Il Paese si avvicina all’appuntamento elettorale di ottobre in un clima di divisione e rancore. La campagna elettorale si fa sempre più incendiaria, mentre l’attenzione nazionale e internazionale si concentra sul lulismo.
TRAGUARDI E FALLIMENTI DEL LULISMO
Tra 2003 e 2011, il mondo osservava stupefatto la performance economica del Brasile, che in otto anni sembrava aver trovato la formula per coniugare le sue immense ricchezze territoriali e materiali con la crescita economica e con la redistribuzione della ricchezza. Erano gli anni del lulismo più sfrenato che aveva spinto l’ondata della sinistra latinoamericana. “Il politico più popolare del mondo” aveva affascinato tutti con una vittoria che aveva il sapore di rinascita e riscatto. Bolsa Familia, riduzione della povertà e della disuguaglianza, rapida crescita della classe media, il rispetto e l’ammirazione internazionale. Lula era intoccabile e lasciò il Paese alla sua delfina, Dilma Rousseff, con un’approvazione dell’83% e un’eredità politica che si pensava infrangibile. Erano gli anni dei BRICS, della Cina al 10% di crescita annuale, delle enormi esportazioni di generi agroalimentari e del prezzo del petrolio in crescita, che sostenevano l’intera impalcatura economica brasiliana (e latinoamericana, più generalmente). Poi, la crisi. Nell’anno del Mondiale casalingo, la vetrina perfetta per presentare al mondo la nuova faccia del Brasile, l’economia crollava e la società si scopriva inquieta. Si trattava di una reazione a catena: la Cina frenava, il prezzo delle materie prime crollava e l’intero sistema latinoamericano basato sulle esportazioni implodeva. Il sistema Brasile, il “modello Lula” che il mondo aveva ammirato, si mostrava molto più fragile del previsto. Lula, Rousseff e i partiti che hanno sostenuto i loro governi non sono stati capaci di vedere oltre il periodo di prosperità. Nessuno aveva considerato la necessità di rendere la struttura solida attraverso investimenti mirati alla diversificazione economica e allo sviluppo industriale. Nessuno aveva calcolato l’arrivo della crisi e non vi era stata una riflessione sulle necessarie contromisure da attivare nei momenti di difficoltà. Dopo dieci anni di corsa sfrenata, il Brasile tornava a confrontarsi con i problemi di sempre: disoccupazione, povertà, divisione sociale.
Fig.1 – Lula sorride ad un gruppo di sostenitori.
LA FINE DEL LULISMO E DEL “CONSENSO BRASILIANO”
Il compromesso sociale del “consenso brasiliano”, sostenuto dalle parti sociali e politiche fino a che l’economia cresceva, si è sfaldato rapidamente. Invece di raggrupparsi intorno a soluzioni comuni, la classe politica si è indebolita lanciandosi in una caccia ai responsabili che non ha risparmiato nessuno. Contemporaneamente, con il rallentamento dell’economia sono venuti a mancare quegli aiuti alla popolazione che spingevano e sostenevano il ceto meno abbiente nella scala sociale. Finiti i soldi, è finita la luna di miele tra il Partido dos Trabalhadores (PT) e il suo enorme bacino di voti.
In questo clima bollente, il Brasile ha dovuto fare i conti con impensabili scandali di corruzione. I primi a farne le spese sono stati il governo in carica e la presidente Dilma Rousseff, il cui impeachment è stato votato in un’atmosfera da stadio che non ha fatto certo onore alle istituzioni brasiliane. Ciò che hanno messo in luce l’inchiesta giudiziaria Lava Jato e le varie inchieste ad essa correlate è risultato essere ancora peggiore: la democrazia brasiliana è marcia. La corruzione, infatti, accomuna tutti i settori di una società in cui il problema della disuguaglianza non è mai stato veramente risolto, tanto che continua ad alimentare il fenomeno corruttivo. La Lava Jato ha portato allo scoperchiamento dei sistemi corruttivi della Petrobras e del gigante delle costruzioni Odebrecht, e tutti i partiti politici sono stati travolti dalla scoperta delle tangenti che per anni hanno riempito le loro casse e le tasche delle figure politiche e imprenditoriali immischiate nella faccenda.
Le ripercussioni per i partiti sono gigantesche. Gli scandali hanno minato la classe dirigente, che in brevissimo tempo ha perso le sue maggiori figure e la fiducia degli elettori. Agli occhi di una parte di questi, politici come Lula e Rousseff si sono trasformati in criminali, i partiti in macchine per fare soldi facili sulle spalle dei cittadini. La sensazione è che il “consenso brasiliano” tanto lodato durante gli anni di crescita si sia basato soprattutto sulla corruzione, e che servirebbe una vera rivoluzione morale per rifondare la più grande democrazia latinoamericana su nuove premesse e valori comuni.
La “tangentopoli brasiliana”, che porta la firma del giudice federale di Curitiba Sergio Moro, ha poi animato lo scontro di poteri tra magistratura e politica brasiliana. In questa situazione di sofferenza democratica, la condanna all’ex-presidente operaio ha lacerato definitivamente la società: con o contro Lula e il lulismo, con o contro Moro. La paura dei sostenitori di Lula è che il giovane magistrato stia approfittando del grave momento per mettersi di traverso e impedire la rielezione dell’ex presidente per questioni puramente politiche. I sostenitori del magistrato temono invece il contrattacco del potere politico e il blocco delle inchieste giudiziarie o, peggio, la riabilitazione di Lula e la sua probabile vittoria in ottobre.
Fig.2 – Un’immagine delle manifestazioni scatenate dagli scandali di corruzione, 2016.
LA CRISI DEL PARTIDO DOS TRABALHADORES (PT)
Una condanna in primo grado a nove anni e mezzo, un’altra in secondo grado a dodici anni e un mese e il rifiuto all’habeas corpus; sono questi i tre ostacoli tra Lula e la rielezione presidenziale ad ottobre. Infatti, secondo la legge ficha limpa (fedina pulita) del 2010, l’ex-presidente non potrà ripresentarsi come candidato a causa delle due condanne.
Le decisioni dei giudici hanno provocato un vero e proprio terremoto nel Partido dos Trabalhadores (PT), formazione che Lula ha contribuito a fondare e di cui è diventato il leader e simbolo incontrastato. La nuova candidatura dell’ex presidente è coerente con i piani del Partito sin dai tempi della fine del secondo mandato: dare la presidenza a una fedelissima di Lula per poi riconsegnargli il potere otto anni dopo. Per i suoi sostenitori, in maggior parte persone che sono entrate nella classe media o uscite da una situazione di povertà assoluta grazie agli aiuti sociali distribuiti durante gli anni di prosperità, Lula incarna la promessa di una nuova crescita economica e del ritorno alla grandezza del Brasile.
Nell’ottica del partito, è l’unico che può assumersi la responsabilità promettere certi traguardi, perché vanta un’esperienza più che positiva e dispone di un credito politico ancora spendibile con l’elettorato. I numeri del dicembre 2017 parlavano chiaro: Lula sovrastava nei sondaggi con il 45% delle preferenze, 16 punti in più rispetto al giugno precedente e più del doppio rispetto ai suoi inseguitori. A gennaio il vantaggio crollava tra 34% e 37%, stabilizzandosi successivamente intorno al 30% e 31%. Lula ha quindi aumentato il proprio consenso dopo la prima condanna del luglio 2017, e il vantaggio si è poi deteriorato con l’avvicinarsi della sentenza di secondo grado. Ora, recluso in una prigione che lui stesso inaugurò quando era presidente, Lula è comunque in testa ai sondaggi ma con un margine inferiore e senza la certezza di potersi presentare alle elezioni per capitalizzare questo consenso teorico.
Come si muove il PT? Il partito e la militanza si sono stretti intorno al loro leader. Se Lula, a settantadue anni e due condanne alle spalle, è l’unica speranza dei petistas, il partito ha un grande problema. L’errore strategico del PT è stato quello di non concentrarsi sulla formazione di nuovi leader che potessero subentrare alle figure della lotta alla dittatura. Il PT è rimasto intrappolato nell’autoidentificazione con il suo leader. Questo significa che la condanna a Lula è percepita come una condanna al PT e alle sue posizioni politiche e che le virtù della militanza petista sono idealmente trasferite al leader politico perseguitato dalla magistratura.
Certo è che l’ex partito di governo, arrivati a questo punto, non può fare altro che continuare sulla strada della lealtà al leader e della lotta per la sua candidatura alle elezioni di ottobre. Che vinca o perda, per tornare agli splendori di un tempo il PT dovrà riorganizzarsi. Per rifondarsi come partito capace di riassumere la statura morale che possa guidare una nuova tappa per la nazione, sarà necessaria una profonda analisi interna che riconosca gli errori e allontani i responsabili. Soprattutto, saranno necessari nuovi leader e nuove idee che rilancino i programmi che hanno salvato e migliorato la vita a milioni di brasiliani. Questa volta, con più attenzione ai conti pubblici e lavorando sulle debolezze intrinseche dell’economia del Paese.
Fig.3 – Sergio Moro.
SE NON LULA, CHI?
Mentre il PT si fossilizza su una candidatura che probabilmente sarà nulla, gli altri partiti si preparano confusamente all’appuntamento di ottobre. Diversi punti dietro Lula vi è Jair Bolsonaro, ex militare e politico di lunga data, eroe dell’estrema destra del Paese i cui principali riferimenti politici sono Trump, Wilders e Le Pen. Secondo Datafolha, Bolsonaro registra il 15% dei consensi. Se Lula dovesse riuscire a candidarsi alle elezioni, Bolsonaro potrebbe cambiare gli equilibri polarizzando, di fatto, l’elezione e trasformandola in una sorta di resa dei conti finale tra due visioni opposte del Paese e della politica. Se Lula dovesse rimanere fuori dai giochi, è più probabile che la candidatura di Bolsonaro riesca a coalizzare il fronte moderato, seppur variegato, portando ad un risultato elettorale che ricorda quello della Francia nel 2017.
Dietro Bolsonaro, Marina Silva, senatrice di lunga data e Ministro dell’Ambiente nel governo Lula dal 2003 al 2008, si presenta per la terza volta alle presidenziali alla testa del partito ecologista Rede Sustentabilidade. In un contesto di alta tensione e confusione, Silva tenta di spendere la sua integrità politica e morale. Le sue possibilità sono legate alla candidatura di Lula. Se l’ex presidente fosse effettivamente escluso dalla corsa, la senatrice potrebbe trovarsi di fronte Bolsonaro al secondo turno. Secondo il New York Times, quest’eventualità vede un momentaneo pareggio tra i due al 27.2%, con una probabile serrata di ranghi della sinistra dietro l’ex ministro di Lula.
Anche Ciro Gomes, pre-candidato del Partido Democrático Laborista (PDT), è alla sua terza corsa presidenziale. Come Silva, le sue possibilità aumenterebbero nel caso di un’elezione senza Lula.
Intanto, il centro brasiliano cerca un equilibrio. Mentre riflette su una sua possibile candidatura, il presidente Temer, che ha un’approvazione irrisoria, spinge per un’unione dei partiti centristi e per un unico candidato da contrapporre a Bolsonaro, Silva e Gomes.
Fig.4 – Jair Bolsonaro ad una conferenza, maggio 2018.
Si tratta, tuttavia, di pre-candidature. Il PT presenterà il 15 di agosto la candidatura ufficiale di Lula, aprendo così un procedimento all’interno del Tribunale Superiore Elettorale (TSE), che avrà fino a metà settembre per pronunciarsi. Significa, dunque, che gli elettori brasiliani, probabilmente, non conosceranno la rosa completa dei candidati fino alle ultime settimane di campagna elettorale. Basta solo questo per comprendere la fragilità e l’instabilità della più grande democrazia dell’America Latina.
Elena Poddighe
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Netflix ha prodotto O Mecanismo, una serie sulla corruzione brasiliana e sull’inchiesta Lava Jato che sta suscitando molto scalpore. Qui trovate qualche riflessione utile per interpretarla e per comprendere le sue eventuali conseguenze sull’opinione pubblica brasiliana.
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