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Mar Rosso tinto di sangue: operazione USA Prosperity Guardian per la sicurezza commerciale e gli interessi celati

Caffè LungoIl Mar Rosso in pericolo: gli Stati Uniti lanciano l’Operazione Prosperity Guardian per proteggere i traffici commerciali.

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GLI INTERESSI NEL MAR ROSSO E L’AVVIO DELL’OPERAZIONE USA

Un’escalation di scontri nel Mar Rosso ha portato gli Stretti di Gibuti e Yemen al centro delle tensioni globali: questo passaggio, corridoio commerciale ed economico cruciale che facilita lo scambio internazionale per diversi Stati, dove transita tra il 10% e il 15% del commercio mondiale e il 20% dell’energia marittima, è diventato teatro di attacchi da parte degli Houthi, attori nel conflitto yemenita, che vede i ribelli appoggiati dall’Iran scontrarsi con il Governo Sana’a appoggiato da Stati Uniti e Arabia Saudita. Le incursioni,  avviate con l’inizio del conflitto a Gaza, realizzate mediante missili balistici contro navi mercantili internazionali, hanno scatenato non solo preoccupazioni per la sicurezza, ma anche un significativo aumento dei costi assicurativi, impattando sulle merci trasportate e sui consumatori finali. In risposta a questa emergenza, gli Stati Uniti hanno varato il piano d’azione denominato Prosperity Guardian, annunciato ufficialmente dal Segretario alla Difesa Lloyd J. Austin III, il 19 dicembre scorso. L’operazione militare difensiva coinvolge forze marittime combinate, sotto la guida della Task Force 153, incaricate di pattugliare e proteggere le navi commerciali nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden. L’obiettivo primario è neutralizzare la minaccia attraverso mezzi marini e aerei, compresi droni, missili e caccia. In caso di necessità, sono previsti anche interventi di forze speciali per fornire coordinate di attacco.

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Fig. 1 – La foto mostra la nave cargo Galaxy Leader, sequestrata dai combattenti Huothi, ormeggiata in un porto sul Mar Rosso nella provincia di Hodeida, con bandiere palestinesi e yemenite.

UNA COORDINAZIONE GLOBALE: USA ED EU ALLEATE NEL MAR ROSSO, L’ITALIA IMPEGNA LA FREGATA FASAN

Il Segretario della Difesa statunitense ha sottolineato la necessità di un’azione collettiva, coinvolgendo tutte le nazioni interessate. L’importanza geopolitica di questo passaggio marittimo è riscontrato anche dall’Europa. Infatti, un suo blocco determinerebbe l’interruzione dei collegamenti marittimi tra l’Europa e l’Oriente e la marginalizzazione del Mediterraneo, costringendo – come già avvenuto durante il blocco di Suez del 1967 – a percorrere la più lunga rotta del Capo di Buona Speranza. In questo contesto, l’Unione Europea ha annunciato il proprio sostegno all’intervento statunitense nel Mar Rosso e si discute di una partecipazione con una missione ad hoc. L’Italia è presente nell’area con la Fremm (fregata europea multi-missione) Virginio Fasan nell’ambito della missione europea antipirateria Atalanta. Nel 2005 all’insorgere della minaccia della pirateria, dopo l’attacco ai mercantili “Cielo di Milano” e “Jolly Marrone”, la Marina Militare italiana fu la prima, tra le Marine occidentali, a inviare nell’area del Golfo di Aden una propria unità navale per la protezione del naviglio di bandiera.

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Fig. 2 – L’incontro del Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, con il Ministro della Difesa italiano Guido Crosetto.

INTERESSI NEI CONFLITTI REGIONALI

Dietro l’inasprirsi delle tensioni marittime vi è un legame intrinseco con l’intervento militare di Israele in Palestina. Gli Houthi hanno dichiarato che i loro attacchi continueranno finché Israele non cesserà le operazioni militari nella Striscia di Gaza. Infatti, il gruppo yemenita hanno messo in atto una sorta di difesa solidale nel Mar Rosso a sostegno della Palestina: l’obiettivo Houthi resta quello di “impedire alle navi israeliane, o a quelle dirette nei porti della Palestina occupata, di navigare nel Mare Arabo e nel Mar Rosso fino a quando l’aggressione non cesserà e l’assedio sui nostri fratelli nella Striscia di Gaza non sarà revocato”. Il collegamento diretto tra Israele e il Mar Rosso emerge dall’influenza che il Paese ha sempre cercato di esercitare nei flussi marittimi, di interesse per i suoi porti tanto nel Mar Rosso, quanto nel Mediterraneo. Inoltre, il controllo che Israele vuole esercitare è volto anche a contrastare la presenza delle forze militari navali dell’Iran. A fronte di ciò si spiegano le minacce delle Guardie rivoluzionarie iraniane, le quali appoggiano i ribelli Houthi e affermano che non cesseranno di intervenire nel Mar Rosso finché Israele non smetterà di devastare la Striscia di Gaza. Allo stesso modo, Hezbollah ha definito l’alleanza marittima occidentale guidata dagli USA come una coalizione del male il cui scopo è proteggere gli interessi di Israele nel Mar Rosso. Notevole è l’assenza delle nazioni arabe, che sono a favore, come espresso all’ONU, per un cessate il fuoco israeliano. Le conseguenze del conflitto scatenato dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, stanno quindi continuando a espandersi e a produrre tensioni nel resto della regione, dal Libano al Mar Rosso.

Erika Russo

Immagine di copertina: “Italian warship ‘Virginio Fasan’ in Port Sultan Qaboos, Muscat.” by mms2712 is licensed under CC BY

L’ambivalente strategia degli Emirati: tra sicurezze del petrolio e transizione verde

Caffè lungoGli Emirati Arabi Uniti si stanno affermando come player di rilievo nel panorama energetico: nonostante il petrolio rimanga una base per il commercio internazionale, la presidenza della COP28 conferma l’interesse emiratino nell’assumere un ruolo chiave nel gestire la transizione verde.

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L’OPPORTUNITÀ DELLA COP

Dal 30 novembre al 12 dicembre gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno ospitato a Abu Dhabi la ventottesima edizione della Conferenza delle Parti (COP28), patrocinata dalle Nazioni Unite, la maggiore conferenza a livello globale sul cambiamento climatico. Dopo la COP27 dello scorso anno, organizzata a Sharm el-Sheikh in Egitto, la Conferenza di quest’anno evidenzia ancora di più le ambigue modalità con cui questa regione si interfaccia con la transizione energetica. 

A livello ufficiale, il fine delle COP è quello di unificare gli sforzi delle Parti per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi: limitare il riscaldamento ben al di sotto dei 2 °C, preferibilmente a 1,5 °C, e azzerare le emissioni nette globali di anidride carbonica entro il 2050. Tuttavia, una transizione rapida e compatta verso le energie rinnovabili, oltre a essere ancora lontana, appare controproducente per le grandi compagnie petrolifere, che invece spingono per un modello olistico che comprenda l’uso continuato e ragionevole delle fonti fossili. 

Già la scorsa COP27 si era conclusa senza ottenere risultati determinanti, né nuovi impegni in materia di mitigazione dei cambiamenti climatici. In particolare, non è stata adottata nessuna nuova misura decisiva per garantire che il riscaldamento globale globale sia limitato a 1,5°C e non c’è stata nel documento finale nessuna dichiarazione congiunta per l’eliminazione graduale di tutti i combustibili fossili.

La COP28 di quest’anno partiva quindi senza troppe aspettative riguardo la realizzazione di accordi decisivi. A pesare erano soprattutto i presupposti conflitti di interessi che coinvolgevano il Presidente della COP, il politico emiratino Sultan Ahmed Al Jaber. Al Jaber, infatti, è Ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate degli Emirati Arabi Uniti, e concentra nella sua persona la leadership di due aziende chiave nel panorama energetico degli EAU: da una parte la Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), la compagnia petrolifera statale, e dall’altra la Masdar, una delle maggiori compagnie emiratine per le energie rinnovabili, coinvolta in progetti verdi in 40 Paesi.

Riguardo la COP, gli Emirati hanno adottato quindi una strategia ambivalente, presentandosi come interlocutori interessati e attivi nella lotta al cambiamento climatico, e tuttavia avallando posizioni più caute presentate da attori con grandi interessi nel settore petrolifero.

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Fig. 1 – I e le partecipanti alla sessione plenaria della COP28 a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, il 13 dicembre 2023.

L’AMBIGUITÀ RIGUARDO LE FONTI FOSSILI 

Il compromesso tra le istanze degli attori che puntano verso una più incisiva implementazione delle rinnovabili e gli interessi delle grandi compagnie petrolifere è ben visibile nel risultato delle negoziazioni per il Global Stocktake, il documento finale: le Parti si sono infine accordate per un vago “transitioning away”, mitigando quello che doveva essere un deciso invito al “phase out” dai combustibili fossili. Sebbene l’accordo nella terminologia possa sembrare di poco conto, sono i dettagli contenuti in dichiarazioni di rilievo come il Global Stocktake a esprimere le politiche annunciate dagli attori e la linea d’azione dichiarata. 
Stando alle dichiarazioni, l’impegno delle Parti andrebbe a favore di una transizione energetica verso fonti pulite e dell’abbattimento delle emissioni; come questo venga implementato, però, è rimesso ai singoli attori e la gestione della transizione diventa, in questa prospettiva, estremamente pragmatica.
I combustibili fossili, costituendo l’80% della produzione energetica globale, hanno ancora una centralità fondamentale e le compagnie petrolifere hanno tutto l’interesse a portare avanti un’idea di transizione che contempli tutte le fonti energetiche utili. Inoltre, le fonti fossili costituiscono ancora il pilastro della sicurezza energetica globale, specialmente in seguito alla crisi energetica globale scaturita dal conflitto russo-ucraino.  
Se nel documento finale le pressioni degli stakeholder del settore petrolifero hanno fatto in modo di evitare una presa di posizione troppo decisa per l’eliminazione dei combustibili fossili, la COP di quest’anno ha comunque prodotto dei successi diplomatici. 

Innanzitutto, la COP28 si è aperta il primo giorno con la firma dell’accordo che rende operativo il Fondo per Perdite e Danni (Loss and Damage Fund), pensato per assistere economicamente i Paesi a medio e basso reddito, che subiscono danni ingenti a causa degli effetti negativi dei cambiamenti climatici estremi. Da parte loro, gli EAU hanno annunciato il loro impegno a favore del versamento al Fondo di 100 milioni di dollari, inaugurando il processo di finanziamento.

Inoltre, una delle decisioni più significative è stata la firma da parte di 50 aziende, che rappresentano oltre il 40% della produzione petrolifera mondiale, dell’Oil and Gas Decarbonization Charter. Con la firma del documento, grandi produttori di petrolio e gas, tra cui ADNOC, Saudi Aramco, ExxonMobil e Shell, si sono impegnati ad allinearsi ai target di emissioni nette zero entro il 2050 e azzerare le emissioni di metano entro il 2030. 

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Fig. 2 – Sultan Ahmed Al Jaber, amministratore delegato di Abu Dhabi National Oil Co. (ADNOC) e presidente della COP28, parla durante la cerimonia di apertura dell’Abu Dhabi International Petroleum Exhibition and Conference (ADIPEC) ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, svoltasi dal 2 al 5 ottobre 2023.

L’ENERGIA COME PERNO DELLA STRATEGIA EMIRATINA 

La COP28 costituisce per gli Emirati Arabi Uniti il coronamento degli ultimi sforzi per affermarsi come attore indispensabile e interlocutore strategico a livello regionale e internazionale. La leadership emiratina ha effettivamente compiuto progressi significativi nell’utilizzo delle proprie ricchezze per diversificare l’economia e garantirsi una posizione di leadership energetica nell’era post-combustibili fossili.
In particolare, il ruolo centrale che Abu Dhabi intende assumere si avvale del soft power, proiettando la propria leadership all’estero prevalentemente nei settori commerciali, energetici e tecnologici. Sul piano regionale, gli EAU possono infatti proporsi come pionieri della transizione nel Golfo, e il soft power energetico gioca un grande ruolo per affermare la leadership emiratina nell’area. Si tratta di una strategia già annunciata a livello nazionale: nel 2017 gli Emirati hanno lanciato la Strategia Energetica 2050, che mira a triplicare il contributo delle energie rinnovabili, portandola al 50% entro il 2050, a investire fino a 54 miliardi di USD nel settore entro il 2030, e a ridurre l’impronta di carbonio della generazione di elettricità del 70%, puntando sul 44% di energie rinnovabili. 
A livello diplomatico, Abu Dhabi può effettivamente vantarsi di essere stato il primo Paese della regione a ratificare gli Accordi di Parigi, impegnandosi dichiaratamente per una riduzione delle emissioni a livello economico e annunciando una strategia di azzeramento delle emissioni nel 2050. 
A livello internazionale, gli Emirati stanno invece consolidando i propri interessi economici facendo leva sul settore petrolifero. Il perno economico e commerciale mondiale sta decisamente traslando verso l’Est; a riprova dell’interesse strategico degli Emirati Arabi Uniti verso l’asse orientale vi è, a livello diplomatico, l’entrata nei BRICS, a cui fa da specchio un aumento deciso del commercio bilaterale con la Cina e la Russia. In questa prospettiva, il settore petrolifero ha un’importanza di primo piano, garantendo la sicurezza degli scambi commerciali e presentando gli EAU come un partner affidabile. 

Secondo le dichiarazioni ufficiali che hanno fatto seguito all’ultimo incontro tra EAU e Cina riguardo nuovi investimenti in commercio, trasporti e tecnologia, gli EAU sono il primo partner commerciale della Cina nei Paesi arabi e del CCG dal 2021. Viceversa, la Cina è il terzo partner commerciale globale degli EAU: il valore del commercio non petrolifero tra i due Paesi è cresciuto del 18% nel 2022 rispetto all’anno precedente (72 miliardi di dollari) e gli scambi di Investimenti Diretti Esteri tra i due Paesi sono stati pari a 12 miliardi di USD all’inizio del 2021.

D’altro canto, la frattura tra la Russia e l’Occidente in seguito al conflitto russo-ucraino non ha fatto vacillare i rapporti tra Mosca ed Abu Dhabi, che invece si sono rimodulati ed evoluti, apportando vantaggi ad entrambe le parti. Il commercio bilaterale tra gli EAU e la Russia ha infatti raggiunto i 9 miliardi di dollari nel 2022, aumentando del 68% rispetto all’anno precedente. Inoltre, a fronte delle sanzioni imposte dall’asse occidentale alla Russia, gli Emirati Arabi Uniti si sono avvalsi della propria neutralità in campo politico per sfruttare tutto il soft power economico che deriva dal commercio del petrolio: gli EAU si sono proposti come un hub cruciale per lo stoccaggio e la riesportazione del petrolio russo, e hanno più che triplicato le importazioni di petrolio dalla Russia, raggiungendo la cifra record di 60 milioni di barili nel 2022.

In conclusione, la strategia degli Emirati è fortemente ambivalente, ed è lo specchio di una realtà regionale solidamente legata al commercio petrolifero ma che intende riproporsi come hub globale per le fonti energetiche della transizione. 

Beatrice Ala

Immagine di copertina: “COP28 UAE logo” by ECCOthinktank is licensed under CC BY-ND

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