative sull’incidente.

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LA RISPOSTA DI TOKYO – Il governo giapponese, dopo la bufera diplomatico-mediatica scatenata da Wikileaks e che ha sconvolto, insieme a Tokyo, l’intera politica mondiale, ha votato alcuni provvedimenti, in data 7 dicembre 2010, per spingere verso un forte impegno da attuare tramite misure legislative e dell’intero sistema statale. L’obiettivo è fare in modo che le informazioni vengano gestite in maniera differente e più oculata. La decisione è stata presa dopo il primo incontro governativo per il miglioramento della gestione delle informazioni, in base a quanto ha affermato Yoshito Sengoku, il segretario del capo di gabinetto. “Negli ultimi anni, l’informazione tecnologica e la diffusione dei social network hanno avuto uno sviluppo molto significativo, e questo meeting è la risposta concreta a questo tipo di cambiamento nell’ambito dell’informazione”, ha affermato Sengoku, referente del summit,  che  rimasto aperto anche alla presenza di giornalisti. L’incontro ha condotto alla stesura di alcune proposizioni da mettere in atto per la prossima primavera. Dopo il meeting, Sengoku ha tenuto una conferenza sul diritto all’informazione e sulla libertà di stampa, come elementi basilari della società moderna, ma, come ha poi affermato, “è necessario che siano effettuate alcune restrizioni”. C’è chi dichiara la possibilità che vengano applicate alcune limitazioni da parte del governo in merito alla diffusione di informazioni ufficiali: a latere sono dunque nate molte perplessità sia sull’efficacia dei provvedimenti, che sulla loro legittimità. A seguito della collisione, Sengoku si era fortemente opposto alla pubblicazione di materiale sensibile, ed era stato sottoposto a diverse pressioni durante le ultime settimane con l’intimidazione di dover lasciare il suo incarico governativo: l’opposizione gli ha contestato di aver ridotto in qualche modo la libertà di informazione, mentre la sua parte politica di non essere stato particolarmente cauto e di aver fatto trapelare informazioni sensibili.

Alessia Chiriatti

redazione@ilcaffègeopolitico.net

Guerra nelle favelas

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Continua da tre settimane la guerra nelle favelas di Rio de Janiero dichiarata dalle due grandi fazioni di narcotrafficanti con lo slogan Unidos por la droga. L’azione del governo di Lula, che ha inviato un grosso contingente militare composto da 800 soldati, 2 elicotteri e 10 blindati, per rafforzare l’azione della polizia e della Marina, non si è fatta attendere. Si ripropone il tema della sicurezza e della criminalità in Brasile, una delle più grandi contraddizioni di questo importantissimo Paese

TENSIONE – Il Brasile sta attraversando uno dei periodi più prosperi e ha intrapreso un cammino che con buone possibilità lo convertirà in una delle principali potenze globali la cui influenza politica e economica sarà esercitata al di fuori del continente latinoamericano. Grandi sono stati gli esiti del governo di Lula, uno fra tutti la riduzione della povertà. Tuttavia persistono ancora gravi squilibri: il 49% della popolazione vive con meno di 250 dollari al mese. In questo contesto si sono sviluppati gli atti di violenza dei narcos. È arrivato il momento di concludere una volta per tutte questa guerra: adesso o mai più. Il panico si è diffuso per le strade dei quartieri di Rio de Janeiro che sarà la sede dei Mondiali di Calcio del 2014 e delle Olimpiadi del 2016, adesso travolta da un’ondata di violenza manifestata da incendi e attentati contro le forze di polizia.

RAPPRESEGLIE DEI NARCOS – L’organizzazione degli atti di violenza è stata attribuita ai leader delle fazioni dei narcotrafficanti che stanno sabotando i piani di sicurezza e difesa elaborati dal governo per le risolvere la questione. Il Segretario di Stato per la Sicurezza, José Mariano Beltrame, ha annunciato che la situazione, esistente ormai da tempo, è esplosa a seguito dell’alleanza dei due grandi gruppi di narcotrafficanti uniti contro la politica del governo. Si tratta del Comando Vermelho (CV) e dell’Amigos de los Amigos (ADA),  che controllano le due più grosse favelas di Rio, le “favelas de la droga de los ricos” (favelas della droga dei ricchi): la Rocinha, al sud, e il Complejo del Alemán, al nord.

La violenza urbana è un problema endemico di Rio de Janeiro, in cui circa 2 milioni di abitanti, pari a un terzo della popolazione della città, vive in 1.000 favelas.

RITORNO DEI NARCOS – La presenza di organizzazioni di narcotrafficanti nelle favelas non è un problema nuovo per Brasilia. La domanda da porsi è la seguente: perchè si è avuto una nuova ondata di violenza che ha colpito indistintamente i civili e le Forze Armate?

Il quesito porta a due riflessioni. Innanzitutto, delle mille favelas presenti a Rio, la polizia non riesce a penetrare quasi in nessuna, che rimangono quindi sotto il totale controllo delle bande narcos. Inoltre, l’inefficace e corrotto sistema penitenziario permette ai capi delle bande in carcere di continuare a dirigere i gruppi che operano all’esterno attraverso l’intermediazione di varie persone, dai familiari agli avvocati fino alle guardie carcerarie.

Nonostante il governo abbia preso dei provvedimenti, quali l’installazione di unità speciali, chiamate Policia Pacificadora, per controllare alcuni quartieri, non mancano complicazioni. Da un rapporto di Human Rights Watch è emerso che la polizia commette gravi abusi di poteri incluse esecuzioni extragiudiziali, il che contribuisce ad alimentare il clima di violenza.

La battaglia più grande è quella che si sta svolgendo nel quartiere tedesco (Complexo Alemáo), considerato la “striscia di Gaza di Rio”, in cui è stimata una concentrazione di circa 1000 trafficanti. Si calcola che i narcotrafficanti hanno il controllo ancora di 420 delle 1000 favelas.

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ADESSO O MAI PIU’ – Secondo l’opinione pubblica brasiliana, questa volta il governo deve assolutamente vincere la guerra contro i narcotrafficanti, non è più sufficiente vincere singole battaglie come è successo in passato. La mancata sconfitta è stata la molla per la reiterazione della lotta dei narcos che ne ha permesso il ritorno, sempre più vigoroso, del traffico della droga. Per la prima volta nella storia della lotta contro i narcos, la gente che popola le favelas ha accolto con favore la presenza della polizia e dei militari che sorvegliavano le strade.

PREVISIONI – Riuscirà la politica dell’uscente presidente Lula da Silva a porre fine allo stato di guerra nei quartieri più poveri del Brasile? È possibile sradicare completamente il narcotraffico?

I narcotrafficanti considerano le favelas come proprio territorio nel quale gestiscono i loro affari. Ma le favelas sono anche abitate da persone che cercano di vivere una vita dignitosa e normale, che si trovano coinvolte in una guerra senza aver scelto di partecipare e che dalla guerra non riescono a scappare. Sono usati come scudi umani dai narcotrafficanti, vivono in uno stato di costante pericolo di morte, soprattutto dopo la decisione del governo di militarizzare le zone e avviare un’offensiva totale contro i cartelli della droga. Una cosa è certa: al momento la popolazione vive in uno stato di precarietà totale, sono state chiuse le scuole, per diversi giorni sono rimasti senza luce corrente e, cosa ancora più grave,è molto difficile il passaggio di viveri.

Valeria Risuglia

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Crimine e potere

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Prosegue il reportage del “Caffè” direttamente dal Messico. Continuando ad analizzare le dinamiche del narcotraffico, questa volta presentiamo il caso dei “Los Zetas”, uno dei gruppi criminali più influenti nel Nord del Paese. Grazie alla violenza e al dominio del territorio riescono ad esercitare un controllo geopolitico basato sul terrore nel quale è costretta a vivere la popolazione.

LOS ZETAS – Tra le bande di narcotrafficanti messicane, Los Zetas meritano una menzione speciale. Ex paramilitari e militari d’alto rango, esperti di tecniche di antisommossa, operazioni di comando, tiro franco, guerra psicologica, intelligence militare, tecniche per interrogatori, che dagli ultimi anni del XX secolo si dedicano attivamente al narcotraffico. Nati come braccio armato del Cartello del Golfo, non si contendono con gli altri cartelli il dominio del territorio, ma si occupano di fare il loro lavoro sporco, seminando terrore tra la popolazione.

La nascita di questo gruppo si fa risalire al 1997, quando Arturo Guzmán Decena, nome in codice Z1, soldato di fanteria per 5 anni ed esperto in combattimento, addestrato da militari e paramilitari israeliani, decide, con alcuni compagni, di disertare l’esercito messicano e fondare un gruppo di sicari mercenari. Inizialmente si affiancano al Cartello del Golfo, lavorando al soldo del suo capo, Osiel Cárdenas Guillén, e cominciando a radicarsi in Tamaluipas, regione del nord est del Messico confinante con gli Stati Uniti.

Col passare del tempo al piccolo gruppo si aggiungono militari ed ex paramilitari attratti dal facile denaro, addestrati dalla Scuola delle Americhe, centro di formazione dei migliori ufficiali dell’America Latina per contrastare le insurrezioni, e dalla CIA, e disertori del Gruppo aeromobile delle Forze Speciali (GAFE), Gruppo anfibio delle Forze Speciali (GANFE) e della Brigata de Fucilieri Paracadutisti (BFP) dell’Esercito Messicano, reparti fondati nel 1994 a causa dell'insurrezione zapatista in Chiapas. Ultimamente sono arrivati a rimpolpare le fila di questa nuova banda anche un numero indeterminato di soldati precedentemente in carica nelle Forze Speciali guatemalteche.

LE DINAMICHE – Con gli anni, Los Zetas hanno formato un gruppo mafioso pronto a tutto che si muove agilmente sul territorio messicano, grazie ad una struttura ispirata alla disciplina militare, nella quale ogni persona ha un preciso rango e responsabilità. Il gradino più basso è formato dai Falchi, gli occhi in città, giovani tra i 12 e i 25 anni con scarse possibilità economiche, incaricati di spiare le attività dei nemici, funzionari statali o membri di altri cartelli. Poi ci sono i Cobra, gradino appena sopra i Falchi, che si occupano di estorcere denaro ai cittadini; i nuovi Zetas, ex militari guatemaltechi e messicani, delegati ad organizzare le tecniche di assalto e combattimento; i vecchi Cobra, persone di fiducia senza una formazione militare, e i vecchi Zetas, gli unici che possono essere i capi dello squadrone, metodo usato dagli Zetas per le loro quotidiane attività. Si muovono in veicoli separati con 5 elementi a bordo, uno di ogni livello e ognuno responsabile di una azione. In aggiunta, in ogni posto di smercio di droga, l’incaricato ha alcuni informatori, il suo particolare ragioniere e il suo sicario, il responsabile della sicurezza del comandante.

In questo modo, dall’originaria Tamaulipas, hanno esteso il loro mercato a diverse regioni messicane, da Nuevo Leon, principale zona industriale messicana, fino a Campeche, famosa regione turistica del sud del Messico, divenendo tra i maggiori esperti di uccisioni mirate, sequestri, assalti alle carceri, torture, furti, traffico di immigrati, di minori e di donne. Spesso sono additati come i responsabili delle “narcofosse” che quotidianamente si trovano in diverse parti del Messico piene di uomini uccisi con un colpo alla testa e messi in posizione di Zeta. 

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VIOLENZA PER IL POTERE – Una delle loro attività più ricorrenti è l’uccisione di sindaci e capi della polizia: nel giugno del 2005 assassinarono al capo della polizia di Nuevo Laredo sei ore dopo che era stato nominato; ultimamente, los Zetas sono saliti alla ribalta della cronaca per l’uccisione del sindaco di Santiago, cittadina del Nuevo Leon, ritrovato ucciso nell’autostrada verso Acapulco. Solo durante il 2010, sono stati uccisi 10 sindaci in tutto il Messico, appartenenti a diversi partiti politici; i corpi dei sindaci uccisi mostravano il colpo di grazia alla testa.

Inoltre, negli ultimi mesi, il gruppo dei Los Zetas ha preso una piega ancora più sanguinaria: dopo la estradizione di Osiel Cárdenas Guillén e la presa del potere del cartello del Golfo da parte di suo fratello Ezequiel cárdenas Guillen alias Tony Tormenta, dal febbraio del 2010 los Zetas hanno deciso di non riconoscere più la autorità del Cartello del Golfo e di mettersi a disposizione degli altri gruppi in guerra con quest’ultimo cartello. Hanno firmato un patto di non belligeranza con il Cartello di Tijuana e si sono alleati con i fratelli Beltrán Leyva, disertori del Cartello di Sinaloa, per potersi dedicare alla guerra contro i loro antichi padroni. Hanno messo a ferro e a fuoco varie città del nord est del Messico cercando e uccidendo qualunque membro del Cartello del Golfo e dell’esercito, in scontri tra bande dove hanno partecipato centinaia di furgoni blindati pieni di uomini armati. Questa guerra ha rapidamente convertito gli agglomerati urbani in scenari di combattimenti per strada tra criminali e militari, esplosioni di auto bombe e stragi, trasformando le città in fantasma e provocando la fuga di migliaia di persone, costrette a scappare in altri stati. Per esempio, un mese fa, centinaia di abitanti di Ciudad Mier, alla frontiera con gli Stati Uniti, hanno dovuto abbandonare il centro abitato impauriti dalle minacce del crimine organizzato, il quale non si limita a sparare liberamente tra le strade, ma continua con la sua politica di estorsione ad ogni proprietario di un appezzamento terriero, causando grandi difficoltà all’economia della regione.

LA RISPOSTA DEL GOVERNO – Di fronte a questa situazione da “far west”, anarchico e senza etica, il governo federale ha deciso di mandare nuove truppe di militari nel nordest messicano, che si aggiungeranno agli altri 50 mila militari dislocati dal dicembre del 2006 in tutto il Messico nella lotta antidroga e che hanno causato un aumento della spirale di violenza che ha ucciso più di 28.000 persone, secondo le fonti governative. Per esempio, solo nella cittá di Monterrey, capitale del Nuevo Leon, sede di numerose multinazionali, gli omicidi dolosi vincolati con il narcotraffico sono aumentati in maniera esponenziale. L’efficacia della strategia anti-narcos del Presidente Felipe Calderón è stata criticata dalla maggioranza dei partiti politici messicani, da numerosi giornalisti e commentatori, soprattutto sulla mancanza di indagini volte a mettere in luce i legami imprenditoriali e politici del narcotraffico. D’altro canto, i militari messicani sono stati più volte accusati di torture, sevizie e uccisioni ai margini della legge di civili.

Andrea Cerami (da Città del Messico)

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Le vie del gas: l’accordo sullo status del Mar Caspio tarda ad arrivare

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Il 18 novembre si è tenuto a Baku, capitale dell’Azerbaijan, l’ultimo dei Summit sullo status legale del Mar Caspio, che ha visto riuniti i cinque Stati bagnati dalle sue acque: Russia, Azerbaijan, Iran, Turkmenistan e Kazakistan. Il nodo della contesa riguarda la natura di mare o di lago del bacino idrico in questione, cambiando, a seconda della definizione, le regole per la divisione delle sue ingenti risorse naturali.

IL SUMMIT DEL MAR CASPIO – Il vertice di novembre si è concluso senza che il nodo principale fosse sciolto, rimandando la sua risoluzione a successivi incontri. La questione dello status legale del Mar Caspio affonda le sue radici nel tempo, ma solo nell’ultimo decennio gli Stati costieri hanno deciso di riunirsi con regolarità per trovare delle soluzioni concertate (nella foto i leader dei Paesi partecipanti all'ultimo summit). Due sono gli accordi che regolano lo sfruttamento delle risorse del Caspio, risalenti uno al 1921, stipulato dall'URSS e dalla Persia, e l’altro del 1940, tra URSS e Iran.

Detti accordi stabilivano che lo sfruttamento del Caspio dovesse essere condiviso tra i due Paesi. Ovviamente, all’epoca non era possibile immaginare la nascita di nuovi Stati indipendenti che avrebbero avuto mire di sfruttamento su questo mare interno. Il Summit di Baku è l’ultimo in ordine di tempo, infatti prima Ashgabat in Turkmenistan nel 2002 e poi Teheran in Iran nel 2007 hanno ospitato altri incontri dei capi di Stato dei Paesi costieri, senza trovare, neanche in quelle occasioni, soluzioni concrete. Tuttavia, da ciò non deriva un immobilismo diplomatico nella zona, infatti gli Stati hanno preferito percorrere la strada degli accordi bilaterali per la delimitazione dei rispettivi settori di competenza. Se un accordo non c’è stato per quanto riguarda lo status del Caspio, si è trovato, d’altro canto, un punto d’incontro sulla questione sicurezza, riguardante soprattutto il traffico di droga, il crimine organizzato e il terrorismo. Dalla necessità di garantire una maggiore sicurezza nell’area ne deriverebbe una presenza navale più massiccia, in particolar modo di Russia ed Iran già di stanza nel mare, dal quale, ricordiamo, dovrebbe partire il gas destinato ai futuri gasdotti europei Nabucco e White Stream, questione della quale parleremo più avanti in questo articolo.

QUALE STATUS PER IL MAR CASPIO? – Varie sono le prospettive che si aprono, riproposte a fasi alterne dagli Stati interessati. Si è parlato di un regime di utilizzo condiviso del bacino, di mare o di lago interno. Ognuna di queste opzioni dà vita a possibilità di sfruttamento diverse. Se il Caspio venisse dichiarato un mare, allora le sue acque sarebbero divise in base a quanto previsto dalla Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare, e quindi ogni Paese avrebbe la sua Zona Economica Esclusiva, sulla quale potrà esercitare il diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse. Se, invece, fosse dichiarato un lago, i profitti derivanti dagli idrocarburi in esso presenti dovrebbero essere divisi in parti uguali tra gli Stati costieri. La difficoltà nel trovare un accordo risiede nella disomogenea distribuzione dei giacimenti di idrocarburi, la maggior parte dei quali, infatti, è concentrata nei settori di competenza delle repubbliche caucasiche, in particolar modo nella zona di competenza del Kazakistan, il quale, insieme con l’Azerbaijan, spinge affinché venga adottata la nozione di mare, potendone così sfruttare liberamente le risorse ivi presenti; ciò a svantaggio dell’Iran, il quale, in questo caso, avrebbe diritto allo sfruttamento del solo 13% delle risorse del bacino. La Russia, dal canto suo, cerca di affermare la propria sovranità sulle acque caspiche, cercando di attirare l’Azerbaijan e il Turkmenistan nella propria sfera di influenza, sottraendoli ai tentativi di inglobamento da parte dell’Unione Europea nei suoi progetti di approvvigionamento energetico mirati all’affrancamento dalla dipendenza dalla Russia. 

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ALTRI INTERESSI IN GIOCO – Le vicende dello sfruttamento delle risorse del Caspio non riguardano solo gli Stati costieri, ma si intrecciano al problema degli approvvigionamenti energetici della Russia e dell’Unione Europea, sempre più decisa a cercare una via autonoma da Mosca per il trasporto del gas e a differenziare la propria politica energetica, dando l’impulso a vari progetti di gasdotti tra cui quello del Nabucco, che dalla Turchia dovrebbe arrivare in Austria passando per la Bulgaria, la Romania e l’Ungheria, e quello del White Stream, che dovrebbe trasportare il gas del Mar Caspio all’Europa Orientale (Polonia, Romania, Ucraina) partendo da Tbilisi in Georgia e passando per Supsa nel Mar Nero, in diretta concorrenza con il russo South Stream. La possibilità di trovare una via alternativa a quella russa ha spinto Paesi come la Romania, la Georgia e l’Ucraina a trovare accordi con gli Stati che si affacciano sul Caspio. In particolare, nell’aprile 2010 è stato firmato un Memorandum d’Intesa tra Azerbaijan, Romania e Georgia per il trasporto nel Mar Nero di gas naturale che ha portato alla creazione dell’AGRI (Azerbaijan – Georgia – Romania Interconnector) con il compito di valutare i vari aspetti del progetto per poi arrivare ad una sua effettiva realizzazione che porterebbe ad unire il Mar Caspio direttamente all’Europa Centrale senza passare per la Russia. Il Turkmenistan, poi, sembra orientato a supportare la costruzione del Nabucco, offrendosi come fornitore di gas e petrolio e proponendo la creazione di un gasdotto trans-caspico direttamente collegato con il Nabucco.

EQUILIBRI PRECARI – La soluzione dello status legale del Mar Caspio, quindi, non riguarda solo gli attori direttamente coinvolti, ma anche Stati le cui coste non sono bagnate dalle sue acque. Inoltre, gli equilibri della zona caucasica non sono dei più stabili: non bisogna dimenticare, infatti, che la parte di Russia che si affaccia su questo bacino è quella della Repubblica del Daghestan, regione nella quale dal 2000 c’è un clima di guerriglia le cui vicende sono intimamente connesse a quelle della vicina Cecenia. Non si tratta, dunque, di una mera delimitazione di zone di sfruttamento marino ma di riuscire a salvaguardare i delicati equilibri dell’area.

Anna Grieco [email protected]

Al di là della manita

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Settimana importante, in Catalogna, e non solo per l'entusiasmante 5-0 del Barcellona sul Real Madrid di Mourinho. Le elezioni catalane hanno decretato la netta sconfitta del tripartito guidato dai socialisti che da ben sette anni governava la comunità autonoma e l’importante successo dei nazionalisti di Artur Mas. Si tratta dell’ennesimo duro colpo assestato al modello socialista targato Josè Luis Zapatero ed è anche un ulteriore segnale che potrebbe lasciar presagire il tramonto dell’esperienza governativa socialista alla Moncloa di Madrid.

UNA VITTORIA ANNUNCIATA – Era nell’aria già da molto tempo il ribaltone politico che gli elettori catalani con una partecipazione di circa il 60% hanno sentenziato recandosi ai seggi domenica 28 novembre per eleggere i nuovi componenti di governo della comunità autonoma.

AFFERMAZIONE NAZIONALISTA – Convergencia i Unio’, la coalizione di partiti centristi capeggiati da Artur Mas è andata molto vicina ad ottenere la maggioranza assoluta accaparrandosi 62 seggi su 135 totali. Una larga affermazione che consentirà al partito nazionalista catalano di imprimere nuove politiche molto differenti da quelle attuate finora dal governatore uscente socialista Josè Montilla. Mas, al momento ha lasciato intendere di volersi confrontare con tutte le forze politiche per proseguire una fase che dovrà essere caratterizzata da“toni costruttivi”, senza però accantonare la principale battaglia politica nazionalista, ovvero la creazione di una Stato catalano completamente indipendente dal centralismo madrileno.

SCONFITTO IL TRIPARTITO – Chi da questa tornata elettorale esce senza dubbio sconfitto è la coalizione di sinistra composta da PSC, ICV ed ERC. Il Partito Socialista di Catalogna ha fatto registrare il suo peggior risultato storico nella regione non andando oltre i 28 seggi complessivi. L’ormai ex governatore Montilla ha immediatamente ammesso la pesante sconfitta, sottolineando però il carattere locale dell’elezione e dunque implicitamente liberando Zapatero da ogni indiretta responsabilità. Montilla ha poi affermato a margine del voto di non aver intenzione di ricoprire il ruolo di leader dell’opposizione del governo catalano, aprendo così una fase di discussione che porterà ad una ridefinizione dei vertici del PSC. Nonostante la sconfitta, gli ecosocialisti (ICV)  hanno ottenuto 10 seggi superando così in percentuale, rispetto alle passate elezioni del 2006, la sinistra repubblicana (ERC) anch’essa attestatasi a 10 seggi.

LA TERZA FORZA – Soddisfatti dell’esito del voto anche gli esponenti del Partito Popolare che ottengono un ottimo risultato in terra catalana accaparrandosi 18 scranni e tornando ad essere la terza forza politica della comunità. Il partito di Rajoy può inoltre gioire dell’esito negativo dei socialisti in un territorio a loro storicamente favorevole, questo soprattutto in ottica nazionale dove il Partito Popolare si proporrà con decisione ad essere la nuova forza di governo nel 2011.

LA SORPRESA – Più che positiva è da considerarsi anche la prima esperienza elettorale per il neo partito costituito dall’ex presidente della squadra di calcio del Barcellona Joan Laporta. Solidarietà catalana per l’indipendenza, dopo soli quattro mesi dalla sua fondazione è riuscito ad ottenere il 3,2% delle preferenze e 4 seggi. Leader di una coalizione di sei partiti con ideologie differenti ma accomunati dalla medesima volontà di indipendentismo, Laporta si è proposto come nuovo personaggio politico non dichiaratamente schierato né a sinistra né a destra ma aperto a discutere su differenti fronti.

ZAPATERO ALLE CORDE – Persa anche la roccaforte catalana, il governo Zapatero si appresta a vivere l’ultimo anno della legislatura in condizioni molto difficili. La crisi economica che affligge la Spagna con la conseguente crescita zero, la disoccupazione alle stelle e la sfiducia ormai preponderante nell’elettorato spagnolo nel progetto socialista sono per Zapatero i principali ostacoli da superare per poter tentare in extremis di vincere una battaglia politica che in Spagna, e non solo, molti considerano già persa.  

Andrea Ambrosino [email protected] 

A che gioco giochiamo

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Facciamo il punto su quanto sta succedendo tra le due Coree, e come tali eventi possano avere ripercussioni a livello regionale e internazionale. Vi sarà un nuovo conflitto o una ripresa delle trattative? La partita è ancora aperta e da giocare, e al tavolo, oltre Pyongyang e Seoul, sono sedute anche Washington, Pechino e Mosca. Ecco i possibili scenari

Da: Centro di Formazione Politica

TENSIONE ALLE STELLE – L’attacco dei giorni scorsi contro l’isola di Yeonpyeong (nella foto sotto un immagine dell'accaduto riportata da una tv locale), 120 chilometri a ovest di Seoul, non ha precedenti nella storia recente delle relazioni tra la Corea del Nord e la Corea del Sud. Sebbene non ci siano state perdite rilevanti tra le fila sudcoreane né siano colpiti siti sensibili, l’aggressione dell’esercito di Pyongyang ha provocato un innalzamento della tensione in tutto il quadrante asiatico e scatenato le paure dei paesi che hanno finora sostenuto il governo di Seoul nella richiesta di sanzioni contro l’esecutivo nordcoreano. Lo stato di allerta, quindi, è stato portato al massimo livello in Corea del Sud, ma non solo. Il premier Naoto Kan ha dichiarato infatti che il Giappone è pronto ad ogni eventualità, lasciando intendere che Tokyo non starà certo ad attendere l’evolversi degli eventi prima di intervenire per azzerare una minaccia di tale portata. La tensione ha raggiunto nelle ultime ore il punto apicale e lo scontro aperto potrebbe essere sempre più prossimo. Un’eventuale guerra tra le due Coree potrebbe avere conseguenze importanti sulla stabilità della regione intera e, dati gli attori impegnati a sostegno di una o dell’altra parte, aprire contenziosi internazionali di una certa rilevanza.

OLTRE LE COREE – A livello regionale, un confronto militare tra i due paesi potrebbe riaprire vecchie questioni mai del tutto superate. La Corea del Sud, infatti, ha stretti legami politici e commerciali con il Giappone, mentre la Corea del Nord è stata finora protetta nelle sedi internazionali dal governo di Pechino. Il premier giapponese Naoto Kan e quello sudcoreano Lee Myung Bak si sono accordati per favorire una comune collaborazione nel gestire la crisi. Kan ha inoltre assicurato che il governo nipponico chiederà alla Cina di esercitare forti pressioni diplomatiche affinché cessino le continue provocazioni da parte di Pyongyang, principale causa di dissidi tra le due Coree. Non bisogna inoltre dimenticare che il Giappone aveva già richiesto l’intervento cinese nelle scorse settimane: la questione del nucleare nordcoreano, il cui continuo sviluppo è uno degli elementi che potrebbe favorire l’instabilità nel quadrante asiatico, rimane uno dei temi caldi nelle relazioni tra i due paesi. Il Governo cinese ha inizialmente commentato l’accaduto mantenendo un basso profilo, limitandosi ad esprimere dolore e rammarico per la perdita di vite umane senza però condannare fermamente l’azione nordcoreana. Finora la Cina ha protetto l’esecutivo di Pyongyang, divenuto un elemento di disturbo per la comunità internazionale quanto per la stabilità regionale, nell’ottica di una contrapposizione con gli Stati Uniti nell’area asiatica, ma il recente attacco potrebbe costare al governo di Pechino la credibilità diplomatica nel ruolo di mediatore in situazioni ad alto rischio di conflittualità. Molto dipenderà, quindi, da quella che sarà la posizione della leadership cinese nelle prossime ore, per questo motivo non si possono escludere a priori contenziosi diplomatici sull’asse Tokyo-Pechino nel caso in cui l’esecutivo guidato da Wen Jiabao tentasse nuovamente di ostacolare le iniziative sanzionatorie nei confronti della Corea del Nord.

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IL LIVELLO INTERNAZIONALE – Come detto poco sopra, oltre che portare instabilità nell’area asiatica lo scontro tra le due Coree potrebbe aprire contenziosi internazionali di una certa rilevanza. A seguito dell’attacco nordcoreano gli Stati Uniti hanno inviato nel Mar Giallo la USS George Washington, portaerei a propulsione nucleare in grado di trasportare 75 aerei da guerra e un equipaggio composto da 5.000 effettivi, avviando al contempo manovre militari congiunte con Seoul nella zona marittima antistante la penisola. Barack Obama ha chiarito che gli Stati Uniti non intendono attaccare l’esercito nordcoreano, quanto accaduto nei giorni scorsi non è considerato un atto sufficiente per scatenare uno scontro militare con Pyongyang. L’iniziativa della Casa Bianca sembra però essere un monito deciso, lanciato al governo nordcoreano e, al contempo, a quello cinese. Washington si aspetta infatti un intervento deciso da parte dell’esecutivo di Pechino ed auspica che la Cina riveda le sue posizioni sulla questione del nucleare nordcoreano. Alcuni timidi segnali in questo senso si sono avuti nelle ultime ore: il premier cinese Wen Jiabao, a margine dei colloqui bilaterali con il leader russo Dmitry Medvedev, ha dichiarato che Pechino è contraria alle provocazioni militari nordcoreane, confermando al contempo la disponibilità alla riapertura dei colloqui sulla questione dello sviluppo del programma nucleare.

LE CARTE ANCORA DA GIOCARE – Al momento la situazione sembra essere caratterizzata da una certa fluidità. I giocatori di questa pericolosa partita non hanno ancora scoperto tutte le carte. A seguito della visita di Kim Jong Il e del suo successore designato, il figlio Kim Jong Un, alla base di artiglieria nella provincia di South Hwanghae, da dove è partito l’attacco, i due leader hanno dichiarato che la Corea del Nord sarebbe pronta a muovere guerra contro Seoul in caso di provocazioni da parte del vicino. Molti osservatori internazionali sostengono che l’attacco sia una dimostrazione di forza da parte del futuro Presidente Eterno, che potrebbe così affermare la propria leadership e mostrarsi capace di qualcosa che i suoi predecessori non sono mai riusciti a mettere in atto. La partita rimane quindi aperta, in attesa di nuovi eventi. Mentre Seoul, Tokyo e Washington sono pronte ad una dura risposta e all’opzione militare, Pechino e Mosca preferirebbero risolvere la questione tentando nuovamente di intavolare negoziati e trattative con il governo di Pyongyang. Stante l’attuale situazione la via diplomatica sembra essere la più probabile, anche se non si può escludere a priori la possibilità di un secondo attacco nordcoreano. In quel caso, la comunità internazionale si troverebbe a dover gestire un nuovo conflitto. Una guerra che potrebbe ridefinire gli equilibri nell’area asiatica così come i rapporti tra alcuni dei maggiori players internazionali, che nel quadrante del Pacifico hanno interessi non solo commerciali ma ancor più geopolitici.

Simone Comi [email protected]

Le elezioni al tempo del colera

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Da Port-au-Prince (Haiti) – Le elezioni presidenziali che si sono appena svolte ad Haiti potrebbero rappresentare finalmente un cambiamento per la sfortunata isola caraibica, che dopo il devastante terremoto sta anche subendo una epidemia di colera. Le speranze degli elettori sembrano riposte in una donna, Mirlande Manigat, che rappresenta la novità nei confronti del Presidente uscente Préval, su cui si sono riversate molte critiche in merito alle responsabilità per le conseguenze del sisma.

 

SISMA POLITICO? – Il terremoto di gennaio che ha lasciato un bilancio di 300.000 vittime e l’epidemia del colera che divaga attualmente nel paese provocando ulteriori centinaia di morti hanno scandito un 2010 drammatico per Haiti e rappresentato un amaro voltafaccia nella storia recente dell’impoverito paese caraibico che nel 2009 sembrava poter uscire da una spirale d’instabiltá e povertá. Il 2010 peró potrebbe concludersi con un secondo terremoto -questa volta positivo-, se, come appare possibile, Mirlande Manigat dovesse risultare vincente nel primo turno delle elezioni presidenziali (e legislative) che si sono tenute domenica  28 novembre (l’eventuale ballottaggio fra i due candidati rimasti si terrá in gennaio 2011). Questo non solamente perché “Madame” Manigat sarebbe la prima donna ad essere eletta alla piú alta carica della nazione haitiana, la prima Repubblica nera a dichiararsi indipendente nel 1804, seconda al mondo solo dopo agli Stati Uniti. Ma in quanto la candidata della formazione politica Rassemblement des démocrates nationaux progressistes RDNP rappresenta il cambio rispetto a 20 anni di vita politica, certamente contraddistinti da acerrimi contrasti spesso marcati da violenze, ma che in fin dei conti hanno riproposto la “stessa gente con abiti nuovi”, come direbbero gli haitiani, ad immagine dell’attuale Presidente René Preval, un tempo vicino all’esiliato Jean-Bertrand Aristide, la controversa figura di quei drammatici anni ed icona dell’opposizione.

 

CHI E’  MIRLANDE MANIGAT – “Madame” Manigat riunisce i consensi della popolazione -come lo mostrano i risultati dei sondaggi che la posizionano in testa alla corsa elettorale con oltre il 32% delle intenzioni di voto- ma anche della fascia piú abbiente della cittadinanza. Laureata in scienze politiche e relazioni internazionali alla Sorbona, fa parte della élite haitiana, e in questo non é differente dal resto della classe politica haitiana e la maggior parte dei candidati alle elezioni. Ma Mirlande Manigat é anche un personaggio conosciuto adHaiti. Suo marito, Leslie Manigat, é stato il primo Presidente democraticamente eletto nel gennaio del 1988 dopo la caduta del regime dittatoriale dei Duvalier per essere spodestato solo quattro mesi piú tardi da un colpo di stato. Giá nel 2006 era stata candidata alle elezioni, quelle del dopo- Aristide -responsabile di aver fatto sprofondare il paese nell’abisso della guerra civile-  conclusesi con l’elezione di René Préval. Vice-rettrice dell’université Quisqueya, la piú prestigiosa ad Haiti, professoressa di diritto costituzionale, intellettuale mondialmente riconosciuta, Mirlande Manigat situa l’educazione al centro della sua campagna elettorale. Nonostante i sondaggi che le sono favorevoli, una sua vittoria il 28 novembre non appare peró scontata. Domenica, giorno delle elezioni, l’affluenza alle urne potrebbe essere pregiudicata dalle minacce e le intimidazioni alla popolazione. Questa non é una novitá in Haiti, le ultime elezioni legislative nell’aprile del 2009 avevano fatto registrare una misera partecipazione del 10%. Le Nazioni Unite hanno registrato un intenso traffico d’armi nelle settimane precedenti lo scrutinio e diversi scontri fra sostenitori di bandi politici opposti si sono risolti con morti. La destabilizzazione alla vigilia delle elezioni é un elemento piú che probabile.

 

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PROSPETTIVE – Il suo avversario dichiarato, fra un totale di 19 candidati, é Jude Célestin del partito di governo INITÉ. Il delfino di Préval, come lo definiscono, non é peró riuscito a sfondare nei consensi come c’era invece da attendersi (e come lo dimostrano gli 8 punti percentuali che lo separano dalla leader del RDNP) e ció nonostante una campagna elettorale ben superiore a quella dei suoi concorrenti ed il fatto di poter contare con le risorse (e le strutture) del partito attualmente al governo.

 

Comunque sia, la distanza che separa la coppia di testa dagli altri contendenti (il terzo nei sondaggi con il 15% dei consensi é Jean Henry Céant sostenuto dal Lavalas, l’antica formazione di Aristide) fa presagire che saranno quasi sicuramente Manigat e Célestin a contendersi in gennaio l’ambita poltrona presidenziale. In tal caso, come già l’hanno dichiarato alcuni candidati fuori corsa, tanto Céant, come l’imprenditore Jean Charles Bakcer  acerrimo nemico di Preval (quinto nelle intenzioni di voto), ed il cantante Michel Martelly (un soprendente quarto grazie alla simpatia che raccoglie presso il pubblico piú giovane) potrebbero -e probabilmente lo faranno- sostenere la candidatura di “Madame” Manigat. In tal caso, il 2011 si aprirebbe con un’altro terremoto. Affluenza popolare permettendo!

 

Gilles Cavaletto

Georgia: riforma costituzionale e democrazia

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In seguito alle proteste di piazza dell’aprile 2009, la Georgia ha cominciato un percorso di riforma costituzionale conclusosi il 15 ottobre scorso, con il quale i poteri del Presidente sono stati diminuiti e il meccanismo di pesi e contrappesi del sistema politico in parte ripristinato. Nonostante questi positivi passi avanti, la riforma rimane comunque insufficiente ad assicurare la democraticità del paese, e la concretezza delle aspirazioni georgiane di accesso alla NATO e avvicinamento all’occidente rimane piuttosto incerta.

LA GEORGIA DI SAAKASHVILI – Dopo la dichiarazione di indipendenza dall’Unione Sovietica del 1991, la Georgia ha sperimentato nel 2003 una nuova rivoluzione, nota come Rivoluzione delle Rose. Si trattò di una rivoluzione in difesa della costituzione, che non mirava cioè a sovvertire il legittimo governo, ma chiedeva trasparenza e legalità ad un sistema corrotto. Tale rivoluzione creò grandi aspettative per una crescita positiva del paese in termini di sviluppo economico e maggiore democratizzazione e consacrò Mikhail Saakashvili (nella foto) come nuovo leader del paese. Egli porto avanti molte riforme rilevanti: promosse un’importante lotta alla corruzione che triplicò le entrate dello stato permettendo maggiori investimenti in infrastrutture, sanità ed educazione, e interventi che favorirono lo sviluppo economico. Nonostante ciò, l’ondata rivoluzionaria georgiana pare essersi arrestata nel 2007, quando si verificarono numerosi episodi di repressione violenta di atti di opposizione e si realizzarono gli effetti di alcune riforme. Nel 2004, la costituzione subì vari emendamenti che rafforzarono enormemente il ruolo del Presidente, rendendo agili le riforme ma indebolendo il ruolo del Parlamento. Al Presidente veniva accordato il diritto di nominare direttamente il Ministro della Difesa, degli Interni e della Sicurezza, di sciogliere il Consiglio dei Ministri e la nomina di governatori e sindaci in tutto il Paese. Il meccanismo di pesi e contrappesi del sistema politico fu sbilanciato a favore del Presidente e il governo di Saakashvili divenne un ibrido composto al contempo da elementi democratici ed autoritari.

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LA RIFORMA – La riforma costituzionale approvata lo scorso ottobre ha in parte ripristinato gli equilibri del sistema politico rimossi dagli emendamenti promossi dal 2004 in poi dall’amministrazione Saakashvili. Con la nuova riforma, la figura del Presidente è stata fortemente indebolita e relegata principalmente a ruoli di rappresentanza, mentre sono stati aumentati i poteri del Primo Ministro e del Parlamento. Nonostante si sia dichiarata in generale favorevole ai nuovi cambiamenti, la Commissione Venezia – organo consultivo dell’Unione Europea che offre assistenza costituzionale su richiesta dagli Stati interessati – ha affermato che la riforma costituzionale affida un ruolo ancora troppo limitato alle Camere e che occorre chiarire meglio soprattutto la divisione dei poteri tra il Presidente e il Governo nell’ambito della politica estera. Nel nuovo sistema, infatti, la conduzione delle relazioni estere del Paese viene affidata in modo condiviso a Presidente e Governo e non è chiaro dove finisce il ruolo dell’uno e comincia quello dell’altro. Chiarezza in questo ambito è fondamentale considerate le questioni ancora aperte tra Russia e Georgia dopo la guerra dell’agosto 2008 e i problemi con le province separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud.

QUALI ASPETTATIVE FUTURE? – Per la Georgia democrazia e sicurezza sono due concetti interdipendenti. Il conseguimento di obiettivi importanti come l’adesione alla NATO, maggiore stabilità interna e riduzione di corruzione e spinte nazionaliste è collegato alla democratizzazione del Paese. La riforma costituzionale recentemente approvata è senza dubbio un importante passo avanti, ma la scarsa attenzione prestata ad alcune delle istanze sollevate dalla Commissione Venezia e lo scarso dibattito parlamentare, evidenziano come la strada verso la piena democratizzazione sia ancora piuttosto lunga. La riforma costituzionale non è sufficiente da sola, e servirebbe un programma di riforme ad ampio spettro, in campo elettorale, giudiziario, e di libertà dei media. Programma che sembra ancora lontano dall’essere concepito.

Tania Marocchi [email protected]

Via alle riforme?

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Con il benestare del leader Fidel Castro, Cuba si avvia verso il lungo processo di riforme economiche, definite necessarie per salvare la rivoluzione cubana, elaborate durante il seminario che  due settimane fa ha riunito 532 dirigenti del paese incaricati  di attuare il piano del generale Raúl Castro per superare la grave situazione economica.

RIFORMA DEL MODELLO SOCIALISTA – E’ necessario l’ammodernamento del modello socialista per evitare l’autodistruzione del sistema politico cubano. I mezzi che sono stati individuati sono l’utilizzo di un maggior grado di razionalità nella definizione del salario, dei prezzi, delle pensioni, da un lato, e il mantenimento di sussidi e agevolazioni, la lotta contro la corruzione, dall’altro. Sono questi i punti forti dell’ideologia di Fidel Castro, ritenuti essenziali e vitali. Alla lista si aggiungono gli incentivi per stimolare l’iniziativa privata, il potenziamento degli investimenti stranieri e l’elaborazione di un nuovo sistema fiscale. 

Uno dei temi più dibattuti riguarda il cammino verso l’unificazione monetaria a Cuba in cui circolano due monete: il peso cubano convertibile (CUC), che equivale a 1,08 dollari, e il peso nazionale, con minor valore dell’altra e utilizzata per pagare i salari cubani. Come sottolineato dal Ministro per l’Economia Marino Murillo, l’eliminazione della doppia moneta è solo il primo passo per la ristrutturazione del modello economico, sarà l’efficienza produttiva la soluzione dei problemi attuali.

DISCORSO STORICO – Dal 2006, anno in cui Fidel Castro lasciò ufficialmente il potere, le sue apparizioni sono state solo sporadiche, ma comunque incisive. Recuperando un “discorso storico” per tutta l’isola, tenuto nel 2005, sulla necessità di riparare agli errori per la continuazione della rivoluzione, nelle scorse settimane ha riproposto il medesimo nel corso della Giornata Internazionale dello studente. Il discorso, inoltre, si presenta come l’approvazione formale delle riforme economiche presente dal fratello Raúl Castro, lanciate in un momento particolare per il Partito Comunista Cubano (PCC) alle prese con i preparativi del VI Congresso che si terrà nell’aprile 2011.

L’idea fondamentale, come sostiene lo stesso Fidel Castro, è creare una nuova società più giusta e più equa. Il discorso del 2005, secondo il leader cubano, è più attuale che mai, poiché gran parte del proclama era rivolto al futuro, e i fatti hanno confermato quanto era stato previsto. La differenza è che adesso fenomeni quali il cambio climatico e la crisi economica richiedono il massimo coinvolgimento e contributo dei giovani nella battaglia ideologica.

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SFIDE – E’ complesso il percorso intrapreso da Cuba, soprattutto perché dovrà fronteggiare non poche sfide che vanno dall’accantonare forme statali paternalistiche, alla creazione di un humus che possa attirare il capitale straniero e a maggiori garanzie per l’espansione del settore privato. È evidente che si tratta di riforme di grande portata che necessitano prima di ogni cosa un cambiamento di radicale della società, ma forse Cuba non è ancora pronta a un salto così grande.

APERTURA O AUTODISTRUZIONE – Il leader cubano è consapevole che il sistema deve cambiare, e per tale ragione ha suggerito lo studio del modello cinese, che correggendo gli errori intrinseci al sistema, adesso cresce con un tasso del 10% annuo. A Cuba si presentano due possibilità: seguire il modello di Pechino, che in 30 anni è stato in grado di rendere la Cina una delle potenze mondiali più forti, anche se Cuba probabilmente non potrebbe raggiungere gli stessi esiti visto il basso livello di industrializzazione e di risorse di cui invece è ricco il gigante asiatico; oppure, può aprirsi gradualmente all’economia di mercato, stimolando il settore privato, ma per ottenere questo risultato sarebbero necessari cambiamenti anche nel sistema politico.

VOCI FUORI DAL CORO – “Non ci sono più discorsi, tutto è finito, si ricicla quello che già è stato detto. Il governo non sa più cosa fare per risolvere i problemi gravi del paese”. Queste le affermazioni di Martha Beatriz Roque, direttore dell’Istituto Cubano di Economisti Indipendenti al discorso di Fidel Castro. Dopo la notizia che un milione di cubani, pari al 25% della popolazione attiva, potrebbero perdere il posto di lavoro, è aumentato il senso di frustrazione tra la popolazione di pari passo con l’incremento della corruzione, ormai presente a tutti i livelli statali. L’economista, inoltre, ritiene che la strategia del regime è quella di creare “movimento” per poi in realtà lasciare tutto immutato. Ciò di cui ha bisogno il paese è una rimozione del modello socialista, ormai inadeguato, e la definizione di uno nuovo che abbia come fulcro la della proprietà privata, materia prima per lo sviluppo economico.

 

Valeria Risuglia

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Vicini scomodi: scintille tra Pyongyang e Seoul

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Martedì 23 novembre alle 14.30 (ora locale) l’artiglieria nord-coreana colpisce l’isola sud-coreana di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, situata al limite della linea di demarcazione tra la Corea del Nord e la Corea del Sud. Alta è l’allerta a Seoul, dove il Presidente Lee Myung Bak ha dichiarato che non esiterà a reagire con un contrattacco se necessario.

L’ATTACCO ALL’ISOLA DI YEONPYEONG – L’isola di Yeonpyeong, territorio sud-coreano, è situata nel Mar Giallo a pochi chilometri di distanza dalla costa della Repubblica Popolare della Corea del Nord e in prossimità della Northern Limit Line, la linea di demarcazione che dall’armistizio del 1953 segna il confine tra la Corea del Nord e la Corea del Sud. Data la particolare posizione di confine, è stata più volte teatro di scontri. L’ultimo risale a martedì 23 novembre, quando, durante la tradizionale esercitazione militare sud-coreana, l’artiglieria nord-coreana ha colpito non solo obiettivi militari ma anche edifici civili presenti sull’isola, uccidendo due soldati sud-coreani e ferendo 19 tra civili e militari. Dopo aver risposto al fuoco, lo stato di allerta in Corea del Sud ha raggiunto livelli elevatissimi e ci si interroga ora su cosa abbia spinto Kim Jong-il, leader nord coreano, ad una tale azione che, come messo in evidenza da alcuni analisti, rappresenta l’ennesima prova della debolezza della Sunshine Policy, la politica inaugurata alla fine degli anni ’90 dall’allora Presidente sud-coreano Kim Dae Jung nel tentativo di avvicinare i due Paesi e creare le basi per una cooperazione più stretta e per una convivenza pacifica. L’attacco di ieri non è un episodio isolato, infatti nell’ultimo anno abbiamo assistito ad un altro momento durante il quale la tensione tra i due Paesi è aumentata. Nel marzo 2010, il Governo di Pyongyang fu accusato, infatti, di aver affondato la nave sud-coreana Cheonan nel Mar Giallo, nei pressi dell’isola di Baengnyeong. Dal canto suo, la Corea del Nord ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nell’incidente, in ciò supportata anche dalla Cina e dalla Russia. La vicenda ha mostrato come la tensione nella Penisola sia palpabile e pronta ogni volta a sfociare in scontri aperti che finiscono per coinvolgere anche altri Paesi, in particolare Stati Uniti e Cina.

LE CAUSE: LA SUCCESSIONE – Ogni avvenimento geopolitico che si rispetti nasconde dietro la superficie una miriade di cause e concause che si intrecciano tra loro in maniera indissolubile tanto da far apparire l’evento finale come la sola punta dell’iceberg. L’incidente in questione non si discosta poi molto da questa dinamica. Analisti sud-coreani, infatti, danno a questo attacco molte spiegazioni. Non parliamo solo dell’ennesimo tentativo di Pyongyang di dimostrare la propria forza, ma anche, come afferma Cho Myung Cheol ricercatore presso il Korean Institute for International Economic Policy, un tentativo di rafforzare la stabilità interna in un momento in cui si comincia a parlare della successione di Kim Jung-il. Un modo per dire alla Comunità Internazionale e alla popolazione coreana che Kim Jong-Un, figlio di Kim Jung-il e suo successore designato, sarà in grado non solo di continuare ciò che il padre ha iniziato ma di continuarlo nel migliore dei modi. 

LA RIPRESA DELLE TRATTATIVE A SEI – La questione della Corea del Nord è principalmente legata al programma nucleare che questa porta avanti da anni ormai. Nei giorni precedenti l’attacco all’isola di Yeonpyeong, hanno fatto il giro del mondo le immagini satellitari della costruzione di una nuova centrale nucleare (nell'immagine si possono scorgere le nuove costruzioni) che conterrebbe centrifughe per arricchire l’uranio, utilizzabile per creare armi nucleari. Ciò dimostra come, nonostante le ripetute sanzioni delle Nazioni Unite e i richiami allo smantellamento del programma nucleare, la Corea del Nord continui per la sua strada, non paga dei due test nucleari del 2006 e del 2009. Tuttavia, non sono pochi gli analisti che interpretano questi come dei segnali che Pyongyang vuole inviare per riprendere le trattative a sei che si erano interrotte nel 2007 a causa dell’atteggiamento di non collaborazione della Corea del Nord. Le trattative, iniziate nel 2003 dopo l’uscita di questa dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare con lo scopo di trovare una soluzione pacifica ai problema di sicurezza che il programma nucleare nord-coreano pone, hanno visto impegnati in prima linea, oltre la stessa Corea del Nord, gli Stati Uniti, la Russia, la Corea del Sud e la Cina, ma non hanno ottenuto i risultati desiderati e si sono concluse con l’espulsione degli ispettori nucleari presenti nel Paese. Secondo il Presidente del Sejong Institute, Song Dae Sung, Pyongyang con quest’azione estrema cerca una reazione degli Stati Uniti, con i quali vuole ingaggiare nuovi ulteriori dialoghi.

COSA DOBBIAMO ASPETTARCI? – Quanto accaduto nel Mar Giallo non resta un episodio isolato, nel corso degli anni i rapporti tra i due Paesi hanno sempre rischiato di rompersi in maniera irreparabile. Ciò, tuttavia, non ha impedito a Seoul di fornire aiuti umanitari ai vicini, in linea con quanto previsto dalla Sunshine Policy, valsa al Presidente Kim Dae Jung il nobel per la pace, contribuendo a non portare la situazione ad un punto di non ritorno. Quanto accaduto martedì mette nuovamente in discussione la stabilità della Penisola, in un momento in cui si apre la spinosa questione della successione in Corea del Nord e in cui si ripropone in maniera sempre più pressante la questione nucleare. Il dubbio, a questo punto, riguarda le motivazioni alla base dell’attacco, e sono in molti a ritenere che ci possa essere una volontà della Corea del Nord di subentrare a Seoul nella sovranità sul gruppo di isole di cui fa parte Yeonpyeong, mettendo in discussione il confine tracciato alla fine della Guerra di Corea. Per il momento la Corea del Sud, oltre ad aver risposto al fuoco e a prepararsi per un eventuale ulteriore scontro, ha bloccato gli aiuti umanitari verso la Corea del Nord. Gli equilibri nella zona sono molto delicati essendovi degli interessi diretti di Cina e Stati Uniti, i quali giocheranno un ruolo fondamentale negli eventi che seguiranno l’attacco. Le speranze di tutti sono riposte nella ripresa delle trattative a sei e nella capacità di Pyongyang e Seoul di appianare le loro divergenze utilizzando i metodi diplomatici e non militari, come ricordato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale ha condannato l’attacco, definendolo uno dei più gravi incidenti dai tempi della Guerra di Corea.

Anna Grieco [email protected]

Seppellire i fantasmi del passato?

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Il Summit della NATO che si è appena chiuso a Lisbona ha toccato e definito alcuni tra i punti più critici nell’area di attività e nelle alleanze dell’organizzazione: Afghanistan, difesa missilistica in Europa, rapporti con la Russia. Ne è nata una visione del futuro dell’Alleanza in contrapposizione ad alcuni punti fermi del passato, che apre ad una nuova fase di possibile cooperazione tra Stati Uniti, Europa e Russia.

 

NUOVA VITA CON I RUSSI – Era il momento atteso, quello in cui il disgelo con la Russia sarebbe stato “ufficializzato”. Dopo le tensioni dovute alla guerra tra Russia e Georgia, dopo i continui disaccordi sul dispiegamento nell’est Europa dello “scudo antimissile”, ecco che a Lisbona si sancisce la possibile svolta nei rapporti di Mosca con Stati Uniti ed Europa. Durante il Summit, infatti, ci sono stati chiari segni di distensione ed apertura, soprattutto tra Obama e Medvedev. D’altro canto questa nuova fase di cooperazione non è solo un’opzione, ma una necessità, per tutti. Da un parte infatti la Russia, nonostante la propria stabilità politica presente (e futura), si trova comunque in una rischiosa fase di declino economico, demografico e tecnologico, peraltro pressata in Asia dalla competizione della Cina, che di fatto può indebolire la sua storica leadership regionale. Per Mosca la cooperazione con i vicini europei è l’unico modo per crescere e non dipendere solo dai prezzi di gas e petrolio (principali fonti attuali di guadagno e di forza). Dall’altra l’Europa, che ha nella Russia non solo un fondamentale fornitore di risorse energetiche, ma anche un grande mercato per poter da sfogo alla propria economia, che ha urgenza di ripartire (infatti, nonostante le tensioni recenti, paesi come Francia, Germania ed Italia hanno continuato a coltivare senza rallentamenti le proprie relazioni con Mosca). E poi ci sono gli Stati Uniti: Afghanistan, Iran, terrorismo e radicalismo islamico in Asia Centrale. Questi sono tra i principali temi su cui Washington e Mosca hanno necessità di collaborare. Senza dimenticare il nodo della non-proliferazione nucleare: sinora il Senato americano ha temporeggiato sulla ratifica del nuovo Trattato START, cosa che sta frenando i rapporti tra i due Paesi e che rimane tuttora il maggiore fattore di rischio per questa nuova fase. Verrà approvato a breve? Così ha auspicato il Presidente russo Medvedev.

 

LO SCUDO ANTIMISSILE – Un prodotto tangibile del Summit, che rappresenta la testa di ponte di questo difficile nuovo equilibrio, è la nuova dottrina strategica della NATO. Un aspetto rilevante di questa, coinvolge la conferma dell’importanza dei sistemi di mutua difesa, come l’articolo 5 (principio di mutuo soccorso), la difesa da attacchi informatici esterni e lo scudo antimissile, quest’ultimo indicato come priorità dell’Alleanza. Viene abbandonata la scelta dell’amministrazione Bush di porre radar e batterie missilistiche in Polonia e Repubblica Ceca, così da salvaguardare i rapporti con la Russia; allo stesso tempo però una difesa antimissile viene ritenuta vitale per proteggere le popolazioni europee e le strutture militari NATO dalla possibilità di una minaccia proveniente ad esempio da paesi ritenuti ostili quali Iran e Siria. Come conciliare le due necessità? La strategia dell’Alleanza include il probabile posizionamento dei radar e delle batterie in Turchia, nelle acque del Mediterraneo Orientale e in Europa sud-orientale, così da delineare in maniera inequivocabile la direzione dalla quale si prevedono possibili minacce, ovvero il Medio Oriente; dall’altro però riapre il problema dei rapporti con la Turchia. Ankara infatti è un membro stabile dell’alleanza, tuttavia nell’ultimo anno ha sviluppato legami più stretti con Damasco e Teheran; la delegazione turca ha perciò offerto la disponibilità del proprio territorio chiedendo però come contropartita che tali paesi non vengano inseriti nella lista dei nemici della NATO. Quella che ne deriva è una posizione un po’ ambigua della leadership di Ankara, il cui orientamento politico in caso di disputa con Iran e Siria potrebbe non coincidere con quello degli altri alleati atlantici.

 

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L’ESPANSIONE A EST – Rimane invece bloccata l’espansione della NATO verso Est, anche in questo caso per non peggiorare le relazioni con Mosca. Quest’ultima ha infatti sempre osteggiato un allargamento dell’Alleanza fino ai propri confini, pertanto i processi di ammissione dell’Ucraina e della Georgia vengono tenuti in sospeso. Del resto Kiev è ora governata da un governo con posizioni filo-russe, meno propenso a unirsi all’alleanza atlantica. Per quanto riguarda invece lo stato caucasico l’interesse risulta maggiore, tuttavia si vogliono evitare nuovi motivi di conflitto con la Russia come avvenne nel 2008; improbabile dunque un avanzamento della candidatura di Tblisi, mentre appare probabile una richiesta a Mosca di riconsiderare il riconoscimento e la protezione militare concessa alle regioni georgiane separatiste e autoproclamatesi autonome dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.

 

AFGHANISTAN, TUTTI A CASA? – Altro tema caldo affrontato è stato quello della tanto ricercata, anzi agognata, exit strategy, cioè la strategia per portare via i militari dall’Afghanistan senza lasciarsi dietro un Paese pronto a ripiombare nel caos ed una immagine molto degradata dell’alleanza internazionale. Difficile conciliare queste due esigenze con l’urgenza di fare presto: ma da Lisbona è venuta fuori una prospettiva temporale definita nei contorni di massima, che stabilisce nel 2014 il “termine ultimo” per la chiusura di quella parte di missione militare definita “combat, cioè quella che coinvolge direttamente i militari stranieri nel controllo armato del territorio. Rimarrà invece in piedi la parte di missione relativa al supporto tecnico, militare e di formazione delle forze di sicurezza di Kabul. Questa soluzione rappresenta la base minima per dare un senso allo sforzo sinora profuso dalla NATO, ma rischia di essere solo un modo di uscire dal paese in maniera non troppo traumatica, se non affiancata da uno sforzo accresciuto per i negoziati interni di riconciliazione con Talebani ed insorti. Il Presidente afghano Karzai ha infatti sottolineato la necessità che i leader mondiali lo appoggino nei negoziati con i Talebani, che si sono intensificati da alcuni mesi. Attualmente questi negoziati sono “sostenuti” sul piano militare da un maggiore livello di attività dei soldati della missione internazionale (in concreto: sono state condotte più missioni ed in aree più delicate e controllate dagli insorti, ragion per cui sono anche aumentati i morti ed i feriti tra le truppe afghane e straniere). Se dunque si prospettasse una diminuzione del lavoro militare senza aumentare lo sforzo nei negoziati, allora è probabile che Karzai non sarà in grado di ottenere risultati apprezzabili, soprattutto perché i 4 anni di supporto militare residuo potrebbero differire poco dai quasi 9 appena passati.

 

DOVE VA LA NATO? – Anzitutto in Russia, si direbbe. Lo sblocco delle relazioni con Mosca potrebbe davvero essere il risultato tangibile di questo Summit di Lisbona, forse capace di sgomberare il campo da scorie di vecchio stampo (vedi difesa missilistica). Questo potrebbe ampiamente facilitare una collaborazione aperta e pragmatica su temi che non solo toccano la sicurezza, cioè la missione cardine della NATO stessa, ma che possono creare la necessaria distensione per affrontare temi economici critici che, è evidente, preoccupano quanto le minacce alla sicurezza.

 

Pietro Costanzo e Lorenzo Nannetti

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Venti di guerra?

Continua ad essere procrastinata la sentenza definitiva che si attende da parte del TSL (Tribunale Speciale per il Libano), l’organo di giustizia istituito dalle Nazioni Unite nel 2005 per identificare i responsabili dell’assassinio dell’ex primo ministro Rafic Hariri. Se la sentenza dovesse ricadere su Hezbollah, come si prevede, la reazione del partito di Dio sarebbe un ricorso alle armi che farebbe ripiombare il paese nel baratro di una annunciata nuova guerra civile. Mentre si intensificano gli sforzi della Siria e dell’Arabia Saudita per trovare una soluzione di compromesso tra le forze politiche del paese dei Cedri, i libanesi sembrano aver rinunciato alla pretesa della verità.

Da Beirut

LA LEGITTIMITÀ DEL TSL – All’indomani dello scoppio della bomba che il 14 febbraio 2005, di fronte al prestigioso Hotel Saint George di Beirut, tolse la vita all’ex primo ministro Rafiq Hariri e ad altre 21 persone, il popolo libanese aveva già emesso il suo verdetto. Nelle strade della capitale tutti dicevano che erano stati i siriani. Fu forse una legittima e nobile ostinazione invocare allora, a tutti i costi, un organo di giustizia penale internazionale, tradottosi presto nell’istituzione del Tribunale Speciale per il Libano da parte dell’ONU, ma è purtroppo chiaro a tutti come quella scelta unanime si sia adesso tramutata in una vera e propria maledizione per il paese.

La discussione sulla legittimità del TSL – di fatto un organo speciale, inedito nel panorama del diritto internazionale e ben differente dagli altri tribunali delle Nazioni Unite – rappresenta la cifra della paralisi parlamentare tra la coalizione del 14 marzo, guidata da Saad Hariri, e quella dell’8 marzo, composta dagli sciiti di Hezbollah e di Amal e dai cristiani del generale Aoun. Mercoledì 24 novembre 2010 il parlamento libanese dovrebbe riunirsi di nuovo dopo la lunga pausa delle feste musulmane di Eid-el-Adha e la celebrazione dell’indipendenza dal mandato francese e tutti si aspettano che in questa occasione venga formalizzata la proroga per la conclusione dei lavori del tribunale da dicembre 2010 a marzo 2011. Dietro questo imbarazzante balletto si comprende bene quanto in realtà questa sentenza non la desideri più nessuno. Aoun, nella sua recente visita in Francia, ha affermato che “Hezbollah avrà una reazione devastante se verranno imputati alcuni dei suoi esponenti”. E d’altra parte i dubbi sulle competenze del TSL sono stati avanzati anche da alcuni esponenti del 14 marzo, coloro che più di tutti avevano invocato la giustizia dopo l’omicidio dell’ex premier e durante il lungo periodo di instabilità che seguì l’evento. Lo stesso Hariri si è trovato costretto più di una volta nelle ultime settimane a stringere la mano di colui che è con buona probabilità il vero mandante dell’assassinio di suo padre, il presidente siriano Bashar al-Assad.

La costituzione di un ombrello siro-saudita per evitare uno scoppio delle tensioni nella terra dei Cedri è inoltre un segno di quanta potenziale eco una nuova opposizione tra sunniti e sciiti possa propagare nella regione.

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LE DEBOLEZZE DELL’ESERCITO LIBANESE – Il surriscaldamento delle tensioni libanesi non ha comunque preoccupato solamente gli attori regionali. La comunità internazionale sta guardando con timore a quello che succede nel piccolo paese dei Cedri. Gli Stati Uniti, all’indomani della pubblicazione del rapporto ONU sulla risoluzione 1559 che mostrava il permanere di un’indefinitezza delle frontiere e di gruppi armati indipendenti dallo stato (Hezbollah in primis), hanno sbloccato i 100 milioni di dollari in finanziamenti militari che erano stati congelati all’inizio di agosto 2010. E il premier libanese nella sua recente visita a Mosca ha ottenuto un generoso sostegno militare da parte della Russia. La preoccupazione principale, infatti, risiede proprio nel fatto che l’esercito di Stato possa trovarsi impreparato di fronte alle milizie di Hezbollah. E’ indicativo, se non ridicolo, che il ministro della Difesa nazionale abbia provato a aprire un account presso la Banca Centrale su cui i cittadini potessero versare delle donazioni per finanziare l’acquisto di armi per l’esercito. La proposta del ministro è caduta per mancanza di parametri costituzionali ma la domanda che urge è un’altra: come può un esercito affidarsi allo spirito caritatevole dei cittadini che dovrebbe difendere? Ma quello che preoccupa ancora di più sul piano militare è la maggioranza di soldati sciiti in seno all’arma stessa. Gli sciiti sono ormai circa il 43 % della popolazione locale e lo sbilanciamento a loro favore anche all’interno dell’esercito libanese fa seriamente temere che, in caso di guerra civile, si crei una opposizione tra militari cristiani e sunniti da una parte e militari sciiti dall’altra.

Si capisce bene, dunque, perché la verità su chi abbia ucciso Hariri non convenga più ai libanesi che, pur essendosi affidati a lungo all’istituzione del TSL, preferirebbero adesso una sortita silenziosa dei giudici e degli ispettori dell’ONU dagli affari del paese. I libanesi sono sempre più convinti che la mediazione siro-saudita sia l’unica possibile strada per una distensione delle discordie interconfessionali, mentre temono che le interferenze diplomatiche occidentali, finalizzate a fare in modo che il Tribunale porti a compimento i suoi lavori e Hezbollah venga definitivamente disarmato, possano essere controproducenti. Il Segretario di Stato USA Hillary Clinton pensa che questa sia l’unica strada “per un Libano prospero, democratico e stabile”. Chissà se si è mai chiesta perché le 13.000 unità dell’UNIFIL 2, nel paese dal 2006, non solo non sono riuscite a reperire le armi di Hezbollah ma non hanno nemmeno potuto evitare che gli arsenali del partito di Dio aumentassero.

Nel Dipartimento di Stato americano dovrebbero forse riflettere maggiormente su quanto potere la componente sciita stia assumendo nel paese e su quanto questo renda difficile la gestione degli equilibri interconfessionali all’interno del paese dei Cedri. Ecco perché i sunniti e cristiani – oltre agli altri attori regionali – cercano di evitare a tutti i costi un nuovo conflitto civile. E se la Clinton riflettesse un po’ di più sul fatto che un nuovo scontro interconfessionale potrebbe portare alla costituzione di un nuovo stato arabo e sciita, come quello iracheno e al soldo degli Ayatollah di Teheran, cercherebbe di evitarlo a tutti i costi pure lei.

Marina Calculli (da Beirut)

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