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Scende in campo Rahul

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Non stiamo parlando di Real Madrid, Schalke o affini calcistici, né tantomeno della Cuba di Castro junior. Siamo in India, dove la coalizione di governo guidata dal Partito del Congresso di Sonia Ghandi è in forte crisi, e per il suo rilancio nella campagna elettorale in Uttar Pradesh punta tutte le sue carte sull'ultimo rampollo della dinastia Ghandi. Vediamo insieme in che modo

LA CRISI DELL’ATTUALE GOVERNO INDIANO – Nel 2009 la coalizione dell’UPA (Alleanza Progressista Unita) guidata dal Partito del Congresso di Sonia Gandhi, protagonista della scena politica indiana fin dall’indipendenza del paese nel 1947 e da sempre sotto la guida dalla “dinastia” Nehru-Gandhi, ha vinto le elezioni federali con un grande successo inaspettato, dando vita all’attuale governo indiano guidato dall’ormai settantanovenne Manmohan Singh. A distanza di tre anni dall’inizio della legislatura la coalizione di governo sta attualmente attraversando un momento molto drammatico. Il Partito del Congresso è considerato da molti un meccanismo politico ormai obsoleto incapace di rispondere alle necessità della popolazione e alle sfide che la globalizzazione e i mercati internazionali gli impongono. Ad aggravare ulteriormente la situazione ci sono poi le pesanti accuse di corruzione che gravano su diversi dei suoi esponenti ed infine la grave malattia che ha colpito la sua amatissima presidente, la quale probabilmente sta valutando l’idea di rassegnare le dimissioni.

Il rischio per il governo è grande: se non otterrà buoni risultati nelle elezioni locali che si terranno il prossimo febbraio, sarà costretto ad indire le elezioni anticipate. Per scongiurare questo evento, il partito ha fatto forti pressioni a che il riluttante primogenito di Sonia entrasse ufficialmente nella scena politica nazionale. Fino alla campagna elettorale del 2009, infatti, il quarantenne Rahul Gandhi aveva mantenuto un profilo politico molto basso preferendo l’attività imprenditoriale a quella di politico, ma come i suoi genitori probabilmente non ha avuto grandi possibilità di scelta e ora dovrà comunque farsi carico dell’eredità lasciatagli dalla sua famiglia, raccogliendo il testimone nella speranza di dare una svolta consistente all’azione di governo e rilanciarne l’immagine per scongiurarne la caduta.

RAHUL, ROTTAMATORE ALLA RENZI – Dopo la sua nomina nel 2007 a Segretario Generale dell’All Indian Congress Commitee, la discesa in campo di Rahul è stata accolta positivamente e la sua popolarità è in crescita. Ciò grazie anche alla sua appassionata ed intensa partecipazione alla campagna elettorale per le elezioni legislative di febbraio, in particolare nello stato dell’Uttar Pradesh. Si tratta di una scommessa elettorale importantissima.

L’Uttar Pradesh (in rosso nella cartina qui sotto) è un vero e proprio stato nello Stato, che si trova nella parte settentrionale del sub-continente, è il quinto per dimensione, ma il primo per popolazione con ben 200 milioni di abitanti. Fino agli anni ’90 è sempre stato governato dal Partito del Congresso, passando poi sotto il controllo dell’opposizione, o meglio di quello che in India viene oggi definito il terzo polo, il partito del Bahujan Samaj Party, guidato dalla dalit (intoccabile) Mayawati (il primo partito d’opposizione è il Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito nazionalista indù spedito all'opposizione da Sonia nel 2004).

Nella sua attuale campagna elettorale, Rahul sta cercando di dipingere la sua avversaria come un leader corrotto che ha perso il contatto con il suo elettorato riferimento, mentre lui si propone come la giusta alternativa affinché siano ascoltate e accolte le richieste che provengono appunto dalla casta dei dalit. Secondo la stampa indiana Rahul avrebbe dichiarato di essere disposto a mettere per iscritto che se il suo partito vincerà le elezioni sarà in grado di attuare un totale restyling dello stato in soli cinque anni e di rimetterlo completamente in piedi entro dieci trasformandolo nel primo stato del sub-continente. Accusa, inoltre, il governo Mayawati di corruzione e di essere stato incapace di utilizzare in modo corretto i fondi messi a disposizione dallo stato centrale di New Delhi per lo sviluppo dell’Uttar Pradesh.

DALLA PARTE DEI CONTADINI – Per dare prova della veridicità delle intenzioni del Partito del Congresso, Rahul ha intrapreso una lunga marcia all’interno dello Stato indossando il Nike e kurta pijama – il tipico abito degli uomini indiani – e percorrendo una ventina di chilometri al giorno per ascoltare e fare propria la protesta degli agricoltori contro l’espropriazione forzata delle terre che si trovano lungo il tracciato della nuova autostrada che dovrebbe collegare New Delhi alla città di Agra. I contadini ritengono di non aver ricevuto il giusto indennizzo per le terre che gli sono state portate via.

A tal proposito è adesso al vaglio del governo una proposta di legge che permetta una modifica sostanziale della Land Acquisition Act, risalente addirittura all’epoca britannica, e spera che il Parlamento possa approvarla al più presto, per dare un segnale concreto agli agricoltori che si sentono usurpati delle loro proprietà in modo da garantirsi il loro appoggio alle elezioni risollevando così le sorti dell’attuale legislatura. Allo stesso tempo però all’interno della coalizione al potere non c’è accordo sul ruolo che in futuro dovrà avere lo Stato sulle acquisizioni di terra da destinarsi ad uso industriale o commerciale e soprattutto sul modo nel quale si dovrà definire il giusto prezzo per la terra espropriata.

UN DIFFICILE BANCO DI PROVA – Questa vicenda non ha solo un peso politico non indifferente per il futuro governo dell’India ma riflette da sempre il più grande dramma del paese: lo sviluppo crescente e vertiginoso del sub-continente si scontra costantemente con le enormi sacche di povertà, miseria e disuguaglianza che ancora lo attanagliano.

Per Rahul si tratta di un test politico fondamentale, è sotto la luce dei riflettori e dovrà dare prova delle sue capacità politiche. La “riconquista” dell’Uttar Pradesh è il suo personale banco di prova. Se non dovesse essere in grado di affrontare adeguatamente questa sfida e non raggiungesse buoni risultati in questa importante tornata elettorale, il governo potrebbe essere costretto a ricorrere alle elezioni anticipate. Sta di fatto che dopo le elezioni, in caso di vittoria, dare concretamente le risposte che la popolazione si aspetta sarà in assoluto il compito più arduo.

Marianna Piano [email protected]

Hugo e la corsa all’oro

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Dopo la decisione di agosto di nazionalizzare l’industria aurifera e le attività estrattive, il primo carico di lingotti d’oro è arrivato a Caracas nella notte di venerdì 25 novembre. La mossa del presidente venezuelano Hugo Chávez ha evidenti implicazioni propagandistiche e simboliche, in vista delle elezioni presidenziali previste per la fine del 2012, ma ha provocato anche importanti ripercussioni sul prezzo internazionale del metallo giallo

LA NAZIONALIZZAZIONE – Il governo venezuelano stima le proprie riserve aurifere in 18 miliardi di dollari, su un totale di 29: ciononostante, la quasi totalità di queste riserve era conservata in banche estere fin dalla fine degli anni ‘80, quando i governi di Lusinchi e Peréz avevano offerto l’oro come garanzia per ottenere prestiti dal FMI. Ogni anno il Venezuela estrae tra le 5 e le 10 tonnellate di oro in compartecipazione con imprese estrattive estere: fino all’anno scorso il 50% del metallo estratto veniva esportato ed il 50% ceduto alla Banca Centrale Venezuelana. Va detto che lo stesso Chávez, appena un anno fa, aveva alzato la percentuale d’oro esportabile dal 30 al 50%: ciononostante, ad agosto il presidente Chávez aveva annunciato la completa nazionalizzazione dell’industria aurifera ed il rientro delle riserve conservate all’estero. Nonostante non vi siano comunicazioni ufficiali sulla quantità di lingotti arrivati in Venezuela con questo primo carico, alcune fonti parlano di quasi 17.000 lingotti, per un totale di 30 tonnellate d’oro. Lo spostamento ha richiesto l’impiego delle forze armate con blindati e aerei, per garantire la sicurezza di un carico con un valore senza precedenti. VERSO LE ELEZIONI –  Le implicazioni propagandistiche e simboliche di questa decisione sono evidenti. Da un lato Chávez evidenzia ancora una volta come la priorità del suo governo sia quella di restituire sovranità internazionale al Venezuela ed al suo popolo, come dichiarato in molte occasioni. Il presidente ha sottolineato il valore storico di questo atto: la quantità di oro da rimpatriare è notevole, e per la prima volta dai tempi di Pizarro e Cortés la destinazione è il suolo sudamericano, e non quello europeo. Per Chávez, “quell’oro viene da un luogo da cui non sarebbe mai dovuto uscire: la Banca Centrale del Venezuela”. Sono chiare anche la rinnovata critica verso il sistema finanziario internazionale e la sfiducia verso le banche ed i governi esteri e “capitalistici”: in un momento di difficoltà dell’economia mondiale e di grave crisi politica ed economica dei governi europei, Chávez ha annunciato la ferma intenzione di trasferire maggiori riserve verso paesi considerati più sicuri e soprattutto politicamente amici, come Brasile, Cina e Russia. Ovviamente vi sono anche ragioni interne: le risorse aurifere garantiranno maggiori fondi da investire nella spesa pubblica, ma presumibilmente anche nella campagna elettorale verso le presidenziali dell’ottobre 2012. In quest’ottica, il presidente ha sottolineato come proprio i governi della IV Repubblica siano i responsabili dell’affidamento delle riserve venezuelane in mano straniera: considerando che la retorica chavista identifica l’attuale opposizione come diretta discendente dei governi precedenti, appare chiaro come questa mossa abbia evidenti finalità elettorali.

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LA RISPOSTA DEI MERCATI – L’oro venezuelano era stato depositato principalmente nei forzieri di banche inglesi, statunitensi, canadesi e svizzere: quel che ha provocato una reazione dei mercati e un aumento del prezzo dell’oro già da agosto è il fatto che l’oro non si trovava più fisicamente nelle banche dove era stato depositato. Le banche, infatti, conservano solo una certa parte di riserve aurifere, commerciando l’oro senza spostarlo ogni volta da una banca all’altra, ma semplicemente cambiando voci di registro. Cambia il proprietario, ma la cosa si traduce generalmente in un semplice cambio di cartellino sui lingotti, anche per evitare spostamenti fisici estremamente difficoltosi da un punto di vista logistico. Spesso, poi, le banche centrali cedevano i l’oro a “banche dei lingotti” come JP Morgan, dove era conservata metà dell’oro venezuelano contabilizzato dalla Banca d’Inghilterra.  La stessa JP Morgan, d’altra parte, non sarebbe in grado di soddisfare la richiesta venezuelana mantenendo allo stesso tempo la presenza di uno stock aureo sufficiente nei propri caveaux. Da agosto, quindi, le banche hanno dovuto rivolgersi al mercato per ricomprare lingotti, contribuendo al rialzo dei prezzi. Francesco Gattiglio [email protected]

Giochi di potere

La settimana che ci attende si prospetta una delle più ricche di eventi, soprattutto nel vecchio continente europeo, dove numerosi summit multilaterali vedranno Capi di Stato e rappresentanti sgomitare nella difesa dei propri interessi. Nel resto del mondo continua il gioco delle parti sulle questioni aperte in Medio Oriente con Siria e Iran nell’occhio del ciclone. La Cina rivela il suo potere diplomatico nel Pacifico mentre gli Stati Uniti stringono la presa sui loro alleati. Quello che vi serviamo oggi è un ristretto miscela diplomatica da gustare con “attenzione”

EURASIA Martedì 6-Mercoledì 7 – Si riunisce a Vilnius, in Lituania, il Consiglio Ministeriale dell’Organizzazzione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). I paesi dall’America al Giappone sono chiamati a confrontarsi su temi d’attualità quali la transizione democratica dei paesi protagonisti della Primavera Araba e il futuro dell’Afghanistan, tutti campi in cui il sostegno dell’expertise dell’OSCE garantirebbe stabilità e progresso. Mercoledì 7-Giovedì 8 – Briefing di routine dei Ministri degli Esteri dei paesi membri della NATO, a Bruxelles focus sulle operazioni che vedono l’impegno dell’Alleanza Atlantica. La missione “UNIFIED PROTECTOR” conclusa in Libia, il training dell’esercito iracheno parallelo al ritiro americano e il sostegno alla sicurezza e alla stabilità del governo afghano in vista del ritiro delle truppe internazionali previsto per il 2014. Giovedì 8-Venerdì 9 – Si riunisce a Bruxelles il Consiglio Europeo, con la partecipazione di tutti i Capi di Stato e  di Governo dei 27 paesi dell’unione. Sul tavolo le vitali riforme a sostegno della crescita delle economie, e del mercato unico, ci sarà anche spazio per approfondire le recenti proposte di revisioni limitate dei Trattati riguardo ad un passo avanti verso una vera unione fiscale. Sulla base del report autunnale della Commissione, gli Stati membri discuteranno delle possibili adesioni da parte di Stati esterni all’Unione, come ad esempio la Serbia. A margine del Consiglio i rappresentanti della Croazia, il 28 Stato dell’UE, firmeranno il trattato di accessione. KOSOVO-SERBIA – L’accordo per la gestione congiunta delle frontiere tra Serbia e Kosovo raggiunto nel week-end a Bruxelles grazie alla mediazione europea potrebbe riaccendere le speranze di Belgrado per un ticket d’ingresso nell’UE. Proprio mentre gli “antichi rivali” croati festeggeranno la firma dell’accordo di accessione, Il Consiglio valuterà la situazione della richiesta di accessione serba, criticata in passato da Angela Merkel per i continui attacchi della minoranza serba in Kosovo ai membri tedeschi del contingente di KFOR. L’Italia, soprattutto l’ex Primo ministro Silvio Berlusconi, hanno sempre intrattenuto ottimi rapporti con la Serbia, proprio il nostro paese potrebbe farsi portatore delle istanze favorevoli all’accessione. Martedì 6-Mercoledì 7 – Si riunisce a Vilnius, in Lituania, il Consiglio Ministeriale dell’Organizzazzione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). I paesi dall’America al Giappone sono chiamati a confrontarsi su temi d’attualità quali la transizione democratica dei paesi protagonisti della Primavera Araba e il futuro dell’Afghanistan, tutti campi in cui il sostegno dell’expertise dell’OSCE garantirebbe stabilità e progresso. RUSSIA – I risultati delle elezioni legislative della Federazione Russa confermano le attese di un possibile calo della presa del duo Putin-Medvedev sull’opinione pubblica. Non solo il Partito dei diarchi cala rispetto al 64% del 2007, i risultati lo danno al 48%, ma perde anche la maggioranza alla Duma e di conseguenza anche la possibilità di apportare modifiche alla Costituzione. In netta crescita il partito di centro sinistra “Russia Giusta” e i comunisti “nostalgici” dati rispettivamente al 14 e 20%. La marcia verso le Presidenziali del 2012 si rivela più accidentata del previsto anche se la forza degli apparati dello Stato-Partito resta ineguagliabile se paragonata a quella dell’opposizione. AMERICHE STATI UNITI – Il Segretario alla difesa Leon Panetta ha riaffermato Domenica l’importanza per Israele di un accordo negoziale per le sorti della Palestina e l’impossibilità di un efficace attacco preventivo contro l’effettiva nuclearizzazione dell’Iran. Sembra ormai chiaro che l’amministrazione Obama sia convinta di non poter più permettersi azioni unilaterali in Medio Oriente, senza correre il rischio di inimicarsi i paesi arabi una volta per tutte. Sul fronte interno non provoca grande scalpore la notizia della caduta del candidato repubblicano Herman Cain sotto la scure degli scandali sessuali. L’imprenditore, molto popolare tra le classi medie degli Stati del Sud, non ha mai rappresentato una vera opzione per l’elettorato repubblicano che sembra ora puntare sui più moderati Mitt Romney e Rick Perry. CUBA – Raúl Castro è ormai convinto di riuscire nell’impresa ideologica di far convinvere il socialismo “revolucionario” con le teorie del libero mercato. Anche i commentatori più scettici, poco convinti dalle prime aperture dei mesi scorsi, iniziano a cedere dalle riforme che stanno cambiando gradualmente l’isola. Piccole imprese familiari, prestiti per la costruzione di abitazioni private che chiamano in causa future liberalizzazioni dei servizi bancari e la semplificazione delle imposte. Il percorso intrapreso dall’elite riformista del partito comunista sembra essere speculare a quella della Cina del dopo Deng Xiaoping, secondo la teoria dello “stadio iniziale del socialismo”, per evitare un suicidio politico simile a quello intrapreso dall’Urss di Gorbaciov a suon di Glasnot e Perestroika. AFRICA Martedì 6 – Il Congo saprà finalmente chi tra i due candidati più favoriti, Kabila e Tshisekedi dati al 51 e 34%, sarà il nuovo presidente del paese. La piazza che chiede un netto cambiamento e uno sviluppo sostenibile per l’economia povera di risorse, ha subito nei giorni scorsi la repressione delle forze di sicurezza che ha causato 15 morti e la fuga di civili verso le frontiere del Congo Brazzaville. Le Ambasciate hanno evacuato la maggior parte degli stranieri presenti a Kinshasa per i timori sempre più reali di un possibile conflitto civile post-elettorale, con Kabila che difficilmente lascerà la Presidenza anche se sconfitto e Tshisekedi. Martedì 6 – L’accordo per l’Organizzazione del potere raggiunto dai deputati, eletti in Tunisia dopo le prime elezioni democratiche della Primavera araba, giunge all’Assemblea riunita in plenaria per l’approvazione del nuovo Governo. Da giorni manifestanti assediano la Piazza antistante la sede della Costituente, il timore più diffuso è una radicalizzazione dei costumi di quello che in passato era ritenuto il paese arabo più vicino all’Occidente, ma non mancano le proteste dei manifestanti che temono il ritorno del vecchio entourage del deposto Ben Alì. EGITTO – E’ ormai ufficiale la vittoria delle formazioni islamiche nella tornata elettorale per la Costituente egiziana tenutesi la scorsa settimana. I Fratelli Musulmani sbaragliano le formazioni laico-progressiste con percentuali del 40% mentre la vera “rivelazione” è il Partito della Luce, “ Al Nour”, di ispirazione salafita, che si batte per l’introduzione della shaaria nel sistema egiziano. La coalizione di questi due partiti sarebbe forte del 65% dei consensi, ma considerazioni definitive dovranno attendere l’ultimo round previsto per Gennaio 2012.

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MEDIO ORIENTE IRAN – Dopo la chiusura dell’Ambasciata britannica a Damasco, la riduzione del personale diplomatico francese e il ritiro del rappresentante italiano, Teheran tenta di mantenere il sostegno popolare pubblicizzando in tutti i modi l’abbattimento nell’est del paese di un drone americano di tipo rq-170, alias “La bestia di Kandahar”. Se confermata la notizia garantirebbe al regime degli ayatollah, scricchiolante per l’attenzione della Comunità Internazionale e le fratture dell’elite, un’ulteriore mobilitazione delle masse contro ingerenze esterne nei propri affari interni. Intanto alla minaccia di sanzioni ed embargo sul petrolio, il capo della Commissione economica parlamentare risponde ventilando aumenti spropositati del prezzo del barile iraniano fino a 250$. SIRIA – Mentre il numero delle vittime degli scontri tra civili e forze di sicurezza raggiunge la cifra di 4000, l’opposizione a B. Al-Assad riunita nel Consiglio Nazionale Siriano (CNS) cerca di mostrarsi credibile agli occhi dell’occidente promettendo la rottura diplomatica con l’Iran e il gruppo islamico libanese Hezbollah. Il governo di Damasco sembra sfruttare le paure di instabilità della regione annunciando la liberazione di 900 prigionieri del PKK curdo. Il vero ostacolo alla tutela dei manifestanti resta l’opposizione di Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza ONU dove si battono da sempre per il contrasto alla politicizzazione della questione dei diritti umani. ARABIA SAUDITA – La Primavera araba sembra non aver condizionato minimamente il ricambio della leadership saudita, il nuovo governo ha infatti progettato un disegno di legge che se approvato permetterebbe l’equiparazione giuridica del dissenso con atti di terrorismo. Le conseguenze appaiono chiare a tutti, soprattutto agli osservatori esterni, arresti e uso della forza potrebbero essere impiegati per stroncare manifestazioni civili sul nascere. Nel mese di novembre numerose retate sono state portate a termine per decapitare le elite dei movimenti per la democrazia e per i diritti civili. Le riforme a piccoli passi, come quelle per i diritti delle donne, sembrano aver lasciato spazio al pugno di ferro della nuova gerarchia. ASIA-PACIFICO CINA – Il Ministro degli Esteri delle Seychelles ha dichiarato ufficialmente la disponibilità del governo ad aprire una base navale cinese nel paese. L’accordo garantirebbe un appoggio alla marina militare di Pechino da tempo impegnata nel Golfo di Aden nelle missioni contro la pirateria somala. Se l’accordo dovesse realmente realizzarsi costituirebbe il primo segno tangibile dell’espansione del dragone verso la regione strategica per eccellenza, il Medio Oriente, sia per i traffici commerciali e petroliferi, vitali per la crescita economica cinese, sia per le questioni d’influenza politico-diplomatica. MYANMAR – Il nuovo orizzonte della diplomazia asiatico-americana sembra aver favorito un lento ritorno alla normalità nel paese più esteso del Sud-Est Asiatico. Il Generale Thein Sein a capo della giunta militare che guida il paese dal 1962, dopo aver garantito la partecipazione della Lega Nazionale per la Democrazia e ricevuto in visita il Segretario di Stato USA Hillary R. Clinton, ha ora aperto alla possibilità di indire manifestazioni con un preavviso di 5 giorni. La svolta del regime militare, sembra dovuta ai tentativi di espansione simil-coloniale delle regioni cinesi del Sichuan e dello Yunnan, per le cui merci restano fondamentali gli sbocchi al mare birmani. CINA-GIAPPONE – Sembra ormai imminente un accordo per la risoluzione delle controverse dichiarazioni di sovranità, almeno tra Tokyo e Pechino, sulle Isole Chunxiao nel Pacifico meridionale. il vertiginoso calo di popolarità subito recentemente dal leader Yoshihinko Noda potrebbe portare il governo giapponese a stipulare un trattato per la trivellazione congiunta dei giacimenti di gas naturale dell’arcipelago con le autorità cinesi. Le prospettive sono però rischiose per la forte opposizione dei gruppi nazionalisti e dell’opinione pubblica più intransigente e sarà probabilmente la mediazione statunitense a portare il contenzioso ad una fine pacifica. Fabio Stella [email protected]

Instabilità persiana

Assalti alle ambasciate, esplosioni in siti militari e nucleari, rottura di rapporti diplomatici. L’Iran dopo la pubblicazione del rapporto AIEA risulta sempre più isolato e preda di conflitti anche all’interno del suo stesso establishment politico-religioso. Guardiamo i retroscena: mentre la Guida Suprema continua a minare il potere del Presidente per impedirne la rielezione e trasformare il paese in una teocrazia ancora più rigida, il dialogo rischia di essere sacrificato e Israele aumenta la sua campagna sotterranea contro il programma nucleare

 

MINACCE – L’assalto alle ambasciate è un leit-motiv comune a molti regimi non democratici per cercare di porre pressione o intimidire le diplomazie occidentali. E’ successo in Libia e in Siria, succede ora in Iran. Raramente tali dimostrazioni sono del tutto spontanee e generalmente vengono volute o favorite dai leader locali;ricordiamoci infatti che si tratta di paesi dove le manifestazioni non autorizzate che possano ledere interessi vengono spesso represse con forza e senza rispetto per la popolazione. Altrettanto raramente esse dimostrano di avere successo, in quanto la reazione che si ottiene è piuttosto di maggiore chiusura e ostilità. Così in Iran la manifestazione davanti all’ambasciata britannica appare essere stata opera principalmente di Basiji, con la polizia intervenuta solo dopo la presa in ostaggio di sei membri dell’ambasciata, a rimarcare il tono di minaccia dell’intera azione: “stavolta è finita bene, ma se continuate con la vostra ostilità…” Eppure esistono alcuni temi da approfondire al riguardo.

 

LOTTA DI POTERE – Innanzi tutto anche questo episodio va a inserirsi all’interno dello scontro Presidente-Guida Suprema del quale abbiamo già parlato in precedenza. Dall’analisi delle dichiarazioni e degli atteggiamenti, pare che Amahdinejad abbia sì autorizzato la protesta, ma non il suo esito violento. Quest’ultimo potrebbe dunque essere stato facilitato dall’Ayatollah Ali Khamenei, nel tentativo di porre ulteriore discredito internazionale sul Presidente. Per quanto tale ipotesi vada ulteriormente verificata, la sfida tra le due massime figure della repubblica islamica continua tra mosse, contromosse e, soprattutto incriminazioni e arresti di esponenti dell’entourage del Presidente. Il risultato è una sempre maggiore instabilità interna che non favorisce il dialogo con l’esterno ma anzi tende a farlo precipitare ulteriormente. Infatti la forte risposta internazionale (chiusura delle sedi diplomatiche britannica e norvegese, minaccia di chiusura di altre tra cui quella italiana, proteste da parte dell’alleato russo), unite alle recenti nuove sanzioni, mostrano come l’intera questione sia stata controproducente proprio nel momento in cui la fiducia nell’Iran è ai minimi e convincono sempre meno la comunità internazionale della possibilità di una soluzione diplomatica a breve termine.

 

CON CHI PARLARE? – Tutto questo è peggiorato dal secondo tema da analizzare, ovvero un ulteriore interrogativo: nell’attuale situazione di conflitto politico interno, in sede diplomatica qual è il vero interlocutore? Chi, ora, rappresenta davvero l’Iran? Se i negoziati avvengono con esponenti del Presidente, non è detto che qualunque accordo o tentativo di dialogo venga poi ratificato anche dalla leadership religiosa e, anzi, nel clima attuale potrebbe venire annullato proprio per screditare l’avversario interno. Oppure ora sono gli uomini di Khamenei a gestire i rapporti internazionali? In tal caso sono da aspettarsi risposte più intransigenti e maggiori richieste di garanzia del regime. Queste domande non hanno una facile risposta dato il livello di confusione esistente ora, dove le lealtà di tutti vengono messe alla prova; sono però quesiti fondamentali: a livello diplomatico implicano la necessità di operare in maniera diversa e con approcci negoziali differenti a seconda della situazione e, appunto, dell’interlocutore. E’ evidente che qualora non vi sia chiarezza in tal senso, lo sforzo diplomatico internazionale rischi di bloccarsi.

 

SHADOW WAR – Che la diplomazia comunque venga valutata insufficiente lo dimostrano anche le recenti esplosioni avvenute in Iran. In particolare la base di Bid Kaneh vicino Teheran (dove è morto anche un alto esponente dei Pasdaran) e il sito nucleare di Isfahan (probabilmente l’Uranium Conversion Facility, uno dei luoghi chiave dell’intero programma). Abbiamo già parlato della guerra nascosta tra Iran e Israele/USA/Occidente che mira a sabotare il programma nucleare e missilistico iraniano. Quello che si evince da questi eventi è che il recente rapporto dell’AIEA, i continui blocchi a soluzioni diplomatiche e le ipotesi di ulteriori passi in avanti in tale campo abbiano spinto le agenzie di intelligence (in particolare il Mossad) a intensificare la propria azione. Questo non deve sorprendere perché se la diplomazia si dimostra insufficiente e l’intervento armato viene giudicato troppo rischioso, il sabotaggio rimane l’unico mezzo per cercare di risolvere la situazione in maniera meno scoperta e, come abbiamo scritto noi stessi in passato, l’intensificazione di una tale campagna è necessaria per ottenere effetti che non siano unicamente un breve – e dunque poco utile – ritardo del programma.

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NON CONTA CHI – E’ davvero stato il Mossad a causare le esplosioni? Forse sì, forse no, ma non è questo il punto che conta. Potrebbero anche essere stati incidenti, ma Israele, pur non confermando niente, non fa nulla per smentire il proprio coinvolgimento e anzi invia continuamente indizi in tal senso. Qual è lo scopo? Creare insicurezza e senso di vulnerabilità nell’apparato militare e scientifico iraniano, instillando la paura che qualunque bersaglio possa essere raggiunto e colpito, fatto questo al quale contribuiscono le spiegazioni spesso parziali e contraddittorie degli stessi media iraniani. In questo modo non importa più che l’azione sia stata davvero un sabotaggio e non un caso, perché rimarrà sempre il dubbio che un qualsiasi incidente abbia in realtà cause esterne, minando il morale e la fiducia degli uomini coinvolti. Inoltre le esplosioni e l’eliminazione mirata di scienziati possono effettivamente danneggiare siti e tecnologie chiave per il programma nucleare, rallentandolo. E’ da prevedere dunque che tali azioni continueranno e si intensificheranno.

 

SPERANZA PER IL FUTURO – Per quanto drastica possa sembrare tale strada, è comunque meno diretta di un conflitto che coinvolgerebbe poi l’intera regione; inoltre è da considerare che una tale strategia può di rimbalzo favorire una soluzione negoziale. Ogni ritardo, soprattutto se consistente, può contribuire a fornire nuovi spazi per una risoluzione diplomatica poiché sposta più in avanti la data limite oltre la quale l’Iran potrà disporre finalmente di un ordigno nucleare. Una leadership iraniana sfinita dalla propria conflittualità interna e contemporaneamente impossibilitata a trovare una soluzione nucleare al proprio senso di accerchiamento potrebbe (condizionale d’obbligo naturalmente, vista l’attuale chiusura) risultare più malleabile. La domanda però rimane: quale leadership iraniana?

 

Lorenzo Nannetti

[email protected]

La rivoluzione pulita del Dragone

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Uno degli stereotipi che si hanno a proposito della Cina riguarda la sua “cattiva fama” di grande inquinatore globale, che per alimentare il proprio impetuoso sviluppo economico non esita ad utilizzare le forme energetiche più dannose per l’ambiente. In realtà i vertici istituzionali di Pechino stanno varando una serie di importanti investimenti in ricerca e sviluppo e per l’utilizzo di tecnologie pulite

Tratto da “China Files” I DATI – Secondo un sondaggio HSBC riportato dal South China Morning Post, su 15mila individui in quindici paesi, il cambiamento climatico è la terza più grande preoccupazione per i consumatori, dopo l’economia e la criminalità violenta. Nelle economie emergenti come Cina, India e Brasile le popolazioni sono più preoccupate per il fenomeno rispetto ad altri paesi. Secondo i dati presenti nel XXII piano quinquennale negli ultimi tre decenni il rapido sviluppo dell’economia cinese è dipeso in larga misura dal consumo di risorse, manodopera a basso costo, piuttosto che sull’innovazione tecnologica. Per ovviare a queste problematiche, “la Cina aumenterà ulteriormente l’innovazione scientifica e tecnologica, e migliorerà la ricerca e lo sviluppo focalizzandosi tra gli altri aspetti sull’impatto ambientale”. Nel XXII piano quinquennale, il governo indica “la ricerca nelle università per incoraggiare l’innovazione, le imprese per aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo, per stimolare l’attività di innovazione delle PMI, e invita tutti gli scienziati e gli imprenditori a svolgere un ruolo importante nella tecnologia dell’innovazione”. Dal 2005 al 2010, come percentuale nel Pil il dato sulla ricerca e sviluppo è aumentato: da 1,3 a 1,8 per cento. Nel 2009, la spesa per la ricerca e lo sviluppo è stata di circa 580 miliardi di yuan: 6,5 volte rispetto al valore nell’anno 2000. Il finanziamento nazionale di ricerca di base nel 2009 rappresentava il 4,7 per cento del totale della ricerca e sviluppo. Il governo centrale nei prossimi cinque anni “propone di fare ricerca e sperimentazione per lo sviluppo del PIL del 2,2 per cento entro il 2015. Il numero di “brevetti per milione di popolazione” aumenteranno a 3.3”. Nel 2015 il Pil dovrebbe raggiungere i 55 miliardi di yuan, la spesa raggiungerà 1.210 miliardi di yuan. L’aliquota di contribuzione dal progresso scientifico e tecnologico della crescita economica della Cina aumenterà a circa il 60 per cento, la percentuale di investimenti ricerca e sviluppo rappresenterà il 2,5 per cento del Pil.

TECNOLOGIE PULITE – L’ingresso prepotente della Cina nel campo delle tecnologie pulite – è scritto nel piano quinquennale – arriva in una fase relativamente precoce di commercializzazione, e questo dà una maggiore possibilità di catturare più valore“. La Cina è già il più grande mercato per tecnologie pulite attraverso le quali mira a migliorare la sicurezza energetica e la qualità della vita per la sua classe media emergente. Secondo i dati di Bloomberg, nel 2009 la Cina ha investito 35 miliardi di dollari per finanziare l’energia pulita, l’anno scorso ne ha spesi 51 miliardi. Pechino ha in programma di continuare la sua “rivoluzione pulita” per i prossimi cinque anni, con obiettivi importanti per l’energia a basse emissioni, l’efficienza energetica e le tecnologie pulite. Il quadro politico per questo, come contenuto nel XXII piano quinquennale sarà più sofisticato, con la progressiva introduzione di meccanismi di mercato e azioni “bottom-up” nelle province e nelle città. Allo stesso tempo, l‘approvvigionamento energetico del paese che incorpora fonti di combustibile non-fossile e tecnologie a basse emissioni continuerà a svilupparsi rapidamente. Il mercato cinese per la tecnologia a basso tenore di carbonio si sta gradualmente aprendo a imprese di proprietà estera, ma la concorrenza si sta intensificando. Infine, l’approccio della Cina alla gestione energetica si sta evolvendo fino ad includere meccanismi di mercato.

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INVESTIMENTI E POSTI DI LAVORO – Il monito del presidente Hu Jintao (foto a fianco) è arrivato sul China Daily del 14 novembre: “la Cina darà priorità assoluta al settore verde per attirare investimenti stranieri“. Rivolgendosi agli amministratori delegati presenti al summit nel corso del forum per la cooperazione economica tra Asia e Pacifico (APEC)  ha detto che si prevede che la produzione totale annuale dell’industria ambientale cinese raggiungerà i duemila miliardi di yuan (315 miliardi di dollari) entro il 2015, ed è previsto che gli investimenti nel settore per il periodo che va dal 2011 al 2015 saranno di 3100 miliardi di yuan. “La forte domanda verde e l’ambiente d’investimento solido della Cina forniranno un mercato vasto e grandi opportunità di investimento per le imprese di tutti i paesi, in particolare quelli della nostra regione” ha detto Hu rivolgendosi ai più di mille uomini d’affari presenti alle Hawaii per l’annuale vertice degli amministratori delegati APEC. Il Global Times del 15 novembre scriveva che “fonti vicine al Ministero della Protezione Ambientale (MEP) hanno detto che le centrali termoelettriche a carbone che utilizzano apparecchiature per la riduzione delle emissioni di nitrato potranno beneficiare di politiche preferenziali nell’ambito del piano, tra cui un più alto tasso di retribuzione dalla rete nazionale per l’elettricità“. L’insider ha detto che il nuovo XXII piano quinquennale si propone per la produzione totale del settore domestico nell’ambito della protezione del risparmio energetico e ambientale di raggiungere i 4,5 trilioni di yuan (oltre 500 miliardi di euro) dal 2011 al 2015. Alcuni funzionari hanno affermato che gli investimenti di tutela ambientale in Cina saranno di tre trilioni di yuan tra il 2011 e il 2015, e la crescita del settore sarà tra il 15 e il 20 per cento. Il funzionario del ministero ha annunciato che la Cina si prefigge di affrontare l’inquinamento delle fonti idriche sotterranee, attraverso una tassa riscossa sui beni prodotti da imprese con emissioni chimiche “eccessive”. Dal China Daily del 16 novembre: “Il Consiglio cinese per la Cooperazione internazionale su ambiente e sviluppo ha suggerito che da qui al 2015 il Paese dovrebbe spendere circa 5.770 miliardi di yuan (909.000 milioni dollari) per migliorare l’efficienza energetica e proteggere l’ambiente. Tale cambiamento potrebbe costare al paese 952.100 posti di lavoro e più di 100 miliardi di yuan della produzione economica entro il 2015, secondo i calcoli, ma in cambio il paese potrebbe salvare 1.430 miliardi di yuan nella sua spesa energetica, sostiene il rapporto pubblicato dal Consiglio. Inoltre, la crescita del settore verde potrebbe rilanciare la crescita del Pil per 8.080 miliardi di yuan, creando 10.580 milioni di  posti di lavoro. Il consiglio, composto da 200 esperti che offrono regolarmente suggerimenti connessi all’ambiente alle autorità politiche, sta tenendo la sua conferenza annuale a Pechino. “Il settore industriale è ancora il principale consumatore di energia e una delle principali cause di inquinamento, il settore è la chiave per la trasformazione verde della Cina”, ha detto Li Ganjie, vice-ministro della protezione ambientale e anche  segretario generale del consiglio”.

 

Simone Pieranni [email protected]

La guardia si è stancata!

Sono tempi caldi nella gelida Mosca: elezioni della Duma, la camera bassa del Parlamento russo, il 4 dicembre ed elezioni presidenziali il 4 marzo. Sebbene si percepisca voglia di cambiamento, il potere sembra prepararsi ad adoperare tutte le sue forze per conservarsi integro. Ecco una breve guida per destreggiarsi tra le poco esplorate strade della (ora come non mai) dinamica politica russa

SINISTRI PRESAGI – La riunione di coordinamento pre-elettorale di ER (Russia Unita, il partito politico di cui Vladimir Putin è Presidente pur non essendone membro) nella residenza di Novo Ogaryovo, poco fuori Mosca, è stata interrotta bruscamente da un improvviso ed inspiegabile blackout. Lunghi secondi di tensione per la nomenklatura del partito, risoltisi in una liberatoria risata alla battuta del (futuro) Presidente:”La guardia si è stancata!”. Citazione dotta: queste furono le parole usate dai bolscevichi alle quattro di mattina del 19 gennaio 1918 per invitare i membri dell'Assemblea Costituente ad abbandonare la riunione. In Russia non si tennero elezioni libere per i successivi ottant'anni.

IL PARLAMENTO NON E' LUOGO DI DISCUSSIONI – Trattasi della massima surrealista per la quale passerà alla storia l'attuale speaker della Duma, Boris Gryzlov, uno degli uomini del (futuro) Presidente. In effetti, in Russia, il potere legislativo non ha mai destato grande interesse; il Soviet Supremo si riuniva saltuariamente e si limitava a giocare il ruolo di fido ratificatore dei provvedimenti del Politburo. La Duma, che quantomeno è organo permanente, raramente è menzionata nelle cronache politiche anche perché, nella configurazione attuale, che potrebbe essere stravolta dalle elezioni del 4 dicembre, 315 seggi su 450 sono occupati da deputati di ER. Del resto, in Russia, dove la politica è esercizio estremamente complesso, poco trasparente e a tratti pericoloso, non hanno mai germogliato né la teoria della separazione dei poteri né, tantomeno, un sistema di controlli e contrappesi tra questi ultimi. Alla luce di questo non bisogna stupirsi della sempre infima affluenza alle elezioni parlamentari: ai russi non piace perdere tempo.

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MISTERIOSI SOMMOVIMENTI – Eppure, pochissimi giorni prima della tornata elettorale, Mosca è rovente e le elezioni della Duma sono improvvisamente divenute delicatissime. Il cronico malcontento della popolazione (che non perdona a ER la corruzione dilagante, la collusione con i principali gruppi di potere, la poca attenzione dimostrata verso le zone periferiche della Federazione e della società malgrado le ingenti entrate derivanti dall'esportazione di materie prime, la debolezza dell'economia e i vantaggi fiscali di cui godono Cecenia e Daghestan) si è intrecciato con un fenomeno nuovissimo: le batoste pubbliche che Vladimir Putin sta subendo ultimamente. La combinazione è esplosiva. Se ne sono accorti anche i sondaggisti, che vedono ER, prima inattaccabile, perdere milioni di consensi. E se ne accorgono anche le opposizioni, che stanno ponendo in essere, con i pochi mezzi di cui dispongono, una spietata e demagogica caccia all'elettore.  Il Partito Comunista (KPRF) vive di ricordi e si getta su pensionati e nostalgici, preferibilmente nelle zone più disagiate (e così facendo guadagna punti in modo vertiginoso, si parla di un possibile passaggio dai 54 seggi attuali a 90). Il Partito Liberal-Democratico (LDPR) incanta le folle con le sue dottrine panslaviste e nazionaliste. Il partito Solo Russia, socialdemocratico, nato da una costola di ER, centrista e conservatore, è battagliero e irriverente e cerca in qualunque modo, visto il momento, di rinnegare le sue origini. Solo pochi giorni fa i suoi deputati si sono rifiutati di omaggiare il (futuro) Presidente Putin entrato in parlamento per salutare i parlamentari uscenti scatenando un caso nazionale.

NESSUN DUBBIO SUI RISULTATI – Ma ER uscirà vincitrice dalle urne, seppur con una maggioranza meno ampia del solito. Passeggiando per Mosca si è accompagnati ovunque da manifesti sui quali campeggia l'orso bianco di ER che rassicurano, promettono, responsabilizzano. L'unico a fare propaganda comunista è Lenin dal suo mausoleo sulla Piazza Rossa. Girano voci incontrollate (ma che vengono confermate gradualmente) che si stia facendo campagna elettorale nelle scuole e che il Governo centrale abbia già indicato ad alcune Regioni la percentuale di voti da destinare a ER (di tutta risposta la parola d'ordine del web in merito è:”non lasciate ai seggi le schede vuote, le riempirebbero! Portatevele a casa!”). Particolarmente interessante è il fenomeno della pressione amministrativa, in forza del quale, come testimoniato in un'intercettazione telefonica dal tesoriere del governo locale di Izhnevsk, capoluogo dell'Udmurtia, si proporzionerebbero i finanziamenti governativi alle associazioni ed enti locali al numero di voti ottenuti da ER in ogni singola Regione. Oggi, un orso bianco di carta appiccicato da qualcuno nella notte sulla mia porta di casa mi chiedeva di votarlo per la vita, per la gente, per la nazione. Non riesco a togliermelo dalla testa.

Da Mosca

Vittorio Maiorana [email protected]

Caro grande vecchio partito…

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E' davvero partita la riscossa repubblicana negli Stati Uniti? Il contesto economico internazionale e la situazione domestica americana rendono sempre più aspro e radicale il confronto politico, in vista delle elezioni del 2012. La presenza di gruppi politici molto attivi porta l'asperità dello scontro ad un livello ancora più elevato, e proprio all’interno del Partito Repubblicano non mancano grandi fratture

CRESCE LA TENSIONE – Secondo l’economista inglese Robbins, Hitler sarebbe stato il figlioccio dell’inflazione, esplosa durante il periodo tra le due guerre in Germania. Il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America potrebbe essere paradossalmente “figlioccio della disoccupazione”. Infatti il tema più dibattuto a Washington in questi mesi è sicuramente quello della ripartenza dell’economia americana e della conseguente diminuzione di quel 9% della popolazione disoccupata che riempie le agende tanto dei democratici quanto dei repubblicani. Il fatto che in autunno dell'anno prossimo ci siano le elezioni presidenziali non aiuta certo il raggiungimento di un compromesso sulla ricetta da adottare contro una delle più gravi crisi che gli Stati Uniti abbiano mai affrontato. Un test fondamentale, per capire il nuovo corso della politica americana, saranno le elezioni primarie del Partito Repubblicano che avranno inizio il 3 gennaio in Iowa e termineranno con la nomina del candidato ufficiale da contrapporre ad Obama. Al Partito Repubblicano serve sicuramente un uomo forte, ma allo stesso tempo capace di catturare il voto dei democratici scontenti della politica economica obamiana. Dai sondaggi, il favorito sembra rimanere Mitt Romney, governatore del Massachusetts, anche se nulla è ancora deciso, visti i continui colpi di scena che la campagna per le primarie sta riservando.

NON SOLO PRESIDENZIALI – Esiste però un problema altrettanto importante, ma meno visibile al pubblico. Nell’autunno 2012 si voterà, infatti, per rinnovare un terzo dei seggi in Senato e per diverse poltrone da governatore. Il successo o meno del Grand Old Party, (GOP), il grande vecchio partito repubblicano, passa soprattutto per la conquista dei 4 seggi in più necessari per avere la maggioranza anche in Senato, ed è una partita tutt’altro che chiusa. Nelle elezioni di mid-term del 2010 il Partito Repubblicano riuscì a conquistare la Camera dei Rappresentanti, sei seggi in più al Senato e sei nuovi Governatori. Questa volta sembra però tutto più difficile a causa di tre fenomeni interni, tra loro collegati, che potrebbero ostacolare la corsa del GOP. Il primo fenomeno, rilevato anche da alcune inchieste del Washington Post e del New York Times, riguarda i Political Action Committee (PAC) e coinvolge da vicino anche il Partito Democratico. Negli Stati Uniti esiste una legge federale anti-corruzione, la quale vieta a una persona di fare una donazione per un singolo candidato superiore ai 2500 dollari per elezione. I PAC, al contrario, raccolgono fondi illimitati. Per fare alcuni esempi, il comitato politico di Romney ha già raccolto 12.3 mln di dollari, quello di Rick Perry (altro candidato repubblicano) prevede di raccoglierne 55 milioni e “Priorities USA”, il comitato di Obama, pensa di superare i 100 milioni di dollari di fondi raccolti. Una bella differenza… Chiaramente questo sistema è riprodotto su una scala minore, e perciò meno visibile, anche per i candidati al Senato e alla carica di governatore.

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TEA PARTY E CLUB FOR GROWTH Altro fenomeno è il movimento del tea party che nell’ultimo anno e mezzo si è ulteriormente rafforzato e meglio organizzato. Basti pensare che il tea party caucus, promosso da Michele Bachmann alla Camera dei Rappresentanti, raccoglie già una sessantina di adesioni tra i parlamentari americani. È un movimento molto attivo sulla scena politica americana, soprattutto durante le primarie per i candidati al Senato tende a spostare non di poco l’ago della bilancia. Il problema per questo movimento nasce dopo aver fatto nominare il proprio candidato poiché, avendo un’idea di Stato e proposte politiche abbastanza radicali, è più difficile trovare consensi tra gli elettori con posizioni moderate. Ciò potrebbe compromettere l’elezione al seggio parlamentare di diversi candidati repubblicani. Molto simile, e in alcuni aspetti collegato, è il fenomeno inerente a gruppi di pressione che ultimamente influenzano l’agenda politica a Washington e dei candidati che si stanno sfidando per un seggio da senatore. Il caso più interessante è quello del Club for Growth, fondato dall’economista Stephen Moore nel 1999 e attualmente presieduto da Chris Chocola. Il Club ha l’obiettivo di promuovere candidati che si attengono strettamente alla sua filosofia. In particolare uno Stato-minimo, la riforma fiscale e la diminuzione della spesa sociale e dello stato federale sono tra le priorità del gruppo. Lo strumento utilizzato, oltre alla raccolta di svariati milioni di dollari, è il temutissimo scorecard. Sostanzialmente si tratta della pubblicazione del profilo dei legislatori americani con tutti i loro voti nelle questioni chiave (riduzione tasse, deregolamentazione, tagli alla spesa), e con l’indice di purezza del loro operato. In base a ciò il club decide se supportare un candidato o addirittura il suo diretto oppositore per estrometterlo dalla corsa alla ri-elezione.

IL GOP NE FA LE SPESE? – Delle ultime 29 campagne elettorali, per primarie in cui erano coinvolti candidati sostenuti dal Club for Growth, 20 hanno avuto esito positivo, e spesso a farne le spese sono stati senatori repubblicani di lungo corso, colpevoli di non aver raggiunto un punteggio adeguato secondo i criteri del club. Le prossime vittime potrebbero essere il senatore dell’Indiana Richard Lugar e il senatore dello Utah Orrin Hatch, due veterani, e Tommy Thompson, ex governatore del Winsconsin, che ha deciso di correre per un seggio da senatore, osteggiato però dal club. Il rischio evidente, come sottolinea Jennifer Duffy al Financial Times, è avere al posto di questi senatori affidabili e favoriti nel confronto con gli avversari democratici, candidati molto meno esperti e con visioni troppo radicali da poter convincere l’elettorato moderato. La questione è cruciale per il Grand Old Party perché la conquista del Senato è decisiva per riorientare la politica americana, forse, anche più dell’insediamento di un repubblicano alla Casa Bianca.

 

Davide Colombo [email protected]

Pacchia finita?

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Poco dopo essere stata rieletta Presidente dell'Argentina, Cristina Kirchner ha deciso di tagliare i sussidi. Gas e mezzi pubblici inizieranno a costare molto di più, anche se per il momento solo per i ricchi. Una contraddizione rispetto alla politica assistenzialista della “Presidenta”? Può darsi, ma anche e soprattutto un passaggio obbligato per rischiare di dissestare ancora una volta i conti pubblici ponendo un freno alla spesa pubblica

SI TAGLIA – Cristina Fernández de Kirchner lo scorso 24 ottobre ha raggiunto il suo scopo, quello di essere riconfermata Presidente dell'Argentina. È il secondo mandato per la vedova di Néstor, conseguito in seguito ad una vittoria elettorale schiacciante, dato che le urne hanno restituito un 54% di preferenze a suo favore. Uno dei principali fattori di della Kirchner è stata l'adozione di politiche populiste di stampo assistenzialista, consistenti nell'erogazione di sussidi a pioggia, soprattutto per quanto riguarda la fruizione dei servizi pubblici (soprattutto il gas) e dei trasporti. Le tariffe basse delle quali hanno potuto godere gli argentini sono state un indubbio fattore capace di creare consenso intorno alla “Presidenta”, che ha catalizzato attorno a sé il favore della classe medio-bassa. E non è un caso se la spesa pubblica destinata ai sussidi è aumentata dal 2010 al 2011 del 50%, da 48 miliardi di pesos a 72 miliardi (circa 16 miliardi di dollari): l'imminente scadenza elettorale ha infatti dettato l'agenda del Governo Kirchner inducendolo a spendere ancora di più. Il problema, però, è che i conti pubblici stanno cominciando a risentirne, e le stime prevedono che il bilancio pubblico quest'anno chiuderà con un deficit di undici miliardi di pesos. Per questo, dal prossimo primo dicembre, in Argentina la musica inizierà a cambiare: l'Esecutivo ha deciso di ridurre la spesa pubblica tagliando i sussidi. COME – Le famiglie più abbienti dovranno pagare per intero la bolletta del gas, che fino ad oggi è stata “scontata” fino al 40%. Sarà poi la volta dell'aumento delle tariffe nel settore dei trasporti pubblici: da marzo 2012 il prezzo di una corsa su autobus e metropolitane potrebbe aumentare dal 100 fino al 300%. Queste misure dovrebbero consentire di recuperare circa un miliardo di pesos , ancora troppo poco però per raggiungere l'obiettivo fissato da Amado Boudou, Ministro dell'Economia, per il 2012, che prevede un ritorno in surplus per quanto riguarda il bilancio primario nazionale. Il Governo sembra inoltre aver deciso di contrastare finalmente l'inflazione, che a dispetto delle statistiche ufficiali – molto probabilmente “truccate” e riviste al ribasso – oscilla tra il venti e il trenta per cento. La Kirchner ha assicurato che non farà più ricorso a politiche monetarie espansive (la Casa Rosada ha mantenuto negli ultimi anni un controllo sulle decisioni prese dalla Banca Centrale), in maniera da porre un freno all'aumento del circolante, che dal 2004 ad oggi è aumentato del 40%. Questo dovrebbe anche contribuire a preservare la stabilità del tasso di cambio e a limitare anche le svalutazioni della moneta locale, il cui valore è calato costantemente favorendo però anche le esportazioni, uno dei principali motivi del “boom” economico degli ultimi anni.

 

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POSSIBILI CONSEGUENZE – Il Governo argentino sembra aver capito che il ricorso incontrollato a politiche fiscali espansive non è sostenibile nel lungo periodo, se si vuole garantire all'Argentina uno sviluppo economico stabile e duraturo. Una riduzione, o meglio una razionalizzazione, della spesa pubblica sembra una tappa obbligata per evitare che ben presto Buenos Aires si trovi a fronteggiare problemi simili a quelli di dieci anni fa. La possibile perdita di consensi da parte delle classi meno agiate potrebbe essere un fattore dal peso relativamente ridotto, almeno in questa fase. Innanzitutto il Governo ha appena cominciato il suo secondo mandato e in Parlamento può godere di un'amplissima maggioranza: la prossima scadenza elettorale, ovvero le elezioni di medio termine, sarà tra due anni e c'è tutto il tempo per recuperare parte degli eventuali scontenti. Inoltre, non è detto che i tagli colpiranno tutte le fasce sociali: per ora, infatti, i più colpiti saranno i più ricchi. Tuttavia, tali misure non sono ancora sufficienti per riportare la spesa pubblica a livelli di sostenibilità e colpire il ceto medio-basso potrebbe essere rischioso anche per l'economia nel suo complesso, facendo calare i consumi. In ogni caso, il percorso della Kirchner sembra quasi obbligato, se vorrà continuare a garantire sviluppo all'Argentina e non soltanto l'illusione di una ricchezza effimera. Davide Tentori [email protected]

Un nuovo equilibrio geopolitico (2)

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Lo shale gas, forma non convenzionale di questa fonte energetica, potrebbe contribuire a cambiare radicalmente i rapporti di forza a livello geopolitico. I Paesi che al giorno d’oggi sono infatti i principali esportatori di gas naturale, come la Russia, potrebbero veder diminuire drasticamente in futuro la domanda da parte di chi è invece fornito di risorse potenzialmente immense di questo tipo di gas. La potenza che maggiormente potrebbe sfruttare questo potenziale è la Cina

 

Seconda parte QUANTO SHALE GAS? – Lo shale gas non è presente solo negli USA, anzi. Grandi riserve sono state trovate in molti paesi. Uno studio pubblicato all’inizio di quest’anno dall’Advanced Resource International (ARI), una società di consulenza esperta in gas non convenzionale, per conto dell’EIA, ha stimato la quantità di risorse commercialmente estraibile di shale gas a livello globale in 163 tcm (187,5 tcm contando gli USA). Una quantità enorme. Il dato è ancora più impressionante se si considerano non solo le riserve commercialmente estraibili, ma il totale delle risorse stimate (risked gas in-place): 624 tcm. Risorse così ampie potrebbero essere in grado di soddisfare il fabbisogno mondiale per duecento anni. Da notare che queste riserve riguardano solo lo shale gas. Se si aggiungono le riserve di gas convenzionale, stimate attorno ai 400 trilioni di metri cubi, il fabbisogno mondiale sarebbe soddisfatto per più di 300 anni.

 

DOVE SI TROVA LO SHALE GAS? – La caratteristica più interessante di come sono distribuite le risorse di shale gas a livello globale, è la sua presenza in molti paesi dove la produzione di gas è assente o comunque molto bassa. E’ chiaro come in alcuni mercati lo shale gas potrebbe diventare un game changer”, ossia l’elemento in grado di capovolgere gli equilibri energetici. La figura mostra chiaramente la sua distribuzione – va notato che le aree grigie sulla mappa non sono state oggetto dello studio da parte dell’ARI, che resta comunque il più accurato finora pubblicato. Ad esempio, la Francia che importa tutto il gas che consuma, ci si aspetta abbia nel suo sottosuolo ben 5.100 MMC. Mentre la Polonia, che dipende per il 65% del suo fabbisogno di gas dalla Russia, ha risorse stimate nel proprio sottosuolo per 5.300 MMC. Il paese con le più ampie riserve è la Cina, ben 36.100 MMC a fronte di un consumo interno di 109 MMC nel 2010. Sufficienti a soddisfare il fabbisogno cinese per più di trecento anni. Anche Argentina, Messico e Sudafrica ne possiedono grandi quantità (alla fine dell’articolo una tabella riassumerà le riserve di shale gas presenti).

 

LE CONSEGUENZE GEO-ECONOMICHE – Nel 2009, l’effetto combinato dell’improvvisa disponibilità di grandi quantità di gas naturale negli Stati Uniti e la riduzione dei consumi di gas a causa della crisi economica, hanno provocato una sovrabbondanza di gas naturale negli Stati Uniti. Nel giro di pochi mesi le importazioni statunitensi di LNG sono crollate e ciò ha reso disponibile maggiori quantità di gas sugli altri mercati, in particolare per l’Europa. Ciò che si è verificato è stato un vero e proprio cambio di paradigma nel mercato del gas a livello globale. E chiamarlo rivoluzione non è esagerato. L’aspettativa di maggiori importazioni di LNG dagli Stati Uniti ha aumentato gli investimenti nel settore del LNG. A tale scopo, nel 2007 negli USA erano presenti cinque terminal per la rigassificazione e c’erano ben 24 progetti (approvati) per la costruzione di nuovi terminal o per l’aumento della capacità di rigassificazione di quelli esistenti. Nel settembre 2011 sei nuovi terminal erano stati completati e uno era in costruzione. Anche in Qatar si è investito per l’aumento della capacità di liquefazione per gas diretto verso gli USA. Mentre il boom dello shale gas ha compromesso direttamente uno dei più grandi progetti della Gazprom: l’export del 90% del gas prodotto dai giacimenti di Shtokman (a nord della penisola di Kola) verso gli Stati Uniti, ritardata fino al 2018 a causa della riduzione della domanda degli USA. Il risultato è stato che oggi la maggiore capacità dei terminal è sottoutilizzata, provocando perdite per gli investitori e un sostanziale aumento dell’incertezza, soprattutto per i paesi produttori.

 

MODELLO AMERICANO DA ESPORTAZIONE? – Il successo dello shale gas negli Stati Uniti ha creato un certo entusiasmo tra le compagnie del settore e tra molti governi, intenzionati a replicare l’esperienza americana altrove per produrre il proprio gas naturale e così rafforzare la propria sicurezza energetica. Ma il modello di business americano è, e resterà unico. Perciò difficile da replicare, soprattutto in Europa, dove le preoccupazioni ambientali potrebbero rappresentare un ostacolo molto difficile da superare in alcuni paesi. Una recente legge del parlamento francese, ha vietato tutte le trivellazioni in cui si utilizzino tecnologie simili all’hydraulic fracturing. Se lo sviluppo della produzione di questa risorsa fuori dagli USA avrà successo, lo si saprà solo fra qualche anno. Alcune analisi prevedono che sostanziali produzioni di shale gas in Europa, così come in Cina, non ci saranno prima del 2020. Nonostante i tempi lunghi, però, il fatto che le maggiori compagnie petrolifere stiano investendo molto nel settore, è la prova di un impegno di lungo periodo e della fiducia nel positivo sviluppo dello shale gas.

 

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LE CONSEGUENZE GEOPOLITICHE – Nonostante le incertezze sul futuro sviluppo di questa forma di gas a livello globale, lo shale gas ha già posto le basi per un cambiamento degli equilibri geopolitici dell’energia. La disponibilità di maggiori quantità di LNG sul mercato ha avuto alcuni effetti impensabili fino a qualche tempo fa. La novità è stata rappresentata dal fatto che in Europa il prezzo di circa il 15% del gas proveniente dalla Russia è stato rinegoziato senza tener conto dei prezzi del petrolio. In un mercato, come quello del gas, dove i prezzi sono indicizzati al prezzo dell’oro nero e i contratti di fornitura sono firmati per lunghi periodi (anche decenni), è qualcosa di prodigioso. Se la quantità di gas per cui sarà posto un tetto al prezzo dovesse allargarsi nei prossimi anni, la Russia si vedrebbe privata di un’arma importantissima per la sua politica estera: la manipolazione al rialzo dei prezzi del gas grazie alla posizione monopolistica sul mercato europeo. Utilizzata nell’ormai famosa disputa con l’Ucraina nel 2009. Il mercato potrebbe imboccare una strada che lo trasformerebbe da monopolistico a uno dominato dai compratori. Perciò, ancor prima che un singolo metro cubo di shale gas sia prodotto in Europa, è già possibile considerarlo un game changer”. E’ proprio la volontà di affrancarsi il più possibile dalla dipendenza dal gas russo, la forza che ha spinto il governo polacco a investire fortemente nello sviluppo interno dello shale gas. Oggi la Polonia è all’avanguardia nell’esplorazione delle proprie riserve e alla fine del 2011 si potrà avere un quadro più chiaro dell’effettiva quantità di shale gas presente e, soprattutto, dei costi per estrarlo.

 

CHI PERDE? – Sicuramente la Russia, al centro del nuovo equilibrio che si sta delineando. Vale la pena ricordare che si tratta del paese con le maggiori riserve di gas convenzionale, che è il primo esportatore dell’oro blu al mondo e il suo secondo produttore dopo gli Stati Uniti (primi produttori dal 2009, grazie allo shale gas). Se i cambiamenti in Europa dovessero diventare duraturi (ciò avverrebbe solo con una produzione ‘europea’ dello shale gas) il gigante energetico dovrebbe trovare nuovi acquirenti per il suo gas. Sarebbe inevitabile che Mosca guardi a Est, verso i grandi consumatori di gas naturale asiatici: verso la Cina. Il gigante cinese è il paese che aumenterà più rapidamente il consumo di gas nei prossimi decenni. Nell’ultimo piano quinquennale (2011-15) presentato nel marzo 2011, è stato stabilito l’obiettivo di un incremento dell’uso di gas naturale per il 2015 dall’attuale 4% circa del mix energetico all’8%. Che in termini assoluti significa un consumo di 260 MMC nel 2015 (oggi di 109 MMC). Ottime notizie per la Russia? Sembrerebbe di no.

 

COSA FA LA CINA – In realtà, come abbiamo visto, la Cina possiede le più vaste riserve di shale gas e sembra fortemente intenzionata a sfruttarle al meglio. Le compagnie cinesi si sono già mosse e stanno investendo nel settore, forti “dell’autorizzazione” espressa nell’ultimo piano quinquennale, dove si pone l’obiettivo di esplorare e sfruttare lo shale gas presente nel sottosuolo cinese. Le prime esplorazioni sono iniziate in luglio e i risultati, secondo il capo della Sinopec, Fu Chengyu, “hanno superato le aspettative”. Il problema della tecnologia è stato superato grazie ad un accordo firmato nel 2009 tra la Cina e gli Stati Uniti che prevedeva di aiutare le compagnie cinesi nella fase di esplorazione per la valutazione delle riserve presenti nel sottosuolo e di incoraggiare una cooperazione “tecnica” tra le compagnie dei due paesi, al fine di favorire gli investimenti congiunti per l’estrazione dello shale gas. Un segnale forte dell’intenzione della Cina di non legarsi a forniture che prevedono contratti a lungo termine, è lo stallo con la Gazprom sulla costruzione del gasdotto dalla Siberia della portata di 30 MMC all’anno di gas. Motivo dello stallo: i prezzi considerati troppi alti da parte dei cinesi.     E’ chiaro che le prospettive per la Russia sono drammatiche. Un rapporto del Baker Institute for Public Policy della Rice University, prevede una riduzione della quota di mercato russa in Europa per la vendita di gas che passerebbe dagli attuale 27% al 13% nel 2040. Sembra chiaro che in prossimo futuro la Russia sarà costretta a cambiare il suo modello di business. Ci sembra che lo shale gas nonostante ci siano ancora dubbi e rischi sul suo possibile sviluppo a livello globale, abbia fin da ora comportato significative conseguenze per il mercato del gas naturale e abbia posto le basi per un possibile spostamento e ridefinizione dell’equilibrio geopolitico dell’energia. Nei prossimi anni, grazie a nuove esplorazioni e informazioni più accurate sui costi di produzione delle riserve presenti nei vari paesi, si avrà sicuramente un quadro più definito.

 

Marco Spinello

Un nuovo equilibrio geopolitico (1)

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Il gas naturale gioca un ruolo fondamentale per la sicurezza energetica di molti paesi, specialmente in Europa. Le ampie riserve di gas “non convenzionale” che si possono finalmente sfruttare economicamente, potrebbero essere alla base di una vera e propria rivoluzione degli scenari geopolitici dell’energia a livello globale. Nell’articolo che segue, cercheremo di dare una breve panoramica sulle caratteristiche del mercato del gas naturale e quali conseguenze l’estrazione dello shale gas negli Stati Uniti ha comportato finora e quali conseguenze potrebbe avere se la sua produzione si estendesse anche in altri paesi

 

L’IMPORTANZA DEL GAS NATURALE – L’importante ruolo del gas naturale nel mix energetico di molti paesi è cosa ben nota. Come per l’Italia, che ricava dal gas il 40% del suo fabbisogno energetico, per l’intera Europa, ma anche per gli Stati Uniti, dove dal gas è ricavato il 25% circa del fabbisogno. Dal gas si produce energia elettrica per tutti i settori dell’economia, per le abitazioni e per il riscaldamento di esercizi commerciali, nonché per le residenze private. In minima parte il gas, nelle forme adeguate, viene anche utilizzato come combustibile nel settore dei trasporti. Negli ultimi cinquant’anni il consumo di gas naturale è aumentato senza sosta, dal 15,7% del consumo di energia a livello globale nel 1965 al 24% di oggi. In termini assoluti il suo consumo è passato da 650 miliardi di metri cubi (MMC) a 3.200 MMC [dati BP]. Un incremento di quasi cinque volte. Nei prossimi decenni il trend sembra destinato a intensificarsi. Le due principali agenzie dell’energia – l’americana Energy Information Administration (EIA) e l’International Energy Agency (IEA) – prevedono che nel 2035 l’unico combustibile fossile ad avere una quota nel mix energetico globale maggiore rispetto a oggi sarà proprio il gas. L’emissione di minori quantità di CO2 rispetto agli altri combustibili fossili – carbone e petrolio – e il prezzo inferiore, lo rendono particolarmente attraente per molti paesi che dipendono fortemente dal ben più inquinante carbone. Su questo punto non c’è completo accordo tra gli esperti. Secondo alcuni le emissioni di gas nell’atmosfera che avvengono durante l’estrazione sarebbero così cospicue da renderlo di gran lunga più inquinante di quello che normalmente si pensa. Altri studi fanno notare come il metano (CH4) sia ben venti volte più inquinante della CO2.    Ciononostante, il gas naturale continuerà di certo a essere un combustibile scelto in molte regioni del mondo per la produzione di energia elettrica e per l’industria.

 

LE CARATTERISTICHE DEL MERCATO INTERNAZIONALE – Vista la grande importanza di questo combustibile fossile, ci si aspetterebbe l’esistenza di un mercato internazionale simile a quello del petrolio. Invece non è così. Non esiste oggi un vero e proprio mercato internazionale del gas naturale e l’assenza di un meccanismo di formazione dei prezzi che stabiliscano un prezzo univoco. Esistono invece tre principali mercati regionali: il Nordamericano, l’Europeo, e l’Asiatico. Ognuno di essi con una propria formazione dei prezzi e, ciò che è più importante, proprie fonti di approvvigionamento. Il mercato nordamericano soddisfa quasi tutto il fabbisogno con la produzione indigena, mentre il resto è preso dal Medio Oriente; l’Europa compra il suo gas dalla Russia e dall’Africa del nord; mentre i maggiori consumatori asiatici (Cina, Giappone e Corea del Sud) utilizzano le fonti asiatiche (Australia, Indonesia, e Asia centrale) e in parte il golfo persico. Infatti, il commercio di gas tra le regioni è quasi inesistente. Nel 2010 l’Europa (EU27) ha importato gas per circa 416 MMC (Milioni di Metri Cubi), di questi solo 1 MMC proveniva dal Nord America, 7 MMC dal Sudamerica e zero dall’Asia. La principale ragione della frammentazione, è da ricercare nelle caratteristiche fisiche del gas al momento della sua estrazione: è, come lo dice la parola stessa, allo stato gassoso. Ne derivano grossi problemi per il suo trasporto, difficoltà conosciuta nel settore come la “tirannia della distanza”. Sarebbe a dire che le riserve di gas sono concentrate solo in alcune zone, mentre i consumatori finali si trovano a migliaia di chilometri di distanza. Per fare un esempio, le riserve di gas naturale “convenzionale” conosciute, sono molto concentrate in tre paesi: Russia, Iran e Qatar. Questi tre paesi possiedono nel loro sottosuolo ben il 53% delle riserve mondiali di gas naturale, e le due aree del mondo con la maggiori riserve di gas (provate) sono il Medio Oriente (40,5%) e la Russia più l’Eurasia (34%).  Il problema della distanza è stato mitigato negli ultimi anni grazie alla crescita del LNG (Liquefied Natural Gas) ossia il gas che viene liquefatto nei terminal presenti nei luoghi di produzione e destinato ai mercati di consumo, dove verrà (ri-)gassificato e immesso nel circuito di condutture che lo porteranno ai consumatori finali. Dal 2000 il mercato del LNG ha visto grossi investimenti. Specialmente negli USA, dove aumento dei consumi e tassi di produzione di gas convenzionale declinanti, hanno creato le condizioni per un forte incremento delle importazioni di gas sotto forma di LNG. Ma negli ultimi anni questo scenario si è capovolto.

 

LA RIVOLUZIONE DELLO SHALE GASNel 2005, grazie al successo nell’uso combinato di trivelle orizzontali (horizontal drilling) e di una tecnologia chiamata hydraulic fracturing (che permette di pompare ad alta pressione nel sottosuolo un composto di acqua, sabbia ed elementi chimici che libera il gas intrappolato nelle rocce), le riserve di gas non convenzionale già conosciute, ma considerate troppo onerose perché potessero essere estratte, diventavano ora convenienti. Ciò ha portato a un aumento esponenziale della quantità di riserve di gas considerate commercialmente estraibili. La produzione di shale gas negli USA è aumentata tra il 2006 e il 2010 in media del 48% l’anno. Passando a circa il 16% della produzione totale di gas naturale rispetto all’1% nel 2000, mentre quella di gas “convenzionale” è passata dal 52% nel 2000 all’attuale 34%. C’è stato un vero e proprio capovolgimento della situazione. Oggi gli Stati Uniti sono i primi produttori di gas naturale al mondo. Non solo sono autosufficienti, ma sono pronti per diventare esportatori di gas. Stime sul totale delle riserve di shale gas negli Stati Uniti vanno da 42,5 trilioni di metri cubi (tmc) a 113,3 tcm. In grado di soddisfare il fabbisogno americano per almeno 170 anni.

 

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IL SUCCESSO AMERICANO – L’unico paese che, a oggi, produce shale gas sono gli Stati Uniti. Il fatto che sia stato possibile prima negli USA che altrove è dovuto a una serie di caratteristiche peculiari del mercato americano e dalla presenza di grandi quantità di riserve di gas non convenzionale. Il catalizzatore più importante è senz’altro stato il miglioramento tecnologico nella combinazione delle due tecnologie sopra esposte. Ciò ha reso possibile l’estrazione del gas non convenzionale con costi inferiori a quelli richiesti prima del 2005, rendendolo più conveniente. Tra gli altri fattori più influenti, il diretto accesso alle risorse del sottosuolo – la cui proprietà, negli USA, è del proprietario del terreno – e una certa abitudine degli americani con le attività di trivellazione, hanno creato un ambiente favorevole allo sviluppo della produzione. Tutto ciò sarebbe però stato inutile se non fosse stato per gli incentivi alla produzione di altre fonti di gas non convenzionale (coalbed methane e tight gas) negli anni ’80, che hanno favorito lo sviluppo di piccoli produttori, che hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo dello shale gas grazie ai loro investimenti nel settore. Fondamentale anche l’appoggio dello Stato federale e la profonda conoscenza delle caratteristiche geologiche del sottosuolo, importantissima per valutare al meglio il luogo e le modi di trivellazione, nonché per una serie di altri dati tecnici fondamentali per il buon esito dell’estrazione. (Fine prima parte)

 

Marco Spinello

Sull’orlo del baratro?

La settimana che ci attende unisce i destini delle due potenze dell’Atlantico del Nord, Europa e Stati Uniti, alle prese con le vicissitudini mondiali e con debolezze interne che minano la loro immagine verso l’esterno, con l’EU-US Summit a sintetizzare le loro posizioni. Nel resto del mondo le elezioni vanno in scena in Egitto e Congo nel pieno della violenza mentre Siria e Iran continuano a destabilizzare le sorti della pace e della sicurezza della Comunità industriale. Quello che vi serviamo oggi è un caffè bollente che chiede risposte

EURASIA Mercoledì 30- Giornata piena per le istituzioni europee con il Consiglio per gli affari Economico-Finanziari dove sono attese aspre discussioni in merito agli aiuti alle banche dell’eurozona contro gli attacchi speculativi e ai suggerimenti sulle misure comuni per affrontare la crisi. I Ministri sono anche chiamati a formulare proposte e progetti per il prossimo Consiglio Europeo del 9 Dicembre sulla politica economica dell’Unione. Nello stesso giorno si riunisce il Consiglio sugli Affari Esteri che riunirà i Ministri della Difesa per discutere delle misure di Sicurezza Comune e Politiche di Difesa, in particolare delle strutture militari e delle missioni in corso in Somalia, nel Corno d’Africa e in Bosnia-Erzegovina.  La giornata di giovedì sarà dedicata alle situazioni di tensione in Egitto, Iran, Siria, Yemen e Kosovo, dove continuano i disordini di frontiera. Francia e Gran Bretagna appoggiate dall’Italia in secondo piano potrebbero proporre un embargo petrolifero totale sulle esportazioni di greggio da Teheran per costringere l’Iran ad abbandonare le sue mire di proliferazione nucleare. ASSE ROMA-PARIGI-BERLINO – Sembra che i tre leader più in  vista dei paesi europei abbiano portato a casa un accordo riservato con il Fondo Monetario Internazionale guidato dalla francese Christine Lagarde. Il piano riguarderebbe proprio l’Italia prevedendo aiuti per 600 miliardi ad un tasso del 5% rispetto al 7% previsto dai mercati. I fondi del FMI darebbero al governo di Mario Monti 18 mesi di tempo per attuare le riforme strutturali necessarie per garantire la ripresa economica italiana ed evitare un disastroso naufragio dell’eurozona e dell’Unione Europea. AFRICA LIBIA – Da sabato sera due motopescherecci italiani sono in consegna delle autorità portuali libiche a Misurata per aver sconfinato nella linea di base tracciata dal Governo libico per chiudere come interne le acque del Golfo della Sirte. La situazione va avanti ormai dagli anni ’70, con un provvedimento contrario alla Convenzione sul Diritto del Mare di Montego Bay e gli insuccessi della comunità internazionale nel ridurre la Libia a ragioni più miti. L’Italia che mostra un’alta soglia di sopportazione ai continui fermi di imbarcazioni non ha mai dichiarato la sua Zona Economica Esclusiva, proprio per evitare frizioni con i paesi della sponda sud del mediterraneo. Lunedì 28 – Si riunisce a Durban, in Sudafrica, fino al 5 dicembre la 17esima sessione della Conferenza degli Stati parte della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico congiuntamente alla 7a sessione del meeting dei membri del Protocollo di Kyoto. I negoziati riguarderanno un accordo globale sulla riduzione dell’inquinamento e sugli impegni che seguiranno il 2012, anno di scadenza del Protocollo di Kyoto. Alla Polonia, che detiene la Presidenza di turno dell’Unione, il compito di rappresentare l’Europa davanti ai delegati di tutti gli Stati membri compresi U.S.A., Cina, Giappone e Federazione Russa. Lunedì 28 – Dopo un sabato di proteste finite nel sangue e una domenica senza chiusura di campagna elettorale, la popolazione della Repubblica Democratica del Congo è chiamata ad eleggere il proprio presidente nelle elezioni di lunedì, vero punto di svolta per il paese. Oltre all’eterno Joseph Kabila, erede politico del padre Laurent Désiré, l’opposizione è frammentata in 11 candidati, il più popolare dei quali appare Etienne Tshisekedi, leader morale delle manifestazioni delle scorse settimane che ha denunciato sia l’intromissione delle potenze straniere, sia la dubbia imparzialità di alcuni osservatori dell’ONU. La vittoria sembra scontata per Kabila, ma come si dice a Kinshasa “si può avere solo una piccola speranza con 31 milioni di votanti” nella seconda tornata elettorale in 51 anni di indipendenza. Lunedì 28 – In un clima surreale di tregua momentanea il popolo egiziano che da mesi occupa le piazze contro la caduta pilotata dall’esercito di Hosni Mubarak, è chiamato ad eleggere, con il sistema elettorale più complicato del mondo, un parlamento privo dei poteri essenziali delle istituzioni liberaldemocratiche. La giunta militare manterrà, comunque vadano le elezioni, il potere di scegliere il governo e un consiglio consultivo di 50 membri per supportare il Consiglio Supremo delle Forze Armate del Generale Tantawi. I numeri di questo voto: 498 seggi, 2 turni elettorali e 12 partiti maggiori. Gli attivisti e gli attori delle proteste definiscono inutili queste elezioni, mentre i Fratelli Musulmani vedono possibilità di affermarsi come il partito di maggioranza relativa.

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AMERICHE Lunedì 28 – Il presidente Barack Obama riceverà alla Casa Bianca lo stato maggiore europeo durante l’EU-US Summit. Manuel Barroso, Herman Van Rompuy, Catherine Ashton e il commissario al commercio K. De Gucht discuteranno con i rispettivi statunitensi dell’economia globale, delle relazioni bilaterali e di misure comuni per promuovere la crescita e l’occupazione. L’incontro sarà anche l’occasione per sviluppare linee comuni sulle relazioni internazionali e sugli ultimi sviluppi in Nord Africa e Medio Oriente, così come sul progresso della democrazia e dello sviluppo nel vicinato europeo e in tutte le regioni del mondo. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si riunisce a New York per affrontare le sfide poste dalle dimissioni del Presidente yemenita Saleh e dal progetto di road map democratica per il paese, nel pomeriggio verrà discussa in maniera dettagliata la situazione dopo la fine del conflitto civile in Libia e del sostegno alle nuove istituzioni democratiche. Lunedì 28 Tempo di elezioni in due paesi caraibici, Saint Lucia, governatorato britannico e Guyana che ha ottenuto l’indipendenza in ambito Commonwealth nel 1970, che mantengono forti legami con la madrepatria. 28 e 65 sono rispettivamente i seggi che i due popoli sono chiamati ad eleggere. ASIA ORIENTALE PAKISTAN – Dopo un attacco condotto venerdì notte da droni NATO che ha causato la morte di ventisei soldati pakistani e il ferimento di altri tredici, il Ministro degli Esteri di Islamabad ha convocato l’Ambasciatore americano Cameron Munter e intimato lo sgombero della base aerea di Shamsi. Le stesse misure furono adottate dal governo pakistano in maggio, in seguito all’uccisione di Osama Bin laden ad Abbotabbad. Il Pakistan e le sue aree tribali sono il passaggio vitale per i rifornimenti all’esercito americano in Afghanistan, ma nel giro di pochi mesi le relazione tra i due paesi sono precipitate ai minimi storici creando preoccupazioni per la stabilità dell’alleanza. Lunedì 28 Un discorso del Dalai Lama in programma a Nuova Delhi per mercoledì alla Congregazione Mondiale Buddhista è bastato ai diplomatici cinesi per denunciare ed annullare un incontro con i colleghi indiani previsto da tempo e fissato per lunedì. Le parti avrebbero dovuto discutere di questioni di frontiera, in particolare delle zone del Sikkim e dell’Assam confinanti con il Tibet. La cancellazione segue le numerose immolazioni da parte di monaci e monache tibetane contro l’autorità centrale di Pechino, in India inoltre sono rifugiati numerosi esuli tibetani, tra cui dal 1959 il Dalai Lama stesso. MEDIO ORIENTE SIRIA – La Lega Araba ha approvato le misure di embargo dei voli commerciali e blocco delle transazioni con la Banca Centrale di Damasco approvate Sabato sera dal Consiglio Economico con la sola opposizione di Libano e Iraq. Le violenze continuano e le sanzioni se applicate con efficacia causerebbero un ulteriore irrigidimento delle condizioni della popolazione. Da parte sua il regime di Assad ha denunciato le sanzioni come “la luce verde per un intervento militare internazionale” che diventa giorno per giorno più probabile, mentre i disertori del Free Syrian Army dimostrano di essere più organizzati e determinate di quanto li si ritenesse. YEMEN – Il vicepresidente yemenita Abdo Rabbo Mansour Hadi, cui Saleh aveva consegnato le proprie dimissioni, ha nominato domenica il nuovo capo del governo. Si tratta del leader dell’opposizione Mohammed Basindwa, a lui il compito di calmare le piazze e guidare la riconciliazione del paese minata dal conflitto civile del Nord in cui ribelli sciiti Houtni si oppongono con armi pesanti ai Salafiti sunniti. Con il ritorno di Saleh da Riyadh, protetto dall’immunità accordatagli per negoziato, inizia a delinearsi il futuro percorso verso la democrazia di Sana'a, con le prime elezioni yemenite  fissate il 21 febbraio 2012. IRAN – Il Parlamento della Repubblica Islamica ha approvato domenica con una larghissima maggioranza un progetto di legge per ridurre i rapporti diplomatici con il Regno Unito al livello di incaricati d’affari e le relazioni economiche al minimo indispensabile, la palla passa ora al consiglio dei Guardiani che ha potere di veto sulle leggi della consulta. Mentre Londra denuncia il provvedimento come un suicidio del regime degli Ayatollah e minaccia l’uso della forza, il governo di Ahmadinejad ha ora 15 giorni per attuare il provvedimento seguito alle sanzioni adottate congiuntamente da Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna. Alcuni parlamentari iraniani dopo il voto hanno ventilato l’ipotesi di una assalto al “covo di spie” simile a quello del 1979 che portò al sequestro per 444 giorni del personale tecnico e diplomatico dell’Ambasciata americana a Teheran. IRAQ – Il Ministro della Difesa iracheno negli scorsi giorni ha tirato le somme del ritiro delle forze statunitensi presenti nel paese, restano 17000 effettivi dislocati in 7 basi militari, entro il 2012 solo 740 rimarranno in Iraq per fornire addestramento e assistenza logistica all’esercito iracheno. Intanto, sul fronte economico-energetico le multinazionali Shell e Mitsubishi intascano un accordo epocale con la società estrattiva statale Sud Gas per lo sfruttamento del gas naturale degli impianti meridionali. Le eccedenze rispetto al fabbisogno interno iracheno saranno vendute con un valore commerciale di circa 17 miliardi con una validità di 25 anni. Fabio Stella [email protected]

C’è chi scende…e chi sale

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Mentre l'Europa rischia di sprofondare in un baratro che produrrebbe effetti catastrofici per le economie dei suoi Stati, dall'altra parte del mondo c'è chi gode di una salute decisamente migliore. È il Brasile, la cui economia continua a crescere e guadagna solidità, confermata dal miglioramento del “famigerato” rating di Standard & Poor's. I processi che si stanno innescando in questo periodo potrebbero avere conseguenze geopolitiche fondamentali nel medio-lungo periodo

POLLICE ALZATO – Nelle ultime settimane si è sentito parlare delle più importanti agenzie di rating quasi esclusivamente in negativo: prima sono intervenute per abbassare il grade dell'Italia, poi – giusto pochi giorni fa – è stata ventilata l'ipotesi di una revisione al ribasso della “tripla A” di cui la Francia si può ancora fregiare (chissà ancora per quanto tempo). Nelle stesse ore, tuttavia, dall'altra parte dell'Oceano Atlantico Standard & Poor's metteva in atto un'operazione diametralmente opposta. L'agenzia ha infatti innalzato il rating a lungo termine delle emissioni di titoli brasiliani in valuta straniera e domestica rispettivamente dal livello di BBB- a BBB e da BBB+ ad A-. Le giustificazioni di questo “upgrade” risiedono essenzialmente nell'efficacia della politica fiscale messa in atto dal Governo di Dilma Rousseff nel corso dell'ultimo anno, che si è concluso con un avanzo primario di bilancio del 3%. Questo ha permesso alle autorità brasiliane di agire con più flessibilità anche sulla leva della politica monetaria, lasciando la Banca Centrale con le mani “libere” per adottare politiche anticicliche in modo da scongiurare il pericolo di un contagio della crisi da Europa e Stati Uniti. Nello specifico, ci riferiamo all'abbassamento del tasso di interesse, che è stato ridotto in due occasioni di mezzo punto percentuale (ora è all' 11,5%) al fine di ridurre il costo del denaro e di conferire maggiore liquidità nel mercato. Questo costerà qualcosa in termini di inflazione, un obiettivo che l'autorità monetaria brasiliana mantiene sempre come primario: l'aumento dei prezzi nel 2011 si attesterà intorno poco al di sotto del 7%, al di sopra del tetto che si era posto il Banco Central. In periodi di difficoltà, però, l'inflazione è uno strumento che, nei limiti di una certa moderazione, si può lasciar salire: e anche per la rigidità della Banca Centrale Europea su questo aspetto i Paesi UE sono con l'acqua alla gola.

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E IL BRASILE VOLA – Insomma, mentre l'Italia e l'intera Unione Europea rischiano di andare a rotoli, il Brasile può vantare una performance economica davvero invidiabile. Il PIL, secondo le prime stime, dovrebbe continuare a crescere anche nel 2012, seppur nell'ordine di un più modesto 2%. Questa tendenza del tutto opposta a quelli dei Paesi più ricchi non può non suggerire una serie di ragionamenti per il futuro. La crescita di attori cruciali come Cina e Brasile (l'India è ancora molto più arretrata mentre la Russia ha una valenza squisitamente geopolitica piuttosto che in termini di potenza economica) potrebbe portare ad una sensibile ridefinizione degli equilibri mondiali. Tale processo sarebbe accelerato se la crisi dell'UE non dovesse trovare una soluzione positiva, mentre in caso contrario sarebbe solamente rallentato. Il Brasile, che è meno esposto a livello internazionale della Cina e meno dipendente da quello che accade sui mercati europei, potrebbe essere il soggetto il cui perso relativo cambierebbe in maniera più significativa. Davide Tentori [email protected]