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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Ad un passo dal voto

Continua la corsa per le presidenziali americane che dopo aver portato sul palco i vice dei due candidati, abilissimi nell’intrattenere il pubblico con dei copioni da veri showmen, tornano a dare fiato ai due candidati ufficiali. In Medio Oriente il tornado siriano continua a trascinare al suo intrerno scenari sempore nuovi e sempre più pericolosi, mentre Israele torna a volgere lo sguardo al Libano, dopo il crollo dell’economia iraniana. Con l’Election Day americano che si avvicina, anche il nostro chicco in più cambia forma

 

EUROPA

Lunedi’ 15 – Dopo l’emozione per il (meritato?) Nobel per la Pace, l’Ue torna ad occuparsi alla sua maniera di relazioni internazionali attraverso il Consiglio in formazione affari esteri che si riunisce in Lussemburgo. Nel mirino dei Ministri dei paesi mebri, presieduti dall’Alto Commissario Ashton, non solo gli sviluppi in Medio Oriente tra Palestina, Siria, Turchia e Iran ma anche il caso disperato Mali, assegnato di recente al mediatore Romano Prodi. Dopo pranzo spazio anche a nuovi sviluppi nella politica di vicinato nel Caucaso dopo le elezioni in Georgia, paese al centro delle faide tra UE e NATO da una parte e Federazione Russa dall’altra.

Martedì 16 – Nato da un’iniziativa comune del Comitato delle Regioni e dell’Ifo Institute, con sede a Monaco di Baviera, si apre l’International Economic Forum di Bruxelles con lo scopo di contribuire al miglioramento dell’integrazione economico-monetaria all’interno dell’UE. L’incontro sarà aperto dal macro-tema “La ricostruzione dell’Eurozona”, con discorsi introduttivi da parte del Presidente del Comitato delle Regioni Valcárcel Siso, dall’europarlamentare Ferreira e dal Presidente dell’Ifo Professor Sinn.

Mercoledì 17 – Venerdì 18 – Va di scena ad Amman il Summit Euro-Mediterraneo dei Consigli Economici e Sociali dell’Unione Europea e del Regno di Giordania con l’intenzione di coinvolgere in maniera propositiva tutti i paesi dell’area, soprattutto quelli che stanno attraversando periodi di transizione radicale. E’ dal 1995 che le istutuzioni del campo socio-economico dell’UE organizzano tali incontri con le rispettive controparti dei paesi della fascia euromediterranea per affrontare tematiche condivise. La platea prevede solitamente 150-200 partecipanti dai settori economico-finanziario, economico-sociale e personale di ONG e istituzioni pubbliche.

 

AMERICHE

Martedì 16 – Nuovo round per i duellanti in lizza per quella che è ancora considerata la carica più prestigiosa del pianeta, Mitt Romney e Barack Obama saranno nuovamente faccia a faccia in un dibattito pubblico presso l’Università di Hofstra a New York. La nuova tappa di una competizione elettorale ormai serratissima cade esattamente a 3 settimane dall’Election Day, e sarà l’occasione d’oro per un Obama sottotono nel primo incontro per sfruttare l’onda lunga della spettacolare prova di carisma del suo numero due Joe Biden, che sembra aver bucato anche lo schermo oltre all’avversario repubblicano Ryan. A Romney resta il vantaggio della businessman attitude, la capacità di vendere se stesso e la propria figura sotto qualsiasi luce positiva, mentre lo showman democratico che 4 anni fa infiammava le piazze sembra aver perso l’aura di novità che l’aveva portato a colpire persino la giuria del Premio Nobel.

COLOMBIA – L’attuale processo di pace in colombia sarebbe stato favorito dall’intervento diretto delle due figure carismatiche per eccellenza del centro America, nientemeno che da Fidèl Castro e l’aspirante allievo venezuelano Hugo Chàvez. I due lìder maximi avrebbero condotto personalmente a l’Avana trattative bilaterali tra il governo colombiano ed esponenti dell’ala militare delle FARC, da anni impegnati in una delle più sanguinose guerre civili della storia del continente americano. “Ufficialmente il Presidente Santos si sarebbe recato a Cuba per discutere la strategia da tenere al Summit de las Americas, in realtà il vero motivo di quella visita era la preparazione di un piano di pace per la Colombia” così ha concluso la sua intervista la fonte anonima interna all’inner circle presidenziale colombiano.

CUBA – Dopo il corri corri delle voci mediatiche che davano per certa la morte celebrale dell’irriducibile leader della rivoluzione cubana Fidèl Castro, è toccato al cerchio ristretto dei figli smentire le notizie sullo stato di salute del padre della patria, dato ora in condizioni stabili e stazionarie. Intanto il mondo scopre attraverso delle carte inedite appartenute a Robert Kennedy, procuratore generale nei primi anni ’60, un piano ordito dalla CIA per riunire un commando formato da mafiosi americani e patrioti cubani per assassinare la triade del potere rivoluzionario cubano. Le tre figure chiave di Fidèl, Raul e il “Che” sarebbero pesati solo 150.000 dollari sulle casse dell’erario americano, un prezzo più che ragionevole per scomodarsi del più scomodo sassolino da anni intrappolato negli stivali a stelle e strisce.

 

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ASIA

GIAPPONE – Da casus belli a gioco militare, il passo è breve si sa, e su alcuni scenari è sempre meglio prevenire che correre ai ripari, così la disputa sino-giapponese per le isole Diaoyu/Senkaku sarà trasformata in esercitazione dalle forze armate giapponesi e americane. Sarà l’isola sperduta e disabitata di Irisunajima, poligono di tiro naturale dell’esercito statunitense dell’arcipelago di Okinawa, a giocare la parte del tesoro territoriale da riconquistare dopo l’invasione da parte di forze straniere. In realtà secondo la giapponese Jiji Press, l’esercizio sarebbe tutt’altro che consensuale visti i dubbi diplomatici di diversi ufficiali di Tokyo e Washington che temono tuttora una reazione di rabbia forzata di Pechino, costretta a non perdere la faccia davanti alle richieste delle classi medio basse della popolazione.

COREA DEL NORD – Secondo l’International Food Policy Research Institute (IFPRI) la situazione di povertà in Corea del Nord sarebbe peggiorata quest’anno sconfinando al di sotto dei livelli di allerta del 1990. Il tutto nonostante le tonnellate di aiuti umanitari ottenuti dai vari schieramenti del grande gioco dell’Asia orientale, dove molte volte le testate nucleari sono la moneta di scambio più considerata per ottenere risorse o considerazione. Un’economia debole, spese militari a livelli stellari e fallimenti meteorologici e sistemici nel ciclo delle colture agricole le ragioni alla base di tale disastro umanitario sigillato sotto una capsula inattraversabile. Nemmeno il cambio di guardia al potere dopo la morte di Kim Jong Il sembra aver ridato slancio ad un paese che dopo aver illuso il mondo negli anni ’70 è vissuto all’ombra del miracolo economico del sud del paese.

 

MEDIO ORIENTE

TURCHIA – Le relazioni diplomatiche tra Ankara e Damasco hanno ormai raggiunto un abisso mai toccato prima, le invasioni territoriali, le raffiche contro le ciuttà di frontiera e la situazione di estrema instabilità interna a causa della guerra civile hanno portato i due governi all’azione dopo aver speso migliaia di parole dure. In seguito al dirottamento del volo siriano diretto a Damasco da Mosca, anche la Siria ha usato la stessa arma per chiudere il suo spazio aereo ai voli turchi, a questo punto al governo di Erdogan non è restato che adattarsi al clima e vietare ai velivoli siriani di attraversare il territorio turco. Indubbiamente la raffica di misure inamichevoli non è che la prima di una lunga serie, ma resta ancora difficile capire se dal bisticcio diplomatico la situazione possa realmente tramutarsi in guerra aperta.

SIRIA – E’ risaputo che in tempo di guerra nei mercati manca tutto eccetto le armi, e tale regola d’oro sembra valere anche in Siria dove secondo Human Rights Watch, il governo di Bashar al-Assad avrebbe scaricato tonnellate di munizioni a grappolo sulle arterie principali della provincia di Idlib. I continui traffici di rifornimenti militari tra Mosca e Damasco hanno peggiorato gravemente i rapporti della Federazione con la Turchia, che teme ormai di aver raggiunto il limite della sopportazione. “La totale noncuranza del governo di Damasco nei confronti della propria popolazione è ormai evidente nella sua campagna aerea, in cui lanciare tali munizioni mortali nelle aree più popolate è ormai parte del gioco al massacro” ha dichiarato Steve Goose, direttore del dipartimento per le armi di HRW.

LIBANO – Lo strano caso del drone di Hezbollah abbattutto nello spazio aereo israeliano ripropone un triangolo dalla miscela esplosiva per la storia del Medio Oriente, contrapponendo Gerusalemme da una parte e Beirut e Teheran dall’altra. Dopo il mea culpa senza scuse recitato da Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, giovedì scorso, anche il Ministro degli Esteri libanese Mansour ha negato che il caso del drone possa rappresentare una violazione della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite che sancisce il cessate il fuoco tra le parti dopo la guerra lampo del 2006. “Israele ha violato il nostro spazio aereo una decina di migliaia di volte negli ultimi 6 anni” ha dichiarato, forse esagerando l’ufficiale libanese, appoggiando di conseguenza l’entusiasmo del Generale iraniano Ahmad Validi, che si è detto estremamente soddisfatto dall’ottimo lavoro compiuto da Hezbollah sfruttando la tecnologia iraniana.

 

Fabio Stella

Obama, nessuno, centomila (II)

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Un Caffè americano – Continua la nostra analisi della politica estera statunitense durante la Presidenza di Barack Obama. Oggi parliamo del quadrante del Pacifico e dei rapporti con Russia, Africa, America Latina. La relazione con la Cina sarà indubbiamente una delle sfide principali della geopolitica USA nei prossimi anni, ma quello che servirà soprattutto alla nuova amministrazione sarà una visione strategica più chiara e profonda

 

(Segue. Leggi qui la prima parte)

 

LA PACIFIC POWER – Il nuovo orientamento della politica americana è incentrato sull’impegno nel quadrante est-asiatico. Un articolato intervento della Clinton su Foreign policy e alcuni passaggi del discorso presidenziale di inizio anno sullo stato dell’Unione, hanno chiarito definitivamente che gli Stati Uniti sono una “Pacific power”. Dal punto di vista militare e geopolitico il confronto sembra inevitabile. Esemplificativo è il veto, per motivi di sicurezza nazionale, appena posto da Obama sull’installazione di impianti eolici, di una azienda cinese, nei pressi della base militare di Broadman. Guardando al Pacifico, gli Stati Uniti si sono preoccupati di rafforzare le alleanze con Giappone, Corea del Sud, Australia e gli altri alleati asiatici. Un articolo, pubblicato sul New York Times lo scorso anno, rintroduceva la “gunboat diplomacy” (la diplomazia delle cannoniere) come futuro aspetto delle relazioni tra Cina e Stati Uniti. A questo proposito, nel 2010 il segretario Clinton, nel corso di una conferenza ad Hanoi, ha ribadito che gli USA avrebbero aiutato Vietnam, Filippine e altri Paesi alleati a resistere alla politica assertiva di Pechino nel Mar Cinese meridionale. Le esercitazioni nel Mar Giallo insieme alla Corea del Sud sono aumentate in numero e portata, ufficialmente per affrontare la minaccia nordcoreana, ma, di fatto, il segnale è inequivocabilmente rivolto anche alla Cina. Emblematico è il caso delle isole Diaoyu-Senkaku, contese tra Cina e Giappone. Il segretario della Difesa Panetta si è affrettato a far sapere che gli USA non vogliono prendere parte alla disputa, evitando di ricordare che il trattato di sicurezza nippo-americano copre anche i territori in questione, essendo sotto effettivo controllo giapponese.

 

AMBIENTE E DIRITTI – Dal punto vista più strettamente politico, nonostante i numerosi vertici del cosiddetto G2, le frizioni maggiori si hanno sulla politica ambientale, altro caposaldo della campagna elettorale del 2008 di Obama, e, soprattutto, sulla questione del rispetto dei diritti umani. Le maggiori tensioni tra i due governi si sono verificate nel corso del 2010, in cui il segretario di Stato Clinton ha richiamato insistentemente la Cina al rispetto della libertà di espressione e di stampa, e nella primavera del 2012 con il caso Chen Guangcheng, dissidente fuggito dagli arresti domiciliari e rifugiatosi nell’ambasciata statunitense. Dal punto di vista economico, Stati Uniti e Cina sono le maggiori potenze mondiali, l’interdipendenza economica permette di scongiurare un’escalation militare nel breve periodo. Pechino possiede gran parte del debito pubblico americano. I problemi maggiori riguardano la sottovalutazione artificiale dello yuan che, secondo Washington, porta a la Cina ad essere una concorrente sleale e la tutela della proprietà intellettuale.

 

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E IL RESTO? – Nonostante sia esplicita la volontà americana di rivolgere l’attenzione verso il Pacifico, l’Europa rimane un teatro fondamentale per le relazioni internazionali. Il successo europeo sottolineato dallo staff e dalla stampa vicini al presidente Obama riguarda in particolare i rapporti con la Russia. Durante il secondo mandato di Bush lo spirito di Pratica di Mare si era affievolito, e il progetto dello scudo spaziale e le tensioni nel caso ucraino e in quello georgiano crearono fratture insanabili tra i vertici dei due Paesi. Anche l’avvicinamento della Russia alla NATO subì un temporaneo rallentamento. Dopo il raffreddamento delle relazioni tra Mosca e Washington, il “reset”, la revisione del programma di dispiegamento del sistema missilistico difensivo in Polonia e Repubblica Ceca e la firma del trattato New START dell’aprile 2010, sulla riduzione degli armamenti strategici, sono stati importanti passi di distensione dell’attuale presidenza. Il clima di distensione non è però durato molto, poiché l’installazione dello scudo spaziale nei territori dell’est Europa non è stata completamente abbandonata (il progetto è affidato alla NATO) e le questioni libica, siriana e iraniana provocano tensioni diplomatiche da non sottovalutare tra le due potenze.

 

QUALE EMISFERO SUD? – Gli scenari che hanno avuto meno spazio nell’agenda dell’attuale amministrazione sono l’Africa e l’America Latina. Per quanto riguarda l’Africa, gli Stati Uniti non hanno avuto un ruolo politicamente predominante, lasciando ampi spazi per una politica più assertiva sia da parte di Pechino sia dei gruppi terroristici islamici, che usano l’Africa come fucina di uomini da reclutare. Il discorso di Obama nel 2009 ai parlamentari e al popolo ghanese, i due lunghi viaggi del segretario di Stato nel 2009 e nel 2012 in tredici Paesi africani e il viaggio di Michelle Obama nel 2011 in Botswana e Sudafrica sono stati più che altro gesti simbolici, mentre le politiche concrete sono rimaste nel solco della continuità con il mandato di Bush. L’America Latina, storicamente il cortile di casa della politica estera americana, non è stata tra le priorità del programma obamiano. La recente ratifica dei trattati di libero scambio con Panama e Colombia riguarda un’iniziativa della precedente amministrazione, portata a termine da quella attuale. La Cina ha sostituito gli USA come maggior partner commerciale di un’economia importante come quella del Brasile. Il supporto specifico verso Paesi amici (come il Cile di Piñera o la Colombia di Uribe e Santos) è stato sostituito da un generico appoggio verso il miglioramento dei processi democratici sudamericani. Anche il rapporto con il Messico è complesso per via dei problemi riguardanti l’immigrazione clandestina e il traffico di droga, che sembrano di difficile soluzione senza una politica ferma da parte del governo messicano.

 

CONCLUSIONI – In sostanza le discontinuità più evidenti dell’amministrazione Obama, rispetto a quella precedente, riguardano il modo con cui si è affrontata la guerra al terrore (droni ed operazioni speciali al posto di un confronto diretto), il sostegno ai nuovi movimenti arabi e islamici (invece del supporto ai regimi consolidati durante la guerra fredda), il diverso rapporto con Israele (non più appoggio incondizionato) e la rinata attenzione verso il quadrante del Pacifico. Nel giudicare il bilancio del mandato presidenziale di Obama, quotati analisti americani sostengono che ci sia una vera e propria mancanza nell’indirizzo strategico dell’attuale amministrazione, non essendo stati delineati veri e propri interessi vitali (con la parziale eccezione dell’Asia) né mezzi con cui sarebbero stati difesi tali interessi, rendendo, per questo, poco prevedibile il comportamento statunitense sullo scenario globale. A tal proposito, Leslie Gelb, presidente emerito del Council on Foreign Relations ed ex funzionario del Dipartimento di Stato e della Difesa, sostiene che Obama sia un ottimo tattico, in altre parole che abbia la capacità di rispondere a sfide concrete e prese singolarmente, con un alto grado di adattabilità ma manca di visione d’insieme, in grado di capire ciò che gli USA non possono fare a livello internazionale, ma con difficoltà a stabilire cosa gli USA possano fare.

 

Davide Colombo

Rimandato… a novembre (I)

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Un Caffè americano – Alla Convention Democratica del 4-6 settembre 2012, il motto della campagna di Barack Obama “Forward” (“Avanti”) suonava come un debole grido di speranza, al confronto del deciso motto della campagna 2008, “Change” (“Cambiamento”). Del resto, in quasi quattro anni di governo, i cambiamenti attuati da Obama sul piano della politica economica e sociale potrebbero apparire molto inferiori alle promesse, ma vanno analizzati alla luce delle condizioni economiche di partenza e delle relazioni tra Presidenza a Congresso

 

BENE O MALE? – I sondaggi elettorali su base nazionale hanno indicato per mesi un lieve vantaggio di Obama sull’avversario repubblicano Mitt Romney, in calo solo dopo il primo dibattito presidenziale della settimana scorsa. Questi numeri sembrano rispecchiare il trend degli ultimi quattro anni, caratterizzato da un’economia in ripresa anche se stentata e livelli di disoccupazione elevati ma passati dal 10% nel 2009 a meno dell’8% oggi grazie ad un’ offerta di posti di lavoro in continua crescita, come spiegano ricercatori di Brookings Institution ed il premio nobel per l’economia Paul Krugman. Considerando che di norma condizioni economiche simili muovono le preferenze degli elettori dal presidente uscente allo sfidante, i sondaggi sembrano suggerire che, di contro, a un mese dalle elezioni la maggioranza degli americani pensa che le politiche di Obama abbiano mitigato gli effetti e l’evoluzione della recessione in cui il Presidente si è trovato a inizio mandato nel 2009, ed è disposta a concedergli altri quattro anni per riportare il paese ai livelli precedenti alla crisi economica del 2008. Senza contare che la responsabilità per la mancata attuazione di diverse riforme proposte è anche da attribuire all’ostruzionismo del Congresso, tornato a maggioranza repubblicana nel 2010, come nel caso della crisi per l’innalzamento del tetto del debito pubblico nell’agosto del 2011, che ha rischiato di bloccare l’erogazione di molti servizi federali, quali pensioni, assistenza sanitaria, stipendi militari. Ma quali sono gli impegni elettorali di carattere interno che Obama ha mantenuto dal 2008 a oggi e cosa, invece, gli contestano i critici e gli elettori insoddisfatti? Un’analisi dell’”Obameter”, la sezione dedicata a Obama sul sito politifact.com, che verifica puntualmente la veridicità delle affermazioni e delle promesse dei politici americani, aiuta a ricostruire i principali successi e insuccessi del Presidente uscente.

 

SANITÀ – Cominciamo con la riforma sanitaria, fiore all’occhiello della campagna elettorale 2008. L’“Affordable Care Act”, approvato nel marzo 2010 dopo un anno di lotte, ha esteso la possibilità di copertura medica a più 30 milioni di americani, sia attraverso il programma federale “Medicaid” (la “mutua” americana che però copre solamente gli indigenti e i disabili), sia attraverso sussidi che permettono alle fasce di reddito più deboli di acquistare un’assicurazione privata. Uno dei punti di forza della riforma sanitaria è che le assicurazioni non possono più negare una polizza sanitaria quando vi siano condizioni mediche preesistenti. La legge sanitaria, che prevede una spesa di circa 938 miliardi di dollari in dieci anni, è stata da subito avversata dai Repubblicani, che l’hanno portata di fronte alla Corte Suprema. Nel giugno 2012, la Corte Suprema ha stabilito che l’obbligo di copertura assicurativa individuale non è incostituzionale, respingendo così la principale eccezione dei Repubblicani. Tuttavia, i giudici della Corte hanno largamente ridimensionato l’espansione del programma Medicaid, dichiarando che i singoli stati possono decidere di non estendere la loro copertura, senza incorrere nelle sanzioni previste dalla riforma sanitaria. Questa decisione potrebbe privare della copertura sanitaria diversi milioni di americani. Un altro problema che ha limitato l’efficacia della riforma sanitaria è la mancanza di piattaforme di scambio online dove i singoli cittadini possano acquistare l’assicurazione che fa al caso loro. La legge prevede che tali mercati siano creati dai singoli stati entro il gennaio 2014, ma a oggi solo tredici stati e il District of Columbia hanno ottemperato. Alcuni degli stati Repubblicani (Alaska, Florida, Louisiana, Maine, South Carolina e Texas) si rifiutano categoricamente, mentre altri sono ancora in fase esplorativa.

 

ECONOMIA E FINANZA – In ambito economico, il principale insuccesso è probabilmente l’”Home Affordable Modification Program”, il piano che doveva aiutare gli americani a mantenere le proprie abitazioni, minacciate dalle crisi dei mutui. Lanciato nel febbraio 2009 per permettere ai proprietari di rinegoziare i vecchi mutui a condizioni più in linea con il mercato immobiliare, il programma doveva utilizzare parte dei fondi della TARP, la norma approvata da Bush nell’ottobre 2008 per salvare il sistema finanziario americano dal tracollo. Il resto della TARP doveva invece servire a iniettare liquidità alle banche, affinché queste riprendessero a erogare prestiti. Purtroppo, a detta di Neil Barofsky, l’ispettore generale della TARP che nel marzo 2011 ha espresso la sua frustrazione in un articolo sul New York Times, solo 540.000 mutui hanno beneficiato delle modifiche, mentre altri 800.000 sono stati cancellati o andati insoluti. Come se ciò non bastasse, il sistema dei mutui non è stato riformato nella sua essenza e questo mette l’economia a rischio di nuove possibili crisi finanziarie.

 

OCCUPY – Il movimento “Occupy Wall Street”, cui Obama ha più volte espresso la sua solidarietà, incarna l’insoddisfazione della gente comune nei confronti di una politica economica che protegge gli interessi del mondo finanziario, anche quando questo tiene comportamenti palesemente opportunistici, se non addirittura immorali. Neanche la riforma di Wall Street, approvata nel 2010 con l’intento di portare maggiore trasparenza nelle transazioni finanziarie e di tutelare i consumatori da prestiti predatori, sembra aver raggiunto i risultati sperati. Ad esempio, dopo enormi resistenze e proteste del mondo finanziario, l’entrata in vigore della “Volcker Rule”, che vieta alle banche di utilizzare i soldi dei depositi per fare investimenti speculativi, è stata procrastinata al 2014.

 

(I. continua – Leggi qui la seconda parte)

Esther Leibel

Rottamatori d’Africa

Lo scorso agosto, il Senegal è stato colpito da una delle peggiori alluvioni della sua storia. Il bilancio finale è stato di 13 morti e di decine di migliaia di sfollati. Così, il Presidente Macky Sall, adducendo la necessità di recuperare in tempi brevi i fondi necessari alla ricostruzione, ha presentato una proposta di legge per l’abolizione del Senato, approvata dal Congresso nella seconda metà di settembre. Una scelta responsabile, un colpo alla democrazia, oppure semplice demagogia?

DUE PICCIONI CON UNA FAVA – In risposta alle tremende inondazioni che hanno colpito il Senegal nella prima metà dell’agosto scorso, il neo Ministro della Cultura e del Turismo Youssou N’Dour, cantante di fama internazionale, ha organizzato un grande concerto di beneficienza a Dakar, la capitale del paese. Il vero “coup de théâtre” è però arrivato da chi gli siede qualche gradino sopra, niente meno che il Presidente della Repubblica, Macky Sall: perché non abolire il Senato? Una decisione che si è convertita subito in proposta di legge e che, se adottata dalla maggioranza delle camere, avrebbe permesso di risparmiare tra i 15 e i 16 milioni di dollari. L’idea di Sall era quella di dirottare tali soldi nei fondi destinati alle ricostruzioni, e al tempo stesso, eliminando un’istituzione ritenuta costosa ed inutile da gran parte dell’opinione pubblica, mandare un chiaro messaggio circa le priorità del suo governo sullo snellimento della “macchina” dello Stato.

NON SOLO IL SENATO – Procediamo con ordine. Il 28 agosto Macky Sall, di ritorno da una visita ufficiale in Sudafrica, annuncia pubblicamente l’intenzione di voler sopprimere il Senato e di utilizzare i fondi pubblici così risparmiati per far fronte all’emergenza causata dalle alluvioni. Nei giorni successivi rincara la dose, e alla lista dei tagli aggiunge la Vice Presidenza della Repubblica (carica vacante sin dalla sua creazione nel 2009) e il Consiglio Economico e Sociale. L’11 settembre si apre una sessione straordinaria dell’Assemblea Nazionale (la nostra Camera) che esamina il progetto di legge costituzionale proposto dall’esecutivo in procedura d’urgenza. Il giorno successivo il progetto viene approvato a maggioranza e passa, secondo l’iter previsto, all’esame del Senato, chiamato in un certo senso a scegliere se fare harakiri o prolungare di qualche giorno la propria agonia. Il 13 settembre il Senato rifiuta di firmare il proprio atto di morte e respinge la legge costituzionale. La parola passa allora al Congresso, che altro non è che la somma dei 150 deputati dell’Assemblea Nazionale più i 100 senatori. Per essere approvato, il progetto ha bisogno di una maggioranza qualificata pari al voto positivo dei 3/5 dei parlamentari presenti. Mercoledì 19 settembre il Congresso, con 176 voti a favore, abolisce ufficialmente il Senato, la Vice Presidenza della Repubblica e il Consiglio Economico e Sociale. Le competenze del Senato vengono devolute all’Assemblea Nazionale e il Parlamento ritrova il suo vecchio aspetto monocamerale…

UN’IDEA POCO ORIGINALE – Ad un primo impatto, agli occhi di un cittadino della vecchia Europa, l’abolizione di un’istituzione come il Senato potrebbe sembrare clamorosa. In realtà, in Senegal, non è un’idea così originale, né si può dire che il Senato abbia radici solide e profonde nella storia del paese. Un breve excursus storico ci può aiutare. Nato soltanto nel 1999 (il Senegal è indipendente dal 1960) sotto la presidenza di Abdou Diouf, già nel 2001 l’allora presidente Abdoulaye Wade lo abolisce una prima volta tramite un referendum che introduce una nuova costituzione, adducendo ragioni economiche. Lo stesso Wade lo reintroduce nel 2007, nella forma che ha conservato fino a meno di un mese fa: 100 senatori, di cui 65 nominati direttamente dal Presidente della Repubblica e 35 eletti tramite suffragio indiretto da 12.000 rappresentanti locali  (motivo per cui i suoi detrattori l’hanno sempre considerato antidemocratico). Il ruolo era quello di votare, ed eventualmente rimandare al mittente, le leggi già approvate dall’Assemblea Nazionale. In sostanza, un “doppione” della Camera (motivo per cui gran parte della popolazione l’ha sempre visto come un’istituzione inutile). Per la cronaca, le prime elezioni senatoriali del 2007 videro, oltre ai 65 senatori nominati direttamente da Wade, altri 34 eletti tra le file del suo partito, il Partito Democratico Senegalese (PDS).

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UN COLPO ALLA DEMOCRAZIA? – L’abolizione del Senato non sembra, come molti osservatori hanno invece sostenuto, un tentativo di mettere a tacere l’opposizione. È vero che fino alla proposta di Macky Sall la maggioranza del Senato era favorevole al capo dell’opposizione (nonché ex Presidente) Abdoulaye Wade, ma è altrettanto vero che per il 16 settembre era previsto il rinnovo dei senatori: in poche parole, il Presidente avrebbe potuto nominare 65 suoi sostenitori politici, mentre gli altri 35 sarebbero stati eletti dai rappresentanti dello stesso corpo elettorale che, in aprile, assegnò la vittoria presidenziale a Sall con il 65% dei voti, e poi, alle legislative di luglio, assegnò 119 seggi sui 150 dell’Assemblea Nazionale al suo partito, l’APR (Alleanza Per la Repubblica), contro i 12 del PDS. Eliminare l’istituzione meno democratica del paese non significa dunque minare l’architettura democratica del Senegal. Ma motivare tale scelta con il risparmio di fondi per far fronte all’emergenza alluvioni sa molto di demagogia. Si tratta di una misura politica che, come tale, non può basarsi sui cambiamenti climatici e che comunque non può costituire, da sola, una soluzione alle inondazioni. I 16 milioni di dollari costituiscono infatti una minima parte di quello che servirà effettivamente per trovare una sistemazione, un lavoro ed un futuro per le decine di migliaia di senzatetto. Di certo Sall è venuto incontro a quella fetta (abbastanza folta) dell’opinione pubblica che chiedeva tagli ai costi della politica e che anche sulla base di queste promesse elettorali lo ha votato in massa lo scorso aprile. D’altra parte, altre promesse, come quella di ridurre il costo della vita, saranno molto più difficili da mantenere.

Giorgio D’Aniello [email protected]

Un Caffè americano

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Poco meno di un mese alle elezioni che definiranno il futuro degli Stati Uniti (e non solo) fino al 2016. Il bis di Obama non appare più così scontato, e questo sarà un mese da vivere con grande attenzione. Vi proponiamo di farlo insieme, in uno speciale che andrà ben oltre un semplice racconto dell’attualità. Ecco come

 

CIAK, SI VOTA – Un mesetto, dunque, o giù di lì. Che parta ufficialmente il countdown: segnatevi in rosso (e in blu) la data del 6 novembre, giorno in cui si svolgeranno le elezioni presidenziali più importanti del 2012. Obama contro Romney, e fin qui ci siamo. Due personaggi in cerca di elezione, in una competizione tutt’altro che scontata. Ebbene sì, questo speciale prende il via in uno dei momenti più incerti, intricati e intriganti di tutta la campagna elettorale. Dopo una prima fase di incertezza e di studio, nelle ultime settimane Obama pareva particolarmente avvantaggiato nei sondaggi, soprattutto in alcuni stati chiave, e il distacco sembrava ormai incolmabile per l’avversario repubblicano Romney, anche grazie ad una serie di gaffe che sembrava non vedere mai la fine. Insomma, Barack non sembrava certo più il guru di quel “Yes, we can” che prometteva di cambiare il mondo, tanto da fargli subito vincere un Nobel per la Pace sulla fiducia; inoltre, dati economici così negativi come quelli attuali non hanno mai portato nella storia alla rielezione del Presidente in carica. D’altra parte, però, l’avversario sembrava onestamente tutt’altro che un ostacolo insormontabile. E invece, il risultato del primo faccia a faccia del 3 ottobre ha avuto del clamoroso. L’affermazione di un moderato e concreto Romney sul mago della comunicazione Obama, mai come in tale occasione sulla difensiva, è stata schiacciante. I sondaggi attuali parlano chiaro: i due rivali sono ormai vicinissimi, praticamente incollati, e difficilmente si può ancora definire tale risultato come un “rimbalzo” dovuto all’esito del confronto tra i due.

 

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IN VIAGGIO COL CAFFE’ – Ovviamente, nulla è definito, per Obama la Casa Bianca è tutt’altro che persa, e dunque sarà questo il mese decisivo. Un mese che qui al Caffè Geopolitico seguiremo insieme a voi, con grandissima attenzione. È importante però sottolineare che non andremo solo a confrontarci sull’attualità, ma vi accompagneremo in un viaggio che, in un’ottica di largo respiro, non punterà solo al focus sulle tematiche rilevanti della campagna e sulle strategie dei candidati per la conquista/riconquista degli elettori. Lo sguardo sarà proiettato su tematiche ampie e trasversali, a partire dalla comprensione delle dinamiche politiche ed economiche degli ultimi anni, per capire quali siano i fattori che hanno ostacolato le promesse elettorali del 2008, influenzando in maniera incisiva le azioni dell’amministrazione Obama. Un occhio di riguardo sarà dedicato anche ad aspetti socio-culturali, poiché diverse delle tematiche più scottanti in chiave elettorale (sanità pubblica, aborto, ed in generale interventi dello Stato in campo sociale) non possono essere spiegate semplicemente a partire da aspetti politici. E dunque i nostri autori, corrispondenti italiani da anni negli Stati Uniti, insisteranno in più occasioni sul ruolo delle idee che formano la base elettorale in entrambi gli schieramenti, anche con un confronto tra elettorato italiano e americano sul peso che certi valori ricoprono nel contesto della campagna elettorale.

 

Si parte, dunque, per questo mese di Caffè americano, che ci accompagnerà fino alla grande partita del 6 novembre. Seguitela con noi, e giochiamola insieme.

 

Alberto Rossi

[email protected]

La fame del Dragone distrugge l’ambiente (II)

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Nella prima parte si è parlato della crescente scarsità di risorse che Pechino sta fronteggiando per garantirsi l’autosufficienza nelle derrate alimentari. Tuttavia c’è un altro aspetto del problema: che succederebbe nell’ipotesi (sempre più probabile) che la Cina non dovesse essere più in grado di far fronte alla domanda interna di grano? Si è parlato molto della nuova forma di “colonizzazione” che la Cina sta attuando all’estero, soprattutto in Africa. Pechino tesse relazioni diplomatiche sempre più fitte con paesi ricchi di risorse naturali, Africa in primis, per assicurarsi un canale preferenziale nell’acquisizione di commodites importanti come petrolio e gas naturale. A quanto pare terra e acqua sono state aggiunte alla lista della spesa

 

(Segue. Leggi qui la prima parte)

 

L’AUMENTO DELLE IMPORTAZIONI DI GRANO – Ad oggi la Cina produce 578 milioni di tonnellate di grano (riso, mais, soia e frumento) all’anno, che rappresentano il 90% della domanda interna e dispone di abbondanti riserve sia a livello nazionale che locale. E’ molto difficile, pertanto, che Pechino si trovi ad affrontare una crisi alimentare nel prossimo futuro. Tuttavia è anche vero che negli ultimi dieci anni il Governo ha dovuto ridurre considerevolmente il target di autosufficienza, tradizionalmente posto al 95% del fabbisogno nazionale. Le riserve dei granai sono diminuite, soprattutto al Nord, e le importazioni sono più che raddoppiate passando da 23 a 59 milioni di tonnellate tra il 2001 e 2011. Un campanello d’allarme per le alte sfere di Piazza Tien An Men, che potrebbe avere conseguenze sul piano internazionale. Da una parte un aumento della domanda Cinese di grano potrebbe avere un impatto disastroso sui prezzi internazionali, mettendo in difficoltà soprattutto i paesi poveri; dall’altra, un aumento dell’import di grano potrebbe portare ad un parziale riequilibrio della bilancia commerciale tra Cina e Stati Uniti, leader mondiale nel grano, rendendo così l’abbraccio tra le due economie sempre più serrato.

 

LA SOIA – Per capire meglio di cosa stiamo parlando bisogna dare un’occhiata alla composizione dell’import agricolo cinese e ai suoi potenziali fornitori. La Cina è completamente autosufficiente nella produzione di riso, che viene consumato direttamente dalla popolazione, mentre il 90% delle sue importazioni consiste in soia, principalmente utilizzata per la produzione di carne, specialmente maiale. Di fatto, la composizione dei consumi interni cinesi sta cambiando velocemente a seguito dell’aumento dei redditi: il consumo di carne è aumentato vertiginosamente negli ultimi 10 anni passando da 19 a 53 kg pro capite tra il 1999 e il 2011. Questo si traduce direttamente in un aumento delle importazioni di soia. Ad oggi l’offerta mondiale dei soia sul mercato internazionale (primi 20 paesi esportatori) si aggira intorno a 95 milioni di tonnellate, di cui la Cina importa da sola circa 57 milioni, più metà delle quali dagli Stati Uniti. Se la Cina dovesse portare il suo consumo di carne ai livelli degli Stati Uniti (122 kg pro capite l’anno), o anche solo di Taiwan (74 kg), e allo stesso tempo fronteggiare una sostanziale diminuzione della produzione agricola interna, non è difficile prevedere una forte pressione sul prezzo internazionale della soia. Già nel 1995, Lester Brown nel suo libro “Who will feed China” evocò la possibilità che l’aumento dei redditi pro capite spingesse la domanda di cibo a livelli non sostenibili per il sistema agricolo globale e che la Cina potesse trovarsi nel 2025-30 con un deficit alimentare pari a 340 milioni di tonnellate di grano (due terzi della produzione corrente). Nonostante le previsioni di Brown siano sono state smentite dai dati degli ultimi quindici anni, la crescente scarsità di acqua e terra per l’agricoltura potrebbe però convalidare le sue stime da qui al 2030.

 

LE SOLUZIONI – Finora il Governo ha cercato di colmare i crescenti deficit della produzione di grano attraverso un mix di politiche interne e una graduale estensione del target di autosufficienza da 95 a 90%. Il Partito ha cercato di riformare il mercato dell’acqua, migliorandone l’allocazione tra i settori economici e aumentandone il prezzo, in modo tale da evitare sprechi (60% delle risorse idriche è destinato all’irrigazione, ma solo il 40% arriva effettivamente alle piante). Tuttavia queste iniziative continuano a incontrare forti resistenze a livello locale, poiché l’acqua è vista come un bene libero.

Si stima che, portando l’import al 15% della domanda, usando le falde acquifere rimaste e favorendo un’utilizzazione più razionale dei corsi d’acqua superficiali, la situazione possa ancora reggere per quindici vent’anni prima che la Cina si trovi effettivamente in una situazione di crisi. Nel frattempo il governo cerca strategie alternative e guarda oltre i suoi confini. E’ così che allo shopping internazionale di risorse naturali si aggiungono anche terra e acqua, che vengono cercate nei paesi che ne hanno in abbondanza. L’Argentina, ad esempio è in procinto di affittare a Pechino circa 300.000 ettari (0,2% del territorio coltivabile cinese) per la produzione di soia diretta al mercato cinese. Una soluzione più che conveniente per il Dragone, che può così sfruttare e inquinare il territorio come meglio crede senza poi sostenerne i costi ambientali. La stessa cosa sta succedendo in Africa e nel Sudest Asiatico. C’è chi sostiene che con il tempo le abitudini alimentari cinesi si modificheranno verso diete a più basso contenuto proteico, ma la crescente tendenza al consumismo a tutti i livelli sociali e il tasso di obesità tra i bambini (più del 15%) non fanno sperare per il meglio.

 

Valeria Giacomin

La quinta potenza del mondo?

Da Salta (Argentina) – L’accordo per l’entrata del Venezuela nel Mercosur, dopo la sospensione del Paraguay come membro permanente a seguito del “Golpe Parlamentare” ai danni di Fernando Lugo, ha avuto e avrà un impatto sempre più grande nelle relazioni geo: economiche, politiche e strategiche. Non solo per gli equilibri regionali

 

LA CAUSA – Il “clima” generalizzato d’instabilità e insicurezza. E’ questo da alcuni anni il nuovo protagonista della politica sudamericana. Un termine politically correct per decifrare la pressione esercitata da gruppi oligarchici che si oppongono all’avanzata progressista e riformatrice impulsata dal giro izquierdista assunto da numerosi governi della regione. Lo stesso “clima” che ha portato alla destituzione di Fernando Lugo in Paraguay il 22 giugno scorso. Un crampo democratico, non una crisi, dal momento che il Golpe è stato istituzionale. Neogolpismo, Golpe Costituzionale o ancora Golpe Parlamentare. Clarín, Pagina 12, le Monde diplomatique, El País. Dalle colonne di tutto il mondo numerosi giornalisti si sono sbizzarriti nel trovare un’appropriata definizione capace di identificare una nuova prassi politica che ha già diversi precedenti storici nella destituzione di Jean-Bertrand Aristide ad Haiti nel 2004, di Zelaya in Honduras nel 2009, e appunto di Lugo in Paraguay nel 2012. Ci hanno provato anche in Venezuela nel 2002 e ancora in Ecuador e in Bolivia nel 2008. Ma Chávez, Correa e Morales godono di ben altra caratura popolare nei rispettivi paesi. Aldilà dei risultati, l’ossimoro resta. Come può definirsi legale una manovra che seppur rispettando i due terzi di un dettame costituzionale, manca della prevista approvazione del popolo quale passaggio fondamentale per acquisire legittimità democratica? Senza dimenticare la velocità fulminea con cui il Parlamento paraguaiano ha messo in atto il meccanismo del “giudizio politico”, con la concessione di appena qualche ora di tempo all’ormai ex presidente per preparare la difesa.

 

L’EFFETTO – Con altrettanta rapidità si è mosso l’intero blocco dei paesi sudamericani, invitati a Mendoza da Cristina Fernández de Kirchner per una sessione straordinaria del Mercosur e dell’Unasur, al fine di stabilire una posizione congiunta nei confronti del nuovo Governo di Franco ed evitare soprattutto un contagio neogolpista. La decisione più importante presa di comune accordo lo scorso 29 giugno durante l’Assemblea del Mercosur, è stata la sospensione immediata del Paraguay dall’organismo fino al prossimo voto elettorale democraticamente scelto. Una volta passato formalmente il testimone della presidenza pro-tempore alla brasiliana Dilma Rousseff, subito dopo la chiusura dell’organo la Presidenta argentina ha inaugurato i lavori dell’Unasur, nella quale si è di fatto legittimata la decisione presa qualche ora prima con il benestare stavolta di tutti i paesi latinoamericani, uniti soprattutto nel momento di valutare la lucida osservazione dell’uruguaiano Mujica circa la non volontà d’infierire con l’adozione di sanzioni economiche che potrebbero colpire direttamente la popolazione paraguaiana. Così come sottolineato dal giornalista Federico Vázquez su “le Monde diplomatique”, l’effetto principale del Golpe in Paraguay è stato una profonda destrutturazione degli spazi regionali, con un organismo economico come il Mercosur che prende decisioni politiche e una Unasur che al contempo approva misure economiche. Uno scambio di ruoli quello avvenuto a Mendoza che ha permesso di ridiscutere l’entrata del Venezuela come membro a pieno titolo del Mercosur. Un passaggio storico ratificato dopo anni di veto paraguaiano il 31 luglio a Brasilia.

 

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LE CONSEGUENZE – Argentina, Brasile e Venezuela insieme, mitigate dalla leadership silenziosa dell’Uruguay, ossia i tre quarti dell’intero PIL sudamericano. Una unione che trasforma, quantomeno virtualmente, il Mercosur nella quinta potenza economica mondiale dietro Stati Uniti, Cina, India e Giappone, davanti alla Germania, diventando in tal modo l’area con la più grande riserva di petrolio e acqua dolce al mondo, una delle più grandi di gas, il primo produttore alimentario del pianeta e l’area più ricca in biodiversità. Un rafforzamento quanti-qualitativo che assume una dimensione ancor più considerevole se si tengono in conto i rapporti privilegiati che Pechino mantiene ormai da tempo con Buenos Aires, Brasilia e Caracas. Tra le prime iniziative avanzate dal nuovo blocco è stato varato un piano di armonizzazione legislativa volto a integrare i meccanismi economico-industriali innescati dall’accordo, finalizzato alla creazione di risorse future da convertire successivamente nel settore pubblico. Il Nuovo Codice Doganale del Mercosur prevede infatti un maggiore interventismo statale realizzato attraverso un controllo dell’import-export da parte dei paesi membri. Tradotto: maggiori restrizioni sulle importazioni che renderebbe più difficile il libero commercio, il che ha fatto gridare al “protezionismo populista” la sempre più fragile Unione Europea. Come pronta risposta Dilma Rousseff, nell’ultima Assemblea Generale dell’ONU, ha difeso con vigore il diritto dei paesi emergenti a difendersi dal contagio della crisi. Nel frattempo, dopo gli accordi commerciali stipulati dal Perù e dalla Colombia proprio con l’UE e gli USA, la Comunità Andina appare sempre più disgregata, mentre già l’Uruguay ha manifestato l’intenzione di voler proporre  nel 2013 l’ulteriore integrazione della Bolivia nel Mercosur durante il proprio periodo di presidenza pro-tempore. Dal canto suo il Paraguay ha fatto sapere di non riconoscere l’annessione venezuelana, ironizzando sul fatto che l’organismo regionale abbia cambiato un partner povero con uno ricco, dando l’autorizzazione agli Stati Uniti per la costruzione di una nuova base militare sul territorio, ufficialmente per garantire un maggiore controllo nella lotta al narcotraffico. Mentre le strategie si ridefiniscono e la crisi avanza, rimane il fatto che ad oggi la regione si sia ricompattata dal Caribe alla Patagonia come mai prima nella storia.

 

E L’ARGENTINA? – Con il Brasile è previsto un importante accordo di collaborazione per lo scambio di tecnologie al fine di promuovere il know how locale e incentivare così la produzione nazionale. Diversa invece è la situazione al confine uruguagio. A minare la serenità dei rapporti diplomatici è la mancata intesa sull’esclusione dell’impresa olandese Riovía dai lavori di drenaggio del canale Martín García per la sua confluenza nel Río de la Plata. In questo caso, data l’estrema importanza per il Porto di Montevideo del lavoro svolto dall’azienda europea, la prudenza del Presidente Mujica appare alquanto comprensibile rispetto alla possibilità di tagliare “ypfenianamente” la presenza di Riovía nel canale. Senza dubbio però la novità più grossa sembra essere l’alleanza strategica raggiunta con il Venezuela per la “sovranità energetica”. Con una dichiarazione bilaterale di cooperazione è stata infatti accordata da un lato l’incorporazione della YPF per i lavori di estrazione petrolifera nella falla dell’Orinoco in Venezuela, dall’altro il coinvolgimento diretto della PDVSA ai prossimi progetti di estrazione previsti in Argentina. Delle misure capaci di moltiplicare sensibilmente il potenziale del paese australe, che il 3 agosto ha inoltre effettuato l’ultimo pagamento di circa 2,3 miliardi di dollari al FMI, rimborsando così dopo dieci anni circa il 92,4% di quegli oltre 100 miliardi di dollari sui debiti esteri che avevano causato il default del 2001. E sebbene il malcontento interno talvolta ingiustificato continui ad attanagliare i sogni della Presidenta Kirchner, qualcuno per tentazione, o per l’ovvia necessità di aggiungere una vocale, già comincia a parlare di BRICSA.

 

(Da Salta)

Piano delle pubblicazioni

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Programma delle pubblicazioni

I titoli degli articoli saranno aggiornati nel corso delle pubblicazioni.

Leggi la presentazione del progetto nell’editoriale di Alberto Rossi

L’era di Obama: 2008-2012, introduzione alla politica estera e a quella interna Cosa è successo durante il primo mandato di Obama? Tra Occupy Wall Street, riforme, Bin Laden, quali strategie e tattiche ha messo in campo il Presidente? di Esther Leibel e Davide Colombo

  • Esteri – Obama, nessuno, centomila (parte I) – parte II
  • Interni – Rimandato a novembre Parte I – Parte II

La campagna elettorale 2012 Come viene eletto un Presidente? Qual è il credo politico americano? Come votano i diversi gruppi etnici e chi finanzia le elezioni? Quali sono le differenze tra Repubblicani e Democratici? di Manuela Travaglianti, Esther Leibel e Davide Colombo

  • Vi votiamo così (Struttura e filosofia del sistema americano)
  • Focus sulla politica interna – Per un pugno di voti
  • Focus sulla politica estera – Cinquanta (e più) sfumature di grigio

Note biografiche sui protagonisti

di Manuela Travaglianti

  • Due cuori e una Casa Bianca

And the winner is…? Guardiamo ai risultati del voto: cosa attendersi per i prossimi quattro anni? di Manuela Travaglianti

  • A cosa vanno incontro gli USA e quali conseguenze per il resto del mondo?

Speciale a cura di Manuela Travaglianti

Il nostro team: Manuela Travaglianti è dottoranda in Science Politiche presso la New York University, USA, dopo aver conseguito laurea magistrale e specialistica presso l’Università di Catania. Si occupa di violenza elettorale, politiche etniche, guerre civili e attività di peace-building in Africa. Ha svolto diversi mesi di ricerca sul campo in Burundi dove è anche stata osservatrice elettorale nel 2010. Dopo quattro anni a New York ed una parentesi semestrale a Los Angeles, è basata a Berkeley in California, ed ha collaborato come consulente politica con il Center for International Cooperation a New York.

Web: https://files.nyu.edu/mt1438/public/

Esther Leibel sta conseguendo un Ph.D. in Management alla New York University Stern School of Business. I suoi interessi di ricerca sono nell’area di corporate sustainability, microfinance, e responsabilità sociale d’impresa. A New York, ha collaborato con il Corriere della Sera in veste di assistente editoriale. Prima di trasferirsi in America, ha lavorato per cinque anni a Roma come consulente aziendale.

Davide Colombo ha seguito studi scientifici al liceo e si è laureato in Relazioni Internazionali all’Università Cattolica con una tesi sulla politica mediterranea e la questione energetica. Ha conseguito il Master in Diplomacy all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. Ha varie sfere di interesse, in particolare la politica americana, le questioni energetiche e quelle relative al quadrante centroasiatico.

Obama, nessuno, centomila (I)

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Un Caffè americano – Un tattico, uno stratega, un progressista pragmatico, un Nobel per la pace o più semplicemente il presidente della prima potenza mondiale, Obama in questi quattro anni si è districato tra sfide difficili, promesse da mantenere e un’immagine da salvaguardare. Dove e come ha guidato gli USA nelle scelte di politica estera

 

IN & OUT – Nel valutare la proiezione della potenza americana verso il mondo degli ultimi quattro anni, è necessario tenere conto dell’impostazione che Obama avrebbe voluto dare alla sua amministrazione, delle promesse fatte agli elettori americani e di come la realtà delle relazioni internazionali abbia modificato l’atteggiamento degli Stati Uniti nell’ultimo mandato presidenziale. Le convinzioni strategiche di Obama, al momento del suo insediamento, sono state sintetizzate molto bene sul The New Yorker da Ben Rhodes (speechwriter di Obama per la politica estera) in tre punti: la prima convinzione era la stretta connessione che la politica domestica, in particolare quella economica, dovesse avere con la politica estera e di sicurezza nazionale; la seconda era l’idea che gli Stati Uniti fossero impegnati con uomini e risorse nei posti sbagliati; l’ultima era l’opinione che l’amministrazione precedente avesse portato la reputazione internazionale degli Stati Uniti ai minimi storici. Sostanzialmente Obama, con slogan evocativi come hope e change, aveva promesso agli elettori di ridare prestigio agli USA, terminare le guerre iniziate dal suo predecessore, chiudere Guantanamo, intavolare il processo di pace in Medio Oriente e vincere la guerra al terrore. Il ritiro delle truppe dall’Iraq è stato un successo politico e mediatico della presidenza Obama, nonostante sia stato un continuum nel processo occupazione-ricostruzione-ritiro prevista già da Bush. Inoltre a ciò è corrisposto l’invio di ulteriori trentamila soldati in territorio afgano, dove la fine dell’occupazione militare vera e propria è prevista per il 2014. Altra promessa che può dirsi mantenuta è una svolta nella guerra al terrore: l’uccisione, nel maggio 2011, di Osama bin Laden ha ridato popolarità a un presidente in forte calo di consensi. Inoltre l’incremento dell’utilizzo dei “droni ha permesso l’eliminazione di diversi gruppi riconducibili ad al-Qaeda e ad altre cellule terroristiche, ad un minor costo in termini di risorse e di personale militare. Basti pensare che durante l’era Bush gli attacchi degli aerei manovrati a distanza erano uno ogni quaranta giorni, con Obama questo tipo di incursione è salito a un attacco ogni quattro giorni. Più difficile da spiegare agli elettori sono altri due aspetti: uno è la mancata chiusura della base di detenzione di Guantanamo, dovuta sia ad opportunità politica (non perdere il “grande centro” elettorale conquistato dai democratici nel 2008) sia per la difficoltà di chiarire lo status giuridico dei prigionieri; l’altro è il completo fallimento di ripresa del processo di pace in Palestina. Complessivamente, nel modo di affrontare le relazioni internazionali, il presidente Obama è stato definito un “pragmatico” e di esercitare la sua leadership “from behind” (“da una posizione di retroguardia”). Il professor Drezner, in un aricolo su Foreign Affairs, ha sintetizzato la grand strategy obamiana nelle espressioni multilateral retrenchment, condividere costi e oneri politici con gli alleati, e counterpunching, riaffermare l’influenza e i valori americani solo dove minacciati.

 

VICINO E MEDIO ORIENTE – Il discorso di Obama a Il Cairo del giugno 2009 avrebbe dovuto porre le basi per una nuova immagine americana, amica dei popoli musulmani. In un certo senso, voci importanti dell’amministrazione sostengono che la primavera araba abbia proprio avuto il “benestare” americano in quell’occasione. È nel Mediterraneo e nell’area mediorientale che i cambiamenti della politica americana sono apparsi più visibili. L’appoggio politico ai movimenti insurrezionali, a discapito di regimi stabili (di solito militari) da sempre ritenuti da Washington una risorsa, è stata un’innovazione nella politica estera statunitense (si guardi soprattutto all’Egitto, o alla Tunisia per esempio). Il fatto di non volere intervenire in prima linea nell’operazione Odissey Dawn in Libia, fornendo solo supporto logistico e militare e lasciando l’onere politico a Francia e Regno Unito, ha ribaltato la concezione della leadership americana dell’era Bush. Il concetto di leading from behind (o multilateral retrenchment) ha radici politiche e di immagine pubblica (in continuità con il discorso al Cairo) ed economiche. Infatti i dispendiosi impegni precedenti, in Afghanistan e in Iraq, non sarebbero stati replicabili in Libia, per via dell’ammontare del debito pubblico americano (ora  oltre i 16 mila miliardi di dollari) e per i tagli al budget della Difesa (di quasi il 20% nei prossimi dieci anni, secondo l’Economist).  Lo stesso vale per il caso siriano, dove ad esporsi sono gli alleati americani più direttamente coinvolti nel processo di transizione (Turchia, Qatar e Arabia Saudita), con gli americani in posizione di retroguardia. Anche i rapporti con Israele hanno avuto un cambio di rotta, rispetto all’appoggio incondizionato del presidente Bush. Nel 2010, il presidente Obama aveva dichiarato all’Assemblea Generale dell’ONU che entro un anno si sarebbe vista la nascita di uno Stato palestinese, nel maggio 2011 affermava che lo Stato israeliano dovesse tornare ai confini del 1967. Oltre alle dichiarazioni pubbliche, la gestione del processo di pace in Palestina non è però stata portata avanti, restando una promessa non mantenuta dall’attuale amministrazione, pur se condizionata dalla delicata situazione in Egitto e in Siria. Inoltre i rapporti con l’alleato israeliano rimangono abbastanza tesi soprattutto per il dossier Iran. Obama ha temporeggiato il più possibile per non dover affrontare la questione delle dotazioni atomiche iraniane, prima delle elezioni di novembre, rifiutando anche di incontrare “l’amico Bibi” in forma privata durante le consultazioni ONU a New York.

 

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IL QUADRANTE AF-PAK – Dilatando il quadrante mediorientale si arriva alla spinosa questione afgana, che ha occupato spesso i pensieri e l’agenda del Dipartimento di Stato. Nonostante l’accordo degli Stati Uniti con gli alleati nella missione ISAF, per concordare una exit strategy, la meno dolorosa possibile, la situazione sembra tutt’altro che risolta. Nel maggio 2012, durante la Conferenza di Chicago, è stata confermata la data del 2014 come punto di svolta della missione. È stato, così, rafforzato il cosiddetto “processo di Kabul” (iniziato nel 2010), che complessivamente si occupa di diversi temi tra cui economia e questioni sociali, ma soprattutto determina il passaggio di responsabilità della sicurezza del Paese alle forze locali. Il compito principale delle forze sul campo è quello di affiancare e addestrare i militari e gli agenti di polizia afghani (circa il 95% delle unità afghane è stato affiancato da forze della coalizione). In questo momento, il programma è stato però sospeso con urgenza, visto i numerosi attentati alle forze americane e alleate. La maggior parte delle vittime è causata da poliziotti o soldati afghani infiltrati (a causa delle falle nel sistema di reclutamento) o passati con i talebani, che colgono di sorpresa addestratori o entrano facilmente nelle basi compiendo attentati sanguinari (cosiddetti attacchi green on blue). La paura di infiltrazioni terroristiche è tale che anche il plotone cerimoniale che accoglie le delegazioni a colloquio con Karzai ha in dotazione fucili scarichi.

 

ALTALENA PAKISTAN – Diversi analisti sostengono che del quadrante Af-Pak sia però il Pakistan l’elemento fondamentale. Infatti se la dotazione nucleare di Teheran è solo una possibilità, quella pakistana è reale e conta diverse testate atomiche. Il rapporto tra Washington e Islamabad è però altalenante. Durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan si era venuta a creare un’alleanza strategica e un flusso di dollari dagli Stati Uniti, tutto a favore della classe dirigente pakistana. Tale flusso si era completamente interrotto durante gli anni Novanta per poi riprendere vigorosamente dal 2001 in avanti. Per questo motivo si capisce la volontà del Pakistan di non cercare una soluzione definitiva per la questione afghana, che comporterebbe sicuramente una nuova interruzione degli aiuti economici americani. Questa titubanza del governo pakistano si riflette sulla politica americana verso Islamabad. Il presidente Obama ha aumentato notevolmente le incursioni dei droni e i bombardamenti nelle aree tribali e in Waziristan settentrionale e meridionale, zone insediate da numerose cellule terroristiche. Non ha cercato però intese con il Pakistan su operazioni delle squadre speciali ad alto impatto mediatico, come quella che, nel maggio 2011, ha portato all’uccisione di Osama bin Laden nel villaggio di Abbottabad, provocando un senso di umiliazione agli apparati di sicurezza pakistani, sfociato poi in proteste e manifestazioni anti-americane. A minacciare maggiormente i delicati rapporti tra USA e Pakistan è anche l’intensificarsi delle buone relazioni tra Stati Uniti e India, soprattutto dal momento in cui Nuova Delhi ha iniziato ad interessarsi attivamente alla stabilizzazione dell’Afghanistan. L’India potrebbe rivelarsi molto utile alla causa americana, non solo per riequilibrare le forze nel quadrante Af-Pak, ma anche per una politica di contenimento delle mire cinesi.

 

(I. continua)

 

Tra presente e futuro (II)

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Seconda parte dell'analisi dedicata alla nascita dell'Unione eurasiatica che dovrebbe concretizzarsi entro il 2015. Alcuni stati ne entreranno a pieno titolo, altri invece tentennano, come l'Ucraina o peggio rimangono ostili, come la Georgia. Perché dal Cremlino tanta attrazione per le due? E quali prospettive per l'integrazione, alla luce delle imminenti elezioni parlamentari ucraine e del recente scossone politico georgiano?

(Segue. Rileggi qui la prima parte)

L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI UCRAINA – L'ingresso di Kiev nell'Unione eurasiatica risulta nodale per soddisfare le brame di Mosca. Come per la Bielorussia, gli interessi che muovono il Cremlino sono non solo di carattere politico ma anche di tipo culturale, economico e militare. Legata a Mosca dalla presenza di una consistente minoranza russa, l'Ucraina la scorsa estate ha accorciato le distanze, rendendo il russo lingua ufficiale in 13 regioni dello Stato. Il legame tra le due ex sovietiche, risulta ancor più rafforzato dai rapporti commerciali tra Ucraina e numerosi oligarchi russi e dalla dipendenza energetica di Kiev che, nell'eventualità di tensioni con Mosca, rischia la chiusura dei rubinetti, come accaduto nel gennaio 2009. Inoltre, l'influenza della Russia si fa sentire anche nell'ambito della sicurezza e della difesa, grazie alla collaborazione dell'intelligence russo-ucraina e alla presenza della Flotta del Mar Nero, fino al 2042, nel porto di Sebastopoli.

IMMENSAMENTE JULIJA – Il versante politico, più controverso di quello bielorusso, è cruciale per i piani del Cremlino. Dopo lo spauracchio europeo, agitato dall'ex presidente Viktor Yuschenko e dall'ex primo ministro Julija Timoshenko, la barra dell'Ucraina orientata ad ovest ha subito una brusca virata. In favore di Mosca sono arrivate l'elezione nel 2010 del presidente filo-russo Viktor Yanukovich, il no del parlamento ucraino all'ingresso di Kiev nella Nato e la giustizia settaria del Paese ai danni della Timoshenko, accusata d'aver stretto con il Cremlino un accordo sul prezzo del gas svantaggioso per l'Ucraina.

La condanna della Timoshenko per abuso di potere ha portato allo stallo dei negoziati tra Ue e Kiev, ma non ha ammorbidito la linea di Mosca, conscia d'avere la situazione in pugno. Yanukovich ha subito lo scotto della sentenza incartandosi praticamente su se stesso. Da Bruxelles porte sbarrate e da Mosca, al momento, nessun accordo per un prezzo del gas più favorevole. All'Ucraina probabilmente, per ottenere condizioni commerciali più vantaggiose, non resta che pensare seriamente all'integrazione nell'Unione eurasiatica. E le elezioni parlamentari del 28 ottobre, nonostante le esortazioni della Timoshenko alla ribellione, non prospettano particolari mutamenti politici in grado di rimescolare le carte.

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IL PESO GEOPOLITICO DELLA GEORGIA – Calato il gelo tra Russia e Georgia dopo la guerra lampo dell'agosto 2008, che vide in campo le truppe russe a sostegno delle autoproclamate repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud, a partire da novembre dello scorso anno, per volere del presidente georgiano Michail Saakashvili, ci sono stati i primi segnali di distensione. Segnali che però non bastano ad acquietare l'insofferenza di Mosca verso una Georgia sempre più filo-occidentale. Infatti, per Putin rimane impensabile che Tiblisi, posizionata in una regione geopoliticamente strategica come quella del Caucaso – storicamente caratterizzata dall'influenza moscovita e militarmente compresa nella Csto – possa finire sotto l'egida occidentale della Nato. Inoltre, la Georgia, riveste un ruolo importante nello sfruttamento delle risorse del Mar Caspio grazie alla gestione, congiuntamente a Turchia e Azerbaijan, dell’oleodotto BTC e del gasdotto South Caucasus Pipeline.  

SOGNO O SON DESTO – Intanto Saakashvili, con le elezioni parlamentari dello scorso primo ottobre, ha segnato un clamoroso autogoal. Infatti, la vittoria è andata a Sogno georgiano, il partito del magnate filo-russo Bidzina Ivanishvili, con il 55 per cento dei voti, contro il 40,3 del Movimento nazionale unito guidato dal presidente. Il parlamento, controllato dalla coalizione di Ivanishvili, eleggerà il primo ministro che grazie alla riforma costituzionale, a partire dal 2013, deterrà molti dei poteri oggi affidati al capo dello Stato. Saakashvili, che tra un anno dovrà abbandonare la poltrona da presidente perché al suo secondo mandato, sperava in una staffetta "alla Putin". Ma evidentemente i suoi piani sono stati stravolti, prospettando così per Mosca uno scenario sicuramente più favorevole. Maria Paterno [email protected]

Oltre i confini del mondo

Economia internazionale e venti di guerra orientali, questo sembra essere il ritornello della settimana che ci attende tra meeting internazionali e tensioni di frontiera in tutto il mondo. La vecchia Europa continua a fare i conti con se stessa e con la crisi che attanaglia l’unità politica mentre due rush elettorali tengono le Americhe sul filo di lana. Nemmeno l’autunno sembra in grado di mitigare le fiamme di un panorama internazionale che brucia ormai da tempo

 

EUROPA

Lunedì 8-Martedì 9 – In un evento tanto unico quanto raro, la Federal Bank e la Banca Centrale Europea si ritrovano nell’atmosfera formale di Francoforte in una conferenza stampa congiunta a proposito delle risposte al perdurare della crisi globale. I “governatori” dei destini economici delle due sponde dell’Atlantico saranno incalzati non solo dalla folla mediatica ma anche dalle numerose multinazionali della finanza invitate ufficialmente al meeting, che si promette di connettere il mondo chiuso e asettico dell’economia mondiale e le condizioni drammatiche dell’economia reale.

Martedì 9 – Il Consiglio Europeo in formazione Economia e Finanza si riunisce nella quieta Lussemburgo per adottare delle importanti modifiche al pacchetto d’aiuti destinato al governo di Lisbona. Il nuovo accordo conterrà misure improntate alla riduzione del deficit portoghese al di sotto dellla soglia del 3% del PIL medio europeo. Il Consiglio sarà inoltre informato dell’introduzione progressiva in alcuni stati membri della tassazione sulle transazioni finanziarie, la tanto anelata “Tobin Tax” che Bruxelles non è mai riuscita imporre in maniera comunitaria. Infine ci sarà spazio per introdurre il G-20 dei Ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche Centrali che si terrà il 4-5 Novembre a Città del Messico.

Mercoledì 10 – L’Unione Europea si prepara definitivamente ad ampliare i suoi confini con l’adozione del pacchetto 2012 della politica di allargamento, incentrata sulla nuova “stella” croata ormai prossima allo stadio finale della trafila. Spazio anche per la “patata bollente” kosovara, Bruxelles è infatti pronta a firmare con Pristina un accordo di stabilizzazione per l’associazione in via formale al sistema di difesa e sicurezza europea. Restano in stallo le posizioni degli altri concorrenti per la corsa verso Bruxelles, ovvero Turchia, Serbia e Islanda, nessuno dei tre paesi sembra aver mosso passi decisivi verso l’accessione ufficiale all’UE.

 

AMERICHE

Lunedì 8 – La popolazione venezuelana e il mondo intero si stringono attorno all’ultima della serie di urne elettorali che decideranno il futuro del paese e della figura sempre più mediaticamente ingombrante di Hugo Chávez, sfidato all’ultimo voto da Henrique Capriles. In ballo c’è un prezioso mandato di 6 anni, dal 2013 al 2019 che influenzerà decisamente la politica delle altre nazioni legate strettamente a Caracas, come Cuba e l’Ecuador. Impossibile o quasi scommettere sull’esito della competizione, anche se in tali occasioni difficilmente il risultato è dettato da un esiguo numero di voti. Sia che la popolazione di votanti abbia mantenuto un’alta fedeltà nei confronti dell’erede di Bolivar, sia che sia stata relegata per anni al silenzio nonostante il dissenso, il dopo elezioni dovrà necessariamente portare il Venezuela su una nuova rotta.

CUBA – “Ho resistito e l’ho pagata cara”, con queste parole la celeberrima blogger cubana Yoani Sanchez ha descritto quello che probabilmente passerà alla storia come “el dia de twitter” nella Cuba della dinastia Castro. Grazie alla reazione di massa del popolo cibernetico della piccola isola le autorità cubane sono infatti state costrette a rilasciare la Sanchez, arrestata prima che potesse raggiungere il tribunale in cui veniva celebrato un processo contro un altro oppositore. Reinaldo Escobar, marito della blogger anch’egli detenuto per 24 ore, ha riconosciuto di essere stato trattato con il massimo rispetto dalle autorità cubane che si opponevano alla presenza della coppia pressoil tribunale locale. Rilasciati nel massimo dell’oscurità nella tarda serata di sabato, i protagonisti di questa vittoria di Pirro contro il governo cubano sono ora forti del sostegno di gran parte della popolazione.

STATI UNITI – Un po’ di umanità è quello di cui ogni candidato alle presidenziali americane ha bisogno per conquistare il cuore di un popolo ancora legatissimo alle radici d’appartenenza e alla famiglia. Proprio per questo, dopo aver vinto senza alcuna previsione favorevole il dibattito televisivo con l’uscente Obama, Mitt Romney sta iniziando, forse un po’ troppo in ritardo sulla tabella di marcia, a parlare al cuore dell’average Joe e non al suo consulente fiscale. La parabola del pastore mormone alla guida della campagna elettorale repubblicana ha comunque dell’incredibile, visto che il business man è riuscito in pochi mesi a passare dal candidato meno apprezzato dalla platea della destra americana fino a toccare con mano la vetta di consensi che Barack Obama mantiene ancora per qualche punto percentuale.

 

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ASIA

Lunedì 8 – “Soffia in direzione opposta all’America e otterrai un grande fuoco” con queste parole si potrebbe riassumere lo scopo della due giorni di sciopero in Pakistan, indetta dal rampollo e parvenu della politica Imra Khan. L’ex campione di cricket, alla guida di un convoglio di jeep verso il Waziristan del sud si era ripromesso di aizzare la protesta contro i droni statunitensi proprio nella patria dei trageted killings. “Mentre il governo di Islamabad sta conducendo proteste pro forma, Imra Khan ha mostrato al mondo che farà qualcosa di serio per fermare la mattanza”, così ha commentato l’accaduto un ex segretario di stato.

Venerdì 12-Sabato 13 – Là dove la crescita economica degli anni ’70-’80 sembra ormai una dispettosa chimera, il Giappone è pronto ad accogliere il meeting annuale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Inutile ricordare ai lettori come le tematiche d’integrazione regionale asiatica e le recenti vicissitudini relative alle dispute marittime nel Pacifico condizioneranno senza alcun dubbio il dibattito. Alla Direttrice IMF Christine Lagarde il compito di ricordare ai due giganti dell’economia dell’est il loro compito: “Cina e Giappone devono condurre il continente asiatico verso il benessere e lo sviluppo e non possono essere distratti da divisioni territoriali”.

COREA DEL SUD – Sembra l’eterno ritorno delle relazioni internazionali in Asia Orientale, ma per l’ennesima volta la tensione tra le due Coree è tornata ai massimi livelli d’attenzione. Non solo la notizia della storica quanto rara defezione di un soldato del nord verso il prospero sud a scuotere la vita quotidiana dei due governi, ma persino un nuovo accordo missilistico tra Seoul e Washington che permetterebbe al potenziale balistico coreano gittate mai permesse prima d’ora. Per quanto riguarda il fuggitivo di Pyongyang fonti governative riportano di una raffica di 6 colpi presso un posto di guardia nemico e l’insolita vista di un attraversamento della frontiera da parte di un soldato.

 

MEDIO ORIENTE

IRAN – Dopo il record ngativo storico di Martedì scorso, quando per un dollaro si potevano ottenere 37500 rial, il governo di Tehran ha imposto ora un tasso di cambio fisso a 25970 rial per USD nel tentativo di rafforzare la valuta domestica letteralmente crollata sotto il peso delle sanzioni. In realtà la reazione naturale degli uffici di cambio è stata quella di congelare qualsiasi transazione con l’intenzione di non accettare un tasso innaturale e non corrispondente alla situazione dell’economia reale. Il prezzo dei sogni di proliferazione nucleare branditi da Ahmadinejad come scopo principale dei suoi mandati presidenziali si sta rivelando più caro del previsto per l’economia locale, chissà che proprio dal mondo economico non venga l’impulso decisivo per tornare con decisione al tavolo dei negoziati.

SIRIA – La partita che il governo di Damasco sta giocando sul fronte nord-occidentale è un gioco al massacro che potrebbe rivelarsi fatale per la propria sopravvivenza, le continue violazioni della sovranità turca tramite lanci di razzi e invasioni di territorio hanno portato al limite la pazienza di Ankara che richiede con forza l’intervento Nato. La sensazione è che la polveriera al confine con la guerra civile che da troppo tempo infesta la Siria sia sul punto di investire tutto il vicinato mediorientale. Con i ribelli lasciati senza rifornimenti e aiuti dal mondo occidentale e a ruota da quello arabo e il governo di Damasco a godersi il dominio incontrastato dell’aria, il coinvolgimento della Turchia diventa ora per i ribelli la speranza più vicina, nonostante il rischio di accendere una miccia collegata a chissà quanti ordigni.

ISRAELE – Che cosa ci fa un drone non indentificato sopra i cieli del torrido deserto del Negev? Forse è proprio questa la domanda retorica che non si è posto l’autore dell’abbattimento di un UAV che violava lo spazio aereo israeliano in un’area poco lontana dal famigereato centro di ricerca nucleare in cui Gerusalemme è sospettata di nascondere il suo arsenale anti-Armageddon. Secondo il Generale dell’esercito libanese Hisham Jaber ai microfoni di Al Arabiya “l’unica soluzione dell’enigma è che il drone sia effettivamente partito da una base americana in Arabia Saudita o da una delle portaerei nel Golfo o nel Mediterraneo”. Gli alti e bassi tra Washington e Israele sul fascicolo Iran potrebbero anche confermare una storia già sospetta in partenza, risolta pero in maniera pulita ed efficace dal Minsitro della Difesa Ehud Barak:“Abbiamo visto la minaccia al nostro spazio aereo e abbiamo bilanciato la nostra risposta a tale minaccia”.

 

Fabio Stella

La fame del Dragone distrugge l’ambiente (I)

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La sicurezza nell’approvvigionamento delle risorse naturali è sempre stata un pilastro della politica cinese. Tuttavia l’autosufficienza nel grano, tradizionalmente cara al Partito Comunista, rappresenta oggi una sfida: alla crescente domanda di cibo si contrappone una preoccupante contrazione di acqua e di terra coltivabile. L’eccessivo sfruttamento di queste risorse e l’industrializzazione accelerata degli ultimi decenni hanno generato gravi problemi ambientali

 

UN PO’ DI STORIA – I nonni dei giovani “i-Phone dipendenti” di oggi ben ricordano la Grande Carestia provocata dal fallimento del “Grande Balzo in Avanti”, la riforma agraria lanciata da Mao che fece morire di fame più di 30 milioni di persone tra il 1958-1961. Tempi migliori arrivarono con la liberalizzazione del mercato agricolo promossa da Deng Xiaoping nel 1978, attraverso l’Household Responsability System (HRS), che diede il via alla Green Revolution. Grazie all’HRS e l’introduzione di numerose innovazioni (fertilizzanti chimici e nuove varietà di semi), la produzione di grano si attestò a 400 kg pro capite, 100 kg oltre la soglia individuale di sopravvivenza. Il grano in eccesso permise la crescita dell’allevamento e l’introduzione della carne nella dieta della popolazione.

 

LA SPECIALIZZAZIONE –  Dai primi anni ’90, quando Deng ribadiva l’importanza dell’autosufficienza nel grano, la popolazione cinese è aumentata di circa 200 milioni di persone e il reddito medio annuo è salito da 350 a 4,940 US$ tra il 1990 e il 2011. Questi sviluppi hanno dato una forte spinta non solo alla domanda di cibo, ma anche a quella di terra edificabile e di acqua per uso domestico, che sono state progressivamente sottratte all’agricoltura.

Nel frattempo la produzione di grano per ettaro è gradualmente aumentata in accordo con l’obiettivo dell’autosufficienza. Ciò è stato possibile grazie alla specializzazione nelle colture di mais e frumento nelle provincie del Nord, mentre il Sud si concentrava sul settore industriale.

Le province settentrionali, che oggi producono più del 50% del grano cinese, hanno subito uno sfruttamento intensivo mediante la moltiplicazione dei raccolti annuali e l’applicazione di ingenti quantità di fertilizzanti chimici. Il Governo ha favorito questa “migrazione del grano verso Nord”, sottovalutando l’aridità dell’area, che dispone soltanto del 20% delle risorse acquifere nazionali e registra un decimo delle precipitazioni rispetto al Sud.

Il problema della scarsità dell’acqua è stato affrontato tradizionalmente aumentando la superficie irrigata e sfruttando le falde acquifere sotterranee. Se inizialmente questo ha permesso alla Cina di sostenere la produzione di grano senza aumentare troppo le importazioni, nel corso del tempo sono emerse enormi difficoltà che rischiano di minacciare non solo l’autosufficienza, ma anche l’equilibrio ambientale del Nord.

 

I PROBLEMI DEL NORD – Numerosi studi, oggi supportati anche dai dati ufficiali cinesi, dimostrano che la maggior parte dei terreni coltivati è affetta da erosione a causa dell’eccessivo sfruttamento e dell’impiego massiccio di fertilizzanti, ormai incapaci di aumentare la resa dei terreni. A questo si aggiunge la scarsità di acqua, che irrigazione e fertilizzanti rendono sempre più necessaria.

I bacini fluviali del Nord vengono utilizzati al 90% della loro capacità, quando uno sfruttamento razionale dovrebbe limitarsi al 40%. Il Fiume Giallo nel 1997 si è prosciugato prima di arrivare alla foce, e in alcune zone va in secca più volte l’anno durante i periodi di siccità. Sempre più acqua viene utilizzata per fini domestici o industriali a scapito della produzione agricola, a cui si è provveduto depredando le falde acquifere. Nel corso degli anni molte delle falde del Nord hanno registrato un preoccupante declino, tanto che secondo alcuni studiosi Shanghai e Pechino stanno “sprofondando” circa un metro all’anno.

Ancora più allarmanti, tuttavia, sono i dati relativi all’inquinamento: quasi tutti i bacini fluviali del Nord registrano livelli di inquinamento di IV e V grado, che significa che l’acqua non è adatta per l’uso domestico. Anche se il tasso dei rifiuti scaricati nell’acqua da centri urbani e complessi industriali è inferiore rispetto al Sud, il fatto che le risorse idriche siano così limitate fa schizzare la concentrazione di veleni, rendendo l’acqua vero e proprio liquame.  Le falde acquifere non sono risparmiate dalla contaminazione poiché per la maggior parte sono alimentate da infiltrazioni provenienti dalla superficie e dalle precipitazioni, che spesso sono a loro volta inquinate dalle emissioni industriali (piogge acide).

Quest’acqua infetta viene in parte utilizzata per irrigare. Secondo uno studio di C. Elizabeth pubblicato su Foreign Affairs nel 2007, in Cina 700 milioni di persone (metà della popolazione) bevono acqua contaminata da rifiuti umani o animali, circa il 3% del grano prodotto contiene metalli pesanti assorbiti dal suolo e i casi di tumori all’intestino e allo stomaco sono aumentati ad un ritmo impressionante negli ultimi 10 anni.

(I. continua)

 

Valeria Giacomin