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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Tutta un’altra Libia?

Alla vigilia delle elezioni per l’Assemblea Costituente della Libia del post-Gheddafi, il Caffè Geopolitico vi offre una preziosa intervista ad Arturo Varvelli, Resarch Fellow presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano, tra i massimi esperti delle relazioni italo-libiche. In uno scenario in cui il CNT cerca disperatamente il riconoscimento e l’appoggio della comunità internazionale, si può sperare nella continuità della special relationship tra Roma e Tripoli?

 

Molti osservatori, già durante l’intervento della NATO, ritenevano che il nostro paese potesse perdere i vantaggi economici guadagnati grazie ai rapporti con il passato regime, a quanto ci risulta, l’ENI sembra invece aver mantenuto tutte le concessioni ottenute prima della guerra. Ad oggi quali sono gli scenari delle relazioni italo-libiche?

 

“La situazione attuale delle relazioni bilaterali tra i due paesi è molto complessa, non tanto perchè l’Italia incorra in eventuali rischi nell’immediato, non credo sia questo il caso, ma poiché in prospettiva qualcosa potrebbe effettivamente cambiare. Il destino dei legami politico-economici costruiti fino a questo momento dipende necessariamente da chi riuscirà a salire al potere nei prossimi mesi. Quello che non potrà variare, nemmeno negli scenari più bui, è la forte complementarietà economica tra i due paesi, esportatore di greggio il primo, acquirente bisognoso di risorse energetiche il secondo. Questo è un legame storico e duraturo che permane ormai da più di quarant’anni, la Libia ha grande convenienza ad avere un compratore sicuro e qualificato, disponibile a pagare l’oro nero più di altri, come l’Italia. L’Italia non può fare a meno di vicini, sulla sponda sud del Mediterraneo, ricchi di petrolio e gas, per questo proprio la complementarietà dei due sistemi sarà nuovamente la base su cui costruire il futuro comune dei due attori. L’ENI ha saputo gestire la situazione al meglio, rifornendo di petrolio tramite le sue strutture entrambi gli schieramenti fino alla fine del conflitto, contribuendo ad assicurare la continuità energetica all’intero paese. Sicuramente in vista di concessioni future potrebbero cambiare i pesi specifici delle varie compagnie, ma questo è ancora tutto da dimostrare.”

 

Rapporti ufficiali confermano volontari e armi in movimento dalla Libia alla Siria. Quanto il governo di transizione potrebbe favorire questo processo per allontanare eventuali elementi “problematici”?

 

“Personalmente non credo che l’attuale governo libico possa spingersi fino all’intuizione di offrire un’altra battaglia da combattere alla moltitudine di milizie armate presenti sul territorio, tuttavia questi flussi esistono. Il fatto che alcuni guerriglieri, che potremmo definire jihadisti, abbiano contribuito al conflitto libico per poi passare all’attuale guerra civile in Siria è sicuramente un’ipotesi plausibile, abbiamo casi sporadici accertati, vi sono dei libici che combattono tra le fila dell’Esercito Libero Siriano e armi che raggiungono tale contesto. Proprio il traffico di armi è inviso all’attuale governo di Tripoli, che mostra più interesse alla stabilizzazione della situazione interna rispetto ad un’eventuale solidarietà islamica nei confronti della popolazione siriana. Storicamente la Libia è nota come bacino di arruolamento di guerriglieri che hanno combattuto sul versante iracheno e ancora oggi in Afghanistan, tuttavia tale fertilità per i germogli della jihad islamica era dovuto al fatto che il regime gheddafiano si è sempre opposto alla diffusione di tali ideologie estremiste, mostrando una repressione violenta. Per i cirenaici in particolare, l’unica forma possibile di dissenso era la via della jihad all’estero, con l’eventualità di combattere in futuro la guerra contro il regime.”

 

Da sempre Tripoli e Bengasi si contendono lo scettro di capitale morale della Libia, ma in seguito alle recenti vicissitudini e i rispettivi “assedi”, sembra che anche Misurata e Sirte inizino a covare una pesante ostilità. Esiste dunque il rischio di una deriva localistica da un’unità nazionale compromessa, che sembra aver perso l’unico collante identitario?

 

“Sicuramente tale rischio esiste, tant’è che durante il conflitto le due parti sembravano corrispondere ai classici schieramenti di Tripolitania e Cirenaica, in uno scontro che va avanti da tempo. D’altra parte esistono naturalmente localismi e formazioni identitarie legati a fazioni regionali, a tal proposito, nelle ultime settimane la situazione sembra essersi lievemente stabilizzata, se si esclude da tale considerazione il sud. Il Fezzan e buona parte dei territori meridionali sono ancora una grande incognita, di cui conosciamo poco, anche a causa dell’assenza di resoconti dei media, si sono registrati molteplici episodi violenti, compresa la questione aperta con la popolazione di etnia tebu. Insomma quella del sud della Libia è una questione ancora più complessa rispetto alla totalità del sistema paese, vedere un sud pacificato nei prossimi anni sarà molto difficile. A ciò si lega la questione del controllo delle frontiere e del risveglio dei movimenti tuareg, che rende il puzzle ancora più intricato, se possibile. Venendo invece alla Libia più vicina a noi, probabilmente Sirte mostra la condizione più precaria tra le grandi città costiere. Capoluogo di provenienza del clan Gheddafi, la città ha subito un assedio lungo svariate settimane che non ha risparmiato i suoi abitanti dai regolamenti di conti e dalle faide etniche. Attenzione anche alla periferia di Tripoli, compreso l’aeroporto, scenario di svariati scontri armati tra le fazioni che regnano sovrane su alcuni quartieri della città. Sembra tuttavia che per il momento le milizie abbiano trovato una sorta di accordo per la convivenza pacifica, naturalmente precario e basato sulla gestione della forza da parte dello stato centrale.”

 

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I continui ritardi nel fissare la data delle elezioni per l’Assemblea Costituente possono essere attribuibili alle difficoltà collegate proprio alla questione della legittimità del governo in carica e dell’effettivo controllo del territorio?

 

A livello ufficiale lo spostamento della data delle elezioni al 7 luglio era dovuto al processo di revisione dei ricorsi pervenuti dai vari candidati, ma sicuramente una grossa fetta del problema è costituita dalle ragioni menzionate. Senza dubbio vi sono inoltre motivazioni relative al contrasto e allo scontro tra le varie forze del paese, non solo fazioni armate dunque, ma veri e propri gruppi di potere. Ma è soprattutto il Consiglio Nazionale Transitorio che gioca a tenere il piede in due scarpe, conscio della precarietà della propria permanenza al governo. Da una parte dimostra di avere la necessità di indire al più presto elezioni libere e democratiche, perchè la comunità internazionale lo pressa, perchè i cittadini libici lo chiedono con forza, d’altra parte è consapevole che ciò vorrebbe dire rinunciare, in parte o del tutto al potere. Proprio per questo è facile sollevare dubbi su quanto veramente il CNT abbia spinto per arrivare senza intoppi alla data del 7 luglio. Come spesso accade, è difficile che chi detiene saldamente il potere possa lasciare il trono senza ‘combattere’.”

 

Oltre alla formazione locale della Fratellanza Musulmana e alcuni circoli accademico-liberali a livello locale, la situazione delle forze politiche in campo sembra alquanto confusa. Quali sono le formazioni politiche da osservare con maggiore attenzione alla vigilia della tanto attesa chiamata alle urne?

 

“Questo è il nodo principale della questione, ovvero a chi andrà in mano il paese e quale destino seguirà l’unità nazionale della Libia. Credo che le lessons learned dalle recenti transizioni in Tunisia ed Egitto possano mostrare qualche tratto del futuro della Libia post-Gheddafi, con l’ascesa delle forze che si rifanno all’Islam politico. Naturalmente le tradizioni dei tre paesi hanno caratteri incomparabili e peculiari, ma l’ultima volta che i libici hanno votato con qualche criterio di trasparenza ed effettiva libertà è stato con le elezioni del 1952, per questo permane una scarsa attenzione a quelle che sono le dinamiche della democrazia partecipativa. Sicuramente non bisogna attendersi un cittadino libico che si reca alle urne con le stesse sensazioni di un qualsiasi elettore occidentale, le richieste e le ispirazioni legittime sono senza dubbio differenti. Per quanto riguarda le forze in campo, i grandi indirizzi sono dunque quelli che legano le aspirazioni di democrazia, libertà e giustizia alla tradizione islamica, come appunto le formazioni filiali della Fratellanza Musulmana, quelle attorno alla figura carismatica di Ali al-Sallabi, religioso molto riconosciuto in Libia. Attenzione anche ad Abdelhakim Belhadji e al suo partito conservatore Al Watan, comandante del Lybian Islamic Fighting Group, noto oltretutto per le sue imprese in Afghanistan e Pakistan. Quello che ci si attende è quindi una sorta di convergenza da questi tre nuclei di forza politico-religiosa, mentre le forze ‘laiche’ vivono della popolarità delle figure che abbiamo visto nel ruolo di traghettatori in forza al CNT. Mi riferisco in particolare ad Ali Tarhuni e agli altri ‘tecnocrati’ che dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra e da altri angoli dell’Occidente hanno fatto ritorno in Libia. Tuttavia pesare con efficacia la popolarità di queste figure tra la popolazione è un discorso alquanto problematico dato che quello del 7 luglio sarà il primo ‘test’ per tutti, partecipanti e osservatori compresi.”

 

Tra le clausole dell’accordo italo-libico, siglate durante il precedente governo, il colosso italiano Impregilo aveva ottenuto l’appalto per la costruzione di opere ed infrastrutture per il progresso della Libia. Crede che tale appalto giungerà comunque a conclusione nonostante le attuali condizioni d’instabilità?

 

“Questa vicenda ci riporta nuovamente al futuro delle relazioni tra l’Italia e la Libia e in particolare al destino del trattato italo-libico. Quell’accordo è stato, nel silenzio più totale dei media, riattivato durante il vertice tenutosi a Roma tra il governo italiano e le autorità del CNT. Tale atmosfera riservata, quasi nascosta all’attenzione dei mezzi d’informazione, rivela un cambio totale di rotta nella gestione della retorica delle relazioni bilaterali con Tripoli. Vista l’avvenuta riattivazione di tale intesa, immaginiamo che occorrerà necessariamente far fronte alle previsioni di tale dettato, se si tratterà di un’autostrada realizzata da Impregilo, è ancora prematuro dirlo, visto che l’esatta definizione dell’appalto richiamava un più generico ‘infrastrutture di base’. Gheddafi aveva bisogno di un gesto simbolico, la costruzione dell’autostrada che andasse a collegare Tripoli e Bengasi, interpretava perfettamente la realizzazione di quel prezzo ‘materiale’ pagato da Roma per le conseguenze del periodo coloniale. I nuovi governanti libici potrebbero decidere altrimenti, come potrebbero benissimo accogliere tale richiesta, dando un segno tangibile del tentativo di mantenere unito un paese che rischia la secessione. Il periodo attuale d’altra parte è il picco massimo dell’incertezza nel dopo-Gheddafi, sicuramente i prossimi mesi lanceranno i primi segnali di un futuro ancora tutto da costruire. Personalmente ritengo molto difficile il realizzarsi, almeno nel breve periodo, di un paese stabile con indirizzi politici chiari e decisi è ancora troppo prematuro, tuttavia sembra che le relazioni tra l’Italia e la Libia potranno proseguire sui binari costruiti sul reciproco interesse nel corso del 2008.”

 

Fabio Stella [email protected]

Orienti convergenti

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In occasione dei campionati europei di calcio 2012 l'attenzione dei paesi dell'Unione si è focalizzata sull'Est Europa, dove per settimane gli stadi gremiti di Polonia e Ucraina hanno visto sfidarsi le nostre nazionali del cuore. Eppure qualcun altro già da tempo ha iniziato a rivolgere lo sguardo verso l'estremo più orientale del nostro continente

LA PORTA SUL RETRO – Quella che in Occidente viene considerata la più remota periferia d'Europa, per l'Oriente potrebbe diventare un vero e proprio portone d'accesso a un’area attualmente periferica ma di grande rilevanza per l’Unione Europea. Gli alti tassi di crescita dell’Est Europa, la forza lavoro relativamente istruita, le risorse naturali e, in particolar modo, la possibilità d'accesso al mercato europeo, sono un allettante richiamo per i paesi dell'estremo Oriente, primo tra tutti l'Impero di Mezzo, che ha già iniziato il suo graduale posizionamento strategico nella regione. Le visite ufficiali del Premier cinese Wen Jiabao in Ungheria e di Hu Jintao in Ucraina del giugno 2011, la partecipazione al Forum economico di Varsavia e la visita della delegazione del PCC in Bulgaria, Romania e Polonia dei mesi scorsi sono testimonianza del recente interesse che la Cina, notoriamente focalizzata sulle risorse di Asia e Africa, sta iniziando a mostrare per il fronte orientale del vecchio continente.

ORIENT-ATIVAMENTE UGUALI – L'interesse cinese per l’Europa orientale ha però ben più lontane origini. Lo stesso Jian Zemin, nucleo della terza generazione dei capi di stato del PCC, negli anni Settanta visse in Romania, dove imparò la lingua romena. Questi due “Orienti”, ai nostri occhi così distanti, hanno diversi tratti in comune. Cina e Romania: in entrambi il comunismo si è radicato fortemente nel tessuto sociale, entrambi segnati dall’esperienza di un leader autoritario che nel nome del comunismo ha compiuto scelte scellerate, entrambi segnati da un passato al quale non voler tornare. Paesi con una forte presenza di minoranze etniche, alla ricerca di sempre maggiore autonomia. Paesi in crescita, in una fase cruciale del proprio sviluppo, in cui circa metà della popolazione vive nelle campagne, da dove i giovani cercano disperatamente di scappare, attraverso quelle strade che macchine e carretti si trovano a dover condividere.

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QUESTIONE DI ENERGIA – L'influenza economica e geostrategica cinese in Romania è notevolmente aumentata negli ultimi anni, in particolare da quando la crisi economica ha inziato a far arretrare gli investitori occidentali. Le imprese dell’Impero di Mezzo sembrano pronte ad occupare lo spazio lasciato vuoto dagli europei, in particolare nel settore energetico la cui redditività nei paesi UE risulta tuttora elevata nonostante la crisi. In questo quadro, appare assai significativo il caso del ritiro francese, tedesco e spagnolo dal progetto di costruzione dei due nuovi reattori nucleari della centrale romena di Cernavoda, nel sud est del Paese, subito seguito dalla richiesta di una corporation cinese di raggiungere un accordo per avere accesso a informazioni confidenziali riguardanti lo sviluppo di tale piano nucleare.

EST CHE GUARDA AD EST – Pechino non ha tratto vantaggio dall'attuale turbolenza economica solo in Romania. L'influenza del dragone si sta espandendo, infatti, in numerose economie europee: lo scambio tra Cina e Europa centro-orientale, che negli ultimi 10 anni è cresciuto con una media del 30% annuo, ha raggiunto il suo massimo picco in seguito alla crisi economica dalla fine del 2008. Come per la Romania, anche Serbia e Bosnia Erzegovina hanno attratto l'attenzione cinese nel settore energetico, Ungheria, Bulgaria, Croazia e Polonia nelle infrastrutture e le ex repubbliche sovietiche Ucraina, Bielorussia e Moldavia per l'accesso agli sviluppi tecnologici e bellici russi nel settore militare.

NELL'OCCHIO DEL DRAGONE – Gli investimenti cinesi, trattati con sospetto sul fronte più occidentale del continente, sono invece ben accetti dai paesi dell'Europa dell'Est, che mai come ora hanno disperato bisogno di capitale. Le istituzioni finanziarie cinesi in questi stati si sono mostrate disponibili a concedere investimenti tramite prestiti garantiti a condizioni tanto favorevoli da scatenare contro Pechino l’ira degli investitori occidentali, questa volta accusata di utilizzare metodi finanziari aggressivi e talvolta scorretti pur di raggiungere i propri obiettivi geopolitici. Ben diverso pare dunque il lungimirante Celeste Impero dei giorni nostri, pronto a cogliere al volo anche le opportunità offerte da una grave crisi economica e finanziaria per giungere fin dentro le nostre mura, da quell’impero che neanche mezzo secolo fa Foucault descriveva, secondo il sistema immaginario europeo, come il più sordo agli avvenimenti del tempo, diffuso e rappreso sull'intera superficie d’un continente cinto di muraglie.

da Bucarest Martina Dominici [email protected]

Le Olimpiadi del Mondo Nuovo

Road to London 2012 25 Luglio 1992, 25 colpi di cannone ricordano le edizioni e i campioni del passato, mentre in campo più di 300 coppie ballano la sardana, danza regionale, in versione cinque cerchi. I cieli della Catalogna sono dominati dagli aerei, ma questa volta non battono bandiera tedesca e non bombardano Guernica, colorano il cielo. L’unica invasione è quella dei 200 ballerini di flamenco che prendono lo stadio olimpico del Montjuic sulle note di Placido Domingo. È ora della parata degli atleti. Che si preparino i 3 miliardi di spettatori, non sarà la solita sfilata di campioni. A Barcellona sfila un mondo nuovo

"POSA'T GUAPA, BARCELONA" – È il 17 ottobre 1986. Che Jacques Chirac si rassegni pure, nonostante il suo intervento Parigi non otterrà la XXV edizione dei giochi. Né Amsterdam né Belgrado, questa volta i cinque cerchi rendono omaggio a Gaudì. “La mia gioia è enorme, come quella di tutti gli spagnoli” commenta trionfante Re Juan Carlos, e per las ramblas impazza la festa. “ El COI hizo realidad el viejo sueno de todos” titola El Mundo Deportivo. Non avrebbe potuto fare scelta migliore il Comitato. Barcellona, romantica e rivoluzionaria per cultura, libera per tradizione, fu l’ultima città ad assoggettarsi al potere franchista. Correva l’anno 1939, quando il Frente Popular, dopo mesi di assedio, si arrendeva proprio nella città catalana, ultimo avamposto libero di una Spagna che fu. A 53 anni di distanza giunge a compimento, anche grazie allo sport, un viaggio intrapreso proprio a Barcellona, simbolicamente eletta, in un freddo pomeriggio d’autunno del 1986, come ultima tappa di un pellegrinaggio verso la libertà.

THE POWER TO CHANGE THE WORLD – Dopo 32 anni riemerge il Sudafrica. Incredulo il pubblico non riesce a scorgerne la bandiera. Non c’è sulla pista, vanno ricordate le stragi, ma non è lì che va cercata. Il portabandiera in questo caso siede comodamente in tribuna. È reduce da 27 anni di prigionia, ma non ha perso la forza e il coraggio di sognare.Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l'incudine delle azioni di massa ed il martello della lotta armata dobbiamo annientare l'apartheid!” gridava da Robben Island nel 1980. Ora il messaggio è un altro, Nelson Mandela ne è convinto: "Sport has the power to change the world". Dove non arrivano intelligenza e cultura, può arrivare sicuramente una palla ovale. Sarà il rugby a trasformare un paese in cui il razzismo era sancito dalla legge nella “nazione arcobaleno”; a spianare la strada alla parte nera del paese saranno i “bianchi springboks". Odiati da sempre, odiati a prescindere. In Sudafrica, infatti, niente come la maglia verde delle “antilopi” è sinonimo di apartheid. Solo un pazzo può pensare che ciò che da sempre divide possa ora unire. Un pazzo, o un utopista. O semplicemente un uomo che si è fatto 27 anni di prigionia e che, non appena messo il naso fuori di prigione, è pronto a “perdonare”.

UNA VITTORIA, UN POPOLO – È a Robben Island che nasce il sogno di Mandela. Un sogno sportivo che comincia proprio ai Giochi Olimpici di Barcellona, dove la squadra sudafricana vincerà due medaglie d’argento, e che verrà suggellato dall’indimenticabile vittoria di Ellis Park, il 25 giugno 1995 a Johannesburg. Quel giorno, il Sudafrica guidato da Francois Pienaar ebbe la meglio sulla Nuova Zelanda. Fu una vittoria che unì un paese. A riconoscerlo fu lo stesso Mandela: “Francois, grazie per quanto avete fatto per il Paese”. Il capitano della selezione, imbarazzato dinanzi a tanta grandezza, riconobbe che si, lo sport ha sicuramente dato una mano, ma la più grande vittoria, il 25 giugno 1995, fu quella di Madiba: “No, signor Presidente. Grazie a lei per quello che ha fatto. Ma ritorniamo sulla pista d’atletica dello Stadio Olimpico di Barcellona: lì sfila un mondo nuovo, forse incerottato ma sicuramente nuovo. Applausi a Bosnia e Croazia e ai loro atleti, in fuga da una guerra che interessa solo a chi la soffre. Nati dalla disgregazione della Jugoslavia, dove sta per esplodere un feroce e interminabile conflitto etnico e religioso, fanno di tutto per esserci. Dopo quasi un quarto di secolo torna a competere una sola Germania. “La Germania ci piace cosi tanto che preferiamo averne due”. Cosi Andreotti, ma l’olimpismo non concorda, e a Barcellona prende forma una nuova rappresentativa, anch’essa risorta, insieme a Berlino e alla Germania tutta, il 9 novembre 1989. “Nessuno sa come sarà una Germania riunificata” disse Helmut Kohl, cancelliere della Repubblica Federale prima e della Germania unificata poi, all’indomani del crollo del muro di Berlino. Se fosse stato interrogato il medagliere al riguardo, non avrebbe esitato a definirla vincente.

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"ADIOS, URSS" – Il vento della Perestrojka che ha sconvolto l’Est produce i suoi effetti anche in ambito sportivo. La Guerra Fredda è ormai un capitolo chiuso, l’ Unione Sovietica non esiste più. Un vero e proprio boato scuote lo stadio olimpico quando giunge il momento della Comunità Stati Indipendenti. La spartizione sportiva dell’Unione Sovietica, politicamente divisa in 12 repubbliche, non è ancora avvenuta: sarà ufficiale solo a partire dal Gennaio 1993. Così decidono, dopo mesi di lavorio politico e diplomatico, Juan Antonio Samaranch, Presidente del CIO, e Boris Elstin, primo Presidente della Federazione Russa. L’escamotage salvaguarda il fascino della tradizionale rivalità fra Est e Ovest: a Barcellona le 12 nuove repubbliche gareggeranno per l’ultima volta insieme, saranno scortate dalle note dell’Inno alla Gioia di Beethoven ( chissà perché proprio lui, che era tedesco) e dal vessillo bianco, rosso e azzurro della Russia zarista. L’Olimpiade catalana è infatti l’Olimpiade dell’ultimo Zar. Si chiama Alexander Popov, viene da Sverdlovsk, è figlio di operai e pare che da ragazzo abbia studiato danza al Bolscioi. L’eleganza e la classe spadroneggiano in piscina. È reminiscenza di quei tempi,forse, la sovrannaturale grazia con cui interpreta il nuoto. Scivola in acqua, lo Zar. Medaglia d’oro nei 50 e nei 100 metri, sottraendo per la prima volta nella storia lo scettro della velocità ai colleghi statunitensi.

LE FOLLIE DEL DITTATORE – Il pubblico proprio non riesce a dimenticare le immagini provenienti da Kuwait City. È il 2 agosto 1990, l’esercito iracheno invade il Kuwait, lembo di terra infarcito di petrolio. La comunità internazionale assiste incredula allo profanazione di un paese. Il regime baathista di Saddam Hussein va fermato. L’amministrazione americana guidata dal repubblicano George Bush, con l’avallo delle Nazioni Unite, scatena l’inferno nel Golfo Persico, considerato di vitale interesse. La gestione delle operazioni militari è affidata al Generale Colin Powell. È originario della Giamaica, terra di corridori, dominatori della velocità. Anche il Generale vuole essere veloce, vuole dominare nei cieli e per terra. “Concentrare una forza dominante nel teatro bellico”, questo il principio guida che condurrà gli Stati Uniti ad uno schiacciante successo militare.

IL SOGNO DIVENTA REALTÀUna copia del Foreign Affairs, rivista nella quale il Generale Powell enunciò la dottrina della forza schiacciante, deve averla letta anche Chuck Daly, coach della nazionale statunitense di basket. Se il primo assemblò una overwhelming force per avere la meglio sull’ Iraq husseiniano, il secondo mise insieme i più importanti giocatori del globo per scherzare con il mondo degli umani. “Si, ok, a Seul hanno vinto i sovietici ma lì si giocava, qui a Barcellona vogliamo far sul serio e farlo velocemente, prima della mezzanotte, a quell’ora apre il Jimmy Z’s e noi ragazzoni d’America ci vogliamo divertire. E vogliamo divertire il mondo.” Hanno uno spirito olimpico particolare e non hanno paura ad ammetterlo quando danno una prima, ed ultima,occhiata al villaggio olimpico: “siamo qui per battere gli avversari, non per vivere con loro”. È la squadra più forte che abbia mai giocato, forse che giocherà mai : Larry Bird, Karl Malone, Jonh Stockton, Clyde Drexler, Scottie Pippen,Michael Jordan e Magic Johnson, il più umano degli dei. Se sul campo non ha avversari, il gigante originario del Mississipi è la prova vivente dell’umanità dei marziani: nella vita reale, smessi i panni del campione, combatte contro l’AIDS. Si è già ritirato dall’attività sportiva quando riceve la chiamata per partecipare alle Olimpiadi di Barcellona, se la squadra è da sogno è anche perché Magic ha deciso di esserci, da sieropostivo: "vado alle Olimpiadi,vinco, e dimostro al mondo che si può essere grandi anche nella malattia".

VAE VICTIS! – In nessuna competizione si era mai presentata una squadra invincibile, invulnerabile, dotata quasi di poteri sovrumani. Persino il nome attribuitole, “Dream Team”, è sembrato scelto apposta per evocare qualcosa di astratto, qualcosa che appartiene a una realtà sconosciuta nel mondo concreto del basket olimpico. La sconfitta è un evento impossibile per la squadra dei sogni: trentotto punti di margine sul Portorico, cinquantuno sulla Lituania, trentadue sulla Croazia, alla quale viene concesse l’onore di trovarsi addirittura in vantaggio per 25 a 23, prima di essere annientata.

IL PRIMO PASSO IN UN MONDO NUOVO – Barcellona fu l’Olimpiade dei sogni, e dei sognatori. “C’è chi spera che qualcosa accada, chi vuole fortemente che accada e chi la fa accadere,è solito dire Magic Johnson. I protagonisti di Barcellona appartengono sicuramente al terzo gruppo.

Simone Grassi [email protected]

Vandali africani

In attesa dell’avvio del terzo round di negoziazioni tra Sudan e Sudan del Sud, Juba propone a Khartoum un dialogo diretto, senza la mediazione dell’Unione Africana. In Mali, il rischio per la distruzione dei monumenti storici è sempre più reale, al punto che l’UNESCO inserirà Timbuctu e la Tomba di Askia nell’elenco dei siti a rischio. Due attentati a chiese a Garissa causano diciassette morti e spingono il Kenya nel terrore. In Sudan centinaia di manifestanti protestano contro l’aumento dei prezzi e chiedono la cacciata del governo. Tra Repubblica democratica del Congo e Ruanda si rischia il conflitto. In Zimbabwe continua la ricerca dei diamanti insanguinati. Nel Regno Unito crea scalpore il caso di un omosessuale camerunense richiedente asilo. Il grano etiope in Arabia Saudita. In chiusura, la situazione degli omosessuali in Africa

DIALOGO DIRETTO TRA JUBA E KHARTOUM? – Anche la seconda fase di negoziazioni tra Sudan e Sudan del Sud non ha consentito di raggiungere gli obiettivi preposti, cosicché un terzo round partirà il 5 luglio. Tuttavia, a sorpresa, da Juba è arrivata una proposta a Khartoum: continuare il dialogo a porte chiuse, senza la presenza dell’Unione Africana. Il Sudan del Sud ha presentato un progetto che prevede la completa demilitarizzazione delle aree contese e la creazione di amministrazioni congiunte per il loro governo, fintanto che i negoziati diretti non decideranno il nuovo confine tra i due Stati. In questo senso, il rischio è di non rispettare il termine perentorio del 2 agosto imposto dalla roadmap dell’ONU: «Il ritardo sulla tabella di marcia, – ha detto Pagan Amum, capo della delegazione di Juba ad Addis Abeba, – è solo dovuto al fatto che il Sudan non considera il piano delle Nazioni Unite un punto di partenza, ritenendo prioritaria la questione della sicurezza». Amum, tuttavia, accusa anche l’Unione Africana di non aver ancora invitato i diretti interessati alle negoziazioni su alcuni temi tuttora irrisolti, tra i quali il petrolio, le riparazioni, lo status dei rifugiati. Thabo Mbeki, il mediatore dell’Organizzazione di Addis Abeba, al momento si è limitato a commentare la proposta del Sudan del Sud sollecitando Juba e Khartoum «a mostrare maturità e serietà nella gestione delle trattative, tenendo ben presenti i tempi imposti dalla roadmap».

ALLARME PER I TESORI DEL MALI – Il presidente dell’Assemblea generale dell’ONU, il qatariota Nassir Abdulaziz al-Nasser, ha condannato la distruzione degli antichi monumenti nel nord del Mali per opera dei gruppi islamisti della regione. Molto preoccupante è la situazione di Timbuctu, patrimonio UNESCO che vede le proprie ricchezze minacciate dalla furia vandalica di queste settimane, tant’è che, in brevissimo tempo, questa città entrerà ufficialmente nella lista dei siti in pericolo. L’attenzione è rivolta anche alla Tomba di Askia, il complesso in fango nella regione di Gao costruito dal primo imperatore Songhai alla fine del ‘400 e comprendente, oltre alla celebre struttura piramidale altra diciassette metri, anche due moschee e un cimitero, esempio dello stile islamico del Sahel. Inoltre, la Corte penale internazionale ha riconosciuto che la distruzione volontaria di simboli d’interesse storico, religioso e culturale possa essere considerato un crimine di guerra. Tuttavia, i pronunciamenti della comunità internazionale difficilmente potranno salvare i tesori del Mali.

TERRORE IN KENYA – Due attentati hanno scosso il Kenya: domenica, due chiese della città di Garissa sono state prese d’assalto da gruppi di uomini armati che, dopo aver lanciato delle granate sui fedeli, hanno aperto il fuoco indiscriminatamente. Il bilancio, al momento, è di 17 morti e oltre cento feriti. I terroristi potrebbero avere legami con al-Shabaab, sebbene le Autorità siano ancora caute nell’attribuire la piena responsabilità dei fatti al gruppo islamista somalo.

PROTESTE IN SUDAN – In Sudan continuano le dure proteste a Khartoum e in altre città del Paese in seguito alle misure adottate da al-Bashir per il contenimento del debito pubblico. Per la seconda settimana consecutiva, centinaia di persone sono scese in piazza invocando la caduta del governo e manifestando contro l’incremento diffuso dei prezzi. In alcune zone del Sudan sono state registrate azioni di sabotaggio o interruzione delle vie di comunicazione, mentre non sono noti gli esiti delle operazioni di repressione da parte delle forze di sicurezza. I resoconti parlano di decine di arresti e di feriti, talvolta anche di qualche morto: l’unica certezza è che le Autorità abbiano reagito con durezza, oscurando anche alcuni siti internet informativi.

CRISI TRA CONGO E RUANDA – In aprile, nella Repubblica democratica del Congo, i soldati al comando del generale Bosco Ntaganda (ricercato dalla Corte penale internazionale) si sono ribellati, causando una serie di scontri nella regione del Kivu orientale che potrebbero ampliarsi in una vera e propria guerra. Da subito, Kinshasa ha accusato il Ruanda di sostenere gli insorti, poiché questi, fino alla tregua del 2009, erano parte del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo, un gruppo armato a maggioranza tutsi. Interpellata dal Congo, l’ONU ha intrapreso una serie di indagini che hanno condotto al rapporto del 29 giugno, nel quale si dichiara che le prove dell’operato del Ruanda siano manifeste e che, oltretutto, il Paese sia anche intervenuto militarmente con le proprie forze per assistere gli insorti in alcune operazioni. Da parte sua, il Ruanda ha respinto ogni accusa, annunciando però che, stanti le violenze nel Kivu contro i propri simboli e cittadini, non è escluso un intervento «protettivo»: i presupposti per un conflitto, purtroppo, ci sono tutti.

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INTRIGO IN ZIMBABWE – La scorsa settimana, “Il Caffè Geopolitico” aveva riportato la vicenda della società mineraria Anjin, una compagnia dello Zimbabwe la cui proprietà è divisa tra ambienti della Difesa e investitori cinesi. A far emergere il caso di malaffare è stata la ong Global Witness, che, pochi giorni fa, ha ricostruito gli stretti legami tra i servizi segreti dello Zimbabwe e i flussi di denaro provenienti da varie parti del mondo (soprattutto da Hong Kong) utilizzati per finanziare Robert Mugabe e il suo controllo sul Paese. Global Witness, tuttavia, prosegue oltre e in un lungo dossier giunge a sostenere che parti di quei fondi dovrebbero essere destinati a interventi durante un’eventuale turno elettorale nel 2013, probabile se il piano della Comunità di sviluppo sudafricana per la democratizzazione dello Zimbabwe, il cui garante è Jacob Zuma, riuscisse a raggiungere gli obiettivi preposti. Al momento, comunque, sebbene le informazioni di Global Witness sembrino verosimili – coincidono, infatti, con alcuni sospetti di lunga data – non ci sono conferme in merito.

LONDRA INCERTA SULL’ASILO A UN OMOSESSUALE CAMERUNENSE – Il caso di Valéry Ediage Ekwedde potrebbe scatenare qualche tensione diplomatica tra Regno Unito e Camerun. L’uomo, infatti, è attualmente detenuto presso un centro per immigrati irregolari nei pressi dell’aeroporto di Heathrow dopo essersi vista respinta la richiesta di asilo e dopo che, in maggio, era stato sbarcato dall’aereo che avrebbe dovuto riportarlo a Yaoundé per le sue violente proteste a bordo. Il problema è che Ekwedde è gay, e in Camerun l’omosessualità subisce «uno stigma sociale pervasivo, discriminazioni e molestie, così come il rischio della prigione» (la definizione è del rapporto 2011 del Dipartimento per i Diritti umani USA), al punto che, durante l’anno scorso, secondo Amnesty International, almeno tredici persone sarebbero state arrestate nel Paese con tale accusa. Ekwedde si è dichiarato preoccupato per la propria incolumità qualora fosse ricondotto in Camerun, ma le Autorità di frontiera britanniche si sono giustificate sostenendo che «non ci siano prove credibili dell’omosessualità» dell’uomo. Nel frattempo, l’opinione pubblica si mobilita e la diplomazia di Londra attende istruzioni.

IL GRANO ETIOPE IN ARABIA – Cronicamente carente d’acqua, l’Arabia Saudita è costretta a investire all’estero per ottenere la quantità sufficiente di prodotti agricoli. Per motivazioni geografiche, oltre che culturali, Rihad rivolge il proprio sguardo verso l’Africa e, in questo contesto, l’Etiopia è uno dei maggiori partner commerciali: i sauditi hanno investito più di 100 milioni di dollari per coltivare grano, orzo e riso su terre concesse in affitto da Addis Abeba. In una recente intervista, il ministro dell’Agricoltura arabo, Fahad bin Abdulrahman Balghuniam, ha confermato questo legame tra il proprio Paese e l’Etiopia: «L’Africa, – ha detto il membro del governo saudita, – ha bisogno di investimenti e di partner. A Rihad crediamo fermamente di essere soci affidabili, poiché abbiamo il favore dei vertici africani: con tutta l’umiltà, siamo molto orgogliosi di questa fiducia». Riguardo alle accuse circa violazioni dei diritti dei lavoratori perpetrate dai sauditi, Balghuniam ha risposto con decisione: «Non ho mai sentito parlare di espropri da fonti attendibili. Un conto è leggere un articolo, un altro contro è andare a vedere di persona. Se qualcuno può mostrarci un chiaro episodio di esproprio o di land grabbing o di situazioni simili causato da investitori sauditi, per favore lo indichi». Le vie degli investimenti agrari in Africa sono molteplici.

Beniamino Franceschini [email protected]

Il dittatore che veniva dal freddo

Il bianco, si sa, era il colore delle forze zariste che si opponevano al rosso dei bolscevichi a seguito della rivoluzione d'ottobre. Il colore bianco era tradizionalmente attribuito alla corona degli zar e così la dicotomia tra i due colori fu presto fatta. Ma ora lo zar, il cui titolo completo era "Imperatore di tutte le Russie, Grande, Piccola e Bianca", non è più al potere da quasi un secolo… O forse no? Benvenuti in Bielorussia o, se preferite l'altro nome, in Russia Bianca

L'ULTIMO DEI DITTATORI – L'uomo che si batte per il titolo di zar di Bielorussia, Lukašenko, è considerato l'ultimo dittatore in Europa: in carica dal 1994, quando vinse a sorpresa le elezioni al secondo turno con l'80% circa dei consensi, è stato accusato ripetutamente dai paesi occidentali e dall'OSCE di aver violato gli standard internazionali per il corretto svolgimento delle votazioni presidenziali e per i due referendum che gli hanno permesso di rimanere in carica fino ad oggi. Il primo referendum si tenne nel 1996 ed estese la durata dell'incarico presidenziale da 4 a 7 anni, il secondo nel 2004, con il quale si eliminò ogni vincolo in quanto a numero di mandati (prima al massimo 2); per quanto riguarda le presidenziali, invece, i Bielorussi sono stati chiamati a riconfermare l'uscente capo di stato nel 2001 e nel 2006 ed infine nel 2010 con percentuali di gradimento sempre oscillanti attorno all'80%. L'ultima novità è che Lukašenko, durante un discorso in parlamento il 18 giugno, ha annunciato l'intenzione di procedere a nuove elezioni parlamentari nel settembre 2012. Ma i diritti negati non sono soltanto quelli di un voto corretto.

IL DIALOGO É GIÁ UN'IMPRESA – Le violazioni dei diritti umani più gravi sono però altre e sono quest'ultime a rendere difficile, e a troncare a tratti, il dialogo tra Unione Europea e Bielorussia nel contesto della "Politica di vicinato" dell'organizzazione del Vecchio Continente: l'assenza di libertà di stampa e di protesta, nonché il fatto di essere l'unico stato in Europa a prevedere ed applicare la pena di morte, condizionano pesantemente i rapporti bilaterali. La repressione di attivisti è continua, come è il caso dell'arresto di Ales Belyatsky, del centro per i diritti Vyasna, nel novembre 2011, o come è il caso più recente del giornalista Andrey Pochobut in data 22 giugno; proteste accese sono poi pervenute a Minsk in occasione dell'esecuzione della pena capitale, avvenuta a marzo, prevista per due giovani ventiseienni accusati di aver organizzato l'attentato nella metropolitana di Minsk di aprile dell'anno scorso, nonostante fossero considerati innocenti da molti e le prove a loro carico non fossero decisive. Queste ripetute violazioni (senza citare le misure di carcerazione per alcuni ex candidati alle elezioni) portarono anche il governo degli Stati Uniti a condannare la Bielorussia lo scorso gennaio, affermando che non c'è futuro per le relazioni tra i due paesi senza un reale progresso verso la democrazia da parte dell'ex repubblica sovietica.

PIOVONO SANZIONI – Lo scenario politico a Minsk ha indotto Bruxelles ad adottare nuove sanzioni nei confronti della Bielorussia a marzo: queste vanno a colpire 29 compagnie di uomini del regime e impongono restrizioni ai viaggi nell'Unione a 12 persone. Questa decisione ha causato una rottura diplomatica, realizzatasi con l'espulsione dell'ambasciatore polacco nella capitale bielorussa (la Polonia era lo sponsor principale di queste nuove sanzioni) e la convocazione del rappresentante di Minsk presso l'Ue per "consultazioni" col proprio governo; i restanti 26 paesi, in solidarietà a Varsavia, hanno richiamato in patria i propri ambasciatori. Guido Westerwelle, Ministro degli Esteri tedesco, ha dichiarato commentando la decisione: "Questa è l'ultima dittatura, l'ultimo dittatore in Europa, e non ci faremo intimidire"; la risposta che Westerwelle si è sentito dare da Aleksandr Lukašenko è la seguente: "Meglio dittatore che gay", un riferimento indiretto all'orientamento sessuale del ministro tedesco. I rappresentanti dei governi europei sono però ora tornati a Minsk dopo un mese di tensioni, ma solo dopo che Lukašenko ha concesso il perdono a due prigionieri politici

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LE ROVINE DEL SISTEMA SOVIETICO – Questi irrigidimenti seguiti da repentini gesti conciliatori da parte del governo bielorusso si sono già verificati in passato: il paese vive una difficilissima fase economica e non può permettersi l'isolamento definitivo nel quale rischia permanentemente di essere cacciato; il modello sovietico non è stato quasi toccato dallo scioglimento dell'URSS e Minsk da tempo non riesce più a garantire i sussidi coi quali creava le condizioni per il perdurare di questa economia. La situazione è poi peggiorata da quando, nell'estate 2011, una grave crisi nella bilancia dei pagamenti ha prosciugato le riserve monetarie del paese; i passati problemi sulle tariffe degli approvvigionamenti energetici provenienti dalla Russia, la corruzione dilagante e uno status di hub per il commercio di droga e armi hanno contribuito e contribuiscono a destabilizzare l'economia.

LUNGA VITA ALLO ZAR – Se sul versante occidentale il dialogo e gli scambi economici sono instabili, da oriente giunge la speranza di salvezza per il regime: lo zar Vladimir Putin è sempre stato ansioso di estendere il controllo di Mosca sul piccolo vicino e ciò si concretizza con gli aiuti economici al paese di Lukašenko, piccolo zar in affanno. L'accordo più importante per il futuro delle relazioni economiche tra le due repubbliche è stato siglato nel novembre scorso: Beltranzgaz, il gestore del gasdotto bielorusso, sarà acquistata da Gazprom, l'omologo russo, per la metà mancante al costo di 2.5 miliardi di dollari; inoltre il Cremlino ha offerto un prestito da 10 miliardi, da restituire in 15 anni, per la costruzione della prima centrale nucleare del paese. Dall'inizio dell'anno, poi, Minsk paga l'importazione del gas meno della metà degli importatori europei, prezzo destinato a permanere fino al 2014, anno in cui il prezzo pagato sarà invece quello domestico russo. Misure che, come facilmente intuibile, stringono la presa russa sull'economia del vicino, allontanando la possibilità di quell'equidistanza fra Ue e Russia che il dittatore della Russia bianca aveva cercato di mantenere fino al 2010, anno che decretò il peggioramento che abbiamo descritto nelle relazioni con i partner occidentali a seguito dell'ennesima repressione dell'opposizione.

Matteo Zerini redazione@ilcaffegeopolitico

Una nuova Somalia?

In Nigeria l’emergenza terrorismo contro i cristiani è ormai un dato di fatto: in un Paese enorme e diviso tra un nord musulmano e un sud cristiano, Boko Haram e i gruppi connessi mirano ad acuire il conflitto interreligioso per abbattere lo Stato e favorire una vera e propria anarchia violenta, preliminare ai propri obiettivi, primo fra tutti l’imposizione della shari’a. A sostenere gli islamisti, però, sono anche personalità della classe dirigente locale, interessati alla destabilizzazione della Nigeria – in particolar modo a nord – per ottenere vantaggi personali ed etnici. Il rischio che una nuova Somalia sorga in una regione strategica africana, ricca di petrolio e geograficamente rilevante, è ormai concreto e sta passando sul sangue dei cristiani e sulla corruzione

UN QUADRO GENERALE – Dal 2011, la Nigeria è al centro delle attenzioni per gli attentati a cadenza settimanale che il gruppo islamista Boko Haram (e la galassia di formazioni che vi si richiamano) compie contro i cristiani: a Natale, a Pasqua e pressoché ogni domenica, autobombe esplodono di fronte a chiese e scuole, oppure uomini armati aprono indiscriminatamente il fuoco nei villaggi a prevalenza cristiana. Nel Paese, la violenza è presente sin dall’indipendenza dal Regno Unito nel 1960: con una superficie tre volte superiore a quella italiana e 160 milioni di abitanti divisi tra quasi duecentocinquanta etnie, l’elemento caratterizzante è la mancanza drammatica di una Nazione. Nel tentativo di favorire l’autodeterminazione locale, la Nigeria è ricorsa quasi parossisticamente ad accomodamenti federalisti, cosicché il suo ordinamento conta ormai, oltre al territorio della capitale, Abuja, trentasei Stati. LE DIVISIONI RELIGIOSE – In questo contesto si innestano problematiche di primaria importanza. Una di esse è la lotta per l’emancipazione del delta del Niger, condotta dal celebre MEND e diretta contro sia il governo centrale, sia le installazioni petrolifere delle multinazionali straniere. Esiste poi una corruzione diffusa e logorante, ma l’emergenza per la quale adesso la Nigeria è seguita dall’opinione pubblica occidentale è la violenza interreligiosa. Prima di procedere con alcune note su questo fenomeno e sul rischio di somalizzazione del Paese, è necessario introdurre brevemente l’argomento. Dagli anni ’60, infatti, i temi correlati alla fede non possono essere oggetto di dati statistici, cosicché è complesso definire stime precise riguardo ai culti, soprattutto in un macrocosmo – quello africano – nel quale il sincretismo religioso e il rapido costituirsi di sette sono assai frequenti. Prendendo a riferimento vari censimenti realizzati dalle maggiori congregazioni, si potrebbe affermare che i cristiani oscillino tra il 45% e il 50%, mentre i musulmani siano il 40-50%, con le pratiche tradizionali e animistiche comprese tra il 6% e il 10%. Peculiare, però, è la geografia religiosa, poiché, per ragioni storiche, l’Islam è praticato soprattutto negli Stati settentrionali della Federazione, mentre il Cristianesimo si è affermato a sud, con conseguente caratterizzazione dei gruppi etnici. La diversificazione economica, quindi, ha reso più aspri i contrasti: se da un lato le regioni costiere e meridionali hanno goduto di un relativo sviluppo e dell’attrazione di capitali, dall’altro lato, al contrario, il nord è rimasto più arretrato, con tassi di povertà molto superiori alla media del Paese.

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BOKO HARAM – Nell’ultimo decennio, nel nord, la violenza interreligiosa ha raggiunto livelli esasperati, con il gruppo islamista Boko Haram che minaccia costantemente la sicurezza dei cittadini. Questa formazione, il cui nome significa “l’educazione occidentale è peccato (o sacrilegio)”, fu fondata nel 2002 da Ustaz Mohammed Yussuf a Maiduguri con lo scopo di instaurare la shari’a in Nigeria. Dopo una breve tregua seguita alla morte del leader nel 2009, Boko Haram ha ripreso a colpire con maggiore forza, causando più di mille morti. L’incessante spinta terroristica, inoltre, conduce sempre più frequentemente ad azioni di ritorsione delle comunità cristiane contro i vicini musulmani. Boko Haram, tuttavia, nel breve periodo mira a indurre uno stato di anarchia violenta nel quale ogni parte possa perseguire il proprio interesse, col sostegno di esponenti politici locali: i cristiani sono un obiettivo immediato ed evidente. In un discorso che ha scatenato molte polemiche, il 1° maggio scorso, il già ministro della Difesa nigeriano Theophilus Y. Danjuma ha dichiarato: «La somalizzazione della Nigeria sta avvenendo proprio adesso. La casa sta bruciando, ma dove sono i nostri governatori del nord? Borno è uno Stato fallito, Jigawa è quasi al collasso, Kano è minacciato». LA STRATEGIA DEI TERRORISTI – Diviene sempre più chiaro, infatti, che le azioni di Boko Haram abbiano lo specifico progetto di incrementare l’intensità dello scontro interreligioso, affinché esso divenga uno stato perpetuo anche in assenza di sollecitazioni. Lo scopo è destabilizzare il nord e, di conseguenza, la Nigeria: in questo piano, i gruppi islamisti hanno il beneplacito di personalità centrali della vita della Federazione che giudicano con favore l’eventualità di un collasso dello Stato, dal quale potrebbero derivare mutamenti degli equilibri etnici e spartizione delle risorse. Tutto ciò in un Paese piagato dalla corruzione, dal malcostume politico e da zone oscure sul rispetto dei diritti umani, ma strategico per la posizione geografica, la fornitura di materie prime e la sicurezza dell’intera Africa subsahariana.

Beniamino Franceschini

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Terra bruciata

Ad Addis Abeba continua il secondo round di negoziati tra Sudan e Sudan del Sud. Fonte di contrasto è ancora la mappatura della frontiera e la neutralizzazione della zona di Abyei, con Juba che propone l’arbitrato dell’Eritrea e l’Unione Africana che frena su tale eventualità. In Mali cominciano a verificarsi episodi di scontro tra tuareg e gruppi islamisti, mentre in Sudafrica, Zuma annuncia la necessità di una seconda transizione sociale. Il Global Peace Index 2012 mostra che la Somalia è il Paese più pericoloso al mondo. Un caso di malaffare finanziario in Zimbabwe. Nuovi attentati in Nigeria. Una devastante frana in Uganda. Il pesce avvelenato in Mozambico. In conclusione, di chi è il sangue dei blood diamonds

SUDAN: TRATTATIVE CAPITOLO II – Il 21 giugno sono riprese ad Addis Abeba le negoziazioni tra Sudan e Sud Sudan: una prima fase era stata interrotta il 7 giugno senza un accordo sulla questione della demilitarizzazione della frontiera e della regione di Abyei. Il presidente Kiir ha proposto all’Unione Africana che il progetto di accordo rifiutato da al-Bashir possa essere sottoposto a un arbitrato internazionale, magari con la mediazione dell’Eritrea. Da parte sua, Asmara ha accettato in linea di massima la richiesta del Sud Sudan, mentre da Khartoum non sono arrivate decise prese di posizione, sebbene l’analisi della condotta sudanese durante il primo round dei colloqui faccia propendere per un tendenziale rifiuto. Al-Bashir, infatti, dopo le dichiarazioni concilianti di maggio – coincise con il richiamo dell’ONU a Juba in merito al sostegno agli insorti del Kordofan – sta cambiando atteggiamento, tornando a lanciare accuse circa un complotto che i mediatori ad Addis Abeba sosterrebbero contro Khartoum. C’è da dire che l’Unione Africana, tramite il segretario Jean Ping, ha ricordato al presidente Kiir che, prima ancora di coinvolgere un Paese terzo come arbitro, è necessario proseguire lungo le linee indicate dalla roadmap dell’ONU, ossia raggiungere un accordo entro tre mesi dall’inizio delle trattative e limitare la presenza di attori esterni. Tecnicamente, piuttosto che un arbitrato, l’intervento dell’Eritrea sarebbe più simile a un ricorso ai buoni uffici, ma il dubbio avanzato dall’Unione Africana è stato sufficiente perché sulla stampa del Sudan del Sud ci si interrogasse sulla reale posizione di Jean Ping e dell’Organizzazione, definendo quest’ultima una «pedina» nelle mani di Khartoum. Nel frattempo, la prima settimana di colloqui è scivolata via con risultati pressoché nulli.

AZAWAD: ADDIO ALLEANZA – Continua l’impasse in Mali, sebbene, secondo fonti del 27 giugno, qualcosa stia accadendo nei territori dell’autoproclamatosi Azawad. Mentre i sostenitori di questo nuovo soggetto non ancora riconosciuto sfilavano per Parigi e si radunavano davanti ai palazzi del potere, dal fronte arrivavano notizie di scontri, anche piuttosto violenti, tra tuareg e miliziani islamisti, soprattutto nella zona di Gao, città del Mali centro-orientale, sul fiume Niger. Secondo una prima ricostruzione, i guerriglieri del Mouvement pour l'Unicité et le Jihad en Afrique de l'Ouest* avrebbero preso d’assalto la base dei tuareg in città, espugnandola. Già da tempi si segnalavano episodi di rottura nell’asse tra tuareg e islamisti, ma le notizie provenivano, per lo più, dal centro-nord. Niente si muove, invece, nelle sedi di ECOWAS e Unione Africana.

Il nome del gruppo è appositamente lasciato in francese, poiché non è stato possibile appurare se la traduzione corrisponda all’originale in arabo: “Unicità” è uno degli attributi di Allah, ma potrebbe richiamare anche l’unità dell’Islam, e, in tal caso, il corrispondente italiano sarebbe diverso. In attesa di ulteriori informazioni, si è preferito mantenere la traduzione in francese riportata dalle agenzie di stampa.

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IL “NUOVO CORSO” DELL'ANC – Il presidente sudafricano, Jacob Zuma, ha sbalordito parte dell’assemblea dell’African National Congress presentando un documento sulla necessità di un rapido mutamento del partito, intitolato La seconda transizione: la costruzione di una società nazionale e democratica e l’equilibrio delle forze nel 2012”. «In Sudafrica, – ha detto Zuma, – c’è qualcosa che non va, come i molti crimini violenti. Dobbiamo cambiare radicalmente per affrontare le sfide». La seconda transizione dovrebbe cominciare dopo che, in questi diciotto anni, il Sudafrica ha costruito la democrazia sconfiggendo l’apartheid, e potrebbe impegnare il Paese in profonde modificazioni sociali ed economiche per i prossimi trenta o cinquanta anni. Tutte linee che, comunque, saranno elaborate ufficialmente nel congresso di dicembre.

IL PERICOLO IN AFRICA – L’Istituto per l’Economia e la Pace ha reso pubblico il Global Peace Index 2012, un indice che misura quanto un Paese sia propenso a essere pacifico, inserendo nella valutazione anche l’esposizione a conflitti interni o al terrorismo. Riguardo ai Paesi africani, al primo posto quanto a rischi e sottosviluppo derivanti dalla guerra c’è la Somalia (158a), che mantiene il triste primato anche a livello internazionale. A seguirla il Sudan, al 156° posto, quindi la Repubblica democratica del Congo (154a), il Centrafrica (151°) e la Libia (147°). Lo Stato africano col miglior ranking è Mauritius, in 21a posizione, ma, tra i giganti del continente nero, il Mozambico è 48°, mentre a subire un brusco declassamento sono il Ruanda (da 99° a 119°) e l’Egitto (da 73° a 111°).

AFFARI LOSCHI IN ZIMBABWE – Un caso dai confini incerti sta tenendo banco in Zimbabwe. Tutto è partito a metà giugno dal ministro delle Finanze, Tendai Biti, che ha denunciato l’assenza di pagamenti da parte della Anjin, una delle maggiori compagnie minerarie del Paese. Questa società è strettamente connessa all’esercito, tanto che la metà delle quote è detenuta dal generale Charles Tarumbwa, accusato dall’Unione Europea di aver finanziato attività terroristiche con finalità politiche. Secondo il ministero delle Risorse minerarie, la Anjin è al 50% in mano a investitori cinesi e al 40% della Zimbabwe Defence Industries, mentre il rimanente 10%, che si credeva del governo, in realtà non è stato ancora individuato. Due note alimentano la particolarità del caso: il capitale della Anjin, che detiene sette miniere, è di 2mila dollari, e nel suo consiglio d’amministrazione sono presenti personaggi riconosciuti da Unione Europea e ONU quali responsabili di violazioni di diritti umani e crimini di varia natura.

LA NIGERIA TREMA – Nuovi attentati in Nigeria, in due distinti Stati del nord. Nel primo episodio, a Goron Dutse, un’esplosione ha colpito una locale stazione di polizia, quindi sparatorie sono state avvertite in varie zone della città. Nel secondo caso, a Damaturu, una bomba è scoppiata nei pressi del Palazzo del Governo, anticipando un assalto di uomini armati. Il paese sembra destinato ad una progressiva discesa nella guerra civile strisciante.

FRANA IN UGANDA – Una vasta regione ugandese al confine con il Kenya è stata colpita tra domenica e lunedì da una frana che ha sommerso almeno tre villaggi. Al momento, i morti sono 18, ma ancora mancano all’appello più di settanta persone, mentre circa 500 sono tuttora isolate. L’area non è nuova a fenomeni simili, soprattutto quando, come in questo caso, piogge di grande intensità si susseguano per mesi: già nel 2010, una frana aveva causato la morte di oltre cento persone.

FILETTO AI PESTICIDI – Allarme per la salute in Mozambico: le Autorità competenti hanno riscontrato la presenza sul mercato di pesci catturati tramite l’utilizzo di terreno contaminato con pesticidi. L’inquinamento deriverebbe sia dall’eccessivo uso di sostanze chimiche, non assorbite, sia dal sotterramento di fusti di pesticidi banditi dalla legge.

Beniamino Franceschini [email protected]

Golpe ‘legalizzato’

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Dopo 4 anni di governo, l’ex vescovo di centrosinistra Fernando Lugo è stato destituito dalla carica di Presidente del Paraguay. A disarcionarlo è stato un voto di sfiducia del Parlamento, che ha approvato a larga maggioranza l’impeachment del Presidente per “malgoverno”. Per quanto legale, la decisione appare ai limiti della democraticità, ed ha suscitato dure reazioni da parte dei governi della zona e delle organizzazioni regionali

GOLPE O NON GOLPE? – Fino a pochi decenni fa, l’America Latina era la terra dei golpe violenti e delle dittature esplicite, dell’esercito che disarcionava capi di governo democraticamente eletti, spesso con complicità a stelle e strisce: l’importante era scongiurare ipotetiche penetrazioni comuniste nel giardino di casa statunitense. Oggi, qualcosa è cambiato: l’esigenza di mantenere una certa credibilità democratica ha necessariamente fatto diminuire, se non sparire del tutto, i colpi di stato violenti. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ai colpi di stato contro Chávez in Venezuela e Zelaya in Honduras, ma rimangono comunque esempi isolati. Dalla regione non sono però scomparsi i “golpe” legalizzati, bianchi o parlamentari e le situazioni politiche costituzionali eppure non pienamente democratiche: la destituzione da Presidente del Paraguay di Fernando Lugo, avvenuta venerdì 22 giugno, rientra in queste ultime categorie.  LA DESTITUZIONE – La Camera ed il Senato Paraguayano hanno infatti votato a schiacciante maggioranza l’impeachment per l’ormai ex Presidente. I due rami del Parlamento hanno seguito il dettato dell’articolo 225 della Costituzione, che prevede che il Presidente possa essere sottoposto a giudizio politico per il cattivo svolgimento delle proprie funzioni: una formula vaga, che chiaramente affida ampia capacità discrezionale al Parlamento. Sotto questo aspetto, lo stesso Lugo ha ammesso che il provvedimento, definito “golpe parlamentare”, è illegittimo, ma non illegale. Alcuni osservatori hanno paragonato la decisione del Congresso Paraguayano ad una semplice mozione di sfiducia, come avvengono in altri Paesi del mondo: in questo caso, però, la decisione fa pendere il bilanciamento dei poteri in direzione del Parlamento, attenuando in modo decisivo il carattere presidenziale dello Stato. A motivare un voto così negativo vi sono accuse precise: la motivazione più recente sono gli scontri di Curuguaty del 15 giugno tra polizia e contadini senza terra, che hanno provocato 17 morti (11 contadini, 6 poliziotti) e le dimissioni immediate del Ministro dell’Interno Carlos Filizzola. Ma i Parlamentari non si sono limitati a questi episodi: a motivare l’accusa di incapacità politica vi sono l’uso di una base militare per un incontro politico nel 2009, l’alto livello di violenza nel Paese e la firma del dibattuto trattato di Ushuaia II nell’ambito del Mercosur. D’altro canto proprio la questione agraria era un punto centrale del mandato di Lugo, arrivato al potere con il sostegno dei poveri in un Paese dove l’85% delle terre coltivabili sono in mano al 2% dei proprietari, fra cui anche multinazionali come Monsanto e Cargill. Proprio i latifondisti sono stati una continua spina nel fianco per l’ex presidente, che ha dovuto anche far fronte ad una maggioranza parlamentare ostile cui alla fine si è dovuto arrendere.

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LE REAZIONI – Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere, soprattutto fra gli esponenti della sinistra latinoamericana cui Lugo era più vicino: Argentina, Uruguay e Brasile hanno richiamato gli ambasciatori per consultazioni e sospeso la partecipazione del vertice Mercosur in programma venerdì in Argentina, mentre il Venezuela ha rotto i rapporti diplomatici. Nel comunicato del Mercosur, sottoscritto anche dagli associati Venezuela, Cile, Perù, Bolivia ed Ecuador, viene espressa “la più energica condanna per la rottura dell’ordine democratico avvenuta in Paraguay”. Anche l’Unasur ha condannato duramente il golpe, mentre Osa e Stati Uniti hanno assunto posizioni più interlocutorie: il presidente dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) Insulza ha dichiarato infatti che l’organizzazione “non ha il potere di intervenire in Paraguay”, ma che se anche lo avesse “non ci sarebbe accordo fra i membri”. Al momento il Paraguay appare quindi isolato nella regione: d’altro canto le elezioni presidenziali sono previste per l’anno prossimo, e Lugo non si sarebbe potuto ricandidare in ogni caso. Facile pensare che dopo un anno di “quarantena” il Paraguay possa ristabilire relazioni normali con i propri vicini, anche se con qualche timore aggiuntivo per la tenuta democratica del Paese.  Francesco Gattiglio [email protected]

Un regno in bilico

Un anno e mezzo dopo l'ottimismo iniziale per le Primavere Arabe, il Medio Oriente è ancora in subbuglio. Come altri Paesi della regione, anche la Giordania è attraversata da numerose tensioni e proteste. Proprio la grave crisi economica e politica mina da oltre un anno la stabilità del regno hashemita e nonostante alcuni interventi legislativi del governo queste misure sono state considerate insoddisfacenti per fermare le proteste. Così il regno di Abdallah II si trova a vivere una nuova e dura stagione politica tra esigenze di cambiamento e necessità di conservazione dello status quo

CRISI POLITICA ED ECONOMICA – Negli ultimi dodici mesi si sono avvicendati al governo ben tre governi prima dell'attuale retto da poco meno di un mese da Fayez Tarawneh. Tutti i precedenti Premier sono stati dimissionati dal Re, come consuetudine politica giordana, ufficialmente per incapacità nel portare a termine le riforme utili al Paese, molto più verosimilmente, invece, le dimissioni sono nate per i contrasti sorti tra il sovrano hashemita e l'esecutivo circa l’agenda politica che si sarebbe dovuto intraprendere.

Samir Rifai, Marouf al-Bakhit e Awn Khasawneh sono tutte personalità molto importanti del Paese e tutte incaricate dal Re in persona di guidare il Paese verso processi di riforme costituzionali in senso più democratico. Sotto la spinta popolare, il sovrano aveva incaricato i precedenti Primo Ministro di redigere una nuova legge elettorale basata sulla rappresentanza proporzionale in modo da devolvere più poteri al Parlamento e limitare così il ruolo delle agenzie di sicurezza, come il General Intelligence Department (GID), nella vita pubblica del Paese. Altra riforma ritenuta urgente è l'istituzione di un sistema multipartitico effettivo che faciliti l'accesso alle opposizioni di sinistra e islamiche, come l'Islamic Action Front (IAF), braccio politico dei Fratelli Musulmani giordani. 

Ma la crisi politica giordana è figlia sia di alcune scelte sbagliate in termini di politica economica, sia dalla quasi totale assenza di materie prime – principalmente acqua e idrocarburi – che hanno prodotto una dipendenza economica dagli aiuti esterni (soprattutto finanziamenti sauditi e statunitensi) e dalle risorse energetiche dai Paesi vicini (Egitto e Israele). Infatti, una delle cause principali delle proteste di questi mesi è proprio il forte incremento dei prezzi dell'elettricità (+150% nell'ultimo anno) ed, in generale, dell'aumento dei costi di importazione del gas (+25%).

Nonostante le proteste di questi mesi e a differenza di quanto accaduto nei Paesi vicini, la monarchia hashemita continua a godere di una forte approvazione popolare e nessuna forza di opposizione, neanche quelle islamiche, ha mai preteso un cambio di regime costituzionale.

UN PAESE RELATIVAMENTE POVERO – Come altri Paesi dell'area, Amman sta subendo sia i contraccolpi della crisi economica globale, sia i riflessi delle Primavere Arabe. Secondo i dati OCSE, l'economia giordana è tra le più piccole e povere del Medio Oriente. Amman, come segnala il Fondo Monetario Internazionale, mostra degli indicatori macro-economici piuttosto contrastanti: infatti, se prima della crisi il Paese godeva di una forte crescita del PIL (di media +5% l'anno), oggi, invece, ha un PIL, sempre positivo, ma che cresce della metà rispetto a 4 anni fa (2,5% per il 2011). Altri dati positivi sono quelli relativi al debito estero, in costante discesa (oggi pari ad oltre 5 miliardi di dollari), e la capacità di incrementare gli investimenti diretti esteri soprattutto dalla regione del Golfo (Arabia Saudita e Qatar, in particolare).

Ma a preoccupare il governo sono i dati relativi all'alta inflazione (6,4%), l'altissima disoccupazione (i dati ufficiali del governo rilevano il 13%, ma secondo FMI e Banca Mondiale sarebbero più veritiere la stime del 30%) – in particolar modo quella giovanile (circa il 70%) –, la diminuzione delle riserve internazionali (secondo la Banca Centrala di Giordania, nel solo primo quadrimestre del 2012, le riserve estere sono diminuite di circa il -16,5%), l'aumento del deficit di bilancio (circa il 10% del PIL), l'incremento della soglia di povertà della popolazione (circa il 14%) ed, infine, l'elevato numero di rifugiati e profughi (più del 7% della popolazione secondo l'UNHCR), provenienti da Territori Occupati Palestinesi, Iraq e Siria.

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IL PROBLEMA ENERGETICO – Uno dei principali problemi della Giordania rimane la mancanza di materie prime che costringono il Paese a dover importare circa il 96% del suo fabbisogno energetico nazionale. Proprio la continua richiesta di energia ha fatto prevedere al Dipartimento di Statistica giordana  un raddoppiamento degli attuali consumi energetici nazionali da qui al 2020.

Così a fronte dell'incremento della domanda di energia e della riduzione delle importazioni di gas egiziano, il governo ha deciso di investire massicciamente in vari progetti infrastrutturali che possano ridurre la totale dipendenza dall'estero. Amman, infatti, ha recentemente ricevuto un prestito dagli Stati Uniti (100 milioni di dollari) per la costruzione di una centrale solare nel deserto che sarà in grado di generare circa 60mila tonnellate di carburante annuo e capace, dunque, di soddisfare una buona parte dei consumi interni.

Altri progetti in corso di valutazione del governo sono la costruzione di un rigassificatore di gnl (gas naturale liquido) al largo del porto di Aqaba sul Mar Rosso – il quale dovrebbe divenire attivo nel 2014 – e lo sviluppo di un programma nucleare civile nazionale. Il primo obiettivo sarebbe il punto finale di un possibile accordo di fornitura di gas con Israele, il quale dopo le recenti scoperte nel Mediterraneo Orientale potrebbe divenire nel prossimo futuro un importante player energetico. Lo sviluppo di un programma nucleare civile dipende, invece, dall'aiuto che l'Arabia Saudita – già primo partner commerciale del Paese – saprà dare alla monarchia hashemita senza incorrere in possibili resistenze di altri partner locali e senza correre il rischio di rompere i sempre delicati equilibri regionali.

Il problema principale per portare a termine questi dispendiosi progetti, però, risiede nella capacità del governo giordano di reperire i fondi necessari, soprattutto all'estero, per la costruzione di queste infrastrutture strategiche.

IL FUTURO INCERTO DEL PAESE – Grave crisi economica, deficit energetico, povertà dilagante e probabile chiusura di ogni prospettiva riformatrice. Questi sono solo alcuni dei principali punti chiave che il governo di Amman dovrà affrontare nei prossimi mesi e ai quali la monarchia hashemita sembra aver già risposto trovando come unica soluzione il rinvio sine die di qualsiasi tentativo di apertura democratica. Ma in un momento così difficile e delicato per il Paese tanto a livello interno, quanto sul fronte regionale, non è improbabile che la situazione possa degenerare se non verranno attuate quelle misure minime utili ad una ripresa della società e dello Stato giordano.

Giuseppe Dentice

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Il futuro sulle ali (1)

Oggi vi proponiamo un articolo un po’ diverso dal solito che parla di strategia militare. Il ministro della Difesa Di Paola intende ristrutturare l’intero strumento militare, dotando l’Aeronautica dei mezzi più sofisticati per fronteggiare minacce convenzionali e asimmetriche. Colonne portanti della componente aerea saranno il Joint strike fighter e i droni che presto potranno compiere anche missioni di attacco

 

LA STRATEGIA DELL’ARIA – Il quadro geopolitico internazionale è caratterizzato da una grande fluidità, gli equilibri infatti cambiano rapidamente per l’ascesa e l’aumento d’influenza di nuovi attori globali come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Inoltre, l’elevata instabilità di numerose aree del mondo determina l’emersione di nuovi rischi come la minaccia terroristica, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, limitazioni alla libertà di accesso ai “beni comuni”, cioè gli spazi aerei, marittimi e cibernetici. In questo contesto la regione euro-atlantica è relativamente stabile ma circondata da una vasta area turbolenta – dall’Africa all’Asia passando per il Medio oriente – per le quali il ricorso a missioni multilaterali di stabilizzazione costituisce un’eventualità tutt’altro che remota.

E’ questa la visione strategica del ministro della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, che il 15 febbraio scorso ha illustrato in Parlamento le linee di indirizzo per la revisione dello strumento militare. Di Paola, quindi, tenendo presente gli impegni internazionali presenti e futuri del nostro Paese, intende modernizzare le forze armate riducendone gli effettivi – sovradimensionati per le esigenze attuali – aumentandone però la professionalità e la disposizione di mezzi tra i più avanzati dal punto di vista tecnologico. Infatti oltre a prevedere investimenti cospicui sulle forze speciali – essenziali per fronteggiare minacce asimmetriche – la Difesa integrerà, tra l’altro, la propria componente aerotattica con l’acquisto di 90 F-35 (per una spesa stimata sui 15 miliardi di euro) e procederà a migliorare la componente ISTAR (Intelligence, surveillance, targeting acquisition and reconnaissance) sempre più incentrate sul ruolo  dei droni radiocomandati.

 

F-35: IL PERCHÉ DI UNA SCELTA – Fin dagli anni novanta l’Aeronautica militare italiana (AMI) e la Marina, consapevoli della necessità di sostituire tre linee di volo (Tornado, AMX e Harrier II) nei primi decenni del 2000, hanno seguito il programma americano di ricerca JAST (Joint Advanced Strike Technologies) avviato nel 1993, per la progettazione di un aereo militare da attacco di quinta generazione con capacità stealth, cioè ridotta visibilità radar. Nel 1996 il JAST è diventato un programma di acquisizione armamenti, cambiando il nome in JSF (Joint Strike Fighter) e nel 2001 la cordata industriale capitanata dalla Lockheed Martin ha vinto la gara di selezione con il prototipo X-35, preferito all’X-32 della concorrente Boeing. Per ridurre i costi di produzione, gli USA hanno consentito l’adesione al programma di Regno Unito (unico partner di primo livello in grado di influire sulla progettazione), Italia, Olanda, Canada, Turchia, Australia, Norvegia e Danimarca. Il nostro Paese partecipa con una quota d’investimento del 4% e fino ad ora ha speso per la sola fase concettuale-dimostrativa 10 milioni di dollari.

 

QUANTO MI COSTI? – Il valore complessivo del programma JSF è notevolmente aumentato e secondo il rapporto del marzo 2011 redatto dal Governament Accountability Office (GAO), l’agenzia indipendente che supporta il Congresso USA nel monitoraggio delle politiche federali, si è verificato un incremento dai 231 miliardi di dollari del 2001 ai 382,5 miliardi di dollari del 2011. Inoltre, il costo medio del velivolo (compresi i prototipi) è passato dagli 81 milioni di dollari iniziali (2001) ai 156 del giugno 2010. Secondo una stima dell’AMI, i velivoli destinati all’Italia inizialmente costeranno sugli 80 milioni di euro l’uno, stabilizzandosi poi a 55-60 milioni entro il 2016-2017 grazie al perfezionamento dei processi industriali.

 

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LE CRITICITÀ – Il JSF, oltre ad avere costi molto elevati, è oggetto di critiche da parte di numerosi analisti per le sue prestazioni giudicate deludenti per il ruolo secondario di difesa aerea.

Per quanto riguarda i profili di interesse del nostro Paese, il ritardo nello sviluppo della variante F-35B a decollo verticale (STOVL), di cui si era ipotizzata anche la cancellazione, costituisce un serio problema per la componente aerotattica imbarcata della portaerei Cavour. Gli Harrier II, infatti, dovranno essere sostituiti entro breve tempo e oltre alla variante del JSF, non esistono progetti per la costruzione di aerei STOVL di ultima generazione.

Un’altra criticità riguarda il tipo di armamenti da utilizzare sull’F-35, tenendo presente che buona parte delle bombe e dei missili in dotazione all’AMI non rientrano nella stiva interna dell’aereo, requisito essenziale per mantenere intatte le specifiche stealth. Il carico sotto le ali, infatti, aumenterebbe la traccia radar dell’aereo, vanificandone l’invisibilità ai radar. Questa circostanza costringerà la Difesa ad acquistare ulteriori tipologie di munizioni statunitensi, aumentando ulteriormente il costo del sistema d’arma.

 

COMPETIZIONE INTERNA? – Infine, il JSF è concorrente diretto nelle esportazioni proprio dell’Eurofighter, il caccia europeo da difesa aerea con capacità aria-suolo in dotazione all’AMI,  come dimostrato dalla scelta compiuta dal Giappone, che ha preferito il primo per sostituire i sui vecchi caccia F-4 Phantom II con un ordine di 42 velivoli e un’opzione fino a 200.

Questa sconfitta commerciale dell’Eurofighter coprodotto dal nostro Paese, oltre a quella recentemente incassata dall’India che gli ha preferito il francese Rafale, contribuisce a ridurre la produzione del più vasto programma industriale nel settore europeo della difesa, già colpito dai tagli dei Paesi committenti.

E’ chiaro, quindi, che la scelta italiana di fare concorrenza al programma Eurofighter di cui si è parte integrante, è legata all’attrattiva innegabile della tecnologia stealth legata all’F-35, che gli americani dovrebbero rilasciare nel tempo agli alleati, anche se questa eventualità è tutta da verificare.

A tal proposito, infatti, è utile ricordare che il 27 settembre 2006 il Congresso USA, con voto unanime, vietò l’esportazione dell’F-22 Raptor – il caccia stealth di quinta generazione da superiorità aerea “fratello maggiore” del JSF – e delle relative tecnologie anche nel caso di versioni depotenziate. (Continua)

 

Francesco Tucci

Onore ai vinti?

– Road to London 2012 – Questa volta ci sono tutti. Statunitensi e sovietici, tedeschi dell'Est e tedeschi dell'Ovest, arabi ed israeliani, iracheni ed iraniani. Bianchi, neri e gialli. Nessun attentato a scuotere il villaggio olimpico, nessun boicottaggio politico. La XXIV edizione dei Giochi Olimpici smette l'elmetto per indossare calzoncini e tuta. State pure seduti in poltrona questa volta, cari politici e presidenti, a Seul parla solo lo Sport. E godetevi lo spettacolo

BISOGNA SAPER VINCERE – L'edizione sudcoreana dei Giochi Olimpici è un'edizione che va di corsa. Seul ha fretta di correre verso il mondo: “il mondo a Seoul, Seoul verso il mondo”. Lo si legge sulle bianche fiancate degli autobus che attraversano la capitale e sulle magliette in vendita nei grandi magazzini. Lo si legge nella voglia di dimenticare momentaneamente che esiste un trentottesimo parallelo. Questa volta gli Stati Uniti non dispiegheranno le loro truppe sul confine, ma sui blocchi di partenza e nelle piscine. Il generale MacArthur sarà sostituito da Carl Lewis e Ben Johnson, saranno loro i proiettili a stelle e strisce, e l'Unione Sovietica non dovrà più nascondere l'invio dei propri atleti in Corea del Sud, come fece con le proprie truppe negli anni 50 per fornire assistenza a Pechino in sostegno della Corea del Nord di Kim Il Sung. “L'invasione cinese”, questa volta, ha un solo scopo: una medaglia.

Sabato 17 settembre 1988 – In un caldo e soleggiato pomeriggio, s'alza il sipario sulla rassegna olimpica sudcoreana. Ambasciatori e primi ministri questa volta prendono comodamente posto in tribuna. Non partecipa alla rassegna la compagine nordcoreana, a dividere le due coree c'è infatti sempre la stessa linea d'armistizio fissata nel lontano 26 luglio 1953 a Panmunjon. Più di trent'anni sono passati, ma la situazione politica nel paese è praticamente immutata. Neanche lo sport riesce ad ammorbidire la situazione: Pyongyang pretendeva l'assegnazione di una cospicua fetta di competizioni, richiesta inconciliabile con i principi della Carta Olimpica, la quale prevedeva l'assegnazione dei Giochi ad una singola città. Ma se in altre epoche il CIO avrebbe risposto con sdegno alla richiesta, questa volta il Comitato negozia, timoroso di un quarto boicottaggio per ragioni politiche: 5 discipline andranno alla Corea del Nord. È questa l'offerta del CIO, prendere o lasciare. Pyongyang decide di lasciare. La Corea del Nord tenterà di sollecitare la solidarietà degli altri paesi del blocco comunista, senza ottenere alcuna risposta positiva. Come detto, le olimpiadi di Seul corrono verso il mondo, al pari del processo distensivo Occidente-Oriente.

VERSO NUOVI MONDI? – Al vi seppeliremo” di Nikita Chruščëv si sostituì la perestroika di Mikail Gorbačëv. Se il primo all'ONU sbatteva le scarpe in faccia alla comunità internazionale, il secondo, mentre gli atleti di tutto il mondo si preparavano al grande evento, invocava un nuovo approccio alle relazioni internazionali, basato sui principi della sicurezza globale e dell'interdipendenza. Mosca 1980 e Los Angeles 1984 erano ormai solo un ricordo. Stati Uniti e Unione Sovietica, grandi rivali per un quarantennio, correvano verso il disgelo. Mentre il comunismo sovietico intraprendeva il sentiero che l'avrebbe condotto al cimitero delle illusioni, gli Stati Uniti si apprestavano a diventare l'unica potenza con proiezione globale. Banditi per sempre i missili Pershing II e i Cruise della NATO nonché tutti i sovietici SS 20 con il trattato INF firmato nel 1987, il mondo si riscopriva più sicuro. Tutto era pronto per far si che la competizione tra le due superpotenze si spostasse nelle palestre, lì l'Unione Sovietica era ancora competitiva, eccome.

OLTRE I CONFINI DELL'IMMAGINAZIONE – Si accendono finalmente i riflettori sulla XXIV edizione dei Giochi. Gli occhi di tutto il mondo sono puntati su un ventisettenne canadese di origine giamaicana detto Big Ben, già campione del mondo e detentore del record mondiale sui 100 metri piani. Ben Johnson, sino ad allora l'uomo più veloce di sempre, sembra il simbolo perfetto per l'Olimpiade che va di corsa. Se la dovrà vedere con il figlio del vento, Carl Lewis. L'intero pianeta sta con il fiato sospeso. Si prospettano i 10 secondi più importanti della storia dell'atletica. Sabato 24 settembre, 13.30. «I concorrenti si inginocchiano, guardano la pista. Johnson si aggrappa al suolo a mani larghe, come se volesse abbracciare l'intera corsia. Gli altri concorrenti sembrano fragili al suo confronto, sembrano esseri umani Spara lo starter e Johnson si avventa subito in testa. Eolo soffia come non mai, ma questa volta Lewis resta dietro. Johnson violenta la pista, Lewis sembra accarezzarla. Johnson vince, Lewis arriva secondo. Johnson demolisce, Lewis viene demolito. Johnson corre per la prima volta nella storia 100 metri in 9 secondi e 79 centesimi, Lewis “solo” in 9 e 92. Johnson è “ai confini della realtà”, Lewis è solo il figlio del vento. Johnson torna a casa a mani vuote, Lewis con la medaglia d'oro. Qualcosa non torna? Johnson imbroglia, Lewis no.

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LA TRUFFA DI BIG BEN – In Europa sono le otto di sera, a Seul è già notte fonda. È l'agenzia France Press a diramare la clamorosa notizia: Ben Johnson sarebbe risultato positivo al controllo antidoping. Stanazol, così si chiama lo steroide incriminato. Infarcita di condizionali, la notizia aspetta di essere confermata. Solo poche ore prima, 90000 estasiati spettatori non credevano ai loro occhi. 9 secondi e 79 centesimi per prendersi gioco del dio tempo, del dio vento e di suo figlio, per ridicolizzare la storia dello sport. 90000 cuori conquistati in pochi attimi. Ai confini della realtà, grida il mondo impressionato. Troppo veloce per essere vero. Infatti vero non è. Sono le dieci del mattino quando un portavoce del CIO ufficializza la notizia: il laboratorio antidoping dei Giochi ha accertato inequivocabilmente che nell'urina di Johnson ci sono evidenti tracce di stanazol. La medaglia d'oro torna nella mani del legittimo proprietario. Lewis, del resto, ama l'atletica. Quando corre accarezza la pista, non la violenta. Il gigante canadese, deificato sino a pochi secondi prima, torna ad essere un uomo. “Non ho nulla da nascondere dichiara l'ormai ex campione olimpico se avessi preso qualcosa di illecito, allora si che mi sentirei distrutto”. Ma la spavalderia del campione dura poco.

IL SAPORE AMARO DELL'INGANNO – Gli echi della truffa ordita da Big Ben proseguono per mesi. A Toronto viene perfino aperta un'inchiesta. Se in Corea intimidiva gli avversari con la sola presenza sulla pista, ora è lui l'intimidito. Al sorriso compiaciuto di Seul si sostituiscono le lacrime dinanzi ai giovani appassionati dell'atletica: “siate onesti e non prendete droghe. Io so di cosa parlo, io so cosa significa imbrogliare. Se sinora avevo mentito, l'avevo fatto soltanto per salvare la mia famiglia della vergogna,”. Moriva l'atleta, che non sarebbe più tornato competitivo, risorgeva l'uomo.

LE 7 VITE DELL'OLIMPIADE – Il doppio gancio di Tommie Smith e John Carlos la mise al tappeto. Lei si rialzò. I colpi di kalashnikov di Settembre Nero la ferirono mortalmente. Lei guarì. I boicottaggi politici di Mosca e Los Angeles la mutilarono, ma anche in questo caso l'Olimpiade fu in grado di rialzarsi. A Seul, però, a ferirla fu l'essenza stessa dello sport: il campione. L'Olimpiade sudcoreana, la prima che dopo 12 anni ha schivato qualsiasi boicottaggio, si chiude ufficialmente la notte di domenica 2 ottobre. Sublimata dai “graffi” delle lunghe unghie della statunitense “Flo Jo” Florence Griffith Joyner, assoluta dominatrice sulle piste d'atletica, e dall'indimenticabile sconfitta statunitense nel basket, guarda caso contro l'Unione Sovietica, passerà comunque alla storia come l'Olimpiade dell'ormone.

L'ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA – Quella di Ben Johnson è la storia di un corpo sequestrato, trasformato, reso innaturale. Preso in prestito dallo sport e assoggettato alla logica dei record. La stessa logica che trasformò, in questo caso per sempre, il corpo di Heidi Krieger, campionessa europea di lancio del peso nel 1986. Gareggiava per la DDR, il suo corpo doveva contribuire al miracolo sportivo di un paese di 17 milioni di abitanti capace di vincere 160 titoli olimpici e quasi 3500 tra campionati europei e mondiali. Anche la sua è la storia di un corpo sequestrato, trasformato in volontà politica. Dietro ai 21 metri che le valsero medaglie e vittorie, si nascondeva la STASI, polizia segreta del regime. “Nello sport ero qualcuno, una specie di pupazzone Michelin. Solo nello sport, però. Poi non fui più niente nemmeno lì. Mi rovinai la schiena, fianchi,ginocchia. Una donna, un uomo, non so. Un qualcosa senza identità. Non sapevo più chi fossi”. Oggi Heidi si chiama Andreas. Ha cambiato sesso nel 1997. La STASI le ha rubato tutto: il corpo, l'anima, la sessualità, i ricordi, lo sport, l'identità. “Una vittoria olimpica non è tutto nella vita”, disse Ben Johnson, chiamato a restituire la medaglia. C'è sicuramente qualcosa di più importante. Ci sono quei 90.000 spettatori traditi, ci sono i corpi rubati per competere. A Seul si aprì ufficialmente il baratro del doping. Riuscirà lo sport ad avere pietà? A smettere di sequestrare corpi? La risposta, anche questa volta, soffia nel vento: “gli altri competono troppo, non fanno altro che competere. Io non l'ho mai fatto.” Prenditi anche quest'altra medaglia Carl, tu si che te la sei meritata.

Simone Grassi [email protected]

Tutto da rifare?

“Hanno atteso ottant’anni per prendere il potere… davvero credete rinunceranno ora che sono a un passo?” Con questa frase un’opinionista egiziano indicava la determinazione della Fratellanza Mussulmana nel non farsi intimidire davanti alla prospettiva di non riuscire a prendere il potere nell’Egitto post-Mubarak. Dall’altra parte del resto i militari appaiono egualmente determinati a non concedere spazi agli avversari

 

CHI HA VINTO? – Il secondo turno delle elezioni presidenziali egiziane si è appena svolto e già la Fratellanza Mussulmana inneggia alla vittoria, proclamando un 52-55% di consensi guadagnato dal loro candidato Mohammed Morsi. Tuttavia Shafiq contesta questi risultati e del resto quelli definitivi si avranno solo giovedì. Quello che è sicuro è che la sfida militari-Fratelli ha raggiunto un nuovo apice con le recenti risoluzioni della Corte Suprema.

 

TUTTO DA RIFARE – La Corte ha infatti stabilito che un terzo circa dei seggi assegnati alle recenti elezioni parlamentari erano da annullare a causa di modalità incostituzionali. Il Consiglio Supremo delle Forze Armate (CSFA) ha quindi sciolto l’intera Assemblea del Popolo (il Parlamento egiziano) in attesa di nuove elezioni da svolgere in futuro. Nel frattempo rimane comunque attiva una commissione di 100 membri che dovrà scrivere la nuova costituzione, ma l’effetto pratico della mossa è quello di riportare il potere nelle mani del CSFA durante questo periodo.

 

Appare evidente un tentativo di rimescolare le carte del potere mettendo in discussione la recente avanzata dei Fratelli Mussulmani, sperando soprattutto che la crescente disillusione di parte della popolazione nei confronti dei partiti islamici possa rovesciare il risultato in elezioni future.

 

L’ESERCITO NON MOLLA LA PRESA – Altri fattori mostrano l’intenzione da parte dell’esercito di non mollare la presa. Proprio in questi giorni è stata approvata la risoluzione che regola i poteri del presidente che si sta eleggendo. Forse proprio per pararsi in caso di vittoria di Morsi, tali poteri appaiono notevolmente limitati: il Presidente deve infatti fare riferimento al CSAF per gran parte delle principali funzioni (inclusa la dichiarazione di guerra). Rimane inoltre una misura di dittatoriale memoria: la possibilità di chiedere all’esercito di sopprimere eventuali proteste.

 

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ATTESA – Va detto però che queste mosse pongono dubbi anche sulla legittimità dei risultati elettorali che usciranno giovedì. La Fratellanza sembra essere pronta alla rivolta attiva se Morsi non dovesse vincere, e del resto per quanto l’esercito abbia sostanzialmente privato di reali poteri la figura del Presidente nulla esclude ulteriori mosse per portare comunque Ahmed Shafiq alla vittoria. La fiducia nel processo elettorale appare comunque messa in crescente dubbio e numerose voci si sono alzate sul fatto che i sondaggi pre-voto siano stati manipolati dall’esercito per favorire il proprio candidato.

 

Comunque vada giovedì, si ha l’impressione che le tensioni tra i due principali sfidanti rimarranno alte: non sono da escludere nuovi scontri di piazza.

 

Lorenzo Nannetti

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