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Parole, fatti e volti nuovi

Il Mali chiede alla Corte penale internazionale un’indagine sui crimini commessi nell’Azawad, dove, nel frattempo, gli islamisti di Monoteismo e Jihad per l’Africa occidentale stanno sostituendo tuareg e Ansar Dine. Lungo il corso del Niger, infine, è arrivato il colera. Nkosazana Dlamini-Zuma, sudafricana, è la nuova Presidente della Commissione dell’Unione Africana. Salva Kiir e Omar al-Bashir si sono incontrati ad Addis Abeba, mentre in Sudan continuano le proteste contro l’austerità. La Somalia saluta con orgoglio i due atleti in partenza per le Olimpiadi, e negli stessi giorni si approva la bozza di Costituzione. E poi armi, foreste e AIDS

 

IL MALI SI RIVOLGE ALL’AIA – Il Governo di Bamako si è rivolto alla Corte penale internazionale per sollecitare il procuratore, la gambiana Fatou Bensouda, a investigare in merito a eventuali violazioni del diritto internazionale nell’autoproclamatosi Azawad. La delegazione del Mali, guidata dal ministro della Giustizia, Malick Coulibaly, ha confermato la richiesta del Gruppo di Contatto dell’ECOWAS, avanzata nelle scorse settimane. Da parte sua, il procuratore ha comunicato «di aver già avvertito, il 24 aprile, tutte le parti in causa circa la giurisdizione della Corte penale internazionale, in seguito alle notizie di uccisioni, rapimenti, stupri e arruolamento di bambini» e di aver «sottolineato il 1° luglio che la distruzione deliberata dei mausolei dei santi musulmani a Timbuctu possa costituire un crimine di guerra come da art. 8 dello Statuto di Roma». La decisione di Bensouda, comunque, non sarà resa pubblica prima di qualche giorno. Nel frattempo, nell’Azawad continuano gli scontri episodici tra tuareg e gruppi islamisti, con Monoteismo e Jihad per l’Africa occidentale che sta progressivamente sostituendo la presenza di Ansar Dine in molti centri abitati, tra i quali Gao. Sembrerebbe aver subito un momentaneo arresto, invece, la distruzione di edifici storici, monumenti e manoscritti, sebbene sia opportuno precisare che non si hanno informazioni accurate riguardo alla situazione nelle zone più periferiche. Un nuovo allarme, tuttavia, sta sorgendo sul piano sanitario, poiché da una decina di giorni, il Mali del nord è colpito da una dura epidemia di colera, che ha già causato 56 morti, soprattutto lungo il corso del fiume Niger. L’UNICEF ha disposto l’invio di 20mila kit per la purificazione dell’acqua.

 

UNA DONNA ALLA GUIDA DELL’UANkosazana Dlamini-Zuma (foto sopra) è la nuova presidente della Commissione dell’Unione Africana. Prima donna a ricoprire tale incarico, Dlamini-Zuma dal 2009 è ministro degli Interni del Sudafrica, ma, in precedenza, aveva occupato il dicastero alla Salute (1994-1999) e quegli agli Esteri (1999-2009). La sua elezione giunge al termine di un lungo periodo di stallo, durante il quale l’altro candidato, nonché Presidente uscente della Commissione, Jean Ping, aveva tentato di assicurarsi un ulteriore mandato. Inoltre, prescindendo dall’assenza durante la votazione del nigeriano Jonathan Goodluck (rimasto ad Abuja per motivi di sicurezza interna) e dell’etiope Meles Zenawi, il successo di Dlamini-Zuma non era del tutto scontato, poiché molti avversavano l’affidamento dell’incarico a un rappresentante del Sudafrica, Paese che, secondo la prassi – a dire il vero interrotta, qualche anno fa, da Gheddafi – avrebbe dovuto astenersi dalla competizione perché, così come Algeria, Egitto, Etiopia e Nigeria, troppo influente. In passato, Dlamini-Zuma è stata moglie del presidente sudafricano, Jacob Zuma.

 

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INCONTRO TRA AL-BASHIR E KIIR – La scadenza dei termini imposti dalla roadmap dell’ONU a Juba e Khartoum si avvicina sempre più, poiché al 2 agosto mancano meno di quindici giorni. Sabato scorso, per la prima volta dall’inizio delle negoziazioni di Addis Abeba, Salva Kiir e Omar al-Bashir si sono incontrati direttamente, parlando riservatamente per oltre un’ora. Durante l’incontro, il presidente sudsudanese avrebbe offerto all’omologo del nord il proprio sostegno per la risoluzione dei conflitti negli Stati del Kordofan meridionale e del Nilo blu, chiedendo, in cambio, la sistemazione delle controversie legate al transito del petrolio verso Port Sudan. Inoltre, Salva Kiir avrebbe proposto ad al-Bashir sia un consistente aiuto finanziario per alleggerire la crisi economica di Khartoum, sia i propri buoni uffici per una mediazione in Darfur. Nonostante le prime indiscrezioni, sembrerebbe, però, che il presidente del Sudan si sia rifiutato di accettare l’accordo sul petrolio, restando inamovibile circa la tassa di $32 per ogni barile trasportato dal sud verso il nord. La proposta di Kiir, basata su un trattato tra Ciad e Camerun, prevedeva un dazio tra 70 centesimi e un dollaro al barile. Al di là del clima positivo che ha circondato l’incontro, tra i due Presidenti non si è arrivati, probabilmente, ad alcuna concreta soluzione, stanti da un lato la volontà di Khartoum a mantenere «la priorità riguardo alle questioni di sicurezza», dall’altro la decisione di Juba a voler risolvere subito le controversie sul petrolio. Tuttavia, la circostanza di un colloquio diretto tra i due Capi di Stato mostra che entrambi abbiano compreso che giungere alla scadenza dei termini imposti dall’ONU senza risultati avrebbe solo effetti negativi.

 

AVVOCATI ARRESTATI IN SUDAN – Continuano le proteste in Sudan. Dopo la repressione dei primi giorni di luglio, riguardo alla quale Unione Africana, ONU e USA hanno chiesto informazioni, lunedì scorso sono scesi in piazza gli avvocati, i quali, a Nyala, hanno organizzato una serie di manifestazioni. Il giorno dopo, una loro rappresentanza ha incontrato alcuni membri del Governo del Darfur meridionale, presentando una petizione nella quale si chiedeva ad al-Bashir di interrompere il controllo violento del dissenso. Il confronto è stato piuttosto teso e, al termine, tre avvocati sono stati arrestati con l’accusa di incitamento alla rivolta. Le proteste in Sudan durano ormai, nella fase più acuta, da più di un mese e sono state causate dalle misure di austerità imposte dal Governo per far fronte alla crisi economica.

 

VERSO LA NUOVA SOMALIA – In linea con i tempi previsti, gli anziani delle tribù somale hanno valutato la bozza costituzionale, che adesso dovrà essere approvata da un’assemblea composta da 825 membri nominati dagli stessi elders. Nonostante la discussione abbia occupato diversi giorni, secondo la stampa non ci sarebbero state modifiche sostanziali al documento, ma l’incertezza deriva dall’impossibilità di poter ancora visionare il progetto costituzionale come approvato dagli anziani. Nessuna data è stata indicata per la convocazione della Costituente.

 

MAURITIUS PIAZZA DEL CONTRABBANDO DI ARMI – Secondo la ong Conflict Awareness Project, le Isole Mauritius sarebbero un nodo logistico per il traffico illegale di armi. Il contrabbando sarebbe condotto da personaggi provenienti dalla Russia e già noti in molti Paesi. Tuttavia, secondo la direttrice dell’Organizzazione, Kathi Lynn Austin, il commercio vedrebbe implicate anche società europee e statunitensi, le quali trarrebbero vantaggio dalla vendita di armi e sistemi informatici a canali altrimenti preclusi. La merce, dalle Isole Mauritius, sarebbe poi diretta verso Iran, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Sudan e, forse, Siria.

 

LA DIFESA DELLE FORESTE CENTRAFRICANE – Repubblica democratica del Congo, Repubblica del Congo e Repubblica centrafricana hanno stretto un accordo con la Francia per un progetto che prevede l’impiego di immagini satellitari al fine di controllare l’estensione delle foreste. Recentemente, anche il Camerun, Paese che vanta la seconda foresta africana, si è unito al gruppo, cosicché l’area coperta dall’iniziativa sarà prossima ai 330 milioni di ettari. La necessità di Yaoundé è limitare la riduzione della superficie verde, già diminuita del 18% tra il 1990 e il 2010. Il costo totale del progetto sarà di 233 milioni di dollari e parte dei servizi sarà fornita dalla Astrium Services.

 

LA SOMALIA ALLE OLIMPIADI – Il futuro della Somalia passa anche dallo sport: i due atleti che rappresenteranno Mogadiscio alle Olimpiadi, infatti, sono arrivati a Londra dopo essere stati salutati alla partenza con affetto e commozione. Entrambi gareggeranno in discipline di atletica leggera, poiché la giovane Zamzam Mohamed Farah correrà i 400 m donne, mentre Mohamed Hassan Mohamed Tayow affronterà la prova dei 1.500 m uomini.

 

Beniamino Franceschini

L’Olimpiade che trema

Ormai poche ore ci dividono dalla XXX edizione dei Giochi Olimpici e nonostante la montante polemica riguardo alla presunta insufficienza del numero di addetti alla sicurezza, Londra sembra pronta ad ospitare gli atleti di tutto il mondo per quella che si appresta ad essere l’edizione più imponente della storia. Vi abbiamo raccontato le storie di lampo d’ebano (Jesse Owens) e del figlio del vento ( Carl Lewis), dei pugni guantati di nero di Smith e Carlos a Città del Messico, delle Olimpiadi boicottate ( Mosca e Los Angeles) e di quelle del terrore (Monaco di Baviera). Oggi vi portiamo ad Atlanta 1996. Vi racconteremo di Coca Cola e CNN. Vi racconteremo, ancora una volta, di un vento che proprio non vuole smettere di soffiare. Ma soprattutto vi racconteremo di Muhammad Ali, semplicemente “The Greatest”

Sulle Olimpiadi di Londra leggi anche L’Olimpiade e l’isola che non c’è, di Simone Grassi. Anche quest'anno i Giochi promettono spettacolo, sui campi e fuori, e scommettere su chi vincerà più medaglie non sarà facile.

L’OLIMPIADE TREMA – 9 luglio 1996. Cerimonia d’apertura della XXVI edizione della rassegna olimpica. Sfilano per la prima volta Burundi, Ecuador, Hong Kong e le 12 nuove repubbliche sorte dalla disgregazione dell’Unione Sovietica. È l’edizione del centenario, ma viene accolta con scetticismo: il business ha prevalso sulla storia, i dollari della Coca Cola e della CNN hanno impedito il ritorno della rassegna olimpica nella patria dei Giochi, quell’Atene che avrà riconoscimento tardivo solo nel 2004. Cento anni sono passati da quando, in un primaverile pomeriggio di aprile del lontano 1896, re Giorgio I di Grecia pronunciò mnemonicamente la fatidica formula: “ dichiaro aperti i Giochi della I Olimpiade dell’era moderna”. Una frasetta, frettolosa ma efficace nella sua banalità, ultima reminiscenza di un’Olimpiade che fu. Ad Atlanta la pronuncia un impaurito Bill Clinton. Se la cava con 133 secondi di comparsa, il Presidente democratico, così imbottito dal giubbotto antiproiettile che quasi inciampa nel suo primo passo sul campo. E’ un‘Olimpiade che trema, che ha paura, quella di Atlanta. Ha perso sacralità, dimentica la storia e la tradizione, sancisce il trionfo della commercializzazione dello sport a cinque cerchi. Trema anche l’uomo che appare ai piedi del braciere di Olimpia, ma non di paura.

Per tradizione l’ultimo tedoforo è un atleta che richiama la classicità di quel gesto, deve essere giovane e prestante. Il mondo non crede ai suoi occhi quando il penultimo tedoforo, una ragazza, consegna la fiaccola a colui che andrà ad accendere il braciere olimpico e, con esso, il sogno di migliaia di atleti. Ad Atlanta il suo nome è rimasto segreto fino al momento del passaggio della torcia, che all’improvviso ne illumina il volto: è un uomo gonfio, largo e tremolante. Un tempo “volava come una farfalla e pungeva come un’ ape”, ora non più. Le sue gambe, le stesse che lo portarono a danzare sui ring di tutto il mondo, sembrano incollate alle piastrelle dello stadium. La sua lingua, un tempo capace di rispondere al filoso Bertrand Russell “ lei è meno tonto di quello che sembra”, stenta, fatica. FLOAT LIKE A BUTTERFLY, STING LIKE A BEE – È di stupore, non di paura, il primo brivido dei giochi spaventati. Intontita da quattro ore di “stupid show”, come qualcuno definì la cerimonia d’apertura,  la folla impiega qualche  attimo a riconoscerlo e a ruggirne il nome : “è Ali”. Rinchiuso in un corpo piagato dal morbo di Parkinson non riesce ad alzare le braccia, ma che importa per uno che non è mai riuscito ad abbassare la testa. “Ho abbattuto gli alberi per prepararmi a quest’incontro. Ho fatto a botte con un coccodrillo, ho lottato con una balena. Ho ammanettato i lampi e sbattuto i tuoni. L’ altra settimana ho ucciso una roccia, ferito una pietra, mandato all’ospedale un mattone. Mando in tilt la medicina”. Se la forza dei grandi è di arrivare dove nessuno osa, Muhammad Ali, anche l’Ali posseduto dal Parkinson, rimane il più grande davvero. Ad  aiutarlo ci pensa la penultima tedofora, Janet Evans. Ha paura che la fiaccola possa cadergli dalle mani, dimentica forse che quei pugni, negli anni 60 e 70, hanno steso il mondo. Ed è forse in questo momento che l’America,ritrovatasi ad Atlanta per le Olimpiadi, ringrazia per la prima volta quello che fu un atleta rinnegato. I nipoti dello Zio Sam tifarono per Cassius Clay, non per Ali. Amico delle persone sbagliate nei momenti sbagliati,di Fidel Castro e Saddam Hussein. Prima di diventare il profeta del pugno, il ragazzone di Louisville incarna i valori della generazione urlante e fa a botte col potere quando nel 1967 decide di non andare a combattere in Vietnam: “ i Vietcong non mi hanno mai chiamato negro”. Gli tolgono la corona dei massimi, lo multano e lo condannano, ma il pugile che vola come una farfalla e punge come un ape non si arrende e ora, tremolante dinanzi al mondo, raccoglie  gli applausi di un ‘Atlanta in ginocchio. Non fa pena, né ispira retorica e lacrime finte. Solo infinito rispetto e stima, quasi soggezione, a differenza dei potenti della terra, comodamente seduti sulla tribuna imperiale di Bill Clinton. Pochi secondi, e l’Olimpiade delle bollicine si trasforma nell’Olimpiade di Ali. Dove non arrivano i dollari della Coca Cola, arrivano i guantoni, ora tremanti, del più grande pugile della storia. Che l’Olimpiade abbia inizio, ora che la fiamma brucia. Come prima, più di prima. Ancora una volta, anche se devastato dalla malattia, Mohammed Ali ha colpito duro, aprendo le Olimpiadi che, con freddezza, si tuffano nel duemila. Il corpo del campione è la prova vivente che esistono cose in grado di far battere un cuore  per qualcosa che non sia la paura. Ad Atlanta 1996 però, i cuori tremarono specialmente per quest’ultima.

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HEART ATTACK – 27 giugno 1996. Serata torrida, afosa, sudista. L’Atlanta olimpica aveva smesso da poco di cenare e si era data appuntamento al Centennial Park, dove i grandi sponsor della rassegna hanno costruito i loro stand. Accorrete tifosi di tutto il mondo: cibo, bevande e musica per tutti, offre Coca Cola. Sul palco, ironia della sorte, suonano gli Heart Attack quando un'esplosione scuote la piazza gremita.  “Il posto più sicuro del mondo” tuonava fiero Bill Rathburn, capo della sicurezza olimpica, dimentico del fatto che Atlanta è da sempre un covo di miliziani, di fans di Timothy McVeigh, autore dell’attentato che il 19 aprile 1995 scosse il paese provocando la morte di 168 persone. Si disse allora che il tempo era maturo per una nuova Rivoluzione americana : “ la gente è stufa marcia di una banda di burocrati di Washington.” Molto prima che l’ 11 settembre diventasse una triste realtà, gli Stati Uniti ebbero a che fare con il terrorismo ormai penetrato nella fortezza americana, un tempo tanto sicura di sé. L'esplosione di un ordigno rudimentale posto nella piazza gremita causò 111 feriti e due morti. L’America impazzisce ma è troppo sfregiata per  guardarsi allo specchio e ammettere che il nemico va cercato tra i propri figli. Il gendarme del pianeta si riscopre vulnerabile. I nomi delle nazioni partecipanti raccontano cinquant’anni di storia a stelle e strisce, di guerre e di crisi: Giappone e Corea, Cuba e Nicaragua. Ad Atlanta l’incubo diventa realtà, anche l’ultimo innominabile avversario è iscritto al torneo: si chiama Stati Uniti. Città nera, nerissima, con il 68 % della popolazione di colore. Divisa  da sempre, bianchi contro neri, Cabbage town (parte bianca) contro il ghetto di Vine e le sue “shot gun Houses.” Con un solo colpo di pistola, si dice da quelle parti, uccidi tutta la famiglia. Atlanta. Dove il Ku Klux Klan, località Stone Mountain, avviò la sua riorganizzazione. Atlanta, che ogni giorno va girando per il mondo attraverso l’informazione, targata CNN, e le bollicine, firmate Coca Cola, proprio non si aspettava l’esplosione. Il “ paesone che volle farsi re” si riscoprì inadeguato. Ma lo spettacolo doveva continuare. Continuano i giochi, ma l’Olimpiade muore all’1 e 27 di sabato 27 luglio. Troppi i dollari investiti dalle multinazionali di casa per impedire che lo statunitense Michael Johnson, preannunciato protagonista della rassegna, non corresse e, inutile dirlo, non vincesse i 200 e 400 metri piani. Un gesto atletico clamoroso quello del ragazzone di Dallas, eppure freddo, glaciale, scientifico. Non un corpo umano in movimento, con la sua dolorosa imperfezione, ma una meccanica turbina in azione. Il suo record fu definito scientifico, lui “il matematico della velocità”. Il record sui 200 metri piani si ottiene raddoppiando il tempo sui 100 e sottraendo 15 centesimi di media. Facile come risolvere un’equazione, almeno per il matematico dello sprint. 19 secondi e trentadue centesimi per relegare definitivamente nei libri di storia il record del “nostro” Mennea e indirizzare Johnson sul sentiero che porta al paradiso degli sportivi. Lo stesso sentiero che da ormai 12 anni percorre Carl Lewis. Sono le 20 e 12  del 29 luglio 1996. Secondo l’indimenticato Candido Cannavò, “ il direttore d’orchestra decise che quella sera sarebbe dovuta diventare storica”. Da lì nasce il volo di Lewis a otto metri e cinquanta. “ Un tocco di suprema bellezza, un segno del destino che sorvola ogni nostro livello di ragione”. Ed ecco che la terra insanguinata  di Atlanta torna ad essere testimone di un prodigio: il vento della leggenda di Lewis non vuole smettere di soffiare. In un tempo senza più eroi, teniamoci strette le figure dei campioni universali, dei profeti dello sport. E ringraziamoli. Quindi grazie Muhammad, per non esserti limitato a danzare sul ring e a picchiare duro e per averci impartito l’ennesima lezione, in quella estiva notte di Atlanta: l’importante non è poter alzare le braccia, ma la testa. Firmato Muhammad Ali, semplicemente “ The greatest”.

Simone Grassi [email protected]

Fine in vista?

Con l’offensiva dei ribelli sulla capitale e l’uccisione di alcuni uomini chiave la situazione in Siria sembra stare evolvendo verso il peggio per il regime di Bashar Assad. La crisi del regime appare aver raggiunto un punto critico e molti sono gli elementi che indicano un collasso ormai inevitabile della dittatura. Vediamo quali

 

Ottenere informazioni affidabili e precise rimane difficile perché le notizie filtrano a intermittenza e spesso non è possibile verificarle sul campo. Bisogna quindi affidarsi anche a fonti di intelligence (per loro natura non controllabili dall’esterno) e incrociare i dati per ottenere una visione completa della situazione. Tuttavia l’immagine che si sta costruendo appare abbastanza definita e mostra un regime sull’orlo del crollo. Molti sono gli indizi:

 

FSA – La Free Syrian Army (FSA – esercito siriano libero) rimane la principale formazione armata dell’opposizione; nonostante le numerose perdite subite, continua a combattere e ottenere “rinforzi” tramite diserzioni dalle unità lealiste (soprattutto Sunniti) e supporto materiale (denaro, armi) dai Paesi sunniti del golfo e dalla Turchia (e, tramite questi, anche dall’Occidente). E’ il segno che nonostante gli sforzi le truppe fedeli ad Assad non riescono a schiacciare la rivolta e, anzi, essa si stia espandendo.

 

RISORSE LIMITATE – Per settimane i lealisti si sono concentrati a proteggere le aree popolate da Sciiti Alawiti (principale componente del regime) e le più importanti zone e strade economiche del paese. Ma questo ha anche fatto sì che i ribelli potessero muoversi pressoché indisturbati per il resto del paese, dove le truppe del regime non osavano più avventurarsi. Infatti le numerose diserzioni hanno portato il comando siriano a mantenere numerose unità ferme e lontane dagli scontri, per paura di ulteriori fughe di soldati, mentre le unità più fedeli (4° divisione corazzata, Guardia Repubblicana, forze speciali) si trovavano impegnate sempre di più, incapaci di operare dovunque fosse necessario.

 

RILUTTANZA – A questo si sommi il fatto che, come hanno riportato alcuni esperti USA, le forze armate lealiste hanno morale basso e mostrano una scarsa capacità di combattimento, preferendo evitare le zone contese e limitandosi a bombardamenti con artiglieria e/o elicotteri. Quando i blindati avanzano nei centri abitati, non sono supportati dalla fanteria che forse ha paura di esporsi troppo. Questo rende però impossibile controllare gli edifici ed espone i veicoli stessi ad attacchi alle spalle da parte di ribelli armati con armi anti-carro. In breve, le forze lealiste sembrano rifiutarsi di rischiare troppo in combattimento, a tutto vantaggio dei ribelli – e a tutto svantaggio dei civili che vengono poi colpiti dai massicci bombardamenti.

 

SHABIHA – Questa mancanza di truppe ha costretto il regime a impegnare fin dal principio le ormai famose milizie Shabiha, ovvero civili armati fedeli al regime che hanno eseguito parte del lavoro sporco, “ripulendo” dai ribelli (in teoria, spesso invece si trattava anche di civili non armati) i villaggi che l’esercito regolare aveva appena riconquistato. Questo ovviamente ha contribuito a innalzare il livello di violenza settaria reciproca, Sciiti contro Sunniti soprattutto, spesso con i Cristiani in mezzo.

 

INIZIATIVA – Ma neppure questo è bastato se ora la FSA ha preso l’iniziativa attaccando direttamente Damasco. Già questo fatto è indice di scarsa tenuta del regime, che si trova ora costretto sulla difensiva dopo settimane in cui tutto pareva orientato al contrario (regime alla riscossa e ribelli in difficoltà). Le stesse modalità e prime conseguenze dell’attacco alla Capitale mostrano come per il regime le cose si stiano mettendo male.

 

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VIA DAL GOLAN – Alti ufficiali israeliani hanno infatti affermato che la Siria ha ritirato gran parte delle proprie truppe schierate sul Golan, per trasferirle verso Damasco stessa. Appare una mossa disperata ad parte di Assad, che ora vede la minaccia ribelle come prioritaria rispetto all’antico nemico israeliano che ora in effetti non appare altrettanto pericoloso; inoltre appare chiara la crescente difficoltà del regime di controllare la rivolta. Tra l’altro, nulla assicura che le truppe del Golan siano tutte fedeli…

 

DISERZIONI ECCELLENTI – Le diserzioni infatti aumentato e sempre più alti ufficiali (tra cui numerosi generali, alcuni anche in posizioni chiave come il Maggior Generale Adnan Nwras Salou, in passato capo dell’unità armi chimiche) stanno fuggendo con le proprie famiglie in Turchia, fornendo informazioni preziose agli oppositori. Non è solo il segno di un crollo del sistema di potere degli Assad, ma anche che il Mukhabarat, l’intelligence siriana, non è più capace di contrastare tali fenomeni.

 

COLPO GROSSO – Allo stesso tempo i ribelli sono finalmente riusciti (dopo un altro tentativo fallito in precedenza) a colpire i vertici dell’apparato di sicurezza. Dopo il vicecapo della polizia di Damasco ucciso nei giorni scorsi, una bomba ha colpito una riunione di alti ufficiali del regime, uccidendo il Ministro della Difesa Dawoud Rajiha e Assef Shawkat, cognato del Presidente Assad e ferendo il Ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim al-Shaar e il capo dell’intelligence, Hisham Bekhtyar (ma non tutte le fonti sono concordi su chi sia morto e chi no). L’evento indica anche la capacità dei ribelli di infiltrarsi tra le maglie della sicurezza del regime che nonostante un primo tentativo fallito settimane fa non è riuscita ad evitare un altro attentato. Non si esclude la presenza di infiltrati, che dunque potrebbero agire ancora.

 

ASMA ASSAD – Del resto che Bashar Assad si renda conto della gravità della situazione appare avvalorato anche dalla mossa di mandare sua moglie Asma a Londra a far compere. I media internazionali si sono fermati molto su questo particolare, sottolineandone l’aspetto etico, ma hanno forse mancato il punto più rilevante. Lo “shopping” è stata infatti la scusa ideale per portare la moglie al sicuro fuori dal paese e contemporaneamente continuare a ostentare sicurezza e fiducia: ben altri sarebbero stati i titoli – e le reazioni anche in patria – se la moglie del Presidente fosse stata scoperta mentre fuggiva all’estero di nascosto!

 

ARMI CHIMICHE? – Un regime disperato a volte compie gesti disperati quando crede di non avere altra scelta. Ha provocato molta apprensione la notizia di qualche giorno fa che i lealisti stessero spostando grandi quantità di armi chimiche: solo un modo per tenerle al sicuro dai ribelli o il preludio al loro uso per schiacciare la rivolta nel modo più sanguinoso? Entrambe le possibilità appaiono realistiche, tuttavia fonti di intelligence indicano che portavoce NATO hanno minacciato la Siria di bombardare i depositi piuttosto che permettere che le armi vengano usate: un sicuro deterrente visto che proprio l’impiego di armi di distruzione di massa (quali sono le armi chimiche) darebbe all’Occidente l’impulso per agire anche in assenza di mandato ONU. La defezione di alti gradi con una buona conoscenza dell’arsenale chimico consente di preparare contromosse per mettere in sicurezza le armi prima che cadano nelle mani sbagliate. Eppure, un pur piccolo rischio che un Assad disperato compia gesti sconsiderati rimane.

 

QUANDO? – Quanto può durare Assad? Difficile si tratti di giorni. Mettere a segno un attentato non significa poter prendere il controllo a breve e le forze lealiste nella capitale e in altri luoghi chiave sono ancora molto forti e tali rimarranno probabilmente ancora per mesi. Ma il trend appare segnato e sembra solo questione di tempo: forse qualche mese, forse un paio d’anni, come affermano gli ufficiali israeliani. Che intanto stanno già pensando preoccupati al dopo: democrazia amichevole o islam radicale ostile?

 

Lorenzo Nannetti

[email protected]

Dio salvi…l’imperatore

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Negli ultimi mesi la Cina è stata scossa da eventi che ne hanno fatto tremare le fondamenta politiche e sociali con un’intensità maggiore del terremoto del Sichuan di quattro anni fa. Mentre il caso Bo Xilai, ex boss della municipalità di Chongqing criticato pubblicamente dalla Nomenklatura ed epurato dal Partito Comunista, si arricchisce ogni giorno di nuovi scandali, la comunità straniera in Cina deve fare i conti con alcuni sentimenti xenofobi che fanno temere per una “rivoluzione dei Boxer” 2.0. Ed entrambe le vicende hanno un curioso elemento in comune: l’Union Jack inglese

 

ENGLISHMAN IN BEIJING – Sono due i britannici coinvolti in altrettante vicende cinesi: da una parte Neil Heywood, “faccendiere” che gestiva il patrimonio della famiglia di Bo Xilai, trovato morto in un lussuoso hotel di Chongqing il 15 Novembre scorso. Dall’altra un cittadino inglese di cui non si conosce ancora l’identità ma che è stato bersaglio nell’ultimo mese di attacchi (purtroppo per lui non solo verbali) dai netizens cinesi infuriati. Il motivo? Il “senza nome” inglese con passaporto turistico è accusato di aver stuprato una giovane cinese la sera dell’8 Maggio scorso mentre si aggirava in preda all’alcol nella zona di Xuanwumen a Pechino.

 

Due vicende che in altri paesi avrebbero (probabilmente) occupato le pagine dei quotidiani solo per qualche giorno. Ma non in Cina. La morte del 41enne Heywood ha aggiunto dettagli scabrosi e paradossali all’affaire Bo Xilai, estendendo le accuse anche a Gu Kailai, moglie dell’ex ufficiale del PCC di Chongqing e presunta mandante dell’omicidio. Il movente sarebbe stato il timore che Neil Heywood potesse rendere pubblici i loschi movimenti di denaro all’estero della famiglia Bo.

 

Una faccenda molto intricata che ha costretto il Governo Centrale ad usare le maniere forti per impedire che l’affaire Bo Xilai potesse destabilizzare il Paese in vista del cambio ai vertici previsto per l’autunno.

 

E in tutto questo come ha reagito Londra? Il Governo inglese prima ha mostrato un’evidente e imbarazzante indecisione per poi chiedere a Pechino di riaprire l’inchiesta sulla morte del connazionale. A far cambiare tardivamente idea a Londra (ci sono voluti più di quattro mesi dal giorno del ritrovamento del cadavere) sono state le circostanze poco chiare della morte e le insistenti richieste da parte degli amici e familiari di Heywood. Poco credibile appariva la causa della morte diffusa dalle autorità cinesi in un primo momento: “abuso di alcol”. Una motivazione subito smentita da fonti vicine alla famiglia del britannico, pienamente convinti che il faccendiere fosse astemio. La riapertura del caso da parte delle autorità di Pechino, lodata dal Premier Cameron durante il tour in Asia a metà Aprile, ha rivelato alcuni dettagli scabrosi: secondo i risultati dell’autopsia, Heywood sarebbe stato assassinato con alcune gocce di cianuro e la principale indiziata è proprio Gu Kailai, accusata di “omicidio volontario”. Una vicenda, tuttavia, che è ancora tutta da chiarire.

 

TRE “NO” CONTRO GLI STRANIERI – Così come sussistono molti lati oscuri anche nello scandalo a tinte sessuali che ha coinvolto l’altro cittadino di Sua Maestà.

 

La violenza è stata parzialmente ripresa da un telefonino e il video si è diffuso in maniera virale sui principali siti cinesi, arrivando fino a 8 milioni di viewers in poco più di un mese (http://v.youku.com/v_show/id_XMzkzNDY5ODI0.html). Al video sono seguite alcune foto pubblicate su Sina Weibo che ritraggono lo stesso turista britannico mentre “cerca di molestare sessualmente alcune ragazze cinesi” nei vagoni della metropolitana. Le reazioni non si sono fatte attendere: gli insulti contro gli stranieri si sono moltiplicati rapidamente, seguiti da minacce e da esternazioni razziste che non hanno risparmiato nessuna nazionalità.

 

E di certo non è stato d’aiuto lo sfogo di Yang Rui, celebre conduttore della CCTV English, canale in lingua inglese della televisione di stato cinese: il 16 Maggio scorso sul proprio blog ha insultato pesantemente la giornalista di Al Jazeera English Melissa Chan, espulsa dal Paese per aver raccontato in un servizio la situazione carceraria in Cina. Yang Rui è andato oltre invitando Pechino a “fare piazza pulita della spazzatura straniera, catturare i farabutti (stranieri) e proteggere le ragazze innocenti”. Il volto di Dialogue ha infine concluso la sua invettiva esortando i propri connazionali a “imparare a riconoscere le spie straniere che stanno con le donne cinesi per redigere reports di spionaggio”.

 

Il Governo della RPC, invece di stemperare i toni, ha gettato benzina sul fuoco inaugurando una campagna di cento giorni per denunciare le violazioni d’immigrazione, di residenza e delle regole di lavoro da parte degli stranieri in Cina. Sono stati istituiti centralini appositi e intensificati i controlli per quella che è conosciuta come la “campagna dei tre no” che sta assumendo contorni di violenza in alcune città cinesi e facendo temere per una nuova ondata di xenofobia che ricorda la “Rivoluzione dei Boxer” del 1900.

 

Ma cosa sarebbe successo se lo stupro fosse stato commesso in Gran Bretagna da parte di un cittadino cinese? Esiste un precedente che testimonia che i siti inglesi non sono stati riempiti di epiteti razzisti e insulti verso tutte le categorie di stranieri com’è avvenuto in Repubblica Popolare. Nell’Ottobre di due anni fa il 23enne cinese Hong Zhiyang fu sorpreso mentre, in preda ai fumi dell’alcol, stuprava una ragazza irlandese nel centro di Dublino. Il caso vuole che la condanna a otto anni di reclusione sia stata convalidata a metà maggio di quest’anno proprio mentre in Cina impazzava il dibattito contro gli stranieri. Ma a differenza di quanto avvenuto in Cina, i media inglesi non hanno sostenuto la necessità di campagne di “pulizia” nei confronti degli stranieri né offeso pubblicamente esponenti della comunità cinese locale. Stessa linea politically correct seguita anche dal giudice incaricato che ha sottolineato l’assenza di collegamenti tra il “crimine commesso e la provenienza dell’uomo”. Caso chiuso.

 

Tutt’altro discorso per quanto riguarda la RPC dove le tensioni tra la comunità cinese e gli stranieri non si sono limitate solo allo stupro di Maggio. A Guangzhou, megalopoli nel sud della Cina con un’elevata presenza di foreigners, la morte “accidentale” di un ragazzo nigeriano tenuto in custodia dalla polizia ha scatenato violente proteste all’interno della comunità africana locale. Sono stati in 500 i manifestanti che sono scesi in strada secondo il Global Times, solo 100 invece quelli riportati dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua.

 

Crescenti frizioni verso gli stranieri che stridono con le toccanti immagini che hanno occupato per giorni le pagine web cinesi a inizio maggio di quest’anno, pochi giorni prima la triste vicenda di stupro. La fotografia di Jason Loose, 23enne americano ritratto mentre offriva delle patatine fritte e una bibita a una senzatetto fuori da un McDonald’s a Nanchino, è diventata il simbolo della generosità occidentale e dell’integrazione culturale tra i due mondi. Sentimenti simili quelli provocati dal salvataggio di un cittadino cinese ad opera di una signora uruguaiana nel lago di Hangzhou. Queste vicende hanno dato vita a numerosi dibattiti e sono stati molti gli internauti cinesi che hanno proposto di prendere l’Occidente da esempio.

 

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BIG BROTHER IS CONTROLLING YOU! – Ma è bastato qualche fotogramma di un telefonino per far riemergere quel carattere xenofobo latente all’interno della popolazione cinese, retaggio del colonialismo di fine ‘800, che riemerge ogni qualvolta viene provocato il sentimento nazionalista. L’Economist in un editoriale ci offre un’analisi quasi scientifica di questo movimento anti-stranieri, individuando tre fattori principali. Il primo è il più scontato: l’Occidente visto come area geografica egemone da cui dipendono le sorti del resto del mondo. Una condizione ormai insostenibile per la Cina e i suoi cittadini, “motori” del miracolo economico dell’ultimo decennio, non più disposti a seguire le direttive dei paesi occidentali. Il secondo fattore è quello più preoccupante: dopo anni di crescita economica a due cifre, Pechino deve fare i conti con una diminuzione del tasso di crescita del proprio PIL e con problemi sempre più evidenti riguardanti il mercato immobiliare, la sicurezza alimentare, il gap tra campagne e città… E’ qui che interviene il Governo, cercando d’incanalare questo diffuso malcontento verso altre direzioni. La campagna dei 100 giorni è un chiaro esempio di questa strategia. L’ultimo fattore è quello tecnologico: i microblog e i siti internet sono i principali strumenti utilizzati dal Governo per stemperare o aizzare sentimenti nazionalisti. Scegliendo cosa censurare e cosa mettere in evidenza, internet è ritenuto il veicolo preferenziale per creare la “coscienza sociale” dei cittadini e la percezione nei confronti dei temi più sensibili.

 

E’ STATO TUTTO ORCHESTRATO? – Non sarebbe dunque fantascienza credere che il Governo si sia servito proprio di questo potente strumento per ottenere l’importante sostegno popolare nella campagna anti-immigrazione illegale. Lo stesso video incriminato non dimostra nessuna violenza sessuale effettiva e sono molti coloro che vedono lo zampino di Pechino dietro quei fotogrammi. A questo si aggiunge la sospetta escalation di accuse rivolte agli stranieri che ha permesso a Pechino di implementare i controlli e inaugurare nuove disposizioni per contrastare il fenomeno dilagante. Si calcola infatti siano circa 20,000 gli immigrati irregolari sul suolo cinese, cifra tuttavia impossibile da confermare. Citando il Global Times, giornale legato al PCC,è molto difficile che la Cina riesca ad affrontare il problema (dell’immigrazione irregolare). Non ha gli strumenti necessari e non si è mai preparata adeguatamente”. Secondo Behind the Wall, rubrica della NBC sulla Cina, queste dichiarazioni sarebbero finalizzate a sottolineare l’urgenza di riforme altrimenti ritenute troppo severe e ad avere carta bianca nella loro applicazione.

 

Una strategia complessa che vedrebbe il Governo Centrale ingigantire il problema per dotarsi degli strumenti necessari alla sua risoluzione e per difendersi dalle eventuali critiche in caso di fallimento. Un piano che, per quanto machiavellico, sembra tuttavia trovare un riscontro nella realtà della primavera cinese appena trascorsa.

 

Luca Bertarini

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Il cantiere somalo

Il 2 e 3 luglio, Roma ha ospitato il Gruppo di Contatto sulla Somalia, una delle ultime grandi occasioni prima che, il 20 agosto, il Paese del Corno d’Africa torni a essere parzialmente unificato. Le Istituzioni federali transitorie saranno sostituite da un Parlamento e un Presidente eletti, mentre il territorio nazionale tornerà sotto il governo di Mogadiscio. Tuttavia, restano ancora molti temi aperti: dalla presenza di al-Shabaab, alla pirateria, passando per la questione degli sfollati e il rischio della carestia. Mentre nella nuova Costituzione si discute del diritto alla libertà religiosa, ancora non è chiaro se il Somaliland possa e voglia integrarsi con Mogadiscio. Da parte sua, l’Italia contribuirà con iniziative culturali e con l’addestramento di truppe antiterrorismo e antipirateria

VERSO LA SECONDA INDIPENDENZA – Tra poco più di un mese, la Somalia affronterà una nuova fase della propria storia, avviando una seconda grande costruzione politica e istituzionale del Paese. Infatti, in base a quanto stabilito dai Princìpi di Garowe I e II (dicembre 2011 e febbraio 2012) e dalle conferenze del 2012 (Londra e Istanbul) tra il 15 e il 20 agosto le Autorità federali transitorie termineranno il proprio mandato. I loro poteri saranno trasferiti al nuovo Presidente e al nuovo Parlamento, i quali, contrariamente alle indicazioni dello scorso anno, saranno forse eletti dai somali di Puntland, Galmudug e Mogadiscio. La situazione, però, non è ancora sotto controllo in tutto il territorio nazionale, nonostante, in una recente intervista, il primo ministro somalo, Abdiweli Mohamed Ali, si sia dichiarato fiducioso circa la chiusura «dell’era della guerra civile, dell’anarchia e del caos, (con) le milizie di al-Shabaab allo sbando».

LA QUESTIONE RELIGIOSA – I Princìpi elaborati a Garowe alla fine del 2011, e riconfermati con alcune modificazioni nel febbraio 2012, indicavano che la bozza della nuova Costituzione dovesse essere pronta in giugno, e approvata entro il mese successivo. In effetti – e in molti sono rimasti stupiti – i tempi per la prima tappa sono stati rispettati, poiché il 22 giugno, un’assemblea riunitasi a Nairobi ha licenziato un testo provvisorio, che, presumibilmente, sarà approvato nella settimana tra il 12 e il 19 luglio da un Consiglio di 825 delegati (tra i quali molti anziani delle tribù) e, infine, sottoposto a referendum. Tra i temi che hanno attirato maggiormente l’attenzione sulla bozza c’è la questione religiosa. La Conferenza di Nairobi, infatti, ha definito l’Islam religione di Stato, vietando, nel contempo, la pratica di altri culti nel Paese. Sollecitato sull’argomento a Roma, dove il 2 e 3 luglio si è riunito il Gruppo di Contatto sulla Somalia, il premier Mohamed Ali ha specificato che il documento sia «provvisorio, potendo, pertanto, essere modificato e, se tutto andrà bene, reso più tollerante. La Somalia, – ha aggiunto il primo ministro, – vuole una società basata sul rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle minoranze religiose».

IL CONTRIBUTO ITALIANO – L’Italia non può assolutamente negare il proprio sostegno alla ricostruzione somala, per motivi sia storici, sia strategici. In questo senso, il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha illustrato alcune iniziative del nostro Paese per l’assistenza ai futuri governi di Mogadiscio. Un impegno consistente sarà posto nel favorire «la riconciliazione nazionale attraverso la cultura», realizzando il progetto di una web-tv con il contributo della RAI per la formazione a distanza di personale negli àmbiti dell’agricoltura, della sanità e della veterinaria. Inoltre, l’Università di Roma Tre ha presentato il “Grande dizionario somalo monolingue”, che contiene oltre 50milla lemmi e mira a favorire la standardizzazione della lingua, punto di partenza imprescindibile per la creazione di una coscienza di popolo. L’Italia, comunque, non si fermerà al settore culturale, poiché, in accordo con l’Unione Africana, già sono stati stanziati 2,6 milioni di euro per l’addestramento di «duecento unità delle forze somale» antiterrorismo e antipirateria.

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PROSPETTIVE: TRA OTTIMISMO E REALISMO – Al di là di ogni legittimo buon auspicio, affrontando la Somalia è necessario sempre mantenere un contatto con la realtà, a costo anche di sfiorare il pessimismo. L’inviato speciale dell’ONU nel Paese, Augustine Mahiga, ha confermato che al-Shabaab sia stata pressoché sconfitta, e le roccaforti del centro-sud espugnate. Tuttavia, oltre due milioni e mezzo di somali, su una popolazione stimata di dieci milioni, vivono ancora fuori dai confini nazionali, cosicché il loro ritorno da un lato potrebbe aggravare una crisi alimentare mai davvero sconfitta, dall’altro potrebbe influire sui delicati equilibri sia del terrorismo islamista, sia dei rapporti intertribali. Un futuro Stato unitario somalo non potrà mai prescindere dal rispetto della struttura clanica peculiare della regione e, in questo senso, era inevitabile che gli anziani (i cosiddetti elders) sedessero nella Costituente con uno specifico riconoscimento anche carismatico. Il Paese non è ancora pacificato, nonostante le dichiarazioni delle parti in causa, e la stessa identità nazionale è molto frammentata: per esempio, non si può ancora essere certi né quando, né in che modo il Somaliland sarà integrato nella nuova Somalia. Il 20 agosto sarà un giorno di importanza storica per il Corno d’Africa: le buone speranze e le attese positive per un percorso luminoso ci sono tutte, ma il timore, purtroppo, è che la tendenza storica prevalga su esse. Beniamino Franceschini [email protected]

Alla conquista di Goma

Si aggrava la situazione nel Congo orientale: i ribelli di M23, sostenuti dal Ruanda, hanno conquistato alcune posizioni strategiche e si dirigono verso la città di Goma. L’ONU risponde duramente ponendo i carri armati a guardia della zona, mentre Ban Ki-Moon tenta una negoziazione con Joseph Kabila e Paul Kagame. In Mali, la distruzione dei patrimoni UNESCO, soprattutto a Timbuctu è ormai irreparabile: adesso sono minacciati i manoscritti. Sudan e Sudan del Sud raggiungono alcuni accordi su Abyei. Dubbi sugli attentati nello Stato del Plateau, in Nigeria. Gli USA chiedono chiarezza sulle proteste in Sudan. Thomas Lubanga condannato dalla CPI a 14 anni per l’impiego di bambini soldato. Dure contestazioni a Jacob Zuma dai dissidenti fedeli a Julius Malema. La sperimentazione delle nuove pompe idriche in Africa orientale. In chiusura, alcuni dati sui child soldiers

L’ONU PRONTA ALLO SCONTRO – Continuano le tensioni in Congo, nel Nord Kivu, dove gli insorti di M23, gruppo guidato dal generale Bosco Ntaganda, ricercato dalla Corte penale internazionale e sostenuto dal Ruanda, stanno minacciando di assaltare la città di Goma. Le Nazioni Unite, tuttavia, hanno risposto duramente, dichiarandosi pronte a difendere la regione: attorno all’abitato, infatti, sono stati schierati i carri armati del contingente internazionale. Nel frattempo, Ban Ki-Moon ha contattato sia il già presidente congolese Joseph Kabila, sia il ruandese Paul Kagame, spronandoli ad assumere ruolo attivo nella soluzione della crisi. Il Segretario Generale si è detto preoccupato dall’appoggio esterno che M23 sta ricevendo, soprattutto perché i miliziani possono contare su un costante rifornimento di armi e mezzi che ha permesso loro di conquistare in breve tempo Bunagana, alla frontiera con l’Uganda, e alcuni avamposti (poi abbandonati) a breve distanza dalla stessa Goma. Gli appartenenti a M23 sono militari, per lo più di etnia tutsi, che hanno disertato, richiamandosi, nel nome, all’accordo di pace del 23 marzo 2009, mai davvero entrato in vigore. L’ONU ha mostrato in un apposito rapporto che effettivamente i guerriglieri siano sostenuti attivamente dal Ruanda.

LA DEMOLIZIONE DI TIMBUCTU – La distruzione di Timbuctu è ufficialmente cominciata. La moschea di Djinguereber, costruita nel 1327, è stata presa d’assalto, e il suo cimitero monumentale raso al suolo come gli altri della città. Sorte analoga è spettata al mausoleo di Sidi Yahya, una moschea del XVI Secolo la cui porta d’accesso al santuario, secondo la tradizione, non doveva esser aperta prima della fine dei tempi. Dopo ingenti danni, gli islamisti hanno offerto all’imam locale un indennizzo di 50mila CFA (tra i 75 e gli 80 euro), sostenendo di aver voluto solo abbattere il «mistero idolatrico della porta che non poteva essere spalancata». La violazione dei patrimoni UNESCO segue il proclama del miliziano di Ansar Dine Oumar Ould Hamah, che, ai primi di luglio, dichiarò che i suoi uomini non avessero alcuna colpa, poiché essi riconoscono solo «il tribunale della divina corte della shari’a. La distruzione è un ordine divino, è il nostro profeta che disse che qualsiasi costruzione sopra a una tomba dovesse essere abbattuta. Dobbiamo terminare quest’opera, affinché le nostre future generazioni non si confondano, venerando i santi come se fossero Dio». L’allarme, adesso, è esteso anche ai manoscritti, testimonianze religiose e laiche della storia non solo del Mali, ma di tutta l’Africa: gli islamisti hanno manifestato l’intenzione di distruggere questo patrimonio culturale.

SPERANZE DI ACCORDO SU ABYEI – Alcuni segnali di distensione sembrano giungere tra Sudan e Sudan del Sud, che, in settimana, hanno trovato un accordo per la firma dei trattati sulla Commissione militare congiunta d’osservazione (JMOC) e sulla Commissione congiunta per la supervisione di Abyei (AJOC). Il primo di questi documenti prevede che un eguale numero di militari di Khartoum e di Juba costituiscano una forza per la sicurezza e la pace nella città contesa, mentre il secondo consente un costante controllo dell’equilibrio tra i due Paesi nella regione, svolgendo la funzione di meccanismo di garanzia. Il segretario dell’Unione Africana, Jean Ping, ha espresso la propria soddisfazione, incoraggiando le parti a compiere passi in avanti per realizzare un servizio di polizia unitario ad Abyei e una task-force intergovernativa per l’assistenza umanitaria e il supporto dell’AJOC. Oltre a ciò, l’Organizzazione con sede ad Addis Abeba ha sollecitato la necessità di procedere alla restaurazione degli organi di autogoverno della città. Abyei, importante centro petrolifero, avrebbe dovuto scegliere a quale Paese appartenere tramite uno specifico referendum, che, però, non si è mai tenuto. Un arbitrato ha affidato la città al Sudan del Sud, ma al-Bashir, per risposta, ordinò la sua occupazione e la distruzione di gran parte del centro urbano. Attualmente, la sicurezza è garantita da un contingente di 3.800 soldati etiopi sotto mandato ONU, sebbene né il Sudan, né il Sud Sudan abbiano ancora ritirato le proprie truppe.

INCERTEZZA SUGLI AUTORI DEGLI ATTENTATI Boko Haram ha rivendicato gli attentati che hanno causato 90 morti nel fine settimana nello Stato del Plateau, in Nigeria: «Vogliamo informare il mondo del nostro compiacimento per il successo degli attacchi che abbiamo lanciato a Brakin Ladi e Riyom contro cristiani, forze di sicurezza e membri del Parlamento. Continueremo a cacciare i rappresentati del governo ovunque essi siano: non avranno mai più pace». Tuttavia, alcune indiscrezioni riportano che la polizia non sia certa della responsabilità di Boko Haram nella strage. Non è escluso, infatti, che il coinvolgimento del gruppo islamista sia stato richiesto dai Fulani, etnia nomade dalla quale proverrebbero gli attentatori del Plateau. L’azione sarebbe stata condotta come rappresaglia contro gli agricoltori dello Stato, accusati di togliere spazi alla pastorizia. Tuttavia, un parlamentare, Bitrus Kaze, ha incolpato mercenari stranieri, provenienti dal Ciad, che, comunque, avrebbero agito per conto dei Fulani. Ancora, pertanto, le indagini sulle stragi di sabato e domenica proseguono senza certezze.

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GLI USA: CHIAREZZA SULLE REPRESSIONI IN SUDAN – Anche gli Stati Uniti intervengono in merito alla repressione violenta delle rivolte in Sudan. Il Dipartimento di Stato ha chiesto a Khartoum di verificare se davvero le notizie di manifestazioni pacifiche sedate con brutalità siano vere. In realtà, i primi sommovimenti risalgono alla metà o alla fine del mese scorso, ma, comunque, in conseguenza all’annuncio del 16 giugno da parte di al-Bashir circa il taglio ai sussidi per carburanti e generi alimentari di prima necessità. Secondo le accuse, le forze di polizia sudanesi avrebbero impiegato grandi quantitativi di proiettili di plastica e gas lacrimogeni, incarcerando poi oltre duemila attivisti, tra i quali, il 10 luglio, il capo del Sudan's Liberal Democratic Party, Mayada Abdalla Souar Eldahab. Washington ha chiesto delucidazioni riguardo alle indiscrezioni sull’uso della tortura nei confronti dei manifestanti fermati, ma il direttore generale della polizia sudanese, Hashim Osman Osman, ha negato che durante le «circoscritte e sporadiche proteste di alcuni studenti» ci siano stati degli arresti. Per il 16 luglio, comunque, è prevista una manifestazione generale degli avvocati per sollecitare il governo al rispetto delle leggi e della Costituzione.

CONDANNA A 14 ANNI PER LUBANGA – La Corte penale internazionale ha condannato il 10 luglio Thomas Lubanga a 14 anni di carcere. In marzo, Lubanga era stato ritenuto colpevole dell’impiego di bambini soldato tra il 2002 e il 2003. In un comunicato dell’ufficio del Procuratore, si legge che «i giudici della Corte penale internazionale hanno inviato un chiaro messaggio agli autori dei crimini: non resterete impuniti», mentre il Pubblico Ministero ha ricordato che la condanna non ha evitato che in Congo la violenza tornasse nuovamente a livelli drammatici, citando direttamente la necessità di catturare Bosco Ntaganda, capo di M23.

CONTESTAZIONI A ZUMA – In Sudafrica, a Limpopo, cinque giovani dell’African National Congress Youth League, sostenitori dell’espulso Julius Malema, sono stati arrestati durante le dure proteste contro la visita del presidente, Jacob Zuma. Martedì scorso, trecento manifestanti si sono radunati di fronte alla sede di una conferenza del partito, scontrandosi prima contro la sicurezza della manifestazione, quindi scatenando una guerriglia urbana che le forze di polizia hanno sedato con fatica. I contestatori accusano Zuma di aver espulso Malema per non avere potenziali rivali nella gestione personalistica del potere.

LE POMPE IDRICHE “INTELLIGENTI” – Un gruppo dell’Università di Oxford, nel Regno Unito, ha proposto al Kenya di sperimentare un nuovo modello di pompe idriche a mano contenenti dei dispositivi per l’invio di informazioni specifiche, quali eventuali guasti, carenza d’acqua, statistiche sui prelievi. Questi dati, secondo i ricercatori, sarebbero utili per capire il modo di impiego delle risorse idriche, nonché per intervenire prontamente con riparazioni o sostituzioni. La sperimentazione della “smart handpump” partirà in settanta villaggi kenioti ad agosto, dopo che il prototipo già è stato sperimentato nel 2011 in Zambia. Una seconda fase, in caso di esito positivo, coinvolgerà lo stesso Zambia, il Malawi e il Sudan del Sud.

Beniamino Franceschini

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La Repubblica dei due Presidenti

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Venerdì scorso il Parlamento romeno ha deciso, si torna a votare. Il Presidente Traian Basescu è stato destituito in seguito ad una mozione di impeachment. Il prossimo 29 luglio la popolazione romena dovrà decidere se il proprio Presidente sarà ancora in grado di guidare lo Stato. Una situazione alquanto complicata, ma che per Basescu non è affatto nuova

I RACCONTI DELL'ETA' DELL'ORO – C'era una volta il comunismo. Tutti i romeni erano uguali, ma alcuni erano più uguali di altri. Il più uguale di tutti era poi il dittatore Ceausescu, che, nel tentativo di ripagare l'ingente debito estero accumulato con le potenze occidentali, per dieci anni costrinse il proprio popolo a tirare la cinghia fino a condurlo alla fame. Nel dicembre del 1989 la popolazione, ormai stremata, scese in piazza a protestare e Ceausescu tentò invano la fuga aprendo il fuoco sui manifestanti. Fu così la fine della dittatura e l'inizio della democrazia in Romania. Il Paese si aprì, le multinazionali straniere giunsero e iniziò una crescita economica senza eguali.

Un Paese in crescita con il vivido ricordo degli orrori del comunismo. Questa è l'eredità che si è trovato tra le mani l'ex sindaco di Bucarest Traian Basescu, che nel 2004 venne scelto per condurre il Paese come Presidente della Romania. Il conservatore Basescu riuscì nel giro di pochi anni a guidare la nazione fin dentro l'Unione Europea, dando così definitivamente una spallata allo spettro sovietico e guadagnandosi amore e gloria in patria. Qualche mese dopo, nella primavera del 2007, giunse inaspettatamente il primo impeachment per l'amato Presidente, che sospeso dalle funzioni di capo di Stato, venne salvato dai suoi connazionali tramite referendum popolare.

 

RITORNO AL PASSATO – Poi, un giorno, venne la crisi. Quella crisi economica che dalla fine del 2008 ha colpito tutti, anche la Romania. Nei primi mesi del 2009 Basescu si trovò costretto a chiedere un prestito di 20 miliardi di euro al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e alla Commissione Europea. Per contro, Bucarest dovette adottare dolorose misure di austerity: riduzione degli investimenti pubblici, congelamento delle pensioni, taglio degli stipendi statali, aumento dell’Iva e tagli dell’occupazione nel settore privato. Tali misure contribuirono a dare un duro colpo alla popolarità del sempre-meno-amato Presidente tra la popolazione romena, costretta a vedere il proprio tenore di vita precipitare vertiginosamente verso il passato.

Lo scorso gennaio, i romeni, stanchi di tirare ancora la cinghia, si riversarono nelle piazze per manifestare contro il più-odiato-che-amato Presidente della Romania e le sue misure d'austerità. Quelle stesse piazze dove ancora oggi si possono vedere i solchi lasciati dai proiettili dei fucili poco più di venti anni fa. Da questo momento in poi le similitudini con gli eventi del recente passato sono all'ordine del giorno e la popolazione romena inizia a chiedere a gran voce le dimissioni di Basescu, paragonato sempre più spesso al famoso dittatore.

 

E GUERRA FU – I mesi passano, i governi cadono (due per l'esattezza nel giro di pochi mesi) ma i cittadini rimangono in piazza a protestare. L'obiettivo è sempre lui, l'odiato Presidente. Basescu si trova costretto ad eleggere un Primo Ministro dell'opposizione, Victor Ponta, leader del partito socialdemocratico. E la guerra ha inizio. Il casus belli è semplice: quale tra i due leader politici deve rappresentare il Paese al Consiglio Europeo? La risposta al quesito sarebbe altrettanto elementare se la Romania non fosse una repubblica semi-presidenziale, dove il potere esecutivo è condiviso fra Presidente e Primo Ministro. Iniziano gli scontri a suon di interpretazioni della Carta Costituzionale, i ruoli si confondono, e il popolo romeno, agli occhi del quale il sistema semi-presidenziale appare ora la forma di governo più complicata seconda solo all'organizzazione politica dell'impero Ashanti, inizia a chiedersi chi sia davvero il presidente.

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TRA TEORIA E ROMANIA – Basescu perde la prima battaglia in Parlamento, ma alla fine ha la meglio grazie alla Corte Costituzionale. In teoria, la guerra è finita, poiché spetta al Presidente partecipare al Consiglio Europeo. Conscio della certezza che “teoria è teoria, Romania è Romania”, Ponta non si arrende e parte per Bruxelles. Intanto, è già all'opera per sostituire Ombudsman e Presidenti di Camera e Senato violando le procedure, modificare la legge che regola l'impeachment, sostituire i giudici della Corte Costituzionale, creare alcune ordinanze d’urgenza per impedire l’applicazione delle norme costituzionali, modificare la legge elettorale e richiedere la sospensione del proprio rivale. Il parlamento vota, Basescu è nuovamente sospeso dalla carica di Presidente.

Mentre tra i partner europei si diffonde la preoccupazione sullo stato di diritto in Romania, andandosi a sommare ai timori manifestati già da tempo riguardo agli alti livelli di corruzione nel Paese, il popolo romeno ancora una volta è chiamato alle urne. Sarà disposto anche questa volta a salvare l'ormai detestato Presidente? E una volta salvo da Basescu, chi salverà poi il popolo romeno dal non-Presidente Victor Ponta, accusato da molti di essere sostenuto dai malfattori reduci del vecchio partito comunista? Ai romeni l'ardua sentenza e, nel frattempo, ognuno per sé e il Massimo Fattor per tutti.

 

 

Martina Dominici (da Bucarest)

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A volte ritornano

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L'esito delle elezioni presidenziali messicane è apparso decisamente scontato: come prevedevano i sondaggi, Enrique Peña Nieto, candidato del Partido Revolucionario Institucional (PRI). Dopo dodici anni di assenza dal potere, il PRI ha riconquistato la scena ma la vittoria del nuovo Presidente non sembra cristallina, come è stato denunciato dallo sconfitto López Obrador e da diverse organizzazioni di cittadini che hanno documentato diversi brogli

TUTTO COME PREVISTO –  A una settimana dalle elezioni, lo scenario uscito dalle urne è ormai delineato con chiarezza. Enrique Peña Nieto ha vinto con il 38% dei voti, il Partido Revolucionario Institucional (PRI) è tornato al potere dopo 12 anni di “cambio”. Il Partido de Acción Nacional (PAN) prima ha ringraziato i suoi votanti  con una conferenza di Josefina Vázquez Mota quando erano passate due ore dalla chiusura dei seggi elettorali e non c’era l’ombra di un risultato ufficiale; poi, prima della mezzanotte, si é immediatamente messo a disposizione del nuovo presidente, attraverso il discorso del Presidente uscente Felipe Calderón, che quando si erano scrutinati preliminarmente solo il 5 % dei voti aveva già annunciato la vittoria di Peña Nieto.

AL LADRO! – Certo  è che la vittoria di Peña Nieto ha destato molte polemiche. Il principale avversario, Andrés Manuel Lopéz Obrador del Partido Revolucionario Democrático (PRD), giunto secondo con il 31,41% dei voti, ovviamente non riconosce la vittoria, accusando il PRI di avere comprato voti e di frode. Per questo motivo ha chiesto ufficialmente che gli esiti delle elezioni vengano cancellati. La posizione di Obrador è sostenibile anche grazie a diversi movimenti di cittadini che continuano a denunciare su Facebook e Twitter e altre reti sociali le irregolarità avvenute con foto, video e documenti. L’ultimo é quello di un presidente di seggio di un municipio nel centro del Messico che davanti alle telecamere apre l’urna elettorale e la trova vuota, tra lo stupore generale, ma poi da un cassetto uno dei funzionari fa uscire i voti. (http://www.el5antuario.org/2012/07/presidente-del-cme-abre-urna-sin.html?spref=fb). Anche Josefina Vázquez Mota ha denunciato il verificarsi di brogli, seppur senza polemizzare in maniera così diretta con il vincitore e riconoscendone comunque la legittimità del primato.

Giovedì 5 luglio López Obrador ha annunciato in conferenza stampa di aver ricevuto 3500 carte di credito di uno dei principali distributori di alimentari del paese, Soriana, da parte di persone che l’avevano ottenuta promettendo di votare il candidato del PRI e che si sono poi pentiti. E il governatore dell’Estado de México, Eruviel, appartenente al PRI e successore di Peña Nieto, ha confermato di distribuire da marzo carte di credito del Soriana come programma educativo statale per le famiglie dei bambini delle elementari e delle medie. In effetti, a Città del Messico, un paio di negozi del Soriana sono stati chiusi dalle autorità della capitale a causa della troppa gente presente che metteva in condizioni di rischio la struttura dell’immobile.

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LE PROTESTE POPOLARI – E da lunedì scorso il movimento “Yo soy 132” sta manifestando pacificamente nelle strade di Città del Messico per denunciare le irregolarità del voto, mentre “Anonimous México” annuncia da qualche giorno che presenterá documenti e prove sulla corruzione esistente nell’Instituto Federal Electoral, l’organo garante delle elezioni, della democrazia.

I mezzi di comunicazione canonici, televisioni e giornali, unanimi ripetono che il presidente eletto é Peña Nieto, cosí come da 6 anni ripetevano che era il prossimo futuro presidente. Per cambiare la línea editoriale, non é bastata la denuncia del The Guardian, che ha mostrato i documenti che provano l’accordo tra il PRI, Peña Nieto e Televisa, la principale azienda televisiva messicana, per fargli una copertura mediatica privilegiata nei telegiornali e in tutti gli spazi informativi e per attaccare il candidato del PRD, Lopéz Obrador.

Il PRI, attraverso Manlio Beltrones, segnalato come vicino a gruppi narcotrafficanti dai rapporti antidroga della Agenzia antinarcotici statunitense nei primi anni 90, invece ha cominciato a parlare di legalità del processo elettorale e della necessità che tutti i partiti politici accettino queste libere e democratiche elezioni.

In attesa delle nuove manifestazioni cittadine e delle ultime risoluzioni ufficiali che daranno finalmente quasi una settimana dopo il risultato ufficiale delle elezioni, esempio e paradigma del Messico attuale é una vecchietta qualunque che intervistata ha dichiarato che lei il voto se l’era venduto, perché solo così sapeva che aveva un valore.

Andrea Cerami (da Città del Messico)

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Buon Compleanno, Giuba!

Oggi il Sudan del Sud celebra il primo anniversario della propria indipendenza, una ricorrenza che, tuttavia, non potrà essere festeggiata in totale serenità. Il referendum del 9 luglio 2011, approvato con il 99% dei voti favorevoli, giunse al termine di una lotta armata cominciata nel 1955 e terminata formalmente nel 2005, con gli Accordi di Navaisha, sebbene gli scontri si siano protratti fino al 2009

 

ANNIVERSARIO AMARO – Il Sudan del Sud deve ancora affrontare problematiche di drammatica priorità: fondamentale, infatti, è la sistemazione dei rapporti con il Sudan, in particolar modo la definizione della linea di confine tra i due Paesi e dello status della città di Abyei, affidata a Juba da un arbitrato, ma tuttora in attesa di un referendum che ne stabilisca l’appartenenza. Non meno incombente è la questione petrolifera, poiché, con la secessione, il 75% dei giacimenti del precedente Stato unitario è rimasto nei confini del Sud, con evidenti contrasti connessi allo sfruttamento dell’oro nero. Inoltre, Juba non dispone di infrastrutture per il trasporto e l’esportazione del petrolio, dovendo affidarsi all’hub di Port Sudan, cosicché è in discussione un contestato progetto per un oleodotto lungo 3.600 chilometri, fino alla città costiera di Lamu, in Kenya. Nel maggio 2012, la risoluzione 2046 del Consiglio di Sicurezza ONU ha condotto a una roadmap per la pacificazione tra Sudan e Sud Sudan, stabilendo che un accordo debba essere raggiunto entro tre mesi dal momento dell’avvio delle trattative, con la mediazione dell’Unione Africana: purtroppo, alla metà del tempo concesso, non appare ancora alcuno spiraglio.

 

LE SFIDE DELL’INDIPENDENZA – Sul piano interno, il Sudan del Sud deve fronteggiare una gravissima crisi economica: inflazione al 52%; riserve di valuta estera esaurite; circa 700mila profughi in ritorno dal nord; scontri intertribali; stime che prevedono che, entro il 2013, l’80% della popolazione sarà sotto la soglia della povertà. Un anniversario, quindi, molto amaro.

 

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UN ANNO DI CAFFE’: RIPERCORRI LA STORIA SUDAN DEL SUD

L’indipendenza:

· La speranza del Sudan, di A. Fuccio, 30/04/2011

· Come nasce un Paese, di S. Amato, 14/07/2011

· Arida instabilità, di A. Fuccio, 25/07/2011

Il conflitto con il Sudan:

· Se il Sudan alza la voce, di B. Franceschini, 08/03/2012

· Tra violenze e diplomazia, di B. Franceschini, 15/03/2012

· Venti di guerra, di B. Franceschini, 28/03/2012

· Coppia di fatto… in guerra, di B. Franceschini, 19/04/2012

· Musica Maestro, di F. Stella, 23/04/2012

· Lo scontro continua, di B. Franceschini, 26/04/2012

La questione petrolifera:

· La quiete prima della tempesta, di F. Stella, 16/01/2012

· Lotta per l’oro nero, di S. Gardelli, 10/02/2012

· Cina: Dragone o Colomba?, di M. Dominici, 15/03/2012

Il problema dei profughi:

· Il tempo stringe, di B. Franceschini, 17/05/2012

Le trattative con il Sudan ad Addis Abeba:

· Una ‘road-map’ verso la pace?, di B. Franceschini, 09/05/2012

· Prove di dialogo, di B. Franceschini, 24/05/2012

· Il potere logora… ma è meglio non perderlo, di B. Franceschini, 02/06/2012

· Di Mali… in peggio, di B. Franceschini, 06/06/2012

· Qui per te non c’è posto, di B. Franceschini, 14/06/2012

· Terra bruciata, di B. Franceschini, 29/06/2012

· Vandali africani, di B. Franceschini, 05/07/2012

 

Beniamino Franceschini

Sotto i ‘fuochi’ dell’estate

Il "mondo" delle relazioni internazionali di questa settimana si divide sui due scenari più caldi degli ultimi tempi, ovvero Europa e Medio Oriente. Mentre a Bruxelles continuano le vicissitudini dell'accordo anti-spread del 28-29 giugno, l'est vicino fa i conti con i risultati delle elezioni in Libia, l'assestamento di potere in Egitto e il fallimento del piano Annan in Siria. Dopo le tempeste sulla East Coast americana, gli incendi in Colorado, anche la Russia e il Mar Nero fanno i conti con i capricci della natura e i suoi "fuochi" d'estate

EUROPA

Martedì 10 – Appuntamento fondamentale per il futuro dell'Unione Europea, il Consiglio in formazione economia e finanza si riunisce a Bruxelles per decidere sulla sorte dell'accordo informale preso nelle scorse settimane dai capi di Stato e di governo in merito ai meccanismi anti-spread. Le resistenze di Germania, Olanda e Finlandia sembrano essere calate di fronte all'impegno dei paesi in difficoltà, capitanati dall'ormai imprenscindibile Mario Monti a rispettare gli obblighi dell'austerity solo in vista di un appoggio comunitario alla ripresa economica. Sicuramente non mancheranno colpi di scena e novità dell'ultimo minuto, vista la volatilità delle intese e la variabilità delle "forze" sul campo, considerando il cambio di presidenza di turno dell'UE passata ora a Cipro.

Lunedì 9-Domenica 15 – Mario Monti starà via per un po', questo è poco ma sicuro, e visto lo stallo della grande coalizione di partiti che sostiene il suo governo in parlamento, questa lunga assenza non potrà che schiarire le idee per il futuro delle riforme italiane. Lunedì e martedì briefing e meeting in quel dell'Unione Europea per definire i paletti certi dei provvedimenti decisi nel summit del 28-29 giugno scorso, poi giovedì, partenza per gli States dove il Presidente del Consiglio italiano presenzierà ad una conferenza nella "Sun Valley", organizzata dalla banca d'affari statunitense Allen & Co. Tra gli invitati spiccano i nomi eccellenti di Bill Gates, Marck Zuckerberg, Rupert Murdoch e Tony Blair.

AMERICHE

STATI UNITI – Washington alza i toni della diatriba siriana che si protare ormai da 16 lunghi mesi, ammonendo il regime di Bashar al-Assad del rischio di un "attacco catastrofico" quale pietra tombale delle violenze incessanti che hanno portato la contra dei cadaveri oltre i 15.000. Secondo il Segretario di Stato Hillary Clinton, "la sabbia nella clessidra si sta esaurendo" e dopo il fallimento del piano Annan ammesso dal suo stesso ideatore, i falchi mediorentali, tra cui spiccano Doha e Riyadh sembrano premere per qualcosa che vada oltre la prospettata soluzione yemenita. La campagna elettorale per le presidenziali di novembre è ormai al culmine e l'elettorato democratico potrebbe gradire un maggiore impegno diplomatico americano visto lo stallo della Comunità Internazionale. Sembra quindi che la battaglia delle parole continuerà ancora a lungo prima che si decida della sorte del regime di Damasco e delle aspirazioni dell'opposizione siriana.

ARGENTINA – Tra gli ambienti finanziari inizia a diffondersi il terrore di un ripetersi della crisi in salsa argentina da quando il Financial Times ha svelato i risvolti misteriosi di un provvedimento governativo entrato in vigore nelle scorse settimane che avrebbe annullato la conbvertibilità dei pesos in dollari. Dopo le vicende in sede WTO che hanno visto Stati Uniti e Unione Europea lamentarsi per le barriere protezionistiche innalzate dal governo di Buenos Aires per favorire i prodotti nazionali, i dubbi sulle modifiche ai dati dell'inflazione, il blocco dei pesos sarebbe l'ultima goccia in un vaso che rischia di riempirsi in fretta. Sicuramente la misura d'extrema ratio è l'ultimo tentativo in ordine cronologico per arginare il deficit della bilancia commerciale argentina, ma il rischio paventato è quello di un'economia serrata alle possibilità d'investimento d'oltremare.

AFRICA

Mercoledì 11 – C'è grande attesa per i risultati ufficiali del primo turno di elezioni nella Libia del dopo-Gheddafi, Domenica, ad un giorno soltanto dalla chiusura delle urne l'Alleanza delle Forze Nazionali, coalizione liberale guidata da Mahmoud Jibril, ha dichiarato la vittoria a Tripoli e Bengasi ottenendo il paluso del mondo occidnetale. Mercoledì dovrebbe dunque essere il giorno fatidico per svelare il nodo cruciale della transizione libica, ovvero la bilancia delle forze sul campo, divise tra laici e liberali. Sembra che l'affluenza sia andata oltre le aspettative sfiorando il 60%, un dato comunque positivo viste le ombre che avevano accompagnato la vigilia dell'appuntamento.

NIGERIA – Lo stato nigeriano di Plateau e la periferia della città di Jos versa ormai in uno stato di guerra civile-religiosa, dopo che nel week-end, diversi commandos armati hanno assaltato le comunità cristiane riunitesi per la preghiera causando almeno 90 morti. Domenica durante i funerali delle vittime, un corteo è caduto vittima dell'ennesimo agguato in cui è rimasto ucciso un senatore, giunto sul luogo per la commemorazione. Difficile immaginare la fine delle violenze dietro cui si cela il gruppo fondamentalista Boko Haram, visto che il governo di Goodluck Johnatan non ha saputo fare altro che chiedere ed ottenere le dimissioni del titolare del ministero della Difesa. 

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ASIA

CINA – 20 miliardi di dollari, 700.000 barili al giorno, questi i numeri dell'ultimo affare del governo cinese nel suo sguardo "energetico" nei confronti dell'ormai isolato Iran. Rostam Qasemi, ministro del Petrolio di Teheran ha svelato i risvolti dell'accordo che legherà le ricerche e lo sviluppo di due nuovi giacimenti petroliferi in collaborazione con Pechino, ingolosita dall'opportunità di assicurarsi il greggio iraniano posto sotto embargo dall'Occidente. La zona interessata si trova lungo il confine con l'Iraq, precisamente negli insediamenti di Azadegan e Yadavaran, in una regione già costellata da siti di estrazione dell'oro nero.

GIAPPONE – Dopo che un sondaggio ha svelato le diffidenze delle rispettive popolazioni ai massimi dal periodo del dopoguerra, Cina e Giappone continuano la gara infinita nella balance of power per l'Asia orientale. A far da sfondo alla contesa sono di nuove le isole contese Senkaku, per cui Tokyo sarebbe pronta a pagare i proprietari terrieri in modo da assicurarsi il controllo dei presunti giacimenti petroliferi. Per Pechino, ogni azione nipponica sulle isole continua ad essere "illegittima e non valida", mentre Tokyo ha denunciato più voltre le intese raggiunte lamentandosi per le esplorazioni cinesi volte a testare l'effettiva presenza di gas.

MEDIO ORIENTE

Lunedì 9-Martedì 10 – Prosegue il tour mediorientale del weekend che vede il Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso impegnato in Terra Santa, dopo la volta delle Autorità palestinesi, saràla volta di Israele dove la figura di spicco dell'UE avrà modo di sostare per due giorni. Una vera e propria girandola dìincontri porterà Barroso faccia a faccia con Simon Peres, Presidente israeliano, Benjamnin Netanyahu, primo ministro, Stanley Fisher, Presidente della Banca Centrale e Avigdor Lieberman, ministro degli esteri. Ci sarà spazio anche per il ricordo e la commemorazione delle atrocità dell'olocausto con una visita allo Yad Vashem e al Museo d'Israele. Il 10 luglio invece, spazio ai titoli onorifici accademici, Barroso sarà infatti all'Università di Haifa dove riceverà una laurea honoris causa, terminando la tourné in medio Oriente.

Mercoledì 11 – Mohamed Morsi, neo-incoronato Presidente d'Egitto si recherà in Arabia Saudita per la prima visita ufficiale. Coadiuvato dall'ambasciatore egiziano nel Regno di Saud Mohammed al-Qattan, Morsi incontrerà re Abdullah per "conoscersi e discutere i modi per incrementare gli scambi e la cooperazione" tra i due paesi sunniti per eccellenza dell'area mediorientale. Dopo l'incontro d'alto livello, spazio anche per l'immancabile contesto religioso, con una breve visita ai luoghi sacri della Mecca. La caduta di Mubarak e la relativa calma di Washington davanti al disgregarsi di un forte alleato regionale, ha provocato forti malumori a Riyadh, che sconta da tempo un deficit democratico nei confronti delle aspirazioni derivanti dalla Primavera Araba. L'incontro sarà l'occasione ideale per rinsaldare la partnership sunnita tra i due paesi e valutare gli scenari attuali della politica estera lungo il mar Rosso. Intanto sul fronte interno Morsi ha ordinato al Parlamento di tornare al lavoro per stendere la nuova Costituzione, entrando così in conflitto con la Corte Suprema e il Consiglio militare di Tantawi.

Fabio Stella [email protected]

Gemelli diversi

Il primo luglio scorso, nel pressoché totale silenzio della stampa internazionale, le repubbliche di Burundi e Ruanda, che tanto fecero parlare di sé negli anni Novanta, hanno celebrato il cinquantenario della loro indipendenza. Nonostante la prossimità e le innumerevoli somiglianze, lo sviluppo dei due paesi ha preso strade spesso diverse e, per certi versi, speculari. La storia ne ha comunque intrecciato i destini, talvolta drammaticamente. Al centro, in entrambi i casi, la questione etnica, che ancora oggi, in modo più o meno esplicito, influenza la situazione politico-economica dei due “falsi gemelli”

LA SVIZZERA DELL’AFRICA – Approssimativamente delle stesse dimensioni (poco più grandi della Sicilia), Ruanda e Burundi sono due piccoli paesi confinanti dell’Africa centro-orientale, che condividono la stessa composizione etnica (circa l’85% di Hutu, il 14% di Tutsi e l’1% di Twa) e che compongono la regione che ai primi esploratori europei era nota, per il suo territorio prevalentemente montuoso e collinare, come “Svizzera dell’Africa”. Ad accomunare Ruanda e Burundi, oltre al discorso etnico e alla topografia, ci sono la densità della popolazione (le maggiori in tutto il continente) e la lingua (il Kinyarwanda e il Kirundi sono molto simili tra loro). Anche la storia ha fatto da collante tra i due paesi: se infatti, prima della colonizzazione, tra gli antichi regni di Ruanda e Urundi esisteva un confine, tra il 1885 e il 1918 entrambi divennero parte integrante dell’Africa Orientale Tedesca, insieme al Tanganyika (grosso modo l’odierna Tanzania). Dopo la Prima Guerra Mondiale il Ruanda-Urundi divenne un protettorato del Belgio: una legge belga del 1925 li unì amministrativamente al Congo, mentre un’ordinanza del 1949 delimitò nuovamente il confine tra i due paesi. Entrambi divennero indipendenti il 1º luglio 1962, rispettivamente con i nomi di Repubblica del Ruanda e Regno del Burundi. Indipendenti non solo dai loro colonizzatori ma, almeno in teoria, anche l’uno dall’altro. Tuttavia, in seguito ai lunghi anni di colonialismo, le due storie si sono inevitabilmente intrecciate, con gli eventi di un paese che hanno finito per influenzare sempre ciò che accadeva nell’altro.

IL DISCORSO ETNICO, TRA COLONIZZAZIONE E INDIPENDENZA – La maggior parte degli articoli odierni inizia spesso con l’affermare, in maniera legittima, che la composizione etnica dei due paesi sia la stessa, lasciando intendere che anche la storia e lo sviluppo dei due paesi sia stato simile. Pur essendo impossibile negare la somiglianza delle popolazioni, ciò non è propriamente esatto. In Ruanda, l’amministrazione belga cambiò alcune delle sue pratiche a metà degli anni Cinquanta e, dopo aver per decenni sostenuto il dominio della minoranza Tutsi, cominciò a permettere agli Hutu di assumere un ruolo più ampio nella vita pubblica. Appena prima dell’indipendenza, gli Hutu ruandesi si rivoltarono contro il dominio Tutsi, eliminando la monarchia, e tra il 1959 e il 1962 pressoché tutte le posizioni amministrative furono trasferite: all’indipendenza il governo del Ruanda era diventato una prerogativa Hutu. Ciò spinse i Tutsi del Burundi (dove i belgi non avevano operato il medesimo trasferimento di poteri) a escogitare tutti i modi possibili per evitare la stessa fine degli omologhi ruandesi. La violenza etnica scoppiata in Burundi nel 1972, contro gli Hutu, ispirò una nuova ondata di violenza etnica in Ruanda nel 1973, contro i Tutsi. Con la fine del governo coloniale, dunque, le tensioni fra Hutu e Tutsi in ambedue i paesi, seppur in maniera speculare, degenerarono in una spirale di violenza, che in trent’anni provocò la morte di circa 500.000 persone. La situazione esplose definitivamente nel 1994. Nel 1993 l’assassinio del presidente burundese Melchior Ndadaye (il primo eletto liberamente e primo Hutu a ricoprire tale carica) convinse molti Hutu in Ruanda che il compromesso con i Tutsi era pericoloso. Così, mentre il Burundi precipitò in una guerra civile che avrebbe provocato altri 300.000 morti in 12 anni, in Ruanda si profilava una delle carneficine più sistematiche nella storia dell’umanità: 800.000 Tutsi vennero massacrati a colpi di machete; quasi il 20% della popolazione ruandese fu sterminato in soli 100 giorni di follia collettiva, mentre il mondo intero stava a guardare.

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LUGLIO 2012: KIGALI… – Oggi, sia il Burundi sia il Ruanda sono relativamente in pace, ma vi sono giunti in modi differenti. In Ruanda, dopo trent’anni di dominio Hutu, dal 1994 è al potere il Fronte Patriottico Ruandese (FPR) del Tutsi Paul Kagame, che ha provato ad eliminare, o quanto meno a nascondere, lo “spettro” dell’etnicità. Il paradosso politico consiste nel fatto che, sebbene da tutte le carte d’identità sia stata rimossa la voce che distingueva Hutu da Tutsi sostituendola con “ruandese”, la distinzione razziale si nota dal fatto che l’unico partito esistente in Ruanda (il FPR, appunto) è composto esclusivamente da Tutsi. Lo stato di salute della democrazia ruandese è dunque precario: le elezioni di agosto 2010 hanno visto vincitore il presidente uscente Kagame col 93% dei consensi. Troppi per un Paese ufficialmente libero, che nei mesi precedenti il voto ha assistito a pesanti pressioni sull’informazione, all’arresto di candidati dell’opposizione, allo scoppio di alcune bombe nella capitale, ad inquietanti omicidi eccellenti. Sul piano dello sviluppo, tuttavia, il governo ruandese ci sta mettendo del suo, anche nascondendo “sotto il tappeto” quello che non va: la povertà delle zone rurali, o le sacche di miseria che sussistono nei quartieri poveri della capitale Kigali. Il programma d’interventi è effettivamente massiccio e su tutti i fronti: dal sistema sanitario alla diffusione dell’energia elettrica e dell’acqua potabile, dal sistema stradale all’impetuosa informatizzazione, dalla scolarizzazione massiccia agli investimenti in infrastrutture produttive. Merita una sottolineatura importante il discorso di genere. Le donne, nel Parlamento ruandese, occupano 45 seggi su 80, oltre il 56%: la percentuale più alta del mondo. Ci sono leggi che impongono il 30% di rappresentanza femminile in ogni organismo pubblico. Sono donne il ministro dell’Economia, degli Esteri, delle Infrastrutture, il presidente della Corte suprema, il responsabile dell’Agenzia delle entrate, il capo della polizia.

…E BUJUMBURA – In Burundi, seguendo la “solita” logica speculare, dopo più di quarant’anni di potere Tutsi, l’attuale presidente è Pierre Nkurunziza, Hutu. A conclusione della guerra e dell’accordo di Arusha per la pace e la riconciliazione (2000), firmato grazie a una lunga mediazione dell’ex presidente sudafricano Nelson Mandela, l’esistenza delle due etnie non è stata negata, come poco più a nord, ma esplicitamente rivendicata. Tale rivendicazione ha dato vita a una politica di quote: l’Assemblea Nazionale è composta per il 60% di Hutu e per il 40% di Tutsi, il Senato è diviso in parti uguali, mentre l’esecutivo è diretto da un presidente affiancato da due vicepresidenti di etnie e di formazioni politiche diverse. A sua volta l’esercito, un tempo “monoetnico”, è attualmente composto per metà da rappresentanti delle due comunità e comprende anche soldati provenienti da ex movimenti ribelli. Ma mentre la situazione politica resta instabile (con alcuni gruppi di ribelli che ancora impugnano le armi), il Burundi è il terzultimo paese al mondo in base all’Indice di Sviluppo Umano (ISU), che combina reddito, speranza di vita e scolarizzazione. Le strutture sanitarie sono mediocri. La situazione della sicurezza è, in generale, precaria. Sembra dunque che il tentativo di apertura (che sembra restare tale, viste le percentuali “sovietiche”, superiori al 90%, con cui Nkurunziza ha riguadagnato il secondo mandato presidenziale nel giugno 2010), alla fine, non “paghi” in termini di sviluppo.

Giorgio D'Aniello

[email protected]

Il nuovo faraone

Mohammed Morsi è il nuovo Presidente egiziano, confermando che il movimento rivoluzionario non ha terminato la sua spinta con la caduta di Mubarak. Eppure il nuovo Presidente ha già un percorso complicato davanti a sé. Non può deludere le aspettative della Fratellanza Mussulmana che lo ha fatto eleggere, né esimersi dal confronto con le forze armate, espressione del vecchio regime e ancora massimo potere nel paese. Inoltre, deve rassicurare i liberali che si sentono schiacciati tra due anime che non condividono

 

IL PRIMO PASSO – La vittoria di Morsi non va definita come la conclusione della vittoria rivoluzionaria sul vecchio regime, quanto piuttosto uno dei suoi primi passi. Il controllo del Consiglio Supremo delle Forze Armate CSFA (e dunque delle forze armate stesse) sul Paese, in particolare la struttura economica, rimane infatti molto esteso, così come i suoi poteri politici fino all’elezione di un nuovo parlamento.

 

Lo scontro tra queste due anime dell’Egitto moderno appare però essersi spostato su un piano più politico e istituzionale, almeno per il momento. I Fratelli Mussulmani hanno sì mobilitato i propri sostenitori e protestato in piazza Tahrir contro possibili brogli, ma non hanno voluto alzare il livello del conflitto sociale preferendo piuttosto attendere l’annuncio dei risultati finali. Due elementi hanno plausibilmente guidato tale decisione: 1) il fatto che una protesta violenta avrebbe fornito all’esercito la scusa migliore per mantenere il potere a lungo, così da “garantire la stabilità” e 2) l’idea che il modo più funzionale per immettersi nelle leve del potere fosse iniziare a occuparle legalmente, aprendo canali di dialogo e trattativa proprio con il CSFA. Tali trattative hanno probabilmente aiutato a trovare un accordo per un delicato equilibrio tra le parti.

 

UN EQUILIBRIO SOTTILE – Proprio per questo motivo, come fa notare anche Janiki Cingoli, direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), Morsi si trova a camminare in equilibrio lungo una linea sottile, schiacciato da tre lati. Da una parte infatti deve appagare un’opinione pubblica laica che ha appoggiato la rivoluzione e che si aspetta cambiamenti concreti pur senza una trasformazione in uno stato confessionale islamico. Dall’altra parte deve invece rispettare le aspettative della Fratellanza Mussulmana di cui fa parte e senza la quale non sarebbe mai stato eletto, nonostante da essa non sia per nulla stimato (è stato un candidato di ripiego dopo l’eliminazione dell’uomo forte Khairat al-Shater dalla corsa per la presidenza). Infine, deve garantire ai militari di poter essere affidabile e non troppo legato agli estremisti.

 

Nascono qui le contraddizioni dei discorsi di Morsi, che da un  lato afferma che gli accordi internazionali vigenti (come quelli di Camp David) non verranno toccati – cosa che, tra le altre, garantirà il mantenimento degli aiuti militari dagli USA, circa 1,3 miliardi l’anno – e dall’altro dichiara di voler richiedere la liberazione di alcuni estremisti. Sarebbe facile giudicarlo un irresponsabile o un indeciso, incapace di scegliere da che parte stare, ma è invece da ammirare, per ora, la sua capacità di navigare a vista in acque difficile e tra correnti opposte.

 

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LA PROVA DEI FATTI – Rimane da verificare la sua capacità di influenzare davvero il cambiamento nel paese: se lo scioglimento del parlamento verrà confermato, le prossime elezioni saranno presumibilmente in Dicembre. Nel frattempo, il CSFA detiene ancora gran parte del potere esecutivo, e per quanto i generali si siano impegnati solo a compiti di routine e non a legiferare, la realtà di tutto ciò dipenderà da quanto riescano a evitare un’eccessiva penetrazione della Fratellanza nelle sale di comando del paese. Solo con un nuovo parlamento in carica potrà essere stesa la costituzione: fino ad allora il Presidente rimarrà soprattutto una figura con pochi poteri reali.

 

A margine rimangono i moderati liberali, ma sarebbe sbagliato considerarli fuori gioco. Vero, non possono più aspirare alla presidenza, ma sono loro che alle prossime elezioni potrebbero proporsi come unica alternativa ai militari e alla Fratellanza (in calo costante di consensi), e raccogliere così i voti di una maggioranza che a quello presentato da militari e islamisti preferisce un futuro alternativo.  Certo, a patto di rimanere coesi e non dividersi, ancora una volta, in troppi partitini insignificanti.

 

Lorenzo Nannetti

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