lunedì, 15 Dicembre 2025

APS | Rivista di politica internazionale

lunedì, 15 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

Home Blog Page 579

In cerca di una rinascita

Con l'assedio di Sirte, gli scontri a Bani Walid e le sorti del colonnello sempre più incerte, è arrivato il momento di capire chi sta dietro le quinte degli eventi libici degli ultimi mesi. Se il CNT libico è ormai considerato da tutti l'unico interlocutore affidabile per la Libia post-Gheddafi, non è però l'unico attore politico affermatosi durante questi sette mesi di rivolta contro il regime. Sarà compito dei nuovi vertici istituzionali mediare con le varie entità e culture di questo Stato tribale per giungere alla creazione di una nuova nazione e di un nuovo popolo libico

LA “NUOVA” CLASSE DIRIGENTE– Tra le prime defezioni del gabinetto del regime seguite alle repressioni violente di Bengasi spicca la figura di Mustafa Mohammed Abul Jalil (foto sotto), ora Presidente del CNT ma ex ministro “scomodo” della Giustizia. Altra figura di spicco del CNT è Mahmoud Jibril, ex-direttore del Consiglio nazionale per lo sviluppo economico e il Consiglio per la pianificazione nazionale di Tripoli, Professore di Pianificazione strategica presso l’Università di Bengasi, ha pubblicato una decina di libri, anche sulla politica estera americana. Oggi capo del governo e responsabile degli Esteri del CNT, è la vera stella nascente della Libia del futuro. Con alcune cariche del nuovo governo annunciato dal CNT ancora da decidere, ciò che è chiaro è la fiducia riposta nei membri delle vecchie Istituzioni che hanno sempre mantenuto posizioni indipendenti dal regime di Tripoli.

LE RISORSE DEL REGIME- A differenza di quanto accaduto in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, non si è cercato di portare a termine un’epurazione delle istituzioni che eliminasse la classe dirigente di un regime in realtà ricco di posizioni differenti e di fratture politico-ideologiche. La Libia è sempre stata caratterizzata dall’importanza delle diverse culture e tradizioni tramandate dalle fazioni tribali presenti sul suo territorio. Già questa scelta è sufficiente a dimostrare la maturità della popolazione libica che ha accettato compromessi inevitabili per arrivare all’obiettivo principe di questa Primavera “Made in Bengasi”, ovvero la caduta del Raìs.

content_865_2

LE FORZE POLITICHE IN CAMPO- Tuttavia oltre ai membri del CNT, si stanno facendo largo nella scia della rivolta nuovi movimenti politici, affiancati da forze di vecchia data rinate dopo la fine dell’oppressione. I Fratelli Musulmani sono attivi in Libia dal 1979 e sono sempre stati la componente più organizzata dell’opposizione al regime, poco propensi ad apparire in pubblico e sottovalutati dai media rappresentano la vera alternativa alle scissioni tribali, nonostante i loro dichiarati obiettivi di rinascita islamista per la nuova nazione libica. Del 1981 è invece il Fronte Libico di Salvezza Nazionale, altro movimento di opposizione al regime propone da sempre per il dopo Gheddafi un cocktail istituzionale a base di libere elezioni, separazione dei poteri, decentramento amministrativo, fratellanza e solidarietà tra la popolazione e partecipazione alle Organizzazioni Internazionali per la cooperazione e lo sviluppo di nuove relazioni bilaterali e multilaterali. Sarà solamente al tempo delle elezioni che i due movimenti più importanti caleranno i loro assi per aggiudicarsi la fetta di potere che da tempo attendono invano.

I PERICOLI DELL’ESTREMISMO- Oltre ai movimenti politici già citati rimane il tanto pubblicizzato pericolo “Jihadista”, se è vero che più volte cellule islamiche hanno rivendicato la paternità della rivolta libica e la propria partecipazione alle operazioni delle forze armate del CNT, questi movimenti rimangono perlopiù marginalizzati tra le svariate “fedi” della nuova Libia. Un popolo che ha sopportato quarantadue anni di regime e che solo ora arriva ad assaporare il gusto della libertà, sarà difficilmente disposto a tornare in condizioni di oppressione seppur in nome della religione islamica. Se c’è un punto fermo tra tutte le incertezze affiorate dopo la Primavera Araba è proprio la sconfitta subita dai movimenti qaedisti e jihadisti nell’interpretare le voci dei popoli islamici. Sullo sfondo restano altri partiti minoritari che si rifanno alle esperienze baathiste della regione mediorientale (il movimento politico cui faceva riferimento, tra l’altro, Saddam Hussein), ma che con l’evoluzione della situazione in Siria (baathista è infatti anche il partito di Assad) rischiano di perdere ogni speranza di credibilità.

TEMPO DI BILANCI – Con la probabile fine delle ostilità entro tre mesi, tanto è stata prolungata la missione NATO, è giunto per il CNT il momento di stilare una summa sugli obiettivi raggiunti e quelli ancora da perseguire, con le elezioni democratiche poste a faro del futuro, la Libia deve continuare ad allacciare più legami possibili con la Comunità Internazionale e con gli attori che contano. Dopo la risoluzione di Mercoledì del Parlamento Europeo su un’azione condivisa e non unilaterale nel sostegno al processo di State re-building, sarà forse tempo di mettere – momentaneamente – da parte la sete di appalti e commesse che vede Italia, Francia e Gran Bretagna protagoniste di continui tentativi di cooptazione, per passare ad un vero programma di rilancio per un paese da rilanciare nell’economia e sulla scena mondiale.

Fabio Stella [email protected]

Il vento caldo del (Medio) Oriente

Durante le ultime settimane abbiamo assistito ad un innalzamento della tensione diplomatica tra la Turchia e lo stato di Israele. La “crisi” è stata generata dalla pubblicazione del rapporto Palmer sull’assalto israeliano alla Freedom Flottilla diretta a Gaza durante il quale, il 31 maggio dello scorso anno, sono stati uccisi nove attivisti turchi. La mancanza di scuse ufficiali da parte del governo di Netanyahu ha generato l’indignazione dei turchi. Ma cosa c’è dietro questo raffreddamento delle relazioni?

 

LA PRESA DI POSIZIONE – Con un importante comunicato del 2 settembre scorso, il Ministro degli Affari Esteri turco Ahmet Davutoğlu ha espulso l’Ambasciatore israeliano da Ankara, ridotto la rappresentanza diplomatica turca a Tel-Aviv e cancellato tutti gli accordi di carattere militare con Israele. La ragione sembra semplice: il rapporto presentato dai commissari ONU conferma che l’azione contro la nave turca Mavi Marmara è interpretabile come un “casus belli” per il governo Erdogan. Il Ministro degli Affari Esteri turco ha perfino precisato che non ci sarà normalizzazione dei rapporti fino a quando Israele non porrà ufficialmente le proprie scuse per quello che lo stesso Ministro, ha definito “atto di aggressione”. D’altra parte, il governo di Netanyahu resta fermo sulle sue posizioni da ormai più di un anno: l’azione, per quanto violenta, deve essere considerata come legittima difesa e inquadrata come “misura di sicurezza legale”.

 

Ciò che più colpisce, non è tanto la discussione in sé, quanto il fatto che dalla metà del 2008, con l’inizio dell’operazione israeliana “Cast Lead” (Piombo Fuso) nella Striscia di Gaza, le relazioni tra le uniche due potenze non arabe dell’area (Iran escluso), si sono pian piano deteriorate. Nonostante infatti, sotto il profilo economico, i due attori continuino a beneficiare di un volume bilaterale di commerci valutato intorno a 2,7 miliardi di dollari (con la Turchia che ricava 1,5 mld di dollari dalle vendite), il futuro di questa relazione strategica essenziale in Medio Oriente, sembra oggi appeso ad un filo. Le motivazioni, ad oggi, sembrano molteplici: vediamo perché.

 

LA TURCHIA SENZA ISRAELE? – Le decisioni di questi giorni favoriscono sicuramente l’amministrazione turca sia sotto il profilo della politica estera, sia di quella interna. Se infatti le asserzioni di Davutoğlu fanno piacere al governo di Teheran (sempre a caccia di alleati per delegittimare Israele), dall’altra anche l’elettorato turco apprezza l’operato del partito di governo, peraltro da poco rieletto.

 

Allo stesso tempo però, Ankara si allontana dall’obiettivo che si era preposta. Il soft-power della “profondità strategica” (dottrina di politica estera del ministro Davutoğlu) va man mano perdendo peso. Il raggiungimento di una pax turca con i vicini diventa sempre più un’incognita e l’attuale crisi con Israele, come il progressivo incrinarsi dei rapporti con la Siria di Assad, fanno pensare che il futuro della Turchia non sarà solo quello del peace keeper.

 

A confermare questa “correzione di rotta” in politica estera inoltre, è la dichiarazione che il governo turco ha rilasciato in risposta a quella pervenuta da Tel Aviv, la quale specificava una ripresa delle relazioni tra Israele e il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), organizzazione che durante tutta l’estate ha creato seri problemi di sicurezza sul confine turco-iracheno. Davutoğlu ha risposto alle provocazioni sottolineando che “nessun paese può ricattare la Turchia” e che “in quanto Stato costiero con la costa più lunga di tutti nel Mediterraneo orientale, la Turchia intraprenderà qualsiasi azione dovesse ritenere necessaria per assicurare la libertà di navigazione nel Mediterraneo orientale”. È evidente che questo è un avvertimento (che comunque va preso con le dovute cautele) che testimonia un netto cambio di posizioni verso una politica estera maggiormente orientata alla proiezione della propria potenza attraverso le capacità militari.

 

ISRAELE SENZA LA TURCHIA?Per Israele, a questo punto, la situazione si fa complessa. Questa crisi diplomatica contribuisce ad un processo di isolamento già in atto, che a molti ormai sembra quasi irreversibile. Il governo di Netanyahu punta tutto sulla sicurezza, ma questo atteggiamento non sta giovando alla politica estera israeliana. Da sottolineare anche i rinnovati scontri con i palestinesi di Hamas (dopo la fine della tregua) e la rottura delle relazioni con l’Egitto (e conseguente ritiro della rappresentanza diplomatica del Cairo) che, dopo la caduta di Mubarak e l’uccisione di cinque poliziotti egiziani ad opera dell’esercito israeliano, potrebbe non garantire a Tel Aviv lo stesso grado di fedeltà che c’era in passato.

 

Allo stesso tempo Israele è preoccupata dalla incessante instabilità Siriana e dalle conseguenze del voto in Assemblea Generale dell’ONU per il riconoscimento dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) come osservatore permanente, il che permetterebbe a questa di avere propri rappresentanti all’interno delle maggiori agenzie delle Nazioni Unite. In questo stato di grande incertezza inoltre, Netanyahu sa bene di non poter contare (almeno nell’immediato) nemmeno sull’appoggio internazionale dei suoi soliti “partners”, Stati Uniti in primis, attualmente impegnati a discutere sul preoccupante andamento dell’economia globale.

 

content_866_2

DIETRO IL SIPARIO – Infine, la sfida tra Israele e Turchia si consuma anche sotto il profilo delle risorse energetiche. Uno (forse tra i più importanti) dei motivi per cui i due attori hanno cominciato apertamente a scontrarsi sul campo diplomatico, è proprio l’esistenza di ricchissimi giacimenti di gas naturale al largo di Cipro. Israele infatti è stato accusato sia dal Libano (con il quale è ancora formalmente in guerra) che dalla Turchia, non solo di aver violato, con la costruzione di piattaforme di estrazione, i diversi limiti marittimi ma (e questo riguarda i turchi in particolar modo), di aver stretto accordi con la “parte greca” dell’isola senza considerare che, non solo quest’ultima non è riconosciuta sul piano formale da Ankara, ma che non è la sola ad avere giurisdizione sui profitti del gas estratto. È anche per questa ragione che si prevede nei prossimi mesi una intensificazione delle attività militari navali della Turchia nel Mediterraneo orientale.

 

Così, dopo il tour di Erdogan nei paesi della “primavera araba”, attraverso il quale il premier turco sembra aver raccolto copiosi consensi (il che è importante vista l’attuale ristrutturazione degli assetti strategici nel Medio Oriente) attraverso lo slogan “gli israeliani sono bambini viziati”, Tel Aviv segue preoccupata la situazione, nonostante la buona notizia giunta da Washington dell’applicazione del veto americano in Consiglio di Sicurezza, la quale boccerebbe la proposta di riconoscimento per la Palestina.

 

Sebbene quindi questa crisi abbia scavato a fondo nei rapporti tra Israele e la Turchia (tanto da far decidere quest’ultima ad aggiornare i software di tutte le apparecchiature militari che evitavano di colpire mezzi israeliani considerati “amici”), uno scontro diretto appare oggi molto poco probabile. Lo scenario però cambia e si evolve. Ankara, da una parte, dovrà guardarsi intorno continuando a coltivare vecchie amicizie (vedi la Russia) e cercando nuovi sostenitori (quali potrebbero essere le neonate democrazie del Maghreb) tentando di non imporsi sullo scacchiere come attore troppo invasivo. Dall’altra inizierà a tutelare gli interessi nella sua sfera con un approccio più diretto, quindi mostrando i muscoli, se necessario.

 

Al contrario, Israele, dovrà cercare di uscire da questa fase di isolamento cronico e, a questo scopo, al governo Netanyahu toccherà provare a ricucire certi rapporti (anzitutto con l’Egitto). Allo stesso tempo, Tel-Aviv dovrà gestire i rischi che potrebbero sorgere dal mancato riconoscimento dell’ANP (possibile ritorno all’intifada). Le prossime settimane continueranno presumibilmente ad essere all’insegna della tensione.

 

Paolo Iancale [email protected]

Nel ventre del dragone

0

Il Caffè geoeconomico – Torna la rubrica che prova a mostrare come dietro a diversi risvolti geopolitici vi siano spesso tematiche geoeconomiche da analizzare. Abbiamo parlato tanto di Cina in questo periodo: proviamo a viaggiare “dietro le quinte”, per scoprire i motori dello sviluppo cinese, ma anche alcuni suoi squilibri. Il tema è complesso, ma è fondamentale capire alcune dinamiche che stanno dietro al fenomeno Cina, sempre più al centro del mondo (e la nostra cartina, nell'homepage, lo testimonia…)

Quando si parla di squilibri nell’economia cinese si pensa quasi sempre al tasso di cambio (sulla cui gestione si concentrano rimostranze e pressioni occidentali, soprattutto di Washington), o al tasso di inflazione (oggetto delle preoccupazioni cinesi). E’ in corso da alcuni anni (ma con particolare intensità negli ultimi due) tra gli addetti ai lavori un serrato dibattito sulla presenza nel tessuto economico cinese di importanti bolle speculative, ovvero di altre e più profonde distorsioni strutturali nella allocazione delle risorse. Di questi scompensi, i profili di cambio e prezzi sarebbero in parte causa, in parte sensore.

RISCHI SPECULATIVI – I temi sono diversi. Proviamo a fare un po' di chiarezza, districandoci tra questioni non immediate:

_ recentemente hanno suscitato una certa inquietudine report ufficiali e analisi delle banche d’affari sulla finanza delle amministrazioni locali. Se il National Audit Office (NAO) cinese parla di un debito periferico di circa 10.700 miliardi di renminbi (rmb), pari a un sostenibile 27% del Pil, gli analisti di Standard Chartered – banca d’affari focalizzata in particolare sull’estremo oriente – “vedono” un ammontare decisamente superiore (altri 4mila mld di “credito informale”). Non si tratta tanto del valore, assoluto o in rapporto al Pil, quanto dell’opacità e fragilità del sistema finanziario su cui il debito insiste. Il tasso di interesse praticato dalle banche sul credito “periferico” è stimato a un 6% medio, molto superiore al tasso ufficiale del 2%, che vige per il debito del governo centrale.

A questo si aggiunge che la stretta in corso sul credito da più di un anno, parte essenziale della manovra del governo volta a prevenire/assorbire bolle speculative e inflazione, colpisce in particolare province, città e imprese medio-piccole. Quasi sicuramente il bilancio nazionale dovrà farsi carico di una parte importante del debito periferico, se non si vuole correre il rischio di insolvenze generalizzate in grado di minare la credibilità del sistema bancario.

_ il credito alle grandi opere infrastrutturali (ferrovie, autostrade, aereoporti, interi quartieri e città..) e all’industria pesante opera al di fuori di ogni regola di mercato, potendo attingere al vasto bacino del risparmio a tassi amministrati, estremamente e artificiosamente bassi.

E’ sicuro che si deve all’esistenza e alle prospettive di sviluppo di vaste e moderne reti infrastrutturali se la Cina ha attratto in questi decenni tanta parte dei flussi globali di investimento diretto, ed è diventata “la fabbrica del mondo”. D'altra parte, vi sono alcuni economisti che puntano il dito su autostrade deserte, aereoporti nuovi di zecca e rimasti intatti, intere città fantasma e impianti siderurgici inutilizzati. Sarebbero questi chiari segnali di un eccesso di investimento, ovvero un’altra bolla speculativa, che potrebbe addirittura portare a una vera e propria crisi da sovracapacità produttiva.

INCENTIVARE I CONSUMI – E’ vero poi che occorre valutare tali dati e coefficienti alla luce dell'unicità del contesto cinese, che mostra un dinamismo economico e demografico incomparabile alle altre economie del G8. In ogni caso, vi sono indiscusse priorità, in gran parte dettate dalle problematiche dell’urbanizzazione e di una necessaria crescita dei consumi. Servono dunque meno industria pesante e infrastrutture per l’export (che portano a ingenti consumi di energia, con esternalità enormi su ambiente e salute, creando poca occupazione), e più reti idriche e fognarie, elettriche, ferrovie ad alta velocità, metropolitane (in grado non solo di agevolare la logistica e ridurre costi di distribuzione, facilitare la mobilità del lavoro, ma anche di generare tempo libero per maggiori consumi e migliore qualità della vita), così come le infrastrutture “soft” del nascente Stato Sociale: istruzione, servizio sanitario, previdenza sociale, cultura e impianti sportivi.

content_863_2

OCCHIO ALL'IMMOBILE – Il settore immobiliare è diventato negli ultimi due anni, forse più dello stesso investimento infrastrutturale, il primo dei sospetti riguardo ai rischi speculativi. E’ comunque una industria di vastissime dimensioni, il cui andamento è considerato decisivo per gli sviluppi dell’economia cinese e mondiale, dato l’impatto enorme che ha sul consumo di materie prime.

Anche su questo tema il dibattito tra gli analisti si divide tra pessimisti e ottimisti. L’Economist ha tentato di recuperare e sintetizzare i dati grezzi disponibili in un indice comprensivo di settanta città: ne emerge un drastico rallentamento nella corsa dei prezzi, ma comunque un trend in moderato rialzo. In pratica la stretta creditizia del governo starebbe funzionando, inducendo un rallentamento e poi uno stop, forse una graduale correzione nei prossimi mesi e anni. In realtà, per l’immobiliare, i primi effetti di una inversione non si misurano sui prezzi, ma sui volumi e sull’andamento del debito: sperando in una ripresa del mercato molti operatori preferiscono rimanerne fuori (contrazione nel volume degli scambi), attingendo a linee di credito (ufficiale o informale) per pagare i conti. Questo sembra essere proprio quel che è accaduto in questi mesi: l’eventualità di un traumatico redde rationem con crolli dei prezzi, insolvenze a valanga, e seri danni alla stabilità delle banche, sebbene non così probabile nel breve periodo, non può essere esclusa.

A tutto questo si deve aggiungere la massa di credito offerto da privati e banche “informali”: la contrazione del credito “ufficiale” ha razionato la liquidità soprattutto ad amministrazioni locali e piccole e medie imprese, in particolare nel settore dello sviluppo immobiliare. Questo ha favorito l’affermarsi, in particolare nell’ultimo anno, di un ricco sottobosco di finanza informale, prestiti da privati e da istituti non riconosciuti, a tassi estremamente elevati: una manna per risparmiatori costretti ad accettare rendimenti reali quasi nulli o negativi, al tasso ufficiale. Si è così pompata una vasta massa di credito irregolare, sommerso, quasi sempre privo di garanzie.

SOTTO LA PELLE DELLE STATISTICHE – Apparentemente, sulla scintillante superficie delle statistiche macroeconomiche, la gestione di questi anni è stata un successo: la crisi che ha attanagliato l’Occidente non ha quasi scalfito la formidabile progressione del Pil, né le dinamiche occupazionali. Il settore trainante dell’export, un po‘ ridimensionato, è stato sostituito dal boom dell’investimento (soprattutto immobiliare), il cambio reale si è significativamente apprezzato e anche i salari aumentano. Nei fatti non si è ancora messo mano alle distorsioni strutturali del modello cinese (di cui pure la dirigenza mostra una chiara consapevolezza), non si è avviata la riconversione generale a un nuovo e più sostenibile equilibrio.

COME A SHANGHAI – La difficoltà particolare di questo aggiustamento strategico è data dal fatto che diversi squilibri dell’attuale modello formano tra loro un incastro apparentemente organico ed efficace: un sistema di welfare seppur in crescita ma ancora carente porta a elevati tassi di risparmio e deprime i consumi; d'altra parte, la repressione finanziaria (cioè il sistema centralizzato, che contempla una limitata o nulla scelta di strumenti d’ investimento per le famiglie, e tassi di remunerazione amministrati), e gli interventi di sterilizzazione della banca centrale (volti a sedare focolai di crescita dell'inflazione, mentre si opera per mantenere sotto controllo il cambio), creano un habitat perfettamente funzionale al grande aumento di investimenti ed export, e poi alla fase più pericolosamente sregolata e speculativa sviluppatasi nel settore immobiliare. Questo assetto, mentre distrugge nella produzione di opere inutili risorse che dovrebbero essere investite nelle politiche di urbanizzazione ed espansione del mercato interno, ha d’altra parte saputo rispondere alla crisi mondiale (occidentale) preservando l’occupazione. Si tratta ora di avere mano ferma e precisione, coraggio, per intervenire dove è necessario, eliminare i fattori distorsivi senza far crollare la costruzione. Come a shanghai.

Andrea Caternolo [email protected]

Vai allo speciale del Caffè “La Cina e i suoi vicini”

A volte ritornano…

0

Il colpo di stato attuato dalla forze militari thailandesi nel 2006 segnò la fine della stagione di governo di Thaskin Shinawatra. Dopo quell’evento il suo partito vinse nuovamente le elezioni, nel 2008, ma le accuse di corruzione, abuso di potere e di populismo costrinsero il Premier alle dimissioni e all’esilio nell’emirato arabo di Doha. Nonostante ciò, nel corso di tutti questi anni, egli non ha mai perso il suo carisma, il suo piglio e la sua influenza nella vita politica thailandese

 

LA PALLIDA POLITICA DI ABHISIT – Il governo di opposizione, guidato dal PAD (People’s Alliance for Democracy) dell’ormai ex Primo Ministro Abhisit Vejjajiva, e sostenuto dal movimento a sostegno e difesa della monarchia delle yellow shirts – salito al potere dopo l’esilio di Thaksin – nonostante gli sforzi e l’adozione di un programma politico pseudo-populista sulle orme di quello del predecessore non è riuscito ad avere la giusta presa sulla popolazione.

Il periodo di stagnazione in cui è entrata l’economia thailandese a partire dal 2006, l’irrisolto conflitto con la Cambogia a causa della disputa confinaria per il controllo dell’antico tempio khmer di Preah Vihear e l’opposizione pro-Thaksin facente capo al nuovo partito UDD (Union for Democracy against Dictatorship) e al fortissimo movimento di protesta delle red shirts, hanno profondamente minato le basi del governo di Abhisit costringendolo ad indire una nuova tornata elettorale solo due anni dopo l’inizio del suo mandato.

 

UN IMPORTANTE CAMBIO DI ROTTA – Le nuove elezioni furono indette il 9 maggio dopo lo scioglimento delle Camere da parte dell’ex Primo Ministro e l’apposizione della firma del Re sul medesimo decreto. I thailandesi andarono alle urne il 3 luglio scorso.

Il periodo precedente le elezioni è stato caratterizzato dalla tensione su tutti i fronti e più volte si è temuto che potessero scoppiare nuovamente violenti scontri come quelli verificatisi tra aprile e maggio dello scorso anno, dove persero la vita 91 persone.

Fortunatamente queste paure si sono rivelate prive di fondamento e le elezioni si sono svolte senza scontri e violenze. La partecipazione popolare è stata molto vasta e ha sancito la vittoria assoluta di Yingluck Shinawatra, la sorella minore di Thaksin. La conferma della volontà popolare è arrivata in seguito anche dal voto del Parlamento, con 296 deputati a favore, 3 contrari e 197 astenuti.

Lo stesso Abhisit ha riconosciuto la sconfitta e si è dimesso da capo del suo partito, il potente comandante dell’esercito ha dichiarato di non avere intenzione di intervenire per ribaltare il risultato politico così come era avvenuto nel 2006 e che l’esercito non si intrometterà nella politica nazionale accettando il responso delle urne.

A tal proposito, non può essere sottovalutato un aspetto, geografico e politico allo stesso tempo, molto importante in grado di dare delle risposte in merito al successo del leader in esilio e delle red shirts: Thaksin ha i suoi maggiori sostenitori soprattutto nelle zone rurali e più povere del nord nord-est del paese, dove attraverso la sua politica populista è riuscito a guadagnarsi la fiducia della popolazione a prescindere dai risultati conseguiti dal suo governo, e quando necessario è riuscito a controbilanciare il suo potere con quello della casa reale cedendo talvolta il passo alle esigenze dell’aristocrazia. Al contrario il partito democratico – espressione della monarchia e dei ceti più ricchi e minoritari della popolazione – si è radicato soprattutto nella capitale e al sud del paese senza riuscire a guadagnare l’appoggio delle fasce più disagiate.

 

content_864_2

IL PREZZO DA PAGARE PER IL CONSENSO DELLE OPPOSIZIONI – Certo da questo momento sarà la sorella minore di Thaksin a dover formalmente garantire il rispetto e l’attuazione del programma elettorale – di stampo populista come quello del fratello – ma la maggioranza dei thailandesi sa chi c’è effettivamente alla guida del paese.

Il nuovo governo nasce quindi con alle spalle la pesante ombra dell’ex Premier. Tra l’altro sono in tanti a pensare che sia stato lui stesso a scegliere i membri del gabinetto convocandoli prima della nomina per dei colloqui privati a Dubai o nel Brunei, e a scegliere di lasciare fuori da qualunque incarico i capi del movimento delle red shirts eletti con il Puea Thai. Questa decisione, per quanto Thaksin sia consapevole che la vittoria di sua sorella e quindi sua, sia dovuta proprio al sostegno di questi ultimi, è legata alla effettiva convinzione che concedere troppo al movimento potrebbe allarmare nuovamente le yellow shirts, le quali per il momento hanno adottato una posizione politica di attesa e di giudizio in base ai risultati concreti e lo stesso esercito – strenuo difensore della casa reale e dello status quo – che si è detto favorevole alla nascita di un governo formato dal Puea Thai Party solo in cambio della promessa da parte dello stesso Thaksin di tenere a freno gli elementi antimonarchici presenti nel suo partito e di non intervenire nel campo degli affari militari.

L’utilizzo di questa strategia lascia senz’altro intendere la volontà del nuovo governo, così come espressa nello stesso programma elettorale, di dare avvio al percorso di riconciliazione nazionale che, secondo le dichiarazioni di Yingluck dovrebbe avvenire attraverso la formazione di un’ulteriore commissione d’inchiesta indipendente, da affiancare a quella già esistente per l’accertamento dei fatti della primavera del 2010. Non solo la stessa Premier si è dimostrata molto cauta inserendo tra i suoi obiettivi la celebrazione del compleanno del Re e facendogli un elogio pubblico durante l’inaugurazione del suo nuovo incarico.

Tutto ciò non può non far pensare che dietro questo avvio di riconciliazione ci siano degli accordi raggiunti dietro le quinte tra Thaksin, la casa reale e gli alti vertici militari già prima delle elezioni.Thaksin e il movimento delle red shirts sono percepiti come la più grande minaccia al potere tradizionale, ma probabilmente attraverso questi accordi preliminari almeno per ora sarà improbabile un ritorno in piazza delle yellow shirts.

 

IL PROBLEMA DELL’AMNISTIA GENERALE – Yingluck sembra estremamente cauta anche a proposito dell’eventuale legge che dovrebbe concedere al fratello di rientrare in patria da cittadino libero. Questa, infatti, è sicuramente la mossa più a rischio capace di riportare le masse in piazza, se non un altro golpe. Certamente la possibilità di un’amnistia per tutti, non solo per le red shirts, ma anche per l’ex Premier Abhisit, accusato in quell’occasione di aver usato eccessiva forza contro i dimostranti, potrebbe essere un gesto di conciliazione nazionale ma rimarrebbero comunque dubbi molto forti sulle reazioni che un ritorno dall’esilio di Thaksin potrebbe provocare. Per i suoi oppositori c’è senz’altro una netta differenza tra il vederlo tirare le file della politica nazionale dall’estero e dargli la possibilità di fare un ritorno trionfale in patria.

Insomma il successo di questo governo è senz’altro legato alla controversa figura di Thaksin – che legalmente non può partecipare alla vita politica fino a maggio 2012 -, alle alleanze e agli accordi che riuscirà a stringere e alle soddisfazioni che riuscirà a dare ai gruppi d’interesse che si trovano sotto il suo ombrello politico. Questi saranno i fattori che determineranno in larga parte la stabilità e la longevità del nuovo governo, anche perché Yingluck è considerata una principiante della politica quindi poco adatta a governare senza i consigli e le direttive del fratello.

 

Marianna Piano

La primavera araba dell’Italia (2)

Nella seconda parte dell’articolo volto a ripercorrere le tappe principali della politica estera italiana durante gli anni ’80, puntiamo l’attenzione sul ruolo da leader che il Governo socialista di Bettino Craxi volle dare al nostro Paese in Medio Oriente e Nord Africa. I rapporti amichevoli con la Libia di Gheddafi – ma anche con la Tunisia – risalgono a quest’epoca, così come l’inizio del nostro impegno in Libano attraverso la missione delle Nazioni Unite UNIFIL

 

Leggi qui la prima parte dell’analisi

 

GLI ARABI E GLI INTERESSI IN MEDIO ORIENTE – Ma la politica mediorientale del’Italia non era solo basata sui valori della carta dell’ONU, ma anche sul perseguimento di interessi di politica estera, economica e strategica, ben definiti. E non si è limitata alla sola Palestina. Già nel 1982 l’Italia aveva partecipato senza esitazioni (seppure in seguito alcune polemiche ci sarebbero comunque state) alla missione UNIFIL in Libano, ponendosi come uno degli attori principali di tale azione politico-militare-diplomatica, che ancora oggi ci vede in prima linea nel Paese dei Cedri. Allo stesso modo, in quegli anni, mentre tutto il mondo criticava e isolava il regime libico di Gheddafi, accusato di sostenere il terrorismo internazionale, l’Italia mostrava di aver appreso appieno le fondamenta della Realpolitik che l’avrebbero portata ad essere un partner commerciale di primo piano per Tripoli e, all’inverso, ad avere interessi privilegiati in Libia, seppur con uno stile sicuramente più sobrio rispetto ai fasti di matrice berlusconiana che avrebbero caratterizzato la relazione bilaterale venti anni dopo. L’ex Ministro degli Esteri e Ambasciatore libico in Italia, Abdurrahman Shalgam, e Andreotti, hanno confermato nel 2008 che fu il governo italiano, nella persona di Craxi, ad avvertire Gheddafi dell’imminente bombardamento statunitense contro la residenza del Colonnello nel 1986, come rappresaglia per gli attentati in una discoteca di Berlino, che costarono la vita a molti cittadini statunitensi e furono sponsorizzati dal regime libico. In quell’occasione, Gheddafi riuscì a salvarsi dal raid aereo, ma morirono circa 60 persone, tra cui la figlia adottiva del Colonnello stesso. Si tratta dunque di un favore che l’Italia fece alla Libia, ritenendo il raid un atto contro il diritto internazionale e volendo acquisire una posizione di vantaggio negli affari libici, dal petrolio alla finanza.

 

NON SOLO LIBIA: I RAPPORTI CON LA TUNISIA – L’Italia in questi anni vuole esser protagonista nel Mare Nostrum e la Tunisia diventa dunque un altro oggetto dell’interesse di Roma. Siamo in una fase in cui l’Algeria, pur visitata dai Ministri del governo Craxi  -in quello che a metà anni Ottanta fu un vero e proprio tour dell’esecutivo italiano nelle maggiori capitali dei Paesi arabi per ricevere la simpatia e porre le basi per rapporti preferenziali con quel mondo-, è in un periodo di forti tensioni sociali. Le forze islamiste prendono sempre più terreno e la vicina Tunisia è governata dal vecchio Presidente Habib Bourghiba, che tratta con il pugno di ferro i movimenti islamisti. In questa cornice, nel novembre del 1987, i servizi segreti italiani, insieme a quelli francesi, dirigono indirettamente o meno la successione di Ben Ali, ritenuto un uomo d’ordine, che avrebbe saputo riportare fermezza politica nell’area ed evitare una pericolosa deriva di destabilizzazione che avrebbe interessato, per vicinanza geografica, anche l’Italia. E ancora: le forniture di armi all’Iraq di Saddam Hussein in funzione anti-Iran, durante la guerra tra i due Paesi (1980-1988), ma allo stesso tempo i contatti con Teheran per garantirsi alcune commesse commerciali ed energetiche; l’appoggio al regime somalo di Siad Barre con il trasferimento di armamenti a Mogadiscio, mentre questa è in guerra con l’Etiopia, come tentativo di determinare le sorti del Corno d’Africa e allo stesso tempo di fermare l’influenza sovietica nell’area. E continua l’antagonismo con Israele: il 1° ottobre del 1985, in risposta ad un attacco armato condotto da elementi dell’OLP a Larnaca (Cipro), che aveva causato la morte di tre civili israeliani, l’aviazione di Israele bombardò pesantemente il quartier generale di Arafat a Tunisi, uccidendo circa 70 persone, anche se lo stesso Arafat riuscì a sfuggire al raid. Il governo italiano, quasi unanime, condannò duramente l’azione israeliana e Andreotti, solidarizzando con i Paesi arabo, arrivò ad equipararla alle Fosse Ardeatine.

 

content_862_2

UNA POSIZIONE AUTONOMA – L’Italia, dunque, sotto la guida di Craxi e Andreotti aveva una posizione politica e diplomatica che si differenziava da quella di semplice satellite statunitense. Roma svolgeva un ruolo di mediazione importante ed era pronta ad esercitare la sua influenza da Damasco a Tunisi, passando per Mogadiscio e Baghdad. Alla base di questa politica vi era la personalità di esponenti politici che seppero dare al nostro Paese la visibilità e la credibilità di cui necessitava presso le ambasciate arabe. L’azione governativa muoveva dalla constatazione che, per fare la pace, sarebbe stato necessario dialogare con tutti. Partendo da tale assunto, Roma fu davvero protagonista in quella parte di mondo così martoriata dalla guerra. Tangentopoli, la fine della Guerra Fredda, la polarizzazione interna tra berlusconiani e anti-berlusconiani, l’appiattimento della propria politica mediorientale alle posizioni statunitensi ed israeliane, sarebbero stati tutti fattori che avrebbero fatto cessare quell’epoca.

 

Stefano Torelli

La primavera araba dell’Italia (1)

Riprende la nostra rubrica dedicata a ripercorrere le tappe principali della politica estera italiana. In questo articolo tracciamo gli orientamenti che il nostro Paese assunse negli anni’80 sotto il Governo socialista di Bettino Craxi. Il leader del PSI fu fautore di una politica originale, autonoma dagli Stati Uniti e votata a conferire all’Italia una posizione di leadership nel Mediterraneo, attraverso il dialogo con tutti gli attori e una buona dose di pragmatismo e real-politik

 

Prima parte

ARAFAT COME MAZZINI – “[…] Io contesto l’uso della lotta armata all’OLP, non perché ritenga che non ne abbia diritto, ma perché ritengo che la lotta armata non porterà a nessuna soluzione. […]Ma non ne contesto la legittimità, che è cosa diversa. […] Quando Giuseppe Mazzini nella solitudine, nel suo esilio, si macerava nell’ideale dell’Italia unita, nella disperazione di come affrontare il potere, lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva e disegnava e progettava gli assassinii politici. Questa è la verità della storia. E contestare a un movimento che voglia liberare il proprio Paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi, significa andare contro le leggi della storia. […] Si contesta quello che non è contestato dalla carta dei diritti dell’ONU: che un movimento nazionale che punti e che difenda una causa nazionale possa ricorrere alla lotta armata. […]”

 

Con queste parole l’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi arringava il Parlamento in occasione del voto di fiducia al suo stesso governo, il 6 novembre 1985, a seguito della cosiddetta crisi di Sigonella (foto sotto). Il voto di fiducia venne incassato e il governo restò in carica, legittimato dal Parlamento a perseguire la politica mediorientale che aveva intrapreso da qualche anno a quella parte. Ma qual era questa politica e cosa comportava per l’Italia? Cercando di andare per ordine, negli anni Ottanta si sono verificati vari episodi che hanno potuto testimoniare l’attitudine italiana nei confronti del Medio Oriente e dei diversi schieramenti che si erano venuti a creare intorno ad alcune delle più scottanti questioni dell’area – che, per inciso, sono per la maggior parte le questioni che ancora attanagliano quella zona dopo trent’anni – : soprattutto, il riconoscimento della Palestina e la questione arabo-israeliana, la posizione regionale ed internazionale della Libia di Gheddafi, la crisi in Libano.

 

LA POLITICA ESTERA DEL PENTAPARTITO – Circa la situazione politica interna, gli anni Ottanta furono quelli caratterizzati dal succedersi di governi del cosiddetto “Pentapartito”, una coalizione formata dalla Democrazia Cristiana (DC), Partito Socialista Italiano (PSI), Partito Repubblicano Italiano (PRI), Partito Liberale Italiano (PLI) e Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI). Tale formazione, che ha dato vita a ben dieci governi nel decennio, era stata formata per tenere il Partito Comunista Italiano (PCI) fuori dall’esecutivo, ponendo dunque fine al cosiddetto “compromesso storico”, caratterizzato da una convergenza di interessi e dall’intento di governi di unità nazionale, sotto la guida del democristiano Aldo Moro e dello storico leader dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer. In tale cornice, l’Italia ebbe dei governi guidati da personaggi di spicco del panorama politico interno: soprattutto Giovanni Spadolini (tra il 1981 e il 1982) e Bettino Craxi (tra il 1983 e il 1987), con un intermezzo di Amintore Fanfani tra il 1982 e il 1983. Quella tra Spadolini e Craxi era una vera e propria competizione interna, che proprio in politica estera, e nella fattispecie in quella diretta verso il Medio Oriente, avrebbe fatto emergere le divergenze di vedute tra le due anime più “estreme” del Pentapartito: appunto quella socialista e quella repubblicana.

 

content_861_2

Se la seconda si può sostanzialmente ricondurre ad un filo-atlantismo e filo-americanismo (da non dimenticare che, a livello internazionale, siamo ancora in anni della Guerra Fredda), che nel panorama mediorientale si sarebbe tinto di posizioni filo-israeliane, la posizione del PSI, cui la direzione di Craxi contribuì in maniera decisiva a dar vita, si dimostrò ben più complessa e, allo stesso tempo, proattiva e connotata da una forte volontà di autonomia. Nonostante Craxi, primo Presidente del Consiglio socialista della storia della Repubblica italiana, avesse mantenuto ferma e stabile la posizione italiana nei confronti degli Stati Uniti, consentendo l’installazione dei cosiddetti “euromissili” in funzione anti-sovietica in territorio italiano (a Comiso, in Sicilia), la politica estera sotto la sua guida fu molto più estesa e non si limitò al semplice posizionamento nel blocco occidentale. Erano ben altre le ambizioni di Craxi che, come è stato fatto notare da molti analisti e storici, sembra aver condotto la politica estera italiana alla stregua di un capo di governo presidenziale, piuttosto che parlamentare. Il leader del PSI aveva in mente un ruolo da protagonista per l’Italia all’interno del panorama regionale mediterraneo e, in quest’ottica, fu fautore del cosiddetto “eurosocialismo mediterraneo”, in sintonia con altri leader nazionali, primo tra tutti il francese Mitterrand. La posizione assunta sugli euromissili garantì dunque a Craxi di incassare la fiducia di Washington (dal momento che per la prima volta il governo non era guidato dalla DC e gli Stati Uniti avrebbero potuto nutrire delle riserve su un capo di governo proveniente da una tradizione politica socialista), ma al contempo il nuovo Primo Ministro italiano aveva in mente una politica più dinamica e svincolata rispetto alle rigide regole bipolari. Per far ciò, il Medio Oriente rappresentava uno dei terreni da battere con più forza, con lo scopo di portare l’Italia a giocare un ruolo di primo piano nella politica mediterranea.

 

LA CAUSA PALESTINESE – Nel perseguire questa nuova direttrice di politica estera, molto sbilanciata in favore della causa palestinese, rispetto allo Stato di Israele, Craxi ebbe una spalla in quello che sarebbe stato per un periodo il suo Ministro degli Esteri: Giulio Andreotti. Prima di tutti, per ordine di importanza simbolica e politica, vi è da menzionare la questione palestinese. Craxi arrivò a legittimare l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, lo storico movimento guidato da Yasser Arafat), chiamando in causa un mix di ideali nazionalisti e di diritto internazionale. Quanto si spinse il governo italiano nella sua politica pro-palestinese e pro-araba? Abbastanza, se è vero che in più di un’occasione esponenti di quell’esecutivo – Craxi e Andreotti in testa – incontrarono Arafat come se fosse un qualsiasi altro capo di Stato e ingaggiarono duri confronti verbali e politici con Israele. Le reazioni più critiche a queste iniziative, da parte interna, vennero proprio da un alleato di governo quale Spadolini, che allora era Ministro della Difesa (peraltro lo stesso Spadolini, quando nel 1982 Arafat fu ospite in Italia e fu ricevuto dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, aveva categoricamente rifiutato di vedere il leader palestinese, a testimonianza della spaccatura che esisteva nel fronte interno italiano), mentre sul fronte internazionale la posizione di Craxi e Andreotti lasciava gli Stati Uniti quanto meno scettici, ma attiravano le ire di Tel Aviv, che accusava Roma addirittura di filo-terrorismo.

 

Craxi si assunse una responsabilità abbastanza onerosa, con l’obiettivo di ridare vigore e prestigio alla diplomazia italiana. L’evento culminante di tale politica si verificò con la crisi di Sigonella, seguita alla faccenda del sequestro della nave italiana Achille Lauro. Questa, in crociera sulle coste del Mediterraneo, fu sequestrata da un commando di guerriglieri palestinesi facenti capo al Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP), il 7 ottobre del 1985. Nell’occasione, il governo italiano riuscì a trattare con il commando e a far sì che rilasciassero gli ostaggi in cambio del loro trasferimento prima in Egitto e, dopo, in Tunisia, allora sede dell’OLP. Fu in questo frangente, durante il volo di trasferimento, che gli Stati Uniti inviarono degli aerei a intercettare il volo in cui vi erano i guerriglieri, oltre ad Abu Abbas, la mente del dirottamento, costringendolo ad atterrare nella base aerea di Sigonella e circondando il velivolo. Craxi ordinò ai militari italiani di circondare a loro volta gli statunitensi e negò al Presidente statunitense Reagan, che glielo chiese in prima persona, l’autorizzazione a prelevare gli uomini del commando, che sulla nave avevano ucciso un cittadino statunitense. Ciò avrebbe provocato una crisi diplomatica tra Washington e Roma, ma sta a testimonianza di quanto Craxi si ponesse come un difensore del diritto internazionale anche in questioni delicate e di sicurezza, adducendo come  motivazione del rifiuto il fatto che il reato era stato commesso in territorio italiano e, pertanto, sarebbe stata la giustizia italiana ad occuparsene. E sarebbe stato proprio questo episodio a creare una rottura interna al fronte italiano e a portare al voto di fiducia del novembre del 1985, nella cui discussione parlamentare Craxi si pronunciò con le parole ricordate all’inizio di questo articolo, equiparando la guerriglia dell’OLP agli ideali mazziniani (nel 150° anno dell’unità d’Italia, l’argomento è quanto mai attuale).

 

Stefano Torelli

Uniti per combattere il separatismo (2)

Seconda parte – Concludiamo il viaggio tra Cina e Thailandia lasciando il Xinjiang per spostarci nel Pattani, regione che fa la guerra a Bangkok e che è composta da una maggioranza della popolazione di religione islamica. Le rivendicazioni di queste minoranze etnico-religiose hanno una rilevanza tipicamente geopolitica: le implicazioni in gioco sono infatti un intreccio di motivazioni territoriali, economiche, energetiche e sociali.

 

LA RIBELLIONE NEL PATTANI: UN OSTACOLO AGLI INTERESSI ENERGETICI – Dal gennaio 2004, quando l’allora primo ministro Thaksin Shinawatra aveva sottoposto il Pattani alla legge marziale, fino ad oggi le vittime della “guerra civile” che ha opposto i ribelli musulmani malay al governo di Bangkok sono migliaia.

L’acutizzazione delle hard policies adottate dalle autorità centrali thailandesi nei confronti dei guerriglieri del Pattani United Liberation Organization (PULO) e del Barisan revolusi nasional (BRN) è seguita agli attentati dinamitardi diretti a scuole, edifici militari e di polizia rappresentativi dell’ordine statale costituito. Ma l’adozione di politiche repressive e l’intervento dell’esercito hanno innescato un’escalation di violenze senza precedenti. Nell’ottobre 2004, dopo esser stati arrestati dai militari, 80 musulmani malay sono deceduti per soffocamento dentro il camion in cui erano internati: l’uso del pugno di ferro ha ingenerato la stagnazione e la polarizzazione dello scontro, pertanto l’impasse del processo dei negoziati tra ribelli e governo.

 

I PRODROMI DELLE OSTILITÀ – Per comprendere le ragioni del conflitto intra-nazionale che affligge il sud della Thailandia occorre risalire alle sue radici, fino al 1902, quando l’antico Regno malese Pattani venne formalmente inglobato nel Ratcha-anachak Thai, nel Regno dei Thai.

Il re Vajiravudh concentrò da subito i propri sforzi nella realizzazione di un ambizioso piano di modernizzazione, su modello occidentale, i cui nodi focali erano il nazionalismo ed assimilazionismo etnocentrico. Con l’introduzione dell’uso dei cognomi e la concessione della nazionalità agli immigrati cinesi, tutti cominciarono a chiamarsi “thai”, persuasi ad auto-percepirsi quali membri di un’unica ed omogenea nazione monarchica, sotto l’egida della bandiera rosso, bianco e blu che rifletteva il nuovo sistema di poteri: la nazione, la religione e il re.

 

LE FALLE DELL’ASSIMILAZIONISMO – È nel fallimento della politica assimilazionista nelle tre province dell’estremo sud della Thailandia e nella sempre viva discrepanza identitaria tra il gruppo minoritario malay di fede musulmana (4 milioni in tutto il Paese) e la maggioranza thai di credo buddhista Theravada (62 milioni) che va ricercata la fonte di questo stallo conflittuale.

Laddove l’identità religiosa si configura come identità etnica e culturale, l’etno-nazionalismo si rafforza estendendo il proprio spazio di azione dalla dimensione politica a quella religiosa, e confondendone il confine.

Yingluck Shinawatra dovrà tener in conto che per rendere efficace la lotta al separatismo propugnato dai malay è prioritariamente necessario colmare il vuoto politico e di consenso nel Pattani, evitare che la Jemaah Islamiyah, l’organizzazione terroristica legata ad Al Qaeda operativa nel sud-est asiatico, ingerisca strumentalmente nella ribellione per guidarla ed insediarsi nel Paese. Tuttavia, ben più del rischio della deriva qaedista del movimento indipendentista malay, ad emergere è l’antinomia di una nazione disaggregata, con una duplice faccia, che corre a due diverse velocità: un nord modernizzato e un sud che fatica a svilupparsi, con un basso livello di alfabetizzati, una scarsa rappresentanza politica a livello nazionale e un’amministrazione inefficiente.

Le istanze avanzate dai ribelli malay si inscrivono più nel contesto localistico, strettamente connesso al malessere sociale, che nell’ampia dimensione globale del terrorismo transnazionale.

 

content_859_2

INTERESSI ENERGETICI – La Thailandia segue l’esempio cinese e punta sullo sviluppo economico e sulla diffusione dei benefici sociali ai musulmani malay quale mezzo per neutralizzare le pulsioni indipendentiste intestine. Questo è infatti l’obiettivo di Bangkok che ha ispirato il parternariato strategico sino-thailandese: ridurre la dipendenza energetica dal Golfo Persico e dall’Africa; by-passare il vulnerabile “collo di bottiglia” dello Stretto di Malacca; costruire lo Strategic Energy Land Bridge (costo 600-800 milioni di $), un oleodotto lungo 150 miglia che solcherà l’istmo di Kra e confluirà direttamente nel mar delle Andamane. La stabilità nel Pattani è pertanto indispensabile per la messa in sicurezza delle condutture e delle pipelines che garantiscono il flusso di petrolio e di gas dal Golfo del Bengala al Golfo di Thailandia.

È un limes labile quello che separa l’assimilazionismo dall’esclusione delle minoranze, labile come quello lungo il quale si spiegano gli interessi energetici delle potenze regionali in ascesa e si combattono da una parte il terrorismo e dall’altra il separatismo.

 

Dolores Cabras

In lotta per uno Stato

Nonostante l’ennesima giornata nera delle borse, la tenuta della Grecia da verificare, i presagi nefasti lanciati da Moody’s al Tesoro italiano, questa settimana l’economia scende dal podio per lasciare spazio alla politica internazionale con la questione palestinese che ritorna ad occupare i banchi dell’Assemblea Generale dell’ONU a New York. Si riapre il fronte delle proteste in Yemen accanto ad una Siria sempre più nella morsa di un regime durissimo con i manifestanti, mentre l’offensiva dei ribelli in Libia appare compromessa e in Pakistan si registrano scontri tra esercito e Talebani:  questi i chicchi del vostro “ristretto” settimanale

AMERICHE

Lunedì 19-(USA)-  Il Presidente americano Barack Obama presenterà oggi il piano di ripresa per debito e deficit, tra le varie proposte spicca il “Buffett Rule”, una patrimoniale ideata dall’advisor di Obama Warren Buffett secondo la quale i ricchi americani pagherebbero una quota inferiore sul reddito in tasse federali rispetto alla classe media, dato che i guadagni sugli investimenti risultano meno tassati degli stipendi.

(CUBA)-  Evo Morales e Hugo Chávez, presidenti della Bolivia e del Venezuela, saranno contemporaneamente all’Havana. Il primo riceverà oggi una laurea honoris causa all’Università della capitale, il secondo si sottoporrà al quarto ciclo di chemioterapia contro il cancro. Nonostante le condizioni ormai critiche dell’ex líder maximo Fidel Castro, l’isola caraibica sembra mantenere il suo status internazionale di palcoscenico per i paesi del Sudamerica governati dall’estrema Sinistra.

EUROPA

Lunedì 19-(GERMANIA)- Con la vittoria di ieri, e la riconferma per un terzo mandato alla guida di Berlino, il socialdemocratico Klaus Wowereit entra ufficialmente nel club dei potenziali candidati alla Cancelleria tedesca. Il sindaco socialdemocratico ha attaccato l'ormai "sfaldata coalizione nero-gialla, se ancora la si può definire tale". Si tratta di "dilettanti", ha aggiunto Wowereit, che dovrebbero immediatamente "dimettersi".

(TURCHIA) Aria di tensione tra Turchia ed Unione Europea dopo che il vice-premier turco Besir Atalay ha minacciato un congelamento delle relazioni politico-diplomatiche con l’unione in caso venisse confermata la presidenza di turno europea prevista per Cipro a Giugno 2012. A conclusione del tour della “Primavera Araba” il Ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha annunciato un piano per l’incremento della cooperazione economico-strategica con l’Egitto post-Mubarak, i due paesi, un tempo divisi per diffidenze reciproche sembrano oggi quanto mai uniti nel nuovo assetto mediorientale.

ASIA

(TAIWAN)-Continua la mobilitazione dell’esercito taiwanese in risposta alle manovre della marina cinese nell’area antistante lo Stretto di Taiwan. In particolare è la piccola isola di Kinmen a ridosso della costa cinese, ma in mano a Taiwan, il centro delle preoccupazioni di Formosa, dato che la popolazione locale, stretta da legami etnico-linguistici al continente, vede con favore una possibile espansione anche solo economica della vicina città di Xiamen, centro economico costiero.

(PAKISTAN)- Dopo le dichiarazioni del Comandante delle Forze Armate pachistane Parvez Kayani sulla necessità di un ritiro dall’Afghanistan più graduale, le agenzie di stampa riportano la notizia di un abbattimento di un drone (UAV) nel nord del Waziristan, secondo una fonte locale allo schianto sarebbero seguiti scontri tra forze talebane e l’esercito pachistano per impossessarsi dei resti del veicolo.

content_860_2

MEDIO ORIENTE

(YEMEN) Continua la protesta anti-Saleh nella capitale San’a dove alcuni soldati sembrano essere passati dalla parte dei manifestanti sostenendoli negli scontri contro le Forze di Sicurezza che ieri hanno causato 21 feriti. La situazione che si era sopita da mesi torna sulla scena mondiale con ancora più forza.

Venerdì 23 -(PALESTINA)- Mentre Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si trova già a New York per i meetings ONU tra i Capi di Stato e di governo, è per venerdì il vero appuntamento per il popolo palestinese: solo allora infatti il Presidente dell’ANP formulerà ufficialmente la richiesta di ammissione come Stato membro nelle Nazioni Unite. Scontato e preannunciato in Consiglio di Sicurezza il veto americano, mentre continuano le negoziazioni auspicate dal quartetto per il medio oriente (ONU, UE, USA e Federazione Russa). La situazione è ormai insostenibile con una risoluzione inattuata da 63 anni e gli insediamenti in territorio palestinese di coloni israeliani aumentati del 30% negli ultimi sei mesi. L’ANP dovrebbe ottenere una vittoria di Pirro in Assemblea Generale e lo status di Osservatore non membro come soluzione di compromesso.

Sabato 24– Round elettorale negli Emirati Arabi Uniti, dove circa 7000 votanti sono chiamati a scegliere 20 dei 40 rappresentanti del Consiglio Nazionale Federale. Queste è la seconda tornata elettorale per il paese del golfo che sembra aver optato per una governance più democratica dopo le proteste e gli scontri della Primavera araba.

AFRICA

(LIBIA) L’offensiva dei ribelli verso le roccaforti del colonnello a Bani Walid e Sirte sembra aver risvegliato l’orgoglio dei lealisti che combattono ormai per un regime che non esiste più. Con Mutassim Gheddafi a guidare le azioni contro gli insorti, sempre più divisi in fazioni e sorretti da un CNT oggi più debole dopo il rinvio della presentazione del nuovo governo ad interim, la battaglia è ancora aperta.

(SOMALIA) Continua la grave piaga che colpisce da mesi la regione mentre proprio questa settimana i leader mondiali sono chiamati a discuterne in sede ONU, è previsto proprio a New York un incontro tra il Ministro degli Esteri italiano Franco Frattini e il Premier somalo per parlare delle risposte umanitarie e delle sorti dell’equipaggio della Savina Caylyn, la nave italiana presa in ostaggio dai pirati del Puntland.

RICORRENZE

Mercoledì 21- INTERNATIONAL DAY OF PEACE- come ogni anno le Istituzioni di tutto il mondo celebrano il giorno per la pace, quest’anno l’anniversario cade dopo mesi di rivolte per democrazia e diritti umani nel mondo arabo.

Fabio Stella

[email protected]

Uniti per combattere il separatismo (1)

Prima parte – Pechino e Bangkok devono fronteggiare due problemi simili: nelle regioni periferiche di Cina e Thailandia, rispettivamente in Xinijang e in Pattani, le minoranze etnico-religiose minacciano di scatenare una guerra civile. In questo articolo, che pubblichiamo in due puntate, vi spieghiamo la strategia che i due Paesi asiatici stanno adottando per sedare le spinte centrifughe: puntare sullo sviluppo economico e infrastrutturale per conservare due territori assolutamente strategici

 

XINJIANG E PATTANI – All’indomani dell’apertura nello Xinjiang della più grande Fiera internazionale d’oriente, l’Expo Cina-Eurasia inaugurato il 1 settembre dal Vice-Premier cinese Li Keqiang, Radio Free Asia segnala l’avvenuta estradizione in Cina ad opera del governo Thailandese di Nur Muhemmed, uiguro emigrato illegalmente a Bangkok per sfuggire alle persecuzioni religiose subite in Cina e coinvolto secondo le fonti di Pechino nelle sanguinarie rivolte di Urumqi del 2009.

Più di un milione di uiguri vivono nei Paesi dell’Asia centrale e sud-orientale ed estradare quanti di loro sono attivisti, rifugiati, dissidenti, oppositori politici è divenuta una prassi ordinaria dall’11 settembre 2001 ad oggi.

La cooperazione per la sicurezza regionale, sia a livello multilaterale che bilaterale, si realizza anche attraverso le pratiche di estradizione di dissidenti e separatisti musulmani, siano essi ribelli del Pattani thailandese o separatisti dello Xinjiang cinese. Una nuova simmetria di intenti consolida le relazioni sino-thailandesi: per assicurarsi lo sviluppo economico e la supremazia nella regione occorre neutralizzare il nemico interno che attenta all’integrità nazionale; arginare ogni possibile supporto esterno ideologico, finanziario e logistico alla causa del Turchestan orientale e del Sultanato del Pattani; controllare i movimenti delle minoranze musulmane anche oltre frontiera.

Annichilire le spinte centrifughe e il separatismo per affermare l’unità dello stato-nazione: su questo imperativo sembra sostanziarsi il pragmatismo politico di Pechino e la prassi governativa di Bangkok.

 

LA “FRONTIERA INTERNA” DEL TERRORE – Thailandia, 14 luglio 2011. A pochi giorni dalle elezioni generali thailandesi che hanno decretato la vittoria di Yingluck Shinawatra, uno degli obiettivi prioritari per la rinascita del Paese, la “riconciliazione nazionale”, è stato sfidato da una nuova ondata di violenze nell’estremo sud della Thailandia.

Una famiglia di buddhisti è stata massacrata dai ribelli musulmani del Pattani, una delle tre regioni a maggioranza musulmana della Thailandia (le altre due sono Yala e Narathiwat). Fin troppo semplice ridurre allo scontro interreligioso l’analisi di questo conflitto che tormenta da decine di anni il Paese, le radici di quella che in molti hanno definito una “guerra civile” si riscontrano piuttosto nella dimensione politica e sociale. E il recente annuncio dei guerriglieri musulmani, “non smetteremo mai il massacro di infedeli del Siam finchè la terra di Pattani non diventerà uno stato islamico”, ha lo spirito della rivalsa politica, del revanscismo nazionalista malay e dell’intento separatista.

Cina, 22 luglio 2011. Con un comunicato ufficiale il World Uyghur Congress, l’organizzazione mondiale di esuli uiguri con sede a Monaco di Baviera, conferma la “condanna inequivocabile di ogni atto di violenza” e sollecita la comunità internazionale a riferirsi “con estremo scetticismo e cautela” alle informazioni propagandate dagli organi di stampa governativi cinesi. Due giorni prima, nella cittadina di Hotan, nello Xinjiang, durante uno scontro a fuoco tra polizia e manifestanti, erano rimasti uccisi 20 uiguri. Secondo le fonti ufficiali di Pechino, i facinorosi erano stati “bloccati” mentre intentavano un attacco terroristico alla caserma della polizia. Secondo i testimoni uiguri, i 20 morti sono il prodotto della violenta repressione perpetrata su alcuni dimostranti, che si erano riuniti per ottenere informazioni sui parenti tenuti in custodia dalla polizia. Il bilancio è gravoso: 14 “pestati a morte”, 6 colpiti dalle pallottole, 12 feriti gravi, 70 arrestati. Tra i feriti gravi ricoverati nell’ospedale della città c’è anche Hanzohre, una bambina di 11 anni.

La “nuova frontiera” del terrore per Pechino e Bangkok è interna, alimentata dalle richieste di autodeterminazione dei musulmani uiguri dello Xinjiang e malay del Pattani.

 

OLTRE LA FRONTIERA: XINJIANG, NECESSARIO AVAMPOSTO STRATEGICO – È l’antica “Terra dei Turchi”, la regione in cui le acque dei fiumi Yarkand e Aksu si legano originando il fiume Tarim e le migliaia di chilometri di pitture murali delle Grotte dei Mille Buddha di Bezelik si estendono lungo il profilo settentrionale del Muzat.

Il valore geo-strategico e geo-politico della regione è un portato della storia delle relazioni tra i tre maggiori potentati asiatici del XVI secolo: i Russi che conquistarono il khanato di Siberia ponendo le basi per una espansione ad oriente; i Zungari che riunirono le tribù mongole dell’ovest sotto il proprio dominio; i Manciù che a partire dal 1644, anno di conquista di Pechino, conquistarono tutta la Cina.

Già nel 1884 quando lo Xinjiang, la più irrequieta regione di confine oltre la Grande Muraglia, divenne formalmente una provincia dell’impero, al progetto di integrazione effettiva dell’area nel contesto nazionale unitario sono seguiti forzosi programmi politici e sociali tesi allo sviluppo economico e alla salvaguardia del confine territoriale.

L’antico motto “se lo Xinjiang è perduto, la Mongolia è indifendibile e Pechino è vulnerabile” riflette tutt’oggi la sostanziale rilevanza strategica di quella frontiera territoriale e della sua collocazione geo-spaziale, in previsione della stabilità interna e della crescita dell’influenza cinese in Asia centrale. Lo Xinjiang è  un confine territoriale, una zona di difesa dalle aggressioni esterne provenienti da occidente e nel contempo è un insostituibile corridoio terrestre di accesso allo scacchiere centrasiatico, quindi al più grande bacino di risorse energetiche del continente (21% delle riserve di petrolio mondiali e il 45% delle riserve di gas naturale mondiali), al quale la Cina può accedere più agevolmente grazie alla costruzione di numerosi oleodotti e gasdotti che attraversano la regione.

Proteso verso l’Eurasia e il Medio Oriente, lo Xinjiang consente di accedere al mercato europeo per via terrestre, ripercorrendo le antiche vie della seta, o per via marittima grazie alla Karakoram Highway che in 616 km consente di raggiungere la regione di Gilgit-Baltistan in Pakistan e da lì Gwadar, il porto sul Mar Arabico.

 

PUGNO DI FERRO IN GUANTO DI VELLUTO: “BUKE FENLI” – Oggi come in passato, alle spinte autonomistiche e centrifughe delle comunità autoctone Pechino ribatte con la durezza del pugno di ferro in guanto di velluto. Nessuna speranza per gli uiguri che reclamano l’autogoverno del Turchestan orientale, questo è quanto stabilito nell’articolo 4 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, che così recita: “Tutte le località ad autonomia etnica sono parti della Rpc che non possono secedere (buke fenli)”.

Per salvaguardare i confini territoriali e mantenere il controllo sulle risorse regionali la Cina ha operato su due diversi piani. Per primo, Pechino ha rafforzato la percezione collettiva di appartenenza allo stato-nazione, attraverso il consolidamento dell’unità nazionale e il potenziamento della forza attrattiva del proprio modello di sviluppo economico. Poi, ha incentivato la migrazione di milioni di cinesi Han dalle sovrappopolate città delle province orientali e sud-orientali  (le più industrializzate del Paese) verso lo Xinjiang. In questo modo le autorità governative hanno sovvertito le naturali proporzioni numeriche esistenti nella composizione etnica della popolazione della Regione Autonoma, per superare quantitativamente il gruppo etnico maggioritario (gli uiguri) e rendere “legittima” la mono-gerenza del potere politico, economico e militare degli Han, la nuova maggioranza. Si è così avviata la costruzione della Zhongguo Hua ma, come sostenuto dal Prof. D. Gladney in Dislocating China: Muslims, Minorities and Other Subaltern Subjects (Hong Kong 2004), la “nazionalizzazione cinese” è stata rimpiazzata dalla hanificazione della regione.

 

LOTTA AI TRE MALI E SVILUPPO ECONOMICO – L’11 settembre 2001 e l’avvio della lotta ad Al Qaeda e al terrorismo transnazionale di matrice islamica hanno ingenerato da una parte l’inasprimento della Strike Hard Campaign, la “lotta ai tre mali” (terrorismo, separatismo ed estremismo) iniziata già nel 1996,  dall’altra la recrudescenza del confronto interetnico che ha fatto precipitare le relazioni tra la minoranza musulmana uigura e la maggioranza Han.

Il Dragone sa che per vincere questo braccio di ferro con gli uiguri occorre puntare sullo sviluppo economico della Regione Autonoma e incalzare l’industrializzazione per diffondere il benessere e ottenere il consenso. E gli esiti effettivi di questo piano di sviluppo non si sono fatti attendere e vengono dichiarati in un rapporto ufficiale diffuso dopo un mese e mezzo dalla rivolta uigura del luglio 2009 in cui morirono 200 persone.

Nel Development and Progress in Xinjiang si trova conferma dell’ottimizzazione graduale della struttura economica regionale: la crescita media annua regionale si attesta al +10,6 % rispetto al 2000; il sistema infrastrutturale è stato rinforzato con la costruzione di più di 66 autostrade interprovinciali; la capacità produttiva agricola è cresciuta grazie all’industrializzazione della produzione; lo sviluppo nello sfruttamento delle risorse minerali è stato incentivato dagli investimenti statali per l’estrazione del petrolio, del carbone e del gas.

Anche la scelta del governo cinese di situare l’Expo ad Urumqi, la città più lontana dalla costa al mondo, nel mezzo del cosiddetto “polo eurasiatico dell’inaccessibilità”, stretta tra dune sabbiose e aspri altipiani, non è stata casuale e risponde ad un preciso orientamento strategico: trasformare la città in una testa di ponte per l’Asia centrale, assicurarne lo sviluppo economico ed accentrare gli interessi finanziari regionali per sostenere la crescita dell’intera nazione.

 

Dolores Cabras

La siccità annunciata

0

All’origine della siccità nel Corno d’Africa, scrive Andy Coghlan su “New Scientist”, c’è il fenomeno meteorologico della Nina. Gli esperti avevano lanciato l’allarme, ma è stato fatto poco per prepararsi all’emergenza. Vi proponiamo la traduzione di questo suo contributo

Da Notizie Radicali

EMERGENZA ACQUA – Il Corno d’Africa sta lottando contro la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni. E’ un’emergenza umanitaria che riguarda dieci milioni di persone. Secondo la FAO, la principale causa climatica della siccità è la Nina, un fenomeno meteorologico ciclico che incide sulla quantità di precipitazioni in Africa e altrove. “Avevamo previsto il fenomeno sei mesi fa: quando arriva, la Nina causa siccità a Est e alluvioni a Sud”, spiega l’economista della FAO Shukri Ahmed. In genere le piogge tornano quando le correnti oceaniche si trasformano nel Nino, atteso per la fine dell’anno. Anche se la FAO aveva lanciato l’allarme più volte, sono state adottate poche misure per affrontare l’emergenza, sostiene Ahmed. Infatti manca quasi il 40 per cento delle risorse necessarie a gestire la situazione. “La causa principale dell’emergenza è la siccità”, spiega Ahmed, ma ci sono altri fattori, tra cui i conflitti nella zona, sopratutto in Somalia, che hanno costretto migliaia di persone a scappare. Poi c’è l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e del carburante. “Se per comprare 90 chili di mais a genaio bastavano una o due capre, oggi ne servono cinque”, spiega Stephanie Savariaud, del World Food Programme.

Secondo i dati più recenti dell’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, le persone che hanno bisogno di aiuto sono 3,2 milioni in Etiopia, 3,5 milioni in Kenya, 2,5 milioni in Somalia, 600mila in Uganda nord-orientale e 120mila a Gibuti.

SITUAZIONE E TIMORI – I problemi più gravi, pero’, riguardano le zone della Somalia e dell’Etiopia in cui il 65 per cento della popolazione vive di pastorizia. Molti animali muoiono disidratati, privando le persone della loro unica forma di reddito e di sussistenza. Ahmed aggiunge che la mancanza di investimenti in strade e mercati ha isolato ulteriormente i pastori, rendendoli piu’ esposti agli eventi climatici estremi. Confrontando le precipitazioni totali del 2010 con i dati storici del periodo 1950-2011, l’organizzazione Famine Early Warning System Network ha dimostrato che il 2010-2011 è stato l’anno meno piovoso, o quasi, in undici delle quindici zone della regione che vivono di pastorizia.

La gravità della siccità è evidente anche dai dati satellitari analizzati da David Grimes dell'Università di Reading, in Inghilterra, secondo cui nella regione non è piovuto per tre stagioni di seguito. Ogni anno dovrebbero esserci due stagioni delle piogge, tra marzo e maggio e tra ottobre e dicembre, con il picco massimo ad aprile. “Di solito ad aprile ci sono tra i 120 e i 150 millimetri di pioggia”, dice Grimes. “I dati satellitari, pero’, hanno rilevato che ad aprile del 2011 ne sono caduti soli fra i 30 e i 40 millimetri”. Grimes conferma che la Nina è una delle principali cause di questa siccità, ma ci sono anche altri fattori climatici come l’aumento della temperatura della superficie dell’Oceano Indiano, che può provocare precipitazioni più abbondanti sul mare invece che a terra. La preoccupazione maggiore, ora, è che non piova nemmeno nella prossima stagione. “Non ci sono segnali di passaggio al Nino, perciò si teme che le piogge di ottobre e novembre non saranno superiori alla norma e che non compenseranno la scarsità di piogge delle stagioni precedenti”, spiega Williams dell’ufficio meteo britannico, che sta compiendo delle ricerche per capire se questa siccità è una conseguenza del cambiamento climatico.

Andy Coghlan

 

Questo articolo è tratto dalla sezione “

Voci dal Mondo

” di Notizie Radicali, grazie alla collaborazione tra le due redazioni

Anche l’Italia vola… in Brasile

0

E' notizia di pochi giorni fa l'importante commessa in arrivo dalla compagnia aerea brasiliana Trip, incassata dalla joint venture a composizione italiana che produce i velivoli per trasporto passeggeri Atr, composta da Finmeccanica e Eads. Diciotto (più eventuali altri ventidue) apparecchi per un valore di oltre 660 milioni di euro: segno che per le imprese italiane ci sono molte opportunità per esportare e investire in Sudamerica

NON SOLO CRISI – E' vero, l'economia italiana – ed europea in generale – non sta attraversando un momento facile. La crisi economica e il timore che la Grecia venga costretta a dichiarare l'insolvenza sul proprio debito, trascinando con sé nel baratro Spagna, Portogallo e Italia, è palpabile. Molto probabilmente uno scenario così catastrofico non si realizzerà, eppure il mondo dell'informazione spesso non sembra offrire prospettive diverse.

Tuttavia, non ci sono solo cattive notizie. Lo scorso 8 settembre, infatti, la joint-venture che realizza i velivoli per trasporto passeggeri Atr, composta da Finmeccanica (Alenia) e Eads, ha annunciato di aver concluso un contratto con la brasiliana Trip Linhas Aereas. La commessa riguarda una fornitura di diciotto Atr 72-600, più ventidue opzioni. Valore complessivo: 661,5 milioni di euro. Niente male, se si pensa anche che Trip non è la principale compagnia linea aerea brasiliana.

 

content_857_2

LA TERRA DELLE OPPORTUNITA' – Sudamerica e Brasile si confermano regioni in cui le opportunità per esportare ed investire sono ottime. E le grandi aziende italiane non dovrebbero lasciarsi sfuggire le grandi possibilità che si svilupperanno anche nei prossimi anni, con i Mondiali di Calcio del 2014 e le Olimpiadi di Rio del 2016 in vista. Se Finmeccanica ha ottenuto una commessa di così alto valore in un Paese dove si trova Embraer, che è il quarto produttore di velivoli al mondo, questo è il segno che la nostra economia può essere ancora competitiva.

ENI, Fiat, Pirelli e Finmeccanica sono ovviamente le aziende che giocano il ruolo principale dell'industria italiana in Brasile: ma spazio c'è anche per imprese più piccole – che abbiano ovviamente capacità di esportare – per sfruttare la crescente domanda interna frutto anche di una classe media che si sta espandendo e arricchendo.

 

Davide Tentori

[email protected]

Il suono del silenzio

Torna l’Assemblea Plenaria del Parlamento Europeo, mentre si chiude la 65esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e gli Stati Uniti, dopo le celebrazioni per l’11 Settembre, tornano a lavorare sull’economia. Occhi puntati sul Medio Oriente, dove lo Stato d’Israele rimane sempre più solo e circondato, mentre la Turchia rilancia i suoi rapporti nel Maghreb

 

EURASIA

Lunedì 12- Commissioni e Parlamento Europeo sono di nuovo al lavoro dopo la pausa estiva, il mondo si aspetta uno scatto d’orgoglio dalle istituzioni politiche dell’UE per troppo tempo assenti dal palcoscenico internazionale. In passato l’Europa si è trovata più volte “al bivio” e pare esservi ritornata a causa delle condizioni sempre più critiche dei mercati finanziari e alla tenuta della moneta unica.

Martedì 13- Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sarà ricevuto a Bruxelles dal Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy e dal Presidente della Commissione Europea Manuel Barroso, si parlerà della manovra finanziaria varata dal Senato la settimana scorsa e degli impegni che l’Italia dovrà mantenere dopo gli aiuti della BCE tanto contrastati dal dimissionario Jurgen Stark.

 

ASIA ORIENTALE

Anche il Giappone è chiamato a rialzarsi dopo aver celebrato ieri i sei mesi trascorsi dalla tragedia di Fukushima, con un nuovo governo, la ricostruzione in corso e un’economia da sostenere nella sfida con le altre tigri asiatiche il paese è chiamato ad uno sforzo simile a quelli già affrontati con successo nel secolo scorso. In Cina tiene banco uno scontro tra l’elite militare ed i vertici politici dopo che la stampa internazionale ha diffuso documenti top-secret che svelerebbero la vendita di armi e munizioni alle forze lealiste di Gheddafi. Tutto ciò non fa che rendere più competitiva la sfida internazionale per aggiudicarsi gli appalti più promettenti per la ricostituzione infrastrutturale della Libia targata CNT.

 

AMERICHE

Lunedì 12- In un ritrovato spirito di unità nazionale entrambe le camere dei rappresentanti USA sono al lavoro per discutere della Manovra per l’occupazione da 47 miliardi di dollari presentata giovedì dal Presidente Barack Obama su cui i repubblicani sono pronti a convergere, mentre si avvicina il rush elettorale per le Presidenziali del 2012.

In un Cile segnato dal ricordo del Presidente Salvador Allende continuano le proteste degli studenti contro il piano per l’istruzione privata del Presidente Sebastian Piñera. Mentre il Messico continua la sua battaglia contro i cartelli che nell’estate appena passata hanno subito numerosi arresti, rimane alto nel paese il senso d’insicurezza e di pericolo per i giornalisti che scrivono del sottobosco malavitoso e degli intrecci tra mondo della droga e politica, dal 2000 sono 83 le firme che hanno smesso per sempre di denunciare la situazione.

 

content_854_2

AFRICA

Continua l’emergenza umanitaria in Somalia dove sono ora i piccoli centri abitati lontani da Mogadiscio a patire la mancanza di aiuti e la scarsa attenzione del mondo al dramma di un paese già segnato da una crisi politica che dura ormai da quasi vent’anni. Intanto si fanno insistenti le pressioni della comunità internazionale sugli Stati confinanti con la Libia, da sempre alleati di Gheddafi, che sembrano ormai le uniche mete di rifugio per il Colonnello e i suoi fedelissimi. Il figlio Saadi, è stato accolto per motivi umanitari dal Niger che nega tuttavia di aver accolto altri membri della famiglia del raìs. Intanto i ribelli si stringono attorno alle roccaforti di Bani Walid e Sirte, dove nell’ultima avanzata è stato letteralmente spazzato via un checkpoint lealista. Il supporto NATO alle forze del CNT è ormai palese a tutti mentre i raid aerei della Coalizione si intensificano nell’assalto finale al regime.

 

MEDIO ORIENTE

Lunedì 12- Inizia oggi al Cairo il “tour della Primavera Araba” del premier turco Recep Tayyip Erdogan, nella capitale egiziana si parlerà di cooperazione militare con il governo di transizione e dei recenti scontri con Israele che accomunano i due paesi una volta stretti alleati di Gerusalemme e ora protagonisti di un insidioso triangolo che infiamma la già complicata situazione palestinese. Il tour di Erdogan si concluderà con la visita al nuovo governo tunisino dove non mancherà l’occasione di rilanciare i rapporti economico-strategici tra i due paesi.

 

ANNIVERSARI

14 Settembre 1960 – Viene fondata l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC), che da allora garantisce alle piccole potenze petrolifere un elevato potere di contrattazione nei confronti degli importatori di greggio

16 Settembre 1982Massacro di Sabra e Shatila: viene ucciso un numero di arabi palestinesi stimato tra diverse centinaia e 3500. Il massacro è perpetrato da milizie cristiane libanesi in un’area direttamente controllata dall’esercito israeliano, e accende quella che verrà in seguito rinominata come Guerra dei Campi.

 

Fabio Stella