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La crisi del debito e l’effetto domino

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L’Unione Europea ormai da molti mesi è alla ricerca di una cura valida per sanare i conti in rosso di alcuni paesi dell’Eurozona. Tuttavia i lauti fondi erogabili in favore degli ultimi della classe senza un forte impegno unanime non possono più bastare, è necessario dunque uno sforzo considerevole da parte di ogni singola unità statale chiamata in causa per evitare quel pericoloso effetto domino che sancirebbe con ogni probabilità il fallimento del progetto della moneta unica ed una potenziale crisi senza precedenti delle istituzioni comunitarie.

IL TERMOMETRO DELLA CRISI – Messa da parte, almeno per il momento, la questione Grecia con l’accettazione da parte del governo di Atene di un piano di aiuti/prestiti dilazionati nel tempo, il prossimo dei quali è previsto per il mese di gennaio, l’attenzione della Comunità europea ora è tutta concentrata su Irlanda e Portogallo, i due paesi che dati alla mano più di altri rischiano il collasso economico.

LE RESISTENZE DI DUBLINO – La settimana appena trascorsa ha riacceso i riflettori sulla critica situazione in cui versano le casse irlandesi. Il sistema finanziario di Dublino infatti continua ad accumulare perdite su perdite a causa anche di un garantismo ad oltranza ostentato dal primo ministro Brian Cowen che risulta oggettivamente difficile da comprendere se non si sposta il piano della riflessione dall’economia alla politica. E’ così facendo che ci si rende conto che in Irlanda nelle prossime due settimane è prevista in primis un’importante tornata elettorale locale e successivamente l’approvazione del bilancio dello Stato. Senza dimenticare che nel 2011 i cittadini irlandesi saranno nuovamente chiamati alle urne per votare il rinnovo del parlamento e per un difficilmente ipotizzabile reincarico nei confronti di primo ministro in carica Cowen che, temporeggiando nell’accettare gli aiuti proposti in sede europea, tenta di giocarsi disperatamente le sue ultime e poche chance di successo.

PORTOGALLO IN BILICO – Anche Lisbona da tempo naviga in acque molto poco raccomandabili ed è pronta qualora il rischio d’annegamento dovesse materializzarsi all’improvviso ad accettare il salvagente lanciato dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) e dalla Bce (Banca centrale europea). Per il momento però il governo portoghese di Josè Socrates naviga a vista, fiutando il pericolo ma facendo di necessità virtù continuando a finanziarsi sui mercati.

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LE DIAGNOSI – Non sono mancati in queste ore i commenti sulla critica situazione economica europea da parte di numerosi ed importanti protagonisti: uno su tutti quello di Jean Claude Junker, presidente della Bce che, soffermandosi sul caso Irlanda, ha esortato Dublino a render note nel più breve tempo possibile le proprie intenzioni, sottolineando tuttavia che il piano di intervento riguarderebbe soprattutto le banche irlandesi e che fino al 2013 non saranno previsti alcuni aiuti per i settori privati. Netta è stata anche la presa di posizione del presidente del Consiglio Ue, Herman Von Rompuy che ribadendo le posizioni espresse poco prima da Angela Merkel ha affermato che “è in gioco la sopravvivenza stessa dell’Eurozona ed in generale dell’Ue”. In sede europea notevoli preoccupazioni arrivano proprio dalla Germania della Merkel, vero e proprio motore trainante dell’Ue che però, ultimamente, sta mostrando alcuni segnali preoccupanti di un Euro-pentimento che se non fermato in tempo potrebbe generare nei delicati equilibri continentali crepe insanabili.

LA CURA IN CIFRE – Dopo i 110 miliardi di euro messi nel pacchetto di finanziamenti alla Grecia sono pronti ad essere erogati, grazie al contributo congiunto del FMI e della Bce circa 100 miliardi per aiutare l’Irlanda a risanare il proprio debito ed altri preventivabili 60-80 miliardi nel caso in cui anche Portogallo dovesse farne presto richiesta.

Ma cosa potrebbe accadere se un altro Paese Ue dovesse richiedere ulteriori aiuti? E’ questa la domanda che preoccupa maggiormente gli addetti ai lavori e non solo in quanto con ogni probabilità non vi saranno più abbastanza risorse per venire incontro alle esigenze dei singoli Stati. Da qui la necessità di estinguere quanto prima il focolaio accesosi dapprima in Grecia e che sembra diffondersi con grande velocità e puntare su un’unanime maggior virtuosismo economico dei Paesi membri con il fine di evitare un catastrofico effetto domino.

Andrea Ambrosino [email protected]

Se l’inferno arriva in città

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Un venerdì di novembre come tanti nella provincia messicana. Patcuaro, famosa per le offerte alla Santa Morte del 2 di novembre, messa a ferro e fuoco dai militari e dalla polizia federale, che per tutto il giorno cercano di arrestare narcos molto vicini al gruppo di Servando Gómez Martínez, uno dei più influenti capi della “Familia Michoacana”, potente organizzazione criminale del Messico centrale. Ecco la terza puntata del reportage del “Caffè” direttamente dal Messico.

Da Città del Messico

SUCCEDE IN MESSICO – Mentre le due bande continuano a spararsi, la Familia Michoacana mostra chi comanda nella regione. A 45 km di distanza, in piena capitale della regione, Morelia, i suoi uomini cominciano a incendiare 7 veicoli, tra i quali 4 camion e un autobus fermato in strada quando era pieno di passeggeri. Sparano su un benzinaio. Si sentono esplosioni in tutta la città. La gente non può scappare, tutte le strade in uscita dalla capitale sono bloccate dai roghi. Il governo statale decide per la propria sicurezza di lasciare abbandonata la città. I poliziotti e i paramedici non escono dalle loro caserme per spegnere gli incendi e riacquistare il controllo della zona. Hanno paura di essere uccisi. Il cartello è troppo forte, e come Nerone su Roma, la Familia Michoacana vede bruciare lentamente il suo fortino mentre gli abitanti di Morelia si chiudono in casa, impauriti, ammirando la distruzione della loro città, consci della loro impotenza nell’inferno.

I NARCOBLOQUEOS Morelia è solo l’ultima città vittima dei Narcobloqueos. Dal 2008, quando arrestano un capomafia o alcuni uomini importanti, le principali città messicane sono ostaggio di pattuglie di guerriglieri urbani, formate da giovani apprendisti narcotrafficanti, senza lavoro, che per 1000 pesos al giorno, circa 50 euro, si dedicano a questi attacchi simultanei che fanno collassare la città nell’anarchia, spaventando la gente ed avvertendo lo Stato. Questa rappresaglia militare e terrorista si è cominciata a diffondere a Monterrey, terza città del Messico e motore industriale del centro nord del paese, grazie al gruppo de Los Zetas, ideatore messicano dei narcobloqueos. Solo nell’estate passata si sono registrati 28 giorni di narcobloqueos. Nel corso del 2010, altri blocchi si sono registrati in Guanajuato, Reynosa, Tamaulipas.

La strategia è semplice ed efficace. Si scelgono le autostrade di maggior affluenza, intorno ad una città. Si sceglie un autobus e si punta una pistola alla testa dell’autista, lo si fa scendere insieme ai suoi passeggeri e si mette l’autobus di traverso, bloccando l’autostrada nelle ore di punta. In questo modo, si organizza il caos stradale, file interminabili, incidenti, gente paralizzata nel traffico, e mentre i narcos si allontano diretti ad una nuova autostrada, arriva la polizia con gli elicotteri. A volte tutte le vie di accesso alla città sono bloccate, a volte gli autobus sono incendiati. E i blocchi si ripetono per giorni, lasciandosi dietro la loro striscia di morti e feriti.

Spesso, le autorità statali hanno timore ad intervenire in difesa della popolazione e contro i gruppi militari.

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A Nuevo Laredo, Tamaulipas, il 16 luglio di quest’anno, sei ore dopo che erano cominciati i narcobloqueos in tutta la città, nessuna autorità si era avvicinata per rimuovere i veicoli o aveva informato la popolazione sull’accaduto. Solamente il giorno dopo, successivamente all’allarme lanciato dall’ambasciata americana in Messico, il sindaco della città ha emesso un comunicato sui fatti per informare i suoi concittadini. Nel mentre la gente aveva chiuso negozi e centri commerciali e si era barricata nelle case. 12 morti il saldo finale di questa giornata di ordinaria violenza.

A volte, come a Monterrey nel marzo passato, i narcobloqueos sono vere e proprie strategia di guerriglia urbana. Sta arrivando l’esercito e i narcos proteggono il territorio del loro capo, come nel Medioevo i contadini proteggevano il castello del signore. In questa occasione solo furono 6 i morti civili durante il narcobloqueo e furono uccisi 4 narco. Altre volte, la potenza di fuoco dei narcos è tale che l’esercito si ritira.

Andrea Cerami (da Città del Messico)

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Il labirinto

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Lo scorso 20 ottobre il premier Zapatero rendeva pubblico il nuovo governo spagnolo con importanti cambi nella struttura dell’Esecutivo e del partito socialista per affrontare la grande differenza che lo separa del Partito Popolare, segnalata superiore al 15% da alcuni sondaggi. In questo cambio il ministero degli Esteri è stato rinnovato per la prima volta in più di sei anni. Secondo analisti internazionali la Spagna ha le possibilita per avere una voce più forte sul palco internazionale, relazioni storiche con l’America Latina, privilegiate con il Maghreb, naturali con l’Europa e amichevoli con gli Stati Uniti. Quindi, cosa c’è che non va?

JOSÉ LUÍS R. ZAPATERO, L’IDEOLOGIA – Dopo gli attentati terroristici dell’11 marzo 2004, tre giorni prima delle votazioni, il partito socialista vince contro tutti i pronostici e Zapatero inizia una nuova politica estera diversa a quella di Aznar ma anche diversa da quella tradizionale alla Spagna di carattere fondamentalmente ideologico.  Il ritiro delle truppe dall’Iraq senza consultare gli alleati e la profonda ostilità verso gli Stati Uniti hanno caratterizzato i primi anni di Zapatero al governo spagnolo. D’altra parte le relazioni con la Francia sono migliorate notevolmente con l’arrivo di Sarkozy nel 2007 e anche con il Marocco. La politica estera di Zapatero è stata una politica “dolce”: con il Marocco la premessa era di non disturbare il vicino del sud, Madrid tornava a telefonare a Parigi prima di decidere qualcosa e la Spagna diventava, come segnalavano i media internazionali, la voce europea dei fratelli Castro a Cuba.

NUOVE E VECCHIE SFIDE – Le principali sfide per il governo spagnolo negli ultimi sei anni sono state quelle tradizionali come i rapporti con l’America Latina, il Marocco, Gibilterra e l’Unione Europea ma anche delle nuove come l’ascesa del terrorismo internazionale, gli attacchi dei pirati nell’Oceano Indiano e la crisi economica. In questo senso si deve segnalare che dal 2004 la più alta espressione di forza della política estera spagnola è stata quella nel 2007 quando il Re Juan Carlos affrontò il Presidente venezuelano Hugo Chávez con il già mitico ‘Perché non stai zitto?’ mentre il venezuelano attaccava Aznar senza lasciare parlare Zapatero. Infatti, la Spagna di Zapatero è diventata un sostegno significativo del Venezuela bolivariano e della Cuba castrista, mettendo l’accento sugli aspetti meno negativi di questi regimi e sostenendo che per spingere questi paesi verso la libertà il primo passo lo devono dare le democrazie e dopo aspettare la loro risposta. In questo senso la priorità di Zapatero e Moratinos è stata seppellire la Posizione Comune dell’Unione Europea su Cuba promossa da Aznar nel 1996 che sosteneva che il primo passo sarebbe spettato al regime socialista dell’Avana. Il nuovo ministro d’Affari Esteri ha fallito nel tentativo di mettere fine alla Posizione Comune ma è riuscita ad ammorbidire le relazioni dell’Unione con l’isola.

DEBOLE E INSTABILELasciare l’Iraq e il Kosovo senza preavvisare gli alleati e mettendo in pericolo la sicurezza delle truppe alleate dà l’idea della Spagna come un paese inaffidabile che non rispetta gli accordi e non s’interessa delle conseguenze dei suoi atti internazionali. Per quanto riguarda al conflitto di Gibilterra il governo riconosce per prima volta nella storia l’autorità della colonia ed inizia un Forum Tripartito, anche con il Regno Unito, con negative conseguenze per gli interessi spagnoli: le autorità di Gibilterra hanno preso possesso delle acque spagnole circostanti alla Rocca attraverso l’uso della forza e si confrontano sistematicamente con le Forze spagnole che lottano in quelle acque contro il contrabbando e l’immigrazione clandestina. La risposta del governo spagnolo a le sue Forze è stata chiara: non pattugliare quelle acque in conflitto, cioè, cedere la sovranità.     

PAGARE I TERRORISTI? – Ma forse il punto più problematico è quello che riguarda il terrorismo internazionale. Il governo spagnolo potrebbe avere pagato cinque milioni di Euro per il salvataggio di tre cooperanti rapiti in Mali dopo avere pagato i pirati dell’Oceano Indiano per liberare due navi. I governi europei ma anche gli Stati Uniti hanno condannato questa pratica che minaccia la sicurezza di tutti mentre i media internazionali indicavano che ‘La Spagna fa felici i pirati’.

UN SEGGIO AL G-20 – Sebbene la Spagna non abbia fatto parte dei diversi vertici europei fra i grandi per affrontare la crisi, è riuscita a consolidare un proprio seggio come invitato permanente al G20. Nel 2008 e 2009 la Spagna era parte della rappresentazione europea nel vertice di questo gruppo e anche se la presenza permanente significa un importante successo della diplomazia spagnola, dietro c'è la mano di Nicolas Sarkozy, a cui Zapatero avrebbe promesso, secondo Le Figaro, Ti darò tutto quello che vorrai’ per avere una seggio al G20. L’opposizione di centro destra segnala che la Spagna di Zapatero non ha abbastanza forza per fare sentire la sua voce in questo forum e il seggio spagnolo sarà, infatti, un seggio in più per la Francia.

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CENTO PER CENTO ZAPATERO – La politica estera spagnola attuale è uno specchio della personalità del premier Zapatero. Timido e ancora legato all’ideologia, non parla nessuna lingua straniera e non si sente a suo agio nei vertici internazionali. In questi ultimi sei anni la Spagna ha perso posizioni sulla scena internazionale, ha rinunciato a difendere i suoi propri interessi e ha messo in pericolo la sicurezza dei suoi alleati con una politica alcune volte irresponsabile, alcune volte sorprendente, ma sempre propria d’un paese dove le relazioni internazionali sono soggette a la lotta tra partiti e non a una politica di stato stabile.

Gérman Sánchez González

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500 temporali

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Avete mai pensato al Brasile come qualcosa di diverso? Avete mai immaginato ad un mondo che non sia solo calcio e favelas? Questo romanzo ci introduce in un Paese lontano, ma attraverso una storia comune, fatta di emozioni. Questi il potere di “500 temporali”. Da non perdere.

“La favela del Silvestre si trova nel colle più alto del quartiere Santa Teresa, alla base del Corcovado, montagna su cui un Cristo di trenta metri apre le braccia sulla città di Sao Sebastiao do Rio de Janeiro”. E’ il 22 Aprile del 2000. Il Brasile è stato scoperto lo stesso giorno nel 1500, dall’ esploratore portoghese Pedro Alvares Cabral e cinquecento anni sono trascorsi dalla sua scoperta.  I vestiti delle persone suggeriscono l’atmosfera da festa nazionale, come le banderuole attaccate a dei fili; eppure la scena che la scrittrice apre dissipa ogni dubbio sulla sua natura, dettagliando la descrizione di ogni particolare, perché “prima di arrivare ai fatti bisogna fermarsi sui particolari, altrimenti l’emozione si disperde”, inciso che è una vera dichiarazione poetica; ed è un istante quello in cui capiamo che “i corpi sudati formano un lungo cordone variopinto, come una sfilata di carnevale”, sì; ma questo è un carnevale al rovescio, una sorta di clichè sardonico, “svuotato dell’allegria chiassosa”. Del resto la storia di Christiana de Caldas Brito sottolinea nelle primissime parole che siamo in una favela sul morro più alto del quartiere e a Rio “più in alto vivi peggio stai”.La narrazione che prende il via da questa scena sarà circolare e intreccerà più voci e più storie.

C’è Pedro e la sua voglia di soldi e potere, cui la “semplice pioggia non basta per placare la propria sete”,ma è sufficiente per lasciarlo scivolare verso un perocorso “lavorativo” scontato del morro. Jussara, che la pioggia la vede cadere dalla finestra della sua baracca dal pavimento di terra, “con il serpente vischioso dell’umidità lì annidiato”; la sua vita paraplegica a connotare fisicamente il suo status e la speranza nel “Miracolo” promesso da Oduvaldo Laurindo, stella della tv brasiliana, e dal suo show televisivo. Marlene e la volontà di discendere il morro con la forza della cultura; e al contempo l’inossidabile certezza di essere come quelle caravelle racchiuse in bottiglie di vetro, in quegli squallidi souvenir che pidocchiosi politici regalano in vista delle elezioni: simbolo di libertà e di scoperta, eppure “immobili e senza vento” nella pancia di vetro,a cui si ancorano perché consapevoli di un esterno in cui andrebbero irrimediabilmente in frantumi. Moira e le sue lettere alla pioggia, che portano un segreto permesso dalla ricchezza e che a quelle gocce chiedo nodi trasformare l’anima nel cuore di una tempesta. “Solo chi vive ai tropici sa che tu, pioggia, non sei differente dal nostro sentire”. Ecco perché non può che essere l’elemento dell’Acqua, come l’unico dono del cielo concesso alle favelas , a legare tra loro in un’unica narrazione tutte le storie e i segreti che ciascun personaggio primario o secondario racchiude. La pioggia, “l’unico vero governatore dell’ingovernabile Rio de Janeiro”, dove il commercio di droga conglomera i diversi livelli della società e diventa in alcuni casi l’unica possibilità di ascesa, confondendo alla razionalità la dimensione eroica delle persone, i virtuosismi che occultano la loro reale natura. Il romanzo è zeppo di segreti svelati nel suo corso, come appunto prometteva l’inciso dell’incipit, che troveranno nella sua ultima sessione il giusto raccordo con le promesse e premesse narrative e la “risoluzione” dei misteri e dei destini.

Christiana de Caldas Brito non ha bisogno di particolari presentazioni, essendo una delle scrittrici più mature nell’ambito della letteratura migrante in Italia. Vive e lavora a Roma come psicoterapeuta e questo è forse uno dei motivi che portano il lettore ad ascoltare le sue storie durante la lettura. I suoi racconti e questo suo primo romanzo dimostrano come la tradizione orale così rilevante nella cultura brasiliana si radichi nelle sue storie, spesso raccontate dalla figura femminile più anziana della famiglia, una nonna che ricorda o ipnotizza le giornate e i desideri dei propri nipoti. Come  Anja, la nonna di Marlene, che finge di avere le storie aggrovigliate tra i capelli; ma la nipote riesce a comprendere, una volta diventata adulta che “raccontava storie perché era triste. Piano piano mi fu chiaro questo strano legame tra il raccontare storie e il dolore di chi le racconta”. E’ la saudade che si prende la scena, che “amalgama e nutre il nostro tessuto interno, fatto di tempo”;che “unisce gli esseri umani tra di loro”; che può sfociare nella rabbia se a predominare è il senso della perdita dell’evento gioioso che l’ha generata, ma che si trasforma in creatività se diventa il pozzo da cui attingere. La cultura brasiliana è saudade e “da’ senso al buio”, a ogni pagina che impregna col suo esserci e all’esperienza migrante dell’autrice e della sua terra rievocata nell’ immaginario da lontano e con un’altra lingua. “L’italiano mi ha scelto”, dice Christiana al seminario “Nuovi Itagliani”, tenutosi nel Marzo- Aprile appena trascorso a Roma, tramite una collaborazione tra la Provincia e il dipartimento di Letteratura Comparata dell’Università La Sapienza, “perché è una lingua bellissima da ascoltare per la sua modulazione annasalata. Sarebbe un problema per me adesso scrivere in portoghese, anche se tornassi in Brasile”. E “l’inquinamento linguistico” caratterizza ogni suo scritto, tanto che si è arrivati a definire portuliano la lingua che ha utilizzato nel monologo “Ana e Jesus”: un italiano fortemente contaminato a livello lessicale e morfologico da un brasiliano che risuona  nella mente dell’autrice, riflesso della spontaneità del suo parlato.

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“La visione del mondo si apre quando c’è il silenzio”. La “bacchetta di vetro”con cui Christiana trasforma in parole la sua quiete e le butta in aria trasformandole in “farfalle” ci rende ogni singola sfaccettatura che del Brasile ci è arrivata per conoscenza mediatica, nonchè ogni elemento naturale anche se metaforizzato: il senso religioso latinoamericano, paragonabile solo a quello africano, e il senso religioso nazionale che assume in terra brasiliana il football, quasi come creatura dell’unione tra la cultura africana e cattolica che il Brasile hanno modellato. Anderson, il sorriso largo quanto i suoi denti che sembra raddoppiare la sua risata, la maglietta rossa e nera del Flamengo cucita addosso e la speranza riposta nelle storie raccontategli da Marlene su Gigante e su Pioggia, la forza che un giorno verrà a risvegliarlo, splendida metafora del Paese e della sua intrinseca forza di ribellione, sottolineata sin dalle prime battute dalla ricorrenza d’Aprile della morte dell’eroe Tiradentes (e del resto è l’inno nazionale stesso che ricorda questa figura “Gigante pela pròpria natureza, és forte, impavido colosso…”). La terra, i cui frutti come il legno pau brasil hanno scelto per lei il nome, spalmati sulla chioma della triste Dona Conceiçao, che rappresenta il fondamento di una famiglia disgregata dalle forze sociali e del fato. Un potere mediatico fatto dalla fusione del dolore di storie reali e di quelle telenovelas che hanno concesso anche all’Occidente di dedicare venti minuti della propria giornata a questo Altrove.

Sono le emozioni però la vera potenza di quest’opera. Emozioni che per la scrittrice sono “stelle osservate da non astronomi”, la prima forza propulsiva che crea il tramite tra noi e la scrittura. Ogni istantanea è dedicata a un personaggio, prima ancora che al suo agire, e forgia su di esse il suo punto di vista, alternando differenti tecniche narrative: dall’ onniscienza formalizzata dalla terza persona, al monologo interiore, alla forma diaristica ed epistolare. Emozioni che si saldano sull’ elevata caratura morale delle persone che vivono sopra le favelas, con cui è inevitabile solidarizzare.

Mondo che ci arriva scrosciandoci addosso per renderci la sua implacabilità e la maestria della de Caldas Brito con il suo nuovo vocabolario. Una scrittura leggiadra e seducente che ha permesso ad Armando Gnisci di definire “500 Temporali” come il primo romanzo brasiliano scritto in italiano

Stati Uniti, è già campagna elettorale

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Eccovi le risposte alle domande più complesse sulle elezioni di medio termine negli Stati Uniti: il Caffè ne parla con Mattia Diletti, esperto di politica americana. L'appuntamento elettorale delle elezioni di medio termine negli Stati Uniti ha infatti certificato, come previsto, un momento di difficoltà del Presidente Obama, ed oggi dunque il Governo in carica deve far fronte ad un serio rischio di ingovernabilità, che certo non costituisce, per i Democratici, la miglior via verso le elezioni del 2012.

Andrea Ambrosino, per Il Caffè Geopolitico (CG)

Mattia Diletti, esperto di politica americana (MD)

(CG) – Quali sono le prime considerazioni da fare a margine delle recenti elezioni di medio termine negli Stati Uniti? (MD) – Le elezioni di medio termine rappresentano un qualcosa di diverso rispetto alla tornata elettorale in cui si è chiamati ad eleggere il Presidente degli Stati Uniti d’America, basti pensare che al medio termine vengono coinvolti nel voto circa il 40% degli aventi diritto. Tuttavia questo appuntamento può rivelarsi come un utile segnale d’avvertimento per ciò che potrebbe avvenire in futuro. Analizzando i dati viene fuori che Obama ed i democratici hanno perso 60 seggi alla camera dei rappresentanti, la perdita più grossa in termine di deputati dal dopoguerra ad oggi e questo è evidentemente un dato di cui bisognerà tener conto. Ciò che emerge è inoltre che il segmento di elettorato schieratosi contro Obama nel 2008 ha confermato ed aumentato il proprio dissenso nei confronti del Presidente in carica. Il ritratto dell’elettore anti Obama è un americano con un livello medio di cultura, bianco, maschio e che solitamente vive fuori dalle grandi città. Questo tipo di elettore è stato molto motivato ad andare a votare mentre chi ha espresso la propria preferenza nei confronti di Obama nel 2008 lo è stato decisamente meno. In sostanza, in una tornata elettorale non troppo ampia come il medio termine vince chi riesce a galvanizzare maggiormente i propri elettori.

(CG) – Come possiamo definire i Tea Party e quale è stato il loro peso nel successo del Partito Repubblicano? (MD) – L’apporto dei Tea Party è risultato essere senza dubbio uno dei fattori culminanti nel successo dei repubblicani. E’ tuttavia necessaria una piccola premessa sulla natura di questo movimento: innanzitutto è doveroso parlare di Tea Parties al plurale poichè non si tratta un movimento particolarmente centralizzato, anche se sono presenti alcuni gruppi che riescono ad avere una certa valenza sul piano nazionale. Più che dei leader i Tea Parties presentano degli “eroi” molto popolari come Sarah Palin e Glenn Beck. Sono stati supportati in modo ingente da numerosi finanziatori e sostenitori anche ad un livello alto ed hanno legato il proprio destino politico in queste elezioni ad alcuni candidati: un paio di senatori e circa una trentina membri della camera dei rappresentanti. I temi sostenuti sono assolutamente tradizionali e riemergono ciclicamente nella discussione politica statunitense: l’opposizione al governo centrale, la contrarietà all’incremento della tassazione ed un generalizzato spirito libertario che va contro uno Stato eccessivamente interventista. Hanno ben sfruttato in chiave populistica le paure generate dalla crisi economica nel ceto medio. Sono riusciti a dar vita ad una notevole mobilitazione elettorale ed inoltre hanno colto ottimamente l’umore che ha prevalso nell’agenda della comunicazione politica americana.

(CG) – Quanto della sconfitta patita dai democratici alle elezioni di medio termine può essere attribuito in prima persona ad Obama? (MD) – La personalità di un presidente è importantissima, nel 2008 si era evidentemente consumato un ciclo politico ed Obama è stato bravissimo ad intuire di questa voglia di cambiamento. Il nobel per la pace del 2009 probabilmente è stato il simbolo della rottura con il recente passato, il segno della fine di quell’epoca della paura che ha contraddistinto gli anni di governo Bush. Probabilmente Obama, forte del grande consenso ricevuto nel 2008, potrebbe aver in parte sottovalutato le reali potenzialità dell’opposizione e di un conservatorismo che da sempre ha un certo peso all’interno della società americana. I Tea Parties, fiutando il calo del consenso, hanno risvegliato alcune tematiche care ai conservatori riproponendo in certi casi anche antichi stereotipi, latenti ma non del tutto scomparsi in America, riguardanti la razza di appartenenza. La riprova di ciò è che circa un terzo degli elettori repubblicani nutrano forti dubbi sull’effettiva cittadinanza americana di Obama, il che ovviamente lo renderebbe ineleggibile.

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(CG) – In quale misura la riforma sanitaria e l’esigenza di regolamentare il mercato finanziario e dunque svincolare, almeno in parte, le sorti del governo americano da quelle di Wall Street possono aver inciso sull’esito elettorale? (MD) – I democratici hanno ammesso di aver compiuto l’errore di non occuparsi da subito e con una certa tempestività della crescente disoccupazione che da qualche anno caratterizza il mercato del lavoro in America, dando invece la priorità alla riforma del sistema sanitario che ha risvegliato, grazie anche ai movimenti dei Tea Parties, forti sentimenti antistatalisti all’interno di una buona fetta della società americana. Il tema del lavoro da qui al 2012 sarà di peculiare importanza sia per la ripresa del settore occupazionale sia in ottica elettorale. L’esigenza di regolamentare il settore finanziario è un aspetto che negli Stati Uniti mette d’accordo forze bipartisan, tuttavia è impossibile negare che vi sia una parte importante dell’economia finanziaria del paese che ritiene Obama una potenziale minaccia nei confronti dei consistenti interessi in campo e che di conseguenza ha finanziato il Partito Repubblicano in maniera massiccia. E’ dunque evidente che Wall Strett abbia votato contro il Presidente in carica.

(CG) – Quali sono alla luce dei nuovi equilibri politici americani gli effettivi rischi d’ingovernabilità? (MD) – I rischi d’ingovernabilità sono altissimi anche perché considerando la debacle democratica e la rinnovata forza dei repubblicani possiamo affermare senza dubbi che vi sia già un clima da campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2012. Alle porte c’è un importante doppio test: in primis il prolungamento della legge voluta da Bush sul taglio delle tasse. Bisognerà discutere se rinnovarlo o meno e nel caso verso quali fasce di reddito estendere tale esenzione. In secondo luogo vi è una commissione informale bipartisan istituita da Obama che si dovrà occupare di proporre nuove idee su come ridurre il deficit. Questi saranno due interessanti banchi di prova per testare la tenuta dei nuovi e rinnovati rapporti di forza tra democratici e repubblicani.

(CG) – Su quali punti del programma di governo potrebbero esserci delle convergenze tra democratici e repubblicani? (MD) – Obama certamente proverà ad intavolare una discussione con l’opposizione su come risolvere il problema della disoccupazione. Ad ogni modo la sensazione è che vi sarà una forte situazione di stallo anche perché i repubblicani hanno tutto l’interesse nel mettere in difficoltà Obama. Su questi e su molti altri temi ci attendono due anni di campagna elettorale.

(CG) – E’ plausibile ipotizzare che tra due anni possa completarsi il ribaltone e ritrovare dunque i repubblicani al governo? L’eredità, per lo più negativa, degli ultimi anni di governo Bush è già stata superata agli occhi dell’opinione pubblica americana? (MD) – Il ribaltone è possibile e soprattutto c’è un dato che deve preoccupare Obama; ovvero nelle elezioni di medio termine i risultati riguardanti gli Stati in bilico hanno avuto un esito estremamente negativo per i democratici. Sarà importante verificare la tenuta in alcuni Stati decisivi in campagna elettorale come l’Ohio e la Pennsylvania e nonostante ciò non è da escludere la possibilità che Obama possa essere un presidente da un solo mandato. Per ciò che riguarda l’eredità dell’ultima amministrazione Bush quanto emerge inequivocabilmente è la scomparsa del tema della guerra dall’orizzonte del dibattito pubblico mentre le preoccupazioni per il lavoro e per l’economia permangono. Ed è proprio su questi punti e sulla ricerca delle giuste contromisure da adottare che Obama si giocherà le sue chance di vittoria in vista delle elezioni del 2012.

Andrea Ambrosino [email protected] 16 novembre 2010

Un futuro incerto

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È l’incertezza la caratteristica principale della politica argentina, della quale non si riesce ancora a delineare il percorso che verrà intrapreso dopo la morte dell’ex Presidente Néstor Kirchner in coincidenza, tra le altre cose, delle elezioni presidenziali del 2011. La moglie Cristina, attualmente in carica, potrebbe ricandidarsi, ma all’interno del Partido Justicialista potrebbe aprirsi una lotta dal risultato tutt’altro che scontato.

L’EREDITA’ DI NESTOR KIRCHNER – una cosa è certa: Néstor Kirchner è stato il personaggio politico più importante dell’ultimo decennio, paragonabile ad Alfonsín negli anni ’80 e a Menem negli anni ’90. Kirchner è stato l'ultimo esponente della tradizione peronista argentina, che trae le proprie origini da Juan Domingo Perón, Presidente negli anni'50. Innanzitutto la prima domanda da porsi è la seguente: cos’è il Peronismo? Volendo sintetizzare le diverse interpretazioni che sono state date, si può sostenere che è un partito, un movimento, una dottrina, un’ideologia o ancor di più una cultura. Per quanto in realtà possano coesistere questi cinque aspetti contemporaneamente, è l’ultima la caratteristica dominante, trattandosi di fatto di  una vera e propria cultura della popolazione argentina.

 

Con la leadership di Menem, il peronismo assunse le vesti di una forza liberista che adottò politiche di centro-destra, secondo la tendenza che si stava sviluppando nella maggior parte dei paesi della regione. Con Kirchner, invece, si è assistito a uno spostamento verso il centro-sinistra, assecondando, come il suo predecessore, l’orientamento prevalente dei governi sudamericani. Kirchner, non appena assunse il potere come Capo della nazione argentina, prese le distanze dal peronismo in senso classico, che considerava ormai superato e inadatto al contesto in cui si stava vivendo.

Nel 2003 il Partido Justicialista (Partito Giustizialista, PJ) subisce una scissione della sinistra aggregatasi ad altri movimenti socialisti e socialdemocratici formando il Frente para la Victoria (Fronte per la Vittoria, FPV), partito politico fondato per sostenere la candidatura di Kirchner, che rimase alla presidenza fino al 2007. I diversi movimenti interni al partito hanno creato non poche tensioni che si sono manifestate durante le elezioni parlamentari del 2009, mostrando la forza del cosiddetto “peronismo dissidente” e provocando, per la prima volta nella storia di un governo peronista, la perdita del controllo del Congresso.

CRISTINA SI RICANDIDA – In questo contesto caotico, con un peronismo letteralmente in “ebollizione” Cristina Fernández, Presidente attuale e vedova di Néstor Kirchner, rilancia la sua candidatura per la presidenza 2011-2015. Riuscirà nel suo scopo? Oppure, le forze di opposizione interne al partito avranno la meglio? Una cosa è certa: il peronismo dissidente  potrebbe trarre vantaggio da questa situazione. La figura principale è l’ex Capo di Stato Eduardo Duhalde, mentre un’altra figura di spicco è rappresentata da Carlos Reutemann, che però ha una posizione più neutrale e di equidistanza nei confronti dell’ “Oficialismo”, ovvero la corrente peronista di Governo.

Dagli ultimi sondaggi è emerso da un lato l’aumento della popolarità di Cristina di 10 punti, in coincidenza della repentina morte del marito, e dall’altro la sicurezza di una rielezione assicurata, qualora le elezioni si fossero tenute subito. Il dubbio più grande riguarda la capacità di Cristina di mantenere nei prossimi mesi questo successo, o se, pian piano, ritornerà ai bassi livelli di gradimento precedenti alla morte di Kirchner.

In questi giorni il Presidente si è occupato della preparazione della cosiddetta “mesa chica” (piccola tavola), cioè l’organizzazione del gruppo dei collaboratori più intimi, tra i quali sono inclusi il figlio Máximo e Carlos Zannini, segretario tecnico e legale fedele ai Kirchner da 7 anni. In questa cerchia ristretta, di cui ancora non si conosce la lista completa, faranno parte anche tutti coloro che si occuperanno della lotta intestina tra il Partito Giustizialista (presieduto dal governatore di Buenos Aires Daniel Scioli) e la Confederazione Generale del Lavoro della Repubblica Argentina (CGT), di cui Hugo Moyano ne è Segretario Generale.

Come la storia ha dimostrato, è difficile in Argentina poter parlare di governabilità senza il peronismo, e forse con ogni probabilità, è proprio questa la questione politica centrale di cui dovrà occuparsi il Presidente nelle prossime settimane. Sono due le opzioni: può portare avanti la sua candidatura, che indubbiamente in conseguenza degli eventi recenti ha visto aumentare notevolmente la sua immagine positiva, anche a costo di rimarcare ancor di più le divisioni interne al partito; oppure, si ritira, proponendo allo stesso tempo un candidato che possa simboleggiare l’unità tra le anime del partito.

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MÁXIMO KIRCHNER ALLA PRESIDENZA? – Non colpisce che la politica argentina sia per alcuni aspetti a “conduzione familiare”.  Al contrario, questa sembra essere una prassi. La sorella di Kirchner è Ministro, il figlio dell’ex Presidente Raúl Alfonsín, Ricardo, è un potenziale candidato presidenziale per le fila radicali, e ancora, il Senato e il Congresso sono pieni di parlamentari che sono coniugi di governatori, ministri o autorità provinciali.

Riguardo alla possibilità di una presidenza retta da Máximo Kirchner, al momento la popolazione argentina sembra escluderlo del tutto, soprattutto perché fino ad ora si è occupato esclusivamente di affari commerciali, contando come un’unica esperienza politica un periodo presso La Cámpora, il gruppo peronista giovanile creata nel 2007 dal PJ in occasione dello sconto con gli agricoltori. 

PROSSIME MOSSE – Vi sono poche probabilità che Cristina approfitti del cambiamento venutosi a creare con la scomparsa del marito per modificare la relazione con l’opposizione e che chiuderà il conflitto aperto con la Corte, con il Congresso, con gli agricoltori, con le industrie, con la Chiesa e con i mezzi di comunicazione. Non cambierà atteggiamento perché di questa politica dello scontro ne ha fatto lo strumento per costruire il potere.

Nelle relazioni con l’estero, ci sono sufficienti elementi per poter sostenere che non subiranno notevoli cambiamenti. La Kirchner ha sempre mostrato una buona propensione e una grande attenzione per le questioni di respiro internazionale, interesse anche superiore a quello del marito, che tuttavia ad agosto 2009 aveva assunto la carica di Segretario Generale dell’UNASUR (Unión de Naciones Suramericanas). Stesse considerazioni possono esser fatte sul piano economico, il contesto esterno si presume continuerà a essere favorevole alla crescita economica. Infine, non si prevedono mutamenti in relazione alla politica dei diritti umani, soprattutto perché proprio questa è stata un elemento fondamentale per l’immagine che Cristina ha cercato di proiettare in tutto il mondo.

A favore di Cristina Fernández gioca l’immagine di un’opposizione sconvolta per la scomparsa del reale avversario Néstor Kirchner, che adesso sembra incapace di riprendere l’iniziativa politica. Contro, invece, è il tempo: manca poco meno di un anno alle elezioni (fatta eccezione se si decide di anticiparla a maggio, come è stato suggerito da alcuni membri del governo), ma più di ogni altra cosa vi è il difficile compito di mantenere contemporaneamente l’appoggio dei vecchi kirchneristi, dei giovani militanti e di tutti coloro che le si sono avvicinati negli ultimi giorni, ma che non condividono la sua linea politica.

Valeria Risuglia

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Cristiani nel mirino

Sessanta cristiani uccisi in una chiesa di Baghdad da un gruppo di terroristi legati ad Al-Qaeda. Un evento che, come molti altri, passa quasi sotto silenzio dalle nostre parti ma che rivela la difficoltà dei cristiani nel nuovo Iraq. Ecco perchè l'integralismo islamico rischia di prendere piede in società frammentate come quella irachena.

Da: Centro di Formazione Politica

LA TRAGEDIA – Una tragedia che si sarebbe potuta evitare, questo l’unico commento possibile al massacro di sessanta iracheni di fede cristiana nella chiesa di Saiydat al Nayat a Baghdad. Un attacco in piena regola, organizzato da tempo e scattato inesorabile, nonostante ci fossero da mesi segnali di pericolo. I terroristi, appartenenti al braccio iracheno di Al Qaeda denominato Stato islamico dell’Iraq, hanno fatto esplodere un’autobomba all’esterno della chiesa di Nostra Signora del perpetuo soccorso, per poi fare irruzione all’interno del luogo di culto e prendere in ostaggio un centinaio di fedeli riunitisi per la messa domenicale. L’intervento delle forze di sicurezza ha scongiurato una carneficina, ma restano molti dubbi rispetto a quanto accaduto. In primo luogo, non si è capito come abbia fatto il commando ad entrare nella chiesa praticamente senza incontrare resistenza, dato che l’edificio avrebbe dovuto essere presidiato dalle forze di sicurezza in quanto considerato obiettivo sensibile. Secondariamente, è impossibile non chiedersi perché siano stati praticamente ignorati molti dei segnali di pericolo negli ultimi mesi. Le maggiori comunità cristiane si trovano nella zona della capitale e nelle province nel nord. Kirkuk, Irbil e Mosul ospitano infatti ancora oggi molte famiglie cristiane rimaste in Iraq nonostante le feroci repressioni perpetrate da Saddam Hussein. Durante il periodo della dittatura, il regime dell’ex leader baathista avrebbe costretto più di 150 mila cristiani iracheni ad emigrare, la maggior parte verso Stati Uniti e Canada, per sfuggire alle persecuzioni. La situazione sembrava essere cambiata dopo il secondo intervento statunitense, tanto che molti cristiani decisero di rientrare in Iraq dopo essersi rifugiati in Giordania durante la guerra. La speranza di una convivenza pacifica non era quindi scemata del tutto. In millenni di storia i musulmani iracheni hanno sempre avuto buoni rapporti con le minoranze cristiane, il vero problema al momento sono quelle formazioni islamiche legate ad Al Qaeda o guidate da imam estremisti che cercano di fomentare la lotta tra i diversi gruppi che si contendono il potere nel paese mediorientale.

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LA SITUAZIONE DEI CRISTIANI – L’odio religioso è infatti uno dei modi per nascondere la guerra latente tra le diverse tribù, che si combatte ogni giorno nelle strade per assicurarsi il controllo del paese. I cristiani hanno sempre convissuto pacificamente con i musulmani, ma i vari gruppi etnici e religiosi non si sono mai integrati realmente. Era il regime di Saddam Hussein a garantire l’unificazione della società con la violenza e la paura: alla caduta del dittatore si è quindi aperta una lotta spietata per il potere che rischia di cancellare le minoranze. Non avendo milizie per l’autodifesa, i gruppi cristiani sono quelli maggiormente esposti al rischio di attentati e al momento il governo di Baghdad non sembra essere in grado di garantire la sicurezza minima alle comunità sparse in tutto il paese. Monsignor Sako, arcivescovo di Kirkuk, ha dichiarato che i cristiani rischiano di essere vittime del caos che regna in Iraq da qualche mese a questa parte e ha attaccato duramente l’esecutivo iracheno, incapace di controllare la situazione. Come detto in apertura, secondo molti osservatori sarebbe pronto un esodo di massa dei cristiani iracheni. Verso l’Europa o gli Stati Uniti, perché nella regione esistono pochissime realtà pronte ad accogliere comunità di immigrati che non siano di fede musulmana. In molti paesi del Medio Oriente i cristiani sono infatti considerati cittadini di seconda classe, discriminati a livello lavorativo e sociale. In Libano, ad esempio, le maggiori discriminazioni riguardano l’accesso alle funzioni pubbliche, anche se la libertà di culto non è mai stata messa in discussione.

GLI SCENARI – La situazione irachena appare invece profondamente diversa. Al Qaeda in Iraq ha fatto sapere che tutti i cristiani sono obiettivi legittimi, un monito che lascia presagire scenari inquietanti. Il rischio maggiore è che in tutta l’area del Medio Oriente allargato l’islamismo estremista diventi l’elemento in grado di compattare tessuti sociali attualmente frammentati, realtà in cui i governi centrali non riescono a far fronte a spinte centrifughe sempre più forti. Se un tempo era l’arabismo il collante tra i diversi gruppi etnico-tribali, ora sembra essere l’appartenenza all’Islam a determinare l’identità di molte nazioni. Rispetto al passato, quindi, l’Occidente dovrà essere in grado di modificare il proprio approccio alle questioni che interessano realtà lontane così come quelle più vicine. L’Islamophobia è un lusso che non possiamo permetterci, soprattutto se è figlia di quell’intolleranza latente che permea molte delle società occidentali.

Simone Comi

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per il Centro di Formazione Politica

UE-Cina: verso un futuro di tensioni?

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Un sostanziale nulla di fatto. Sembra essere questo lo sconfortante risultato dell’ultimo vertice tra Unione Europea e Cina. E mentre la Cina guadagna terreno, l’Europa resta divisa. Ecco i principali nodi economici e commerciali sul tappeto. In ballo, comunque, c'è anche la (geo)politica, e la ridefinizione dei rapporti sull'asse Pechino-Bruxelles-Washington

Da: Glocus

LO SCONTRO ALLE PORTE? – Dal 2003, anno in cui fu firmato il partenariato strategico tra Bruxelles e Pechino, non sembrano esserci stati cambiamenti rilevanti nelle relazioni politiche tra i due giganti internazionali. Nel comunicato ufficiale rilasciato al termine dell’incontro tenutosi ad inizio ottobre sono state inserite semplici indicazioni generiche, i temi discussi tra le due parti non sembrano inoltre costituire la base di partenza ideale per rilanciare una cooperazione entrata ormai da qualche tempo in una pericolosa fase di stallo. Sebbene la riforma del Fondo Monetario Internazionale, le questioni energetiche e i cambiamenti climatici interessino infatti entrambe le leadership, il confronto su questi punti sembra essere più che altro un diversivo per evitare tensioni e screzi, un tentativo per rimandare uno scontro politico sempre più imminente. Gli scenari internazionali sono cambiati rispetto al 2003, l’Europa si trova, e si troverà nel prossimo futuro, a dover far fronte ad una Cina sempre più intraprendente sia sul piano economico che su quello politico.

COME REAGISCE L'UE – Quale sarà la risposta dell’Unione a quella che viene definita l’avanzata cinese nel Vecchio Continente? La strategia di Pechino è ormai nota, se non altro perché già utilizzata negli ultimi anni con gli Stati Uniti. Il governo cinese ha deciso di riversare ingenti capitali sul mercato europeo, sostenendo al contempo il debito pubblico di molti paesi membri dell’eurozona (in basso, la mappa degli investimenti cinesi. Fonte: Foreign Policy). Rispetto al passato, l’UE sembra aver perso quella posizione di forza relativa che era frutto dell’adozione dell’euro e dell’allargamento ai paesi della fascia centrorientale, iniziative nate per favorire la creazione di un mercato interno tra i più ricchi al mondo. Questo parziale declino europeo in ambito internazionale, dovuto anche alla delusione delle leadership che avevano scommesso su un’Unione più forte e coesa, è un fattore fondamentale per determinare quali siano al momento i delicati equilibri tra Bruxelles e Pechino. I leader del Vecchio Continente pensavano che per fronteggiare l’ascesa cinese sarebbe stato sufficiente incrementare il volume degli scambi con Pechino, in modo da poter legare a doppio filo l’economia europea a quella asiatica bilanciando al contempo l’egemonia statunitense. Questa strategia sembra però essere fallita: la crisi economica, lo stallo nella crescita e lo stato delle finanze pubbliche di molti paesi membri hanno infatti portato ad una profonda ridefinizione dei rapporti di forza, tanto che la Cina può giocare un ruolo di primo piano in questioni capaci di rompere i già fragili equilibri all’interno dell’Unione Europea. Il governo di Pechino è intervenuto attivamente per sostenere le disastrate finanze greche, sottoscrivendo bond emessi dalla Banca di Grecia e rilasciando dichiarazioni di fiducia nei confronti del governo guidato da George Papandreou. La leadership cinese si è attivata inoltre senza indugi per ampliare il commercio bilaterale, approfondire la cooperazione sul trasporto marittimo e promuovere la cooperazione negli investimenti e nel turismo. Iniziative lodevoli per sostenere un paese in grave difficoltà, ma che andranno sicuramente a ledere le relazioni che intercorrono tra la Grecia e alcuni dei paesi membri dell’Unione, scatenando tensioni endogene difficilmente gestibili da Bruxelles.

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I NODI ECONOMICI– In comparti fondamentali di molte delle economie europee, come quello manifatturiero, i cinesi vorrebbero inoltre acquisire quel know how tecnologico indispensabile per l’ulteriore sviluppo delle industrie nazionali. Se è vero che il rischio di un innalzamento della tensione sociale interna ai paesi membri dovrà essere gestito nelle capitali europee, Bruxelles dovrà però dimostrare di saper mitigare eventuali distorsioni del mercato proteggendo al contempo le industrie continentali messe in difficoltà da pratiche commerciali sleali. Sia sul piano politico che su quello economico sono molte le questioni che le due leadership dovrebbero quindi affrontare in sede negoziale. L’eccessiva svalutazione competitiva dello yuan, l’accesso al mercato cinese e i diritti di proprietà intellettuale sono i temi legati all’economia che da troppo tempo rimangono ai margini dalle discussioni tra Bruxelles e Pechino. I segnali di fastidio del governo cinese rispetto alla richiesta di revisione del valore della moneta nazionale hanno probabilmente inibito i successivi punti, ma uno sforzo maggiore deve essere fatto per garantire alle imprese europee di operare in un regime di concorrenza, sebbene imperfetta.

LE PROBLEMATICHE POLITICHE – A livello politico, invece, rimane in sospeso una questione importante come è quella del riconoscimento alla Cina dello status di paese con un’economia di mercato, senza dimenticare temi più delicati come il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. L’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno esercitando costanti pressioni affinché la Cina inizi ad assumersi maggiori responsabilità a livello globale, tenendo conto del fatto che al momento il paese asiatico è riconosciuto come una delle grandi potenze del panorama internazionale. Difficilmente Pechino potrà, o forse sarebbe meglio dire vorrà, nel breve periodo, farsi carico di problemi che non sono di diretta pertinenza od interesse cinese. Sebbene la discussione su quello che potrebbe essere il futuro ruolo del paese a livello globale sia già in corso tra le elite del paese, sembra essere ancora un discorso prematuro se portato a livello di governo. La Cina deve ancora compiere passi in avanti fondamentali verso una sostanziale liberalizzazione politica sul fronte interno, difficilmente il governo di Pechino si attiverà per sostenere quelle strutture della governance globale di cui ancora mal sopporta alcune regole o certi limiti. La strada sembra essere tracciata e non si può escludere l’ipotesi che nel corso del prossimo decennio il paese asiatico cerchi di avviare quel processo di riscrittura delle regole che guidano la comunità internazionale intera. Al momento sembra esserci un’unica certezza: il corso delle relazioni tra Bruxelles e Pechino sarà determinato in buona misura dalla coesione che riusciranno a raggiungere i 27 membri dell’Unione, questione che, fino ad ora, è stata il punto più dolente nella storia dell’Europa unita.

Simone Comi [email protected]

Le sfide di Dilma

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E’ servito il ballottaggio per eleggere il successore di Luis Inácio Lula da Silva, il presidente che durante i suoi due mandati (dal 2002 ad oggi) ha trascinato il Brasile ad essere uno dei Paesi in via di sviluppo più dinamici e a divenire una delle prossime potenze globali. Il risultato ha premiato la favorita dai sondaggi: si tratta di Dilma Rousseff, candidata del Partito dei Lavoratori (PT) e sostenuta proprio da Lula, che con il 56 % dei voti ha sconfitto, durante il ballottaggio che si è svolto domenica 31 ottobre, il proprio rivale, José Serra del Partito della Socialdemocrazia Brasiliana (PSDB), fermatosi al 44%.

PRIMA DONNA – Dopo Michelle Bachelet in Cile, Cristina Kirchner in Argentina, Laura Chinchilla in Costa Rica, anche il Brasile ha ora un Presidente donna: é Dilma Rousseff, che confermando i sondaggi ha sconfitto il rivale José Serra nel ballottaggio di domenica 31 ottobre. La Rousseff, designata da Lula a prendere il proprio posto, eredita un Paese in crescita sotto tutti i punti di vista: economico, sociale, demografico e del prestigio in ambito internazionale. Sembrano le condizioni ideali per iniziare un nuovo mandato, dato che il colosso sudamericano sta vivendo una fase di forte sviluppo ed è ammirato in tutto il mondo per i successi conseguiti negli ultimi anni. Tuttavia Dilma Rousseff si dovrà misurare con la figura “ingombrante” di Lula, il quale ha promesso di rispettare l’autonomia della propria “prescelta” alla successione ma con cui il confronto sarà inevitabile. La mancanza di carisma della Rousseff non gioca senz’altro a suo favore da un punto di vista meramente mediatico, ma la sua competenza in ambito economico potrebbe compensare questa carenza di appeal. La prima donna Presidente del Brasile è attesa da un compito molto arduo, ovvero quello di non far rimpiangere il suo predecessore. Il contesto è favorevole alla Rousseff, che dovrà comunque affrontare importanti sfide sia in ambito politico che economico, tanto all’interno quanto a livello delle relazioni internazionali.

 

POLITICA – In politica interna il nuovo leader dovrà dimostrare anzitutto di essere inattaccabile rispetto agli scandali di corruzione che hanno agitato il suo partito, il PT, nei mesi antecedenti al voto. Questa sarà una condizione fondamentale per continuare a garantire l’ottimo livello di stabilità istituzionale che il Brasile ha dimostrato nell’ultimo ventennio. Inoltre, molto dovrà essere ancora fatto a livello di implementazione delle politiche sociali per raggiungere due obiettivi tra loro collegati: diminuire la povertà che colpisce ancora una larga parte della popolazione e combattere l’alto tasso di criminalità, che rende il Brasile ancora oggi uno dei Paesi più pericolosi al mondo.

Per quanto riguarda la politica internazionale, Dilma Rousseff dovrà scegliere se proseguire nella linea tracciata dalla Presidenza Lula, ovvero quella di sviluppare una linea autonoma ed equidistante tra i Paesi occidentali e quelli in via di sviluppo, oppure se imboccare un orientamento più radicale e di critica dell’attuale assetto delle organizzazioni internazionali. Anche se il secondo scenario appare più improbabile, è certo che il Brasile si farà portavoce dell’esigenza di cambiare il funzionamento di organismi come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o del Fondo Monetario Internazionale, al fine di garantire una maggiore partecipazione alle nuove potenze emergenti.

 

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ECONOMIA – Per quanto concerne infine le sfide in campo economico, il nuovo esecutivo dovrà anzitutto confermare i risultati raggiunti negli ultimi anni in ambito economico e sociale. Lula è riuscito a evitare derive di stampo populista e socialista rispettando pienamente le regole dell'economia di mercato (seppur con un accento più marcato per quanto riguarda la partecipazione statale in aziende chiave come il colosso degli idrocarburi Petrobras). Senza compromettere la stabilità dei fondamentali macroeconomici, gli otto anni di presidenza Lula hanno raggiunto importanti successi nella lotta alla povertà e alla disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Programmi di sussidi e sostegno alla popolazione come Bolsa Familia e Fome Zero hanno contribuito a migliorare la condizione di dodici famiglie e ad aumentare così anche la domanda interna, fattore che ha “salvato” il Brasile dalla crisi economica del 2008/2009.

Il governo della Rousseff dovrà proseguire su questa strada, cercando di affrontare tre sostanziali punti deboli dell'economia brasiliana. Il primo è il tasso di interesse ancora alto (intorno al 6%), che non contribuisce a favorire investimenti ed esportazioni. Il secondo è il livello ancora generalmente basso del capitale umano: solo il settore privato investe in ricerca e sviluppo, mentre la percentuale di popolazione con un alto livello di scolarizzazione è ancora ridotta. Infine, la nuova Presidente dovrà maneggiare con cura l'intervento statale nell'economia, per evitare polemiche politiche e di portare la spesa pubblica fuori controllo.

 

Davide Tentori

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Fumata nera in California

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Le mid-term elections hanno dato il via ad un’ondata di riflessioni e negoziazioni a Washington. Ma mentre tutti parlano degli errori di Obama e dei meriti del Tea Party, noi guardiamo ad un referendum che è quasi passato in sordina: la proposition 19, sulla legalizzazione della cannabis in California. Ma perché ce ne dovremmo occupare? In primo luogo per i risvolti finanziari, poi per gli effetti sulle relazioni col Messico, sia in termini di criminalità, che sul piano diplomatico.

Da Los Angeles

ELEZIONI E PROPOSITION 19 – Le mid-term elections sono da sempre le più temute dai Presidenti americani: non ce n’è uno, da John Fitzgerald Kennedy a Ronald Reagan, da Bush padre a Bush figlio, che sia sopravvissuto al rinnovo della camera bassa senza subire perdite di seggi nel proprio partito. E, come da copione, anche Obama ha perso la maggioranza della Camera, in seguito ad una lunga crisi economica che ha alimentato un persistente pessimismo ed una campagna elettorale basata sulla rabbia e le frustrazioni di “main street contro wall street”. Notizie ed editoriali riempiono le pagine di giornali locali e stranieri, tuttavia, ben poca è l’attenzione su un referendum che si è giocato in California: la proposition 19, sulla legalizzazione della marijuana. In base alla proposta di legge, sarebbe diventato possibile produrre, trasportare e consumare dosi limitate di marijuana per uso personale. Lo stato ed i comuni Californiani avrebbe potuto autorizzare, regolare e tassare il commercio di cannabis, ma l’uso e la vendita sarebbero comunque rimasti illegali a livello federale. La legge ha animato negli ultimi mesi un dibattito inteso, con un calo di consensi, soprattutto nel sud della California, qualche settimana appena prima del voto. Infine, la proposta è stata rigettata con meno del 54%, mentre un’imposta intorno al 10% sulla cannabis per uso medico è stata approvata in dieci città.

MARIJUANA E FINANZA – Le tasse infatti, la possibilità di maggiori entrare per uno stato con un elevatissimo debito pubblico, sono state al centro del dibattito sulla legge. Oltre che rassicurare il consumatore che la qualità dello stupefacente acquistato legalmente fosse superiore a quella spacciata agli angoli delle strade, la proposition 19 rassicurava che parte dei proventi del commerci andassero allo stato e fossero utilizzati per il bene pubblico, invece che alle organizzazioni criminali. Una manovra che avrebbe aggiunto al budget dello stato 1.4 miliardi di dollari l’anno. Peraltro, tra le voci a favore, si sosteneva che abolire i reati legati alla produzione ed allo spaccio di marijuana avrebbe liberato decine di celle californiane di piccoli criminali, e lasciato più tempo e risorse alla polizia, che nel 2008 ha arrestato più di 60.000 californiani solo per possesso di marijuana.

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NEI TUNNEL CRIMINALI – E proprio la criminalità costituisce un capitolo delicato, in particolare quella criminalità altamente organizzata e violenta che in Messico fa ogni anno centinaia di morti. Venti dei quali sono stati appena scoperti in una fossa comune, non lontano da un sofisticato tunnel per il trasporto segreto di decine di tonnellate di droga sotto il confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Ma che impatto avrebbe avuto la legalizzazione della cannabis in California sui cartelli dei narcotrafficanti Messicani? Uno studio appena pubblicato dalla RAND, prestigiosa agenzia di consulenza politica, sostiene che il nuovo mercato legale di marijuana che si verrebbe a creare nel Golden State azzererebbe effettivamente il mercato nero alimentato dai trafficanti messicani in California. Tuttavia, la California non costituisce più del 15% delle esportazioni illegali dal Messico agli USA, quindi perdere il mercato Californiano causerebbe una perdita netta per i cartelli messicani di appena il 2-4% del budget attuale. A meno che il resto degli stati americani non legalizzassero a loro volta la produzione di questa droga. O, al contrario, a meno che la marijuana prodotta legalmente in California venisse spacciata illegalmente nel resto degli Stati Uniti, il che ridurrebbe drasticamente i proventi per le attività criminali dei cartelli messicani. Una specie di protezionismo per criminali, quantomeno.

Ma se a conti fatti legalizzare la marijuana converrebbe pure, i risvolti diplomatici potrebbero essere più delicati. A sentire Felipe Calderon, presidente messicano in carica, avere approvato la proposition 19 sarebbe stata “un’ipocrisia del governo degli Stati Uniti, di incoraggiare il consumo di droga e allo stesso tempo chiedere al Messico e paesi limitrofi di combatterne il traffico”. Che si scontra però con l’opinione del suo predecessore Vincente Fox, che auspicherebbe invece la completa legalizzazione sia in Messico che in USA. Anche se la proposta californiana è andata in fumo, ha almeno acceso il dibattito.

Manuela Travaglianti [email protected] 9 novembre 2010

Guerra nell’ombra – Seconda parte

Il sabotaggio può servire a fermare il programma nucleare iraniano senza far scoppiare un conflitto aperto? Ecco la seconda parte dell’analisi sulla guerra segreta in atto contro l’Iran, nella quale presentiamo gli scenari sul tappeto. Una guerra convenzionale sembra l’ipotesi più remota e rischiosa, ma le potenze occidentali hanno meno fiducia nell’ipotesi di poter fermare Teheran senza far ricorso all’uso della forza.

 

SABOTAGGIO – Fermare il programma nucleare iraniano in assoluto richiederebbe la distruzione di tutti gli impianti ad esso collegati e l’eliminazione di gran parte degli scienziati. Solo un attacco sistematico su larga scala può raggiungere un tale risultato. Pertanto l’obiettivo rimane rallentare il processo di ricerca per almeno una decina d’anni, tempo ritenuto sufficiente per portare Teheran ad accettare una soluzione diplomatica o sviluppare contromisure più efficaci.

 

In tale ottica le operazioni di sabotaggio già svolte non appaiono ancora sufficienti. Lo spionaggio ha fornito informazioni preziose sul programma ma le sanzioni economiche che ne sono derivate, come già accennato, non appaiono decisive. Il sabotaggio invece ha colpito solo limitatamente: è stato registrato un calo nel numero di centrifughe funzionanti a Natanz da 4920 in Maggio 2009 a 3772 in Agosto 2010 (-23% su un totale di circa 9000), dovuto a difficoltà tecniche forse causate proprio da ingerenze esterne; tuttavia il numero di quelle rimaste operative è risultato comunque superiore agli anni precedenti. Analogamente il virus informatico Stuxnet ha colpito pesantemente l’economia iraniana ma non ha bloccato il continuo arricchimento dell’uranio. Pertanto anche se si può ipotizzare un ritardo di 1-2 anni rispetto a stime precedenti (che ponevano il raggiungimento della bomba a fine 2010), il termine ultimo appare comunque molto vicino. Analogamente lo start-up del reattore nucleare di Busher, per quanto ritardato più volte, appare ora imminente.

 

EFFICACIA – Al momento il sabotaggio non può dunque assolvere altro che una funzione palliativa; sarebbe necessario conseguire risultati eclatanti in breve tempo, come la distruzione di almeno l’80-90% delle centrifughe e l’uccisione della maggior parte dello staff scientifico. Diminuirebbe così drasticamente la capacità di arricchire grandi quantità di uranio in breve tempo, allungandone notevolmente i tempi. E’ comunque presumibile che ora le misure di sicurezze vengano innalzate e per quanto altri attacchi siano possibili, potrebbero non essere più possibili azioni maggiormente incisive.

 

L’attacco alla base missilistica mostra invece attenzione verso un altro aspetto del problema: l’apparato bellico iraniano. La distruzione delle rampe di lancio dei missili Shahab-3 contribuisce infatti a eliminare l’unica minaccia a lungo raggio che possa colpire Israele a partire da territorio iraniano. Questo ragionamento è valido sia per diminuire la capacità di Teheran di contrattaccare in caso di bombardamento preventivo dei siti nucleari, sia perché priva la repubblica islamica dei principali vettori ove montare un’eventuale futura testata atomica.

 

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ATTACCHI CONVENZIONALI? – E’ interessante notare come in entrambi i casi questo indichi da parte occidentale una scarsa fiducia nei tentativi di fermare il programma iraniano con tecniche meno cruente. Risulta indicativa invece della necessità di ideare e mettere in atto una strategia che risponda a scenari di conflitto causati da bombardamenti  sull’Iran o, in caso estremo, a un day-after”, ovvero a come reagire a Teheran nel caso dichiari di aver finalmente raggiunto l’arma nucleare. In tale scenario, il conflitto convenzionale appare ancora più rischioso e maggiormente da evitare, mentre le azioni sotterranee delle forze speciali e dei servizi segreti diventano ancora più rilevanti.

 

Speranza di un ‘alto el fuego’ permanente

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I segnali che arrivano dall’organizzazione terroristica basca potrebbero lasciar presagire un effettivo stop alle azioni criminali che da anni tormentano la Spagna, ma la giustificata cautela professata dal governo Zapatero serve da monito affinché non si dimentichino i numerosi tentativi di pacificazione effettuati in passato con esiti, purtroppo, spesso fallimentari.

NUOVA STRATEGIA – Lo scorso mese di settembre, l’organizzazione terroristica denominata ETA, acronimo che sta per Euskadi Ta Askatasuna ovvero -Paese basco e libertà- ha diffuso sul web un video in cui annuncia in maniera inequivocabile la necessità di un cambio di strategie nei rapporti con il Governo spagnolo.

Questo nuovo approccio è figlio probabilmente di una progressiva ed efficace ondata di arresti che ha privato l’ETA di molti dei suoi esponenti, tra cui alcuni storici leader. Da qui dunque la necessità, più o meno obbligata, dell’avvio di un processo democratico che possa contestualizzare in qualche modo l’organizzazione basca all’interno del palcoscenico politico spagnolo.

Sostenitore primo di questo processo di normalizzazione è l’ex partito indipendentista Batasuna, dichiarato fuorilegge nel 2003 dal governo Aznar e considerato da molti come il braccio politico dell’ETA.

Batasuna, in quest’ottica, rivestirebbe un ruolo chiave da strategico intermediario nel processo di pacificazione tra le parti per giungere finalmente ad un cessate il fuoco permanente da parte dell’organizzazione terroristica che rivendica l’indipendenza dei Paesi baschi.

 

SCETTICISMO GENERALE – Questo comunicato ha destato un certo stupore nella classe politica spagnola, unanimemente scettica che possa trattarsi di un passo conclusivo verso quella che viene considerata come la condizione minima necessaria per sedersi al tavolo delle trattative ed aprire un dialogo costruttivo: ovvero la cessazione definitiva della lotta armata.

Storicamente collocato in una posizione di forte opposizione ad ogni forma di dialogo con l’ETA, il PP ha affidato le reazioni al comunicato video dei terroristi baschi a Javier Arenas, personaggio di spicco del partito conservatore iberico e presidente del PP andaluso: -noi del Partito Popolare abbiamo il ricordo vivo di numerosi cessate il fuoco proclamati nel passato dall’ETA e terminati tutti nello stesso drammatico modo per la società spagnola- ha asserito Arenas -esiste un unico comunicato che gli spagnoli attendono, ossia l’abbandono senza condizioni e perpetuo delle armi-.

Anche il primo ministro Zapatero ha espresso senza equivoci la necessità di una dovuta prudenza nei confronti delle nuove posizioni targate ETA, rivendicando tuttavia, soprattutto nei confronti degli avversari politici che suggeriscono di non abbassare la guardia, il fatto di esser stato colui che più di tutti, una volta salito al governo nel 2004,  ha sostenuto una parziale apertura delle trattative con i terroristi baschi.

 

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POLITICHE UNIVOCHE – Ciò che senza dubbi appare evidente è che la strategia dell’ETA di una lotta armata duratura inizia ad indebolirsi cedendo il fianco all’intransigenza dei governi spagnoli che, per quanto riguarda la lotta al terrorismo interno, sembrano presentare, con alcune comprensibili sfumature dettate dalle rispettive appartenenze politiche, una plausibile comunione d’intenti nell’interesse generale del popolo spagnolo. 

 

Andrea Ambrosino

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