martedì, 16 Dicembre 2025

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martedì, 16 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

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Il suono del silenzio

Torna l’Assemblea Plenaria del Parlamento Europeo, mentre si chiude la 65esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e gli Stati Uniti, dopo le celebrazioni per l’11 Settembre, tornano a lavorare sull’economia. Occhi puntati sul Medio Oriente, dove lo Stato d’Israele rimane sempre più solo e circondato, mentre la Turchia rilancia i suoi rapporti nel Maghreb

 

EURASIA

Lunedì 12- Commissioni e Parlamento Europeo sono di nuovo al lavoro dopo la pausa estiva, il mondo si aspetta uno scatto d’orgoglio dalle istituzioni politiche dell’UE per troppo tempo assenti dal palcoscenico internazionale. In passato l’Europa si è trovata più volte “al bivio” e pare esservi ritornata a causa delle condizioni sempre più critiche dei mercati finanziari e alla tenuta della moneta unica.

Martedì 13- Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sarà ricevuto a Bruxelles dal Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy e dal Presidente della Commissione Europea Manuel Barroso, si parlerà della manovra finanziaria varata dal Senato la settimana scorsa e degli impegni che l’Italia dovrà mantenere dopo gli aiuti della BCE tanto contrastati dal dimissionario Jurgen Stark.

 

ASIA ORIENTALE

Anche il Giappone è chiamato a rialzarsi dopo aver celebrato ieri i sei mesi trascorsi dalla tragedia di Fukushima, con un nuovo governo, la ricostruzione in corso e un’economia da sostenere nella sfida con le altre tigri asiatiche il paese è chiamato ad uno sforzo simile a quelli già affrontati con successo nel secolo scorso. In Cina tiene banco uno scontro tra l’elite militare ed i vertici politici dopo che la stampa internazionale ha diffuso documenti top-secret che svelerebbero la vendita di armi e munizioni alle forze lealiste di Gheddafi. Tutto ciò non fa che rendere più competitiva la sfida internazionale per aggiudicarsi gli appalti più promettenti per la ricostituzione infrastrutturale della Libia targata CNT.

 

AMERICHE

Lunedì 12- In un ritrovato spirito di unità nazionale entrambe le camere dei rappresentanti USA sono al lavoro per discutere della Manovra per l’occupazione da 47 miliardi di dollari presentata giovedì dal Presidente Barack Obama su cui i repubblicani sono pronti a convergere, mentre si avvicina il rush elettorale per le Presidenziali del 2012.

In un Cile segnato dal ricordo del Presidente Salvador Allende continuano le proteste degli studenti contro il piano per l’istruzione privata del Presidente Sebastian Piñera. Mentre il Messico continua la sua battaglia contro i cartelli che nell’estate appena passata hanno subito numerosi arresti, rimane alto nel paese il senso d’insicurezza e di pericolo per i giornalisti che scrivono del sottobosco malavitoso e degli intrecci tra mondo della droga e politica, dal 2000 sono 83 le firme che hanno smesso per sempre di denunciare la situazione.

 

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AFRICA

Continua l’emergenza umanitaria in Somalia dove sono ora i piccoli centri abitati lontani da Mogadiscio a patire la mancanza di aiuti e la scarsa attenzione del mondo al dramma di un paese già segnato da una crisi politica che dura ormai da quasi vent’anni. Intanto si fanno insistenti le pressioni della comunità internazionale sugli Stati confinanti con la Libia, da sempre alleati di Gheddafi, che sembrano ormai le uniche mete di rifugio per il Colonnello e i suoi fedelissimi. Il figlio Saadi, è stato accolto per motivi umanitari dal Niger che nega tuttavia di aver accolto altri membri della famiglia del raìs. Intanto i ribelli si stringono attorno alle roccaforti di Bani Walid e Sirte, dove nell’ultima avanzata è stato letteralmente spazzato via un checkpoint lealista. Il supporto NATO alle forze del CNT è ormai palese a tutti mentre i raid aerei della Coalizione si intensificano nell’assalto finale al regime.

 

MEDIO ORIENTE

Lunedì 12- Inizia oggi al Cairo il “tour della Primavera Araba” del premier turco Recep Tayyip Erdogan, nella capitale egiziana si parlerà di cooperazione militare con il governo di transizione e dei recenti scontri con Israele che accomunano i due paesi una volta stretti alleati di Gerusalemme e ora protagonisti di un insidioso triangolo che infiamma la già complicata situazione palestinese. Il tour di Erdogan si concluderà con la visita al nuovo governo tunisino dove non mancherà l’occasione di rilanciare i rapporti economico-strategici tra i due paesi.

 

ANNIVERSARI

14 Settembre 1960 – Viene fondata l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC), che da allora garantisce alle piccole potenze petrolifere un elevato potere di contrattazione nei confronti degli importatori di greggio

16 Settembre 1982Massacro di Sabra e Shatila: viene ucciso un numero di arabi palestinesi stimato tra diverse centinaia e 3500. Il massacro è perpetrato da milizie cristiane libanesi in un’area direttamente controllata dall’esercito israeliano, e accende quella che verrà in seguito rinominata come Guerra dei Campi.

 

Fabio Stella

Se Pechino fa il pieno in Sudamerica

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Nonostante la Cina importi la maggioranza del suo petrolio dal Grande Medio Oriente e dall’Africa, il Sudamerica – Brasile e Venezuela in primis – gioca un ruolo importante per la sicurezza energetica cinese e per la diversificazione negli investimenti delle enormi riserve finanziarie accumulate nell’ultimo decennio. Ecco una panoramica sugli investimenti di Pechino nell'area per soddisfare il proprio fabbisogno

LA FAME CINESE – Diventata ormai il primo consumatore di energia al mondo (dal 2009), la Cina continuerà ad esserlo anche per i prossimi decenni. Dal 2000 al 2007 il gigante cinese ha raddoppiato il suo consumo di energia, mentre le previsioni per il 2035 sono di un incremento più che doppio del consumo rispetto a oggi. Nessuno stato al mondo avrà incrementi così sostenuti. Una vera e propria sete di energia che dovrà continuare a essere soddisfatta se si vorranno continuare a garantire gli elevati tassi di crescita economici. Va da sé che le scelte future della Cina in tema di politiche energetiche avranno importanti conseguenze per i mercati e gli equilibri energetici globali.

COSA CONSUMA LA CINA? – La risposta è: di tutto. In primis il carbone, di cui la Cina è il primo produttore e consumatore mondiale, e che soddisfa il 71% della domanda di energia. Poi c’è il petrolio, che fornisce il 19% dell’energia, ed è in espansione: più di un terzo della crescita mondiale di petrolio nel 2010 era dovuta alla domanda cinese, mentre questa percentuale sarà del 40% nei prossimi due anni. Il gas naturale avrà un posto sempre più importante, visto l’impegno delle Partito Comunista a ridurre l’inquinamento atmosferico (la Cina è il primo stato per emissioni di CO ). Nel dodicesimo piano quinquennale presentato lo scorso marzo, si è stabilito l’obiettivo per il 2015 che il consumo primario di energia sia garantito per l’8,3% dal gas naturale (nel 2008 era circa il 3%). Anche il nucleare avrà un peso maggiore. Oggi, nel mondo, il 40% delle nuove centrali in costruzione sono cinesi. Infine, anche se la Cina sta investendo più di chiunque altro al mondo sulle fonti rinnovabili (circa 120-160 miliardi di $ tra il 2007 e il 2010), gli idrocarburi continueranno a soddisfare più dell’ 80% del fabbisogno energetico nel 2030.  

LA CINA IN AMERICA DEL SUD – Anche se la Cina importa la maggior parte del petrolio e del gas dal Medio Oriente (47% sul totale), dall’Africa (30%) e dall’Asia Centrale, le significative scoperte di risorse petrolifere fatte in Sudamerica negli ultimi anni hanno aumentato l’interesse per l’area al di là del settore agroalimentare e minerario. Nel marzo 2010, nella sua strategia di entrata nel mercato latinoamericano, la cinese CNOOC ha acquisito in joint venture il 50% dell’argentina Bridas Energy Holdings Ltd, ottenendo potere decisionale nella Bridas Corporation, che attraverso le sue controllate, estrae idrocarburi in Argentina, Cile e Bolivia (dove si trovano le più grandi riserve di gas dell’America del Sud, dopo quelle Venezuelane).  Mentre un’altra compagnia cinese, la Sinochem, ha perfezionato lo scorso aprile l’acquisto del 40% del campo petrolifero offshore Peregrino (85 km al largo delle coste brasiliane) dalla norvegese Statoil (che detiene l’altro 60%). Sempre in Brasile, verso la fine del 2010, la Sinopec acquistò il 40% di Repsol Brasil della spagnola Repsol, anch’essa attiva nello sviluppo della produzione offshore.

La presenza cinese in America del Sud si concretizza, inoltre, anche in un’altra strategia: la cosiddetta “Oil-for-Loans”. La Cina detiene le più ampie riserve monetarie al mondo (3000 miliardi di $ a marzo 2011) e sa bene come usarle per perseguire i propri interessi energetici, nonché finanziari. Durante la crisi del credito (2008-09) la China Development Bank garantì prestiti per 10 miliardi di $ alla compagnia Petrobras controllata dallo stato brasiliano, da destinarsi allo sviluppo della produzione di petrolio offshore, ovviamente in cambio di forniture di petrolio garantite per un decennio. Mentre 20 miliardi di dollari furono garantiti alla venezuelana PDVSA nell’aprile 2010 (il più grande prestito mai elargito dalla China Development Bank). Investimenti nel settore idrocarburi sono stati fatti anche in Ecuador (per concessioni petrolifere) e Bolivia (gas).     

PROSPETTIVE – Le mosse della Cina in America Latina sono solo una parte, benché importante, della strategia cinese di approvvigionamento energetico a livello globale. La Energy Information Administration americana, basandosi sulle prospettive di crescita economica, prevede che la Cina importerà il 72% del suo petrolio nel 2035, aumentando significativamente dal 50% di oggi. Se queste previsioni si confermeranno, le mosse cinesi si faranno senz’altro più dinamiche e competitive.

Marco Spinello

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Rallentare, prego…

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Nemmeno in Brasile, al contrario di quello che si possa pensare, il panorama economico è idilliaco. Esistono infatti alcuni segnali che devono destare l'attenzione del Governo: una crescita che sta rallentando e l'inflazione in aumento, così come il valore troppo alto della moneta nazionale, che sta penalizzando l'export a vantaggio, manco a dirlo, della Cina. Quali politiche economiche adottare in un momento simile?

LA FRENATA – Dal + 7,5 % nel 2010 a un “magro” – molto probabilmente – + 3,5 % nel 2011. Si tratta delle prospettive di crescita del PIL brasiliano per l'anno in corso: un dato decisamente più basso rispetto al “boom” di un anno fa, e che ha destato qualche campanello d'allarme nelle istituzioni e tra gli analisti. Come mai il Brasile crescerà molto meno quest'anno, a differenza di altri Paesi, come la vicina Argentina, le cui prospettive di aumento del Prodotto Interno Lordo sono molto più alte (si aggirano intorno al 6%)? La causa principale risiede nel rallentamento delle esportazioni nel settore manifatturiero, che sta avendo ripercussioni anche sul mercato del lavoro interno. Andiamo a vedere che cosa sta accadendo con maggiore attenzione.

LA CINA E' VICINA – Da diverso tempo c'è preoccupazione in Brasile per l'eccessivo apprezzamento della valuta locale, il real. I dati più recenti (aggiornati al 9 settembre) dicono che un dollaro USA vale 1,67 reais: un valore decisamente troppo alto per un Paese che è ancora in via di sviluppo e che dovrebbe fare della competitività delle sue esportazioni uno dei maggiori punti di forza. Per dare un'idea, spostiamoci ancora nella vicina Argentina: qui un dollaro USA viene scambiato con 4,2 pesos. In questo caso la dinamica del tasso di cambio è stata opposta rispetto al Brasile: negli ultimi anni il peso si è deprezzato rispetto al dollaro e le esportazioni ne hanno giovato.

Questo piccolo “deficit” in termini di competitività accusato dal Brasile si sta traducendo in una riduzione dell'export in alcuni settori chiave dell'industria locale. Chi ne sta traendo vantaggio? Manco a dirlo, la Cina. Recenti statistiche affermano che il 57% delle imprese brasiliane hanno sofferto negli ultimi tempi della concorrenza cinese e il 21% delle aziende calzaturiere (il Brasile è uno dei principali produttori mondiali di scarpe) ha smesso di esportare proprio a causa di questa competizione. Il passaggio successivo è una minore offerta di lavoro: la creazione di nuovi impieghi ha subito un rallentamento, da 215mila nel mese di giugno a 14mila a luglio. Anche la crescita del PIL si è bruscamente arrestata: nel mese di agosto l'aumento è stato dello 0,8% su base annua.

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GLI INTERVENTI – Da diversi anni la Banca Centrale brasiliana mantiene il tasso di interesse SELIC, che misura il “costo” del denaro locale, piuttosto alto, allo scopo di contenere l'inflazione. Da pochi giorni questo tasso è stato ridotto dal 12,5 % al 12%, al fine di inserire maggiore liquidità nel mercato e di ridare impulso alla crescita economica. Si tratta però di un'arma a doppio taglio: abbassare il tasso di interesse comporta il rischio di un aumento dell'inflazione, mentre dalla parte opposta alzare il tasso può contenere l'aumento dei prezzi ma può rivelarsi depressivo per la crescita. La coperta, insomma, è corta. Le autorità monetarie brasiliane prevedono un'inflazione più bassa per il primo trimestre del 2012, dunque hanno ritenuto che la misura fosse opportuna durante questa specifica congiuntura.

PROSPETTIVE – I brasiliani devono cominciare a preoccuparsi e i grandi sostenitori della crescita verde-oro devono cessare lo squillo delle loro trombe entusiastiche? Decisamente no. La situazione non è critica: il Brasile sta semplicemente entrando in una fase caratterizzata da tassi di crescita più “normali”, tipici tra l'altro di un Paese sviluppato. Un aumento del PIL nell'ordine del 10% è tipico di nazioni sottosviluppate (per esempio, gli Stati africani più dinamici come l'Angola) oppure è “finanziabile” solo sacrificando la stabilità dei prezzi (vedi la vicina Argentina).

L'eccessivo apprezzamento del real è tuttavia un fatto di cui tenere conto, in chiave di penalizzazione delle esportazioni. Dall'altra parte, però, va considerato che il Brasile possiede un mercato interno enorme (duecento milioni di potenziali consumatori) ed in continua espansione, visto che la povertà è in continua diminuzione e che la classe media costituisce ormai maggioranza nel Paese. Insomma: niente paura. Il colosso sudamericano, almeno per il momento, è ancora in corsa.

Davide Tentori

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Un Paese riNato

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Ci eravamo lasciati prima dell’estate con il “gigante” De Gasperi, e la promessa di dedicare all’ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica un capitolo a parte, dato il valore fondamentale di questo evento nella storia del nostro Paese. Perchè se oggi appare assolutamente naturale considerare l’Italia un membro Nato, nel 1948 le cose non stavano proprio così. Vediamo come è andata, e perchè il 4 aprile 1949 è una data che davvero ha cambiato la nostra storia

 

Noi lo diamo per scontato. E con i se e con i ma non si fa la storia. È però vero che l’ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica è stato tutt’altro che ovvio, ed è evidente che se le cose fossero andate diversamente, la storia del nostro Paese sarebbe radicalmente diversa. Siamo dunque davanti a uno degli eventi più importanti di tutta la storia della politica estera italiano, che va raccontato e analizzato con attenzione.

 

E’ ANDATA COSI’ – La decisione dell’inserimento dell’Italia all’interno del Patto Atlantico è stata controversa, e affatto scontata. I colloqui preliminari degli Usa in vista della futura alleanza iniziano già nel luglio 1948, e non contemplano il nostro Paese. Le prime intenzioni paiono volte a concentrarsi su un’alleanza “realmente” atlantica, che contempli dunque i paesi costieri, dalla Norvegia al Portogallo. La diplomazia italiana in questa fase riesce solo ad avere alcune informazioni sugli sviluppi dei colloqui da qualche funzionario di dipartimenti di Stati filo-italiani, ma siamo a livello di voci di corridoio. La prospettiva di un inserimento dell’Italia nell’alleanza diviene attuale a cavallo tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, quando l’ambasciata italiana a Washington riesce a testimoniare il desiderio italiano di accedere al Patto Atlantico, e la forte pressione del negoziatore francese (l’ambasciatore a Washington Bonnet) circa l’inserimento dell’Italia si rivela decisiva. Anche se a volte non ci fanno impazzire di simpatia, dobbiamo dunque dire grazie ai francesi; va però detto che non è certamente solo un favore nei confronti dei cugini d’Oltralpe: la Francia vuole l’Italia nell’alleanza per spostare più a oriente i confini difensivi, proteggendo meglio il Mediterraneo occidentale, e di conseguenza la stessa Francia e l’Algeria francese. Il Presidente americano Truman e il segretario di Stato Acheson soppesano a lungo la questione: l’Italia, alla luce del comportamento nelle due guerre mondiali, in cui in entrambi i casi ha cambiato fronte, è considerata un’alleata poco affidabile. Le considerazioni strategiche, politiche ed economiche hanno però la meglio, e così l’8 marzo il dipartimento di Stato americano comunica all’ambasciatore Tarchiani il via libera ufficiale all’ingresso dell’Italia nell’Alleanza, in qualità di membro fondatore. Una settimana dopo, quasi sul filo di lana, il Ministro degli Esteri Carlo Sforza viene invitato a Washington per partecipare il 4 aprile alla firma del trattato.

 

RESISTENZE E OPPOSIZIONI – Non si può non dedicare alcune righe alla modalità con cui l’ingresso dell’Italia nella Nato venne vissuta all’interno del nostro Paese, nelle piazze così come nel Parlamento. Va infatti menzionato come De Gasperi abbia dovuto affrontare non solo una strenua opposizione di socialisti e comunisti, ma anche una resistenza proveniente da notevoli componenti della maggioranza, e nella stessa Democrazia Cristiana sono diverse le incertezze riguardo l’Alleanza. Le ipotesi neutralistiche e pacifiste, così come una certa dose di antiamericanismo, trovano simpatizzanti e sostenitori anche in queste fila. Si parla così, in maniera un po’ bizzarra, e senza cogliere appieno i segni dei tempi, di “terza forza europea”, non costretta a scegliere tra Est e Ovest, fondata sull’autosufficienza dalla cultura cattolica rispetto al materialismo angloamericano e al totalitarismo ateo, o di terzomondismo, volto a guardare all’altra sponda del Mediterraneo, privilegiando quest’area rispetto ad un cammino di integrazione europea. In ogni caso, De Gasperi ha i piedi altamente ancorati al terreno, e una capacità di visione tale da cogliere perfettamente la debolezza di un Paese tutt’altro che in grado di potersi permettere una politica di neutralità e isolamento. E va aggiunto che la stessa Santa Sede, dopo una prima fase caratterizzata da visioni distinte, contribuisce a spianare la strada verso l’inserimento italiano nel Patto Atlantico, salutato “con gioia” da Pio XII.

 

D’altro canto, l’opposizione di sinistra è quanto mai dura: il PCI denuncia con forza quella che pare essere una alleanza imperialistica con evidenti intenti antisovietici. Non mancano i feriti tra le forze dell’ordine nelle manifestazioni per la pace a cavallo tra marzo e aprile. Il 20 aprile, il Congresso mondiale per la Pace, svoltosi a Parigi con migliaia di delegati, tra cui 1200 italiani, prende posizione contro l’Alleanza Atlantica, e dà vita a un Consiglio Mondiale per la Pace, organizzato in Italia dal Partito Comunista, al quale è legato a doppio filo, al punto che l’iniziativa non riesce ad attirare altri settori della popolazione, e resta così marcata come strumento della politica sovietica. Tra le azioni di protesta del PCI, viene inoltre organizzata una grande petizione popolare, che vede la raccolta di sei milioni di firme, consegnate dal “fronte della pace” al Parlamento nel mese di luglio.

 

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CONTINUITA’ E RIVOLUZIONE – Questo, dunque, il racconto dell’ingresso italiano nell’Alleanza. Cosa mettere alla luce di un evento così significativo, uno dei più rilevanti dell’intera storia della politica estera del nostro Paese? Considerando tali accadimenti alla luce del cammino della politica estera italiana, possiamo porre in risalto un elemento di continuità e uno di forte mutamento.

 

Il primo di questi è caratterizzato dalla certificazione, largamente percepita e accettata, della posizione dominante degli Stati Uniti all’interno dell’alleanza, che rientra per il nostro Paese nella tendenza addirittura precedente all’unità d’Italia di procurarsi un alleato-protettore, vale a dire la maggiore potenza europea del momento: basti pensare ai casi del Secondo Impero francese, della Germania di Bismarck e del Terzo Reich. La condizione di fatto di dipendenza dagli Usa nell’Italia post-fascista è però ancora maggiore, considerando il forte sostegno alla ricostruzione e allo sviluppo della nostra economica.

 

D’altra parte, la rapida evoluzione dell’Alleanza Atlantica nell’Organizzazione dell’Alleanza (la NATO) provoca sul piano strategico-militare una trasformazione nel modo di concepire e utilizzare fini e mezzi della politica estera nazionale. Trovandosi all’interno di una struttura militare sovranazionale integrata, da cui si è dipendenti per la difesa del proprio territorio nazionale, l’Italia non può più prendere iniziative e decisioni politico-militari dipendenti unicamente dalle scelte del governo del momento. Ciò che per noi adesso appare un fatto assolutamente naturale, è in realtà in questa epoca storica – sicuramente non solo per l’Italia – una vera e propria rivoluzione.

 

POSIZIONE STRATEGICA – In conclusione, è evidente che nel dopoguerra la dipendenza di fatto dell’Italia dagli Stati Uniti da una punto di vista tanto di sicurezza economica quanto di sicurezza politica-militare rappresenti una vera e propria chiave di volta per il nostro Paese, che arriverà in tempi sorprendentemente rapidi a reinserirsi a pieno titolo nella comunità internazionale postbellica e nel sistema economico e politico-militare dell’Occidente, grazie alla partecipazione al Piano Marshall nel 1948 e all’Alleanza Atlantica nel 1949. Tali risultati possono sicuramente essere considerati altamente soddisfacenti per il governo e il popolo italiano, in quanto garantiscono al Paese la ricostruzione economica postbellica e la sicurezza nella nuova, aggressiva realtà della guerra fredda.

 

Tra le motivazioni di tale rapidità vi è sicuramente la volontà americana di accogliere quanti più alleati possibili nel confronto con l’Unione Sovietica. Nello stesso tempo, però, la geopolitica ha un ruolo di rilievo: è fondamentale infatti la posizione strategica del territorio peninsulare e insulare italiano, per consolidare il “fianco sud” dello schieramento militare occidentale. E tali rilievi geopolitici sono validi ancora oggi: davvero la posizione dell’Italia potrebbe, anzi dovrebbe portarci ad assumere un ruolo di altissimo rilievo all’interno dell’area del Mediterraneo, e dell’Europa stessa. Troppe volte invece, e sempre di più, ormai rimaniamo a guardare, rassegnati e convinti di essere degli sparring partners, quando invece potremmo giocare un ruolo da protagonista. Sarebbe ora che qualcuno iniziasse a ricordarselo, e a muoversi di conseguenza.

La resa dei conti

Mentre le forze armate del CNT libico circondano le roccaforti del colonnello, il resto del mondo è ancora in ansia per i continui sbalzi dei mercati internazionali. Aspettando misure concrete a sostegno delle economie da parte dei governi mai così preoccupati, riprendiamo il nostro sguardo vigile sul mondo là dove ci eravamo lasciati. Se Siria e Yemen sembrano permanere in una situazione di stallo istituzionale, il vecchio continente continua la sua crisi di credibilità internazionale con l’Unione Europea chiamata a tenere le redini di un’economia sempre più indomabile

AMERICHE

Il piano per il rilancio dell'economia e per la creazione di posti di lavoro sarà presentato il prossimo 7 settembre. Come si legge in una nota della Casa Bianca, il presidente americano Barack Obama parlerà al Congresso a camere riunite alle 20. "È mia intenzione presentare una serie di proposte bipartisan che il Congresso potrà approvare immediatamente per ricostruire l'economia americana, rafforzando le piccole imprese, creando posti di lavoro e sostenendo la classe media, al contempo riducendo il deficit e mettendo in ordine i conti del Paese", ha scritto Obama in una lettera al leader di maggioranza al Senato Harry Reid e al Presidente della Camera John Boehner.

Domenica 11 – Doppio round elettorale in Guatemala, dove gli elettori saranno chiamati alle urne per rinnovare il Congreso de la Republica, scegliendone i 158 membri, e per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica tra i cinque candidati al seggio.

In Venezuela il Presidente Chavez ritorna al suo ruolo istituzionale dopo aver completato, questa volta in patria e non a Cuba, il terzo ciclo di chemioterapia contro il tumore che lo ha colpito. Continuano invece le voci sulle pessime condizioni del lìder maximo Fidel Castro che non compare in televisione ormai da tempo e che sembra aver lasciato il campo della sua lotta rivoluzionaria nelle mani del più mite Raul, più incline alla modernizzazione.

 

EURASIA

Lunedì 5 – A Bruxelles le dichiarazioni del Segretario Generale della Nato Anders Fogh Rasmussen in una conferenza stampa sulla situazione attuale in Libia e sulle sfide e gli scenari aperti della coalizione vertono sulla durata dell’intervento militare a sostegno dei ribelli del CNT e sulle ipotesi di ritiro programmato da un Afghanistan sempre più instabile.

Martedì 6 – Varsavia, meeting nell’ambito della Politica di Difesa e Sicurezza Comune tra il Consiglio Europeo e i paesi dell’area caucasica. Si discutrerà delle potenziali minacce alla stabilità dell’area, dell’organizzazione di esercitazioni militari, training congiunto ed operazioni nella sfera dello sviluppo della cooperazione militare e del dialogo in una regione fondamentale per lo scacchiere europeo.

Mercoledì 7 – La Corte Costituzionale della Repubblica Federale tedesca si pronuncerà sugli aiuti lanciati dall’area euro alla Grecia per salvarla dal default, in caso di parere contrario, il salvagente subirebbe ulteriori ritardi causando frenesie sui mercati e mettendo l’economia greca in una situazione non più sostenibile

Giovedì 8 – Si riunisce a Francoforte il Consiglio di Governo della Banca Centrale Europea, sarà l’occasione per valutare la risposta dei mercati ai possibili aggiustamenti fiscali che i governi di tutta Europa stanno prendendo in considerazione e per fare il punto su un’estate quanto mai bollente per i mercati del vecchio continente.

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GRANDE MEDIO ORIENTE

Il governo statunitense ha ufficialmente richiesto all’Autorità Nazionale Palestinese di rinunciare alla domanda di ammissione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come membro a pieno titolo. Dopo la pubblicazione da parte di un quotidiano di Gerusalemme delle indicazioni fornite ai coloni ebrei dal Ministero della Difesa su come fare fuoco in caso di attacchi da parte di palestinesi, appare ormai fallito ogni tentativo di mediazione tra le parti. Come se non bastasse, domenica è stata inaugurata ed allacciata alla rete elettrica nazionale la prima centrale nucleare iraniana, sospettata di avere un ruolo fondamentale nella predisposizione di un arsenale atomico. L’agenzia nucleare iraniana ha rispedito al mittente tutte le critiche rivendicando il diritto allo sviluppo e alla diversificazione energetica.

Le nuove sanzioni predisposte dal Consiglio di sicurezza ONU e dall’UE sembrano non aver sortito alcun effetto sul governo di Damasco, costretto ora a trovare nuovi acquirenti per il petrolio siriano. Tuttavia sembrano quanto mai lontane le speranze in un intervento militare contro il regime di Assad sia da parte ONU che da parte della NATO, fiaccata dallo stillicidio di risorse che l’ha impegnata per sei mesi lungo il fronte libico.

 

ANNIVERSARI

5 settembre 1978 – Accordi di Camp David: Menachem Begin e Anwar Sadat iniziano il processo di pace a Camp David, nel Maryland che porterà alla firma nel 1979 del Trattato di pace israelo-egiziano sulle condizioni della penisola del Sinai e della Cisgiordania. Lo spirito di quegli accordi appare oggi quanto mai lontano, dato che la situazione attuale lascia poche speranze a chi ancora si batte per una pace stabile e duratura.

11 settembre 2001 – Domenica ricorre il decennale dell’attacco alle Twin Towers di Manhattan e al Pentagono, il Presidente Obama insieme al suo predecessore Bush inaugurerà il “National September 11 Memorial”, il memoriale dedicato alle 3000 vittime della strage. La cerimonia si chiuderà con un discorso del Presidente alla National Cathedral durante il “Concerto per la Speranza”.

Fabio Stella [email protected]

2011: make or break (parte II)

Seconda parte della nostra intervista al Prof. Carlyle A. Thayer, dell’Australian Defence Force Academy di Canberra: cooperazione militare, consolidamento e prospettive geopolitiche cinesi preoccupano i vicini? E come vengono bilanciate? Seconda parte

 

La cooperazione tra la Cina e i Paesi del Sud-Est asiatico nel settore della difesa ha rafforzato o indebolito il ruolo di Pechino nella regione?

La collaborazione della Cina con il Sud-Est asiatico nel settore della difesa è rudimentale in confronto con quella degli Stati Uniti. La Cina promuove la cooperazione per la difesa regionale come mezzo per migliorare le relazioni politiche ed aumentare così la sua influenza in ciascun singolo paese.

Ma l’assertività cinese nel Mar Cinese Meridionale, insieme con la modernizzazione della marina militare cinese e la costruzione di un’importante base navale sull’isola di Hainan hanno generato nelle nazioni del sud-est asiatico pressioni per un maggiore impegno degli Stati Uniti negli affari regionali. L’influenza della Cina è forse maggiore in Myanmar e Cambogia.

Ma il primo ha accolto l’assistenza militare dell’India e la Cambogia coopera nel settore della difesa tranquillamente con gli Stati Uniti. La cooperazione militare tra la Cina e il sud-est asiatico non ha ancora favorito l’integrazione regionale.

 

Quali sono le questioni gravose per la sicurezza delle relazioni tra la Cina e i Paesi dell’Asia Sud-Orientale in ambito geopolitico ed economico? Come rispondono quei Paesi al consolidamento del potere di Pechino?

Le questioni marittime sono in gran parte disciplinate. La Cina è interessata a mantenere la sicurezza delle sue vie marittime di comunicazione (Sea Lines Of Communication, SLOC – vedi immagine sopra per alcuni esempi) quelle che collegano al Medio Oriente.  Pechino è sempre più dipendente dalle risorse energetiche importate. La Cina teme che gli Stati Uniti potrebbero tagliare queste SLOC, soprattutto nello stretto di Malacca, in un momento di crisi. Preoccupano anche le attività militari americane nella sua zona economica esclusiva. Il principale problema per la Cina è poi la minaccia che percepisce dalla Marina degli Stati Uniti lungo la sua periferia marittima. Il Paese di Mezzo cerca di sviluppare le strategie di anti-access e area-denial per tenere la US Navy a distanza. La Cina fa pressione politica sui paesi del sud-est asiatico per escludere gli Stati Uniti dalle questioni inerenti il Mar Cinese Meridionale. E, percepite come saccheggio illegale delle proprie risorse le attività di esplorazione petrolifera condotte dal Vietnam e dalle Filippine, la Cina cerca di risolvere le questioni marittime su base bilaterale tra i quattro maggiori stati che si affacciano nel Mar Cinese Meridionale: Brunei, Malesia, Filippine e Vietnam. Si cerca di affrontare questi problemi e le rivendicazioni marittime a livello multilaterale attraverso l’ASEAN.

La modernizzazione militare della Cina ha comportato l’intensificazione degli sforzi da parte degli stati del Sud-est asiatico per sviluppare le capacità di compensazione e bilanciamento della Cina. Significativi sono a tal riguardo l’acquisizione di sottomarini da parte della Malesia e del Vietnam e il rinnovamento dei sottomarini da parte di Singapore. Il maggior sviluppo militare del Sud-Est asiatico si è ottenuto con l’acquisizione di moderni aerei da combattimento armati di missili anti-nave.

I recenti scontri delle Filippine con la Cina hanno reso necessari un moderno equipaggiamento militare, proveniente dagli Stati Uniti, e l’assicurazione della protezione da parte di Washington, come stabilito nei termini del loro Trattato di sicurezza reciproca del 1951 . Rispetto al Myanmar la Cina ha invece diverse questioni aperte: si è concentrata sulla sicurezza delle frontiere terrestri e sulla sicurezza dei cittadini cinesi che fanno affari nel nord del Myanmar.

 

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Cosa pensa riguardo l’opportunità di una “counter-dominance strategy” all’interno dell’ASEAN per mantenere il regime di sicurezza e gli equilibri nella regione?

L’ASEAN si impegna sul piano retorico per mantenere la sua centralità nel quadro della sicurezza della regione e per essere al posto di guida rispetto all’ARF e alle altre istituzioni di sicurezza multilaterale legate all’ASEAN. Ha cercato di ottenere la collaborazione delle grandi potenze nelle attività di polizia ma, come ci ha dimostrato la questione della rivalità nel Mar Cinese Meridionale, l’ASEAN è divisa al suo interno. Inoltre, l’ASEAN non ha una difesa e una politica estera comune così i singoli membri sono liberi di allinearsi con la Cina e gli Stati Uniti come meglio credono.

L’ASEAN ha preso l’iniziativa di istituire la ASEAN Defence Ministers Meeting Plus, processo che coinvolge otto dei loro interlocutori: Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, India, Russia e Cina. Ha anche istituito l’East Asia Summit allo scopo di unire al gruppo l’India, l’Australia e quest’anno la Russia e gli Stati Uniti.

 

Quali prospettive geopolitiche suggerisce per il futuro della sicurezza regionale in Asia Sud-Orientale?

È chiaro che per diversi decenni l’ASEAN ha adottato i concetti “gemelli” di resistenza nazionale e regionale, come base della propria sicurezza. Questi approcci possono essere raggruppati sotto la voce “sicurezza globale”. La sicurezza militare è percepita come strumento di tutela dell’economia, della politica, della cultura e dell’ideologia.

I membri dell’ASEAN promuovono la sicurezza comune secondo un approccio inclusivo. L’ASEAN mira a diventare una comunità politica e di sicurezza entro il 2015, tuttavia le norme dell’ASEAN Way – il consenso piuttosto che un approccio basato sulle regole di sicurezza regionale – hanno ostacolato il progresso. L’ASEAN non è stato in grado di intervenire efficacemente quest’anno durante le schermaglie di confine tra la Thailandia e la Cambogia. Le controversie per la sovranità nel Mar Cinese Meridionale metteranno alla prova l’unità e la coesione tra i Paesi membri dell’ASEAN, solo quattro di loro sono direttamente coinvolti e si attende di capire se gli altri sei membri si mostreranno solidali nel trattare con la Cina. Gli Stati Uniti e la Russia entreranno a far parte del East Asia Summit per la prima volta. Se l’ASEAN riuscisse ad unire tutti, potrebbe rivelarsi come “l’uomo di mezzo” tra Cina e Stati Uniti.

 

Il 2011 sembra presentarsi come l’anno del “make or break”.

 

M. Dolores Cabras

2011: make or break

Ovvero: siamo in una fase realmente decisiva. Così parlò il Prof. Carlyle A. Thayer, dell’Australian Defence Force Academy di Canberra, che racconta in esclusiva al Caffè Geopolitico le relazioni tra Pechino e i suoi vicini “minori” nel Sud-Est Asiatico, soffermandosi sugli sviluppi del sistema di difesa regionale, a livello multilaterale e bilaterale, e mostrando il ruolo sempre maggiore che ricopre la Cina nella gestione della sicurezza nell’area. Intervista in due puntate: ecco qui la prima

 

Che ruolo gioca la Cina nel sistema di sicurezza multilaterale asiatico?

A partire dalla metà fino alla fine degli anni 1990, quando ha enunciato il suo nuovo concetto di sicurezza, la Cina ha partecipato intensamente alle attività promosse dalle istituzioni multilaterali. Ha fondato la Shanghai 5, ora conosciuta come la Shanghai Cooperation Organization (nella foto: i rappresentanti dei Paesi membri), e svolge un ruolo fondamentale di leadership finalizzato a contrastare l’estremismo e il separatismo.

La Cina è un interlocutore dell’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico (ASEAN), un membro fondatore del Forum regionale dell’ASEAN (ARF) e un membro del ASEAN Defence Ministers Meeting Plus. Il Paese di Mezzo ha contribuito ad istituzionalizzare i rapporti con l’ASEAN attraverso un partenariato strategico globale, tra cui è degno di nota l’accordo di libero scambio Cina-ASEAN .

Pechino ha spinto in avanti la cooperazione in materia di tradizionali questioni di sicurezza; l’ARF ha promosso misure di fiducia ma sono meno incoraggianti della diplomazia preventiva. Ha inaugurato una conferenza politica sulla sicurezza che si riunisce annualmente; ha sostenuto i paesi del sud-est asiatico durante la crisi finanziaria asiatica del 1997-98 con l’istituzione dell’AseanPlus Three (Cina, Giappone e Corea del Sud). La Cina è anche membro della Asia Pacific Economic Cooperation (APEC), l’Asia-Europe Meeting (ASEM) e membro fondatore dell’East Asia Summit.

 

Come descriverebbe il fenomeno del terrorismo politico in Asia Sud-Orientale?

Il terrorismo politico nel sud-est asiatico legato ad Al Qaeda è una minaccia in gran parte dell’ultimo decennio. A quel tempo, la Jemaah Islamiyah (JI) ha tentato di creare una rete regionale con basi nel sud delle Filippine. La JI è stata liquidata in Malesia e Singapore, ma si è dimostrata più resistente nelle Filippine e in Indonesia. Oggi la forza della JI si è indebolita sia a livello regionale che nazionale.

Il terrorismo politico è in gran parte il prodotto dell’attività di gruppi scissionisti ed estremisti locali. La lotta al terrorismo in Indonesia è stata molto efficace, anche grazie all’attivismo dell’Australia e degli Stati Uniti. Ogni attentato terroristico, dopo quello di Bali del 2002, ha incoraggiato le autorità indonesiane ad incrementare l’impiego costante delle risorse di intelligence. Tutti i principali attori dei bombardamenti indonesiani intercorsi tra il 2005 e il 2006 sono stati o uccisi o incarcerati. I raid della polizia, lo scorso anno, hanno neutralizzato una coalizione mista di gruppi scissionisti e locali che operano sotto il nome di Al Qaeda nella provincia di Aceh.

Alcuni terroristi restano ancora attivi nelle Filippine, il Gruppo Abu Sayaaf si sente minacciato ma non è stato ancora soppresso. La sfida principale oggi è come impedire la radicalizzazione di una generazione più giovane.

 

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Mindanao nelle Filippine, Patani in Thailandia e il Xinjiang in Cina: quanto influisce l’urgente questione del separatismo islamico nella strategica integrazione regionale?

Le origini del separatismo musulmano nel sud delle Filippine e della Thailandia meridionale risalgono all’inizio del ventesimo secolo. La rivolta musulmana nel sud delle Filippine ha attraversato diverse fasi. Il Moro National Liberation Front si è riconciliato con il governo di Manila e gli è stata data la possibilità di mantenere il potere locale quando si sono tenute le elezioni nella Regione autonoma musulmana di Mindanao. Il gruppo scissionista, il Moro Islamic Liberation Front, sta attualmente negoziando i termini per l’insediamento.

La rivolta nel sud della Thailandia ha raggiunto l’acme nel 1960, per poi scemare successivamente a causa delle efficaci politiche thailandesi antisovversive. Dal 1990 si è indebolita, tuttavia le politiche del governo Thaksin nel 2001 hanno riacceso il sentimento rivoluzionario e le cose sono peggiorate. La violenza continua e la maggioranza delle vittime sono civili musulmani.

Le due insurrezioni in Thailandia e nelle Filippine hanno inibito lo sviluppo del cosiddetto triangolo della crescita economica. Le insurrezioni non hanno fermato l’integrazione regionale nel Sud-Est asiatico, non tanto da marginalizzare il sud della Thailandia e il sud delle Filippine rispetto agli sviluppi generali.

 

Cerchiamo di definire il ruolo della Cina nel sistema internazionale e regionale. In che modo l’ascesa del Dragone influenza lo sviluppo delle relazioni Sino-Vietnamite?

La Cina rappresenta un’opportunità economica per tutta l’Asia sud-orientale ed è ben integrata nelle strutture dell’ASEAN. Nel 1999 e nel 2000 la Cina ha firmato accordi a lungo termine nel quadro di collaborazione con tutti i dieci membri dell’ASEAN. Questi accordi di scambio e di cooperazione ad alto livello sono previsti regolarmente, a tutto campo e in settori diversificati.

Per analizzare le relazioni tra la Cina e il Vietnam occorre tenere conto anche della dimensione del legame tra i partiti reggenti nei due Paesi. La relazione è asimmetrica. Il Vietnam tenta di mantenere la propria autonomia pur riverendo il ruolo preminente della Cina. Il legame è ampio e profondo. Ci sono due elementi sostanziali di rivalità: la Cina ha un avanzo commerciale di circa 12 miliardi di dollari all’anno, e i due Paesi si scontrano per le rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale.

Il Mar Cinese Meridionale è stato un focolaio di problemi quest’anno. Ma il Vietnam ha mandato due inviati speciali in Cina per organizzare summit di alto livello finalizzati a risolvere le dispute territoriali. Il Vietnam e la Cina si sono scambiati commenti taglienti durante la conduzione di pattuglie navali nel Golfo del Tonchino. Il Vietnam, cerca di gestire le sue relazioni bilaterali con la Cina attraverso un Joint Steering Committee, a livello di vice primo ministro, e di coordinare tutti gli aspetti politici. Il Vietnam cerca anche di coinvolgere la Cina nell’ASEAN per rendere il suo comportamento più prevedibile. Infine, il Vietnam usa le sue relazioni con le altre grandi potenze – Stati Uniti, Giappone, India e Russia – per controbilanciare la Cina.

 

(1. continua)

M. Dolores Cabras

Lo scacchiere fra Cambogia e Thailandia

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Da anni presso il tempio Khmer di Preah Vihear si consumano scontri e scaramucce tra i due Paesi asiatici. In realtà la località al confine tra i due Stati non è altro che un terreno di confronto politico tra i due paesi, per molto tempo separati da interessi contrapposti e oggi riavvicinati in seguito all’esito delle ultime elezioni in Thailandia

I FATTI – Qualche giorno fa l’ennesimo segno di distensione al confine tra Cambogia e Thailandia. Le truppe cambogiane sotto la guida del Generale Kun Kim rispondono all’ordine del leader Hun Sen e richiamano un contingente di 1800 uomini dall’avamposto nei pressi del tempio Preah Vihear. E’ la quinta volta dal mese di luglio che si assiste ad una operazione di ritiro. Il sito, testimonianza del picco della civiltà Khmer, è oggetto di un’aspra contesa tra Phnom Phen e Bangkok che risale alla metà del secolo scorso per la definizione dei confini fra l’antico Siam e i possedimenti coloniali francesi di allora.

 

LA STORIA – Il tempio è stato assegnato alla Cambogia dalla Corte di Giustizia Internazionale nel 1962 e in seguito dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 2008 per la sua radice comune con il celebre sito di Angkor Watt. Decisioni queste che Bangkok non ha mai pienamente accettato, alimentando così una serie di scontri nell’ultimo decennio: nel 2001, poi ancora nel 2009 fino a episodi più recenti, l’ultimo dei quali lo scorso febbraio, terminato con l’arresto in Cambogia di alcuni nazionalisti thailandesi.

UN DELICATO EQUILIBRIO – Questi precedenti dimostrano che entrambi i paesi hanno utilizzato questo fazzoletto di terra al confine per motivi di orgoglio nazionale e di politica interna più che come campo di battaglia per uno scontro diretto, che al momento andrebbe a urtare questioni delicate come: la credibilità dell’ASEAN, del quale fanno parte entrambi i paesi; i rapporti con vicini in ascesa come Malesia e Vietnam; infine, in una più ampia prospettiva, gli interessi di Stati Uniti e Cina.

Infatti Bangkok può contare sull’appoggio di Washington grazie alla sua posizione privilegiata nell’area, vicina a territori “caldi” come la Birmania. D’altra parte in questi ultimi anni il signore di Phnom Phen ha stretto rapporti sempre più intimi con Pechino, aumentando così la sua influenza come paese emergente e il suo potere in Cambogia. Per ovviare alla palese inferiorità militare, Hun Sen avrebbe utilizzato gli episodi al confine come mezzo di propaganda in patria.

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LO ZAMPINO DI THAKSIN – Sembra che l’ex generale cambogiano abbia definitivamente abbracciato la strada della distensione dopo l’esito delle elezioni in Thailandia che hanno riportato al potere il PTP (Pheu Thai Party) guidato dalla premier Yingluck Shinawatra, sorella (e quindi “portavoce”) di Thaksin, noto magnate delle comunicazioni e protagonista assoluto della scena politica thailandese degli ultimi 15 anni.

Accusato di corruzione e imputato in diversi processi, alla fine del 2006, mentre si trovava all’estero, il premier subì un colpo di stato, fu esiliato dalla politica per cinque anni, i suoi beni furono congelati e il paese andò di nuovo alle urne. Shinawatra rimase quindi lontano dalla Thailandia per più di due anni. Nel 2008, per sfuggire alla sentenza della corte suprema che lo condannava due anni di reclusione per conflitto d’interessi, rinunciò a rimpatriare e si recò invece alle Olimpiadi di Beijing. In seguito fu proprio Hun Sen a offrire aiuto e asilo a Thaksin, nominandolo consigliere economico della Cambogia nel 2009.

A questo punto nella avvincente partita geopolitica del Sudest Asiatico si è arrivati a una sorta di paradosso. La distensione, resa possibile dalle novità thailandesi, mette gli scontri intermittenti sotto una nuova luce. Prima del “ritorno” di Thaksin, le scaramucce, indice di un conflitto latente tra un partner-USA e un nuovo protetto della Cina, avevano fatto emergere preoccupazioni per l’equilibrio geopolitico della zona.

Ora invece, sembra quasi che gli stessi scontri, non sfociando in un conflitto vero e proprio, possano in qualche modo bilanciare i macrointeressi contrapposti. La presenza di due governi alleati tra loro, quindi, entrambi in ottimi rapporti con Pechino, scuote lo scenario e rianima il gioco.

Valeria Giacomin

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Nella testa del colonnello

Perché Gheddafi non si arrende? La risposta a questa domanda sembra impossibile da trovare: braccato in tutto il paese, cacciato dal suo rifugio nella capitale e con sempre meno truppe al suo fianco, tutto farebbe pensare alla resa come unica uscita per il Colonnello. Tutto ciò è vero solo se pensiamo con la nostra testa. Ma entriamo per un attimo nella sua

 

PROSPETTIVE DIVERSE – Ne avevamo già parlato per quanto riguardava il programma nucleare iraniano (v. Gli occhi degli altri): a volte è necessario osservare i fatti anche dal punto di vista avversario – anche se non lo condividiamo per nulla – per capirne i comportamenti. Nel caso di Gheddafi, sarebbe facile ascrivere il suo comportamento a un semplice delirio di onnipotenza; come spesso accade vi sono invece ragioni più pratiche.

 

BATNA – Partiamo da un elemento molto comune in diplomazia: il concetto di “BATNA” (Best Alternative to a Negotiated Agreement). In breve e semplificando, si tratta semplicemente di capire quale alternativa una delle parti ritiene di avere se il negoziato dovesse raggiungere una situazione non accettabile. Ovvero: sono davvero costretto a negoziare? Oppure posso lasciare perdere il negoziato perché ho un’alternativa o linea d’azione che è migliore dell’accordo che vedo davanti a me?

Sembra complicato, ma un esempio pratico, al di fuori delle relazioni internazionali, può aiutarci a capire. Se sto comprando una casa e non riesco ad abbassare il prezzo quanto vorrei, che alternativa ho? Se tutte le altre case sul mercato costano troppo e rischio di rimanere in mezzo a una strada, questo è sicuramente meno allettante del dover pagare un po’ di più di quanto preventivato. In tal caso mi troverò costretto a cercare comunque un accordo anche se il prezzo risulterà un po’ più alto.

In questo caso il mio BATNA, la mia alternativa, ovvero il rimanere in mezzo alla strada, è debole… e se la mia controparte rimane inamovibile, potrei essere costretto ad accettare i suoi termini.

Nel caso invece la mia alternativa sia poter andare da un altro venditore per trattare per un’altra casa ugualmente valida, potrei ritenere questa opzione migliore del dover accettare ora un prezzo troppo alto. In questo caso il mio BATNA è più forte e mi permetterà di negoziare più a cuor leggero e, nel caso, smettere anche di trattare per andare appunto a guardare altrove.

 

LE OPZIONI DI GHEDDAFI – Torniamo ora alle relazioni internazionali e alla Libia.

Gheddafi sa che se si arrende ogni trattativa risulterebbe molto negativa per lui. Accusato dal Tribunale Internazionale dell’Aia e con la prospettiva di una nuova Norimberga per lui e i figli in patria, l’esito più plausibile è il carcere a vita o molto più probabilmente la condanna a morte. Qualunque negoziato diretto porterebbe a questo. Del resto ammettere la sconfitta e andare in esilio volontario con un messaggio di termine di ostilità costituirebbe per lui un’umiliazione pubblica che non è nel suo carattere accettare.

Che alternativa ha allora? Qual è il suo BATNA? Gheddafi sa che il suo futuro se non si consegna è di fuga e lotta continua, ma magari anche di rifugio all’estero in uno dei paesi a lui amici. Inoltre, nella sua mentalità sempre attenta a una retorica di resistenza e di eroismo berbero, tutto questo contribuisce a fare di lui un simbolo tra i suoi sostenitori; quest’ultima possibilità forse è una speranza reale solo nella sua mente, ma comunque per lui risulta di vitale importanza.

 

SCELTA INEVITABILE – Per quanto tali prospettive di fuga e lotta perenne siano oggettivamente scarsamente appetibili, lo sono comunque di più di una resa che lo condurrebbe alla morte o all’umiliazione. La fuga gli consente almeno la speranza di sopravvivere e, almeno nelle sue intenzioni, di un futuro ritorno al potere.

Il suo BATNA dunque, pur essendo molto discutibile, è per lui comunque migliore di qualunque risultato potrebbe ottenere consegnandosi.

Siamo dunque davvero sorpresi che non si sia ancora arreso? Il problema con Gheddafi, come notano alcuni giornali nostrani, è che l’accusa del tribunale dell’Aia, per quanto dovuta, ha chiuso la porta a ogni possibilità di resa.

 

Lorenzo Nannetti

Game over (?)

Dopo più di 150 giorni di conflitto, i ribelli sono entrati a Tripoli e stanno gradualmente prendendo il controllo di zone sempre più ampie della capitale libica. Ciò che ha sorpreso è stata la velocità dell’avanzata degli ultimi giorni e la relativa mancanza di resistenza del regime proprio nella propria roccaforte. Siamo alla fine del regime di Gheddafi? Vale la pena osservare più da vicino gli eventi per capire quale è la strategia che ha permesso un così rapido cambiamento. Quanto è grande il ruolo della Nato e quanto lo è quello dei ribelli?

CAPOVOLGIMENTO – L’avanzata dei ribelli negli ultimi giorni, e soprattutto nelle ultime ventiquattro ore, contrasta decisamente con la lentezza e l’incertezza delle operazioni degli ultimi mesi. Le notizie dal fronte erano spesso incomplete e contraddittorie: un giorno veniva annunciata la liberazione di una città, il giorno dopo lo stesso evento veniva smentito. E’ proprio il caso di dire che la nebbia di guerra (fog of war) dominava la situazione sul campo, data anche la difficoltà di ottenere informazioni indipendenti nei vari fronti di guerra. Ora però le dichiarazioni trionfali dei ribelli vengono verificate con maggiore accuratezza dai tanti giornalisti presenti a Tripoli che hanno visto con i loro occhi la gente riversarsi festosa per strada. Ma quali elementi hanno contribuito a determinare un cambiamento così repentino della situazione?

COORDINAMENTO NATO – Nell’ultimo mese ha conseguito maggiori successi uno dei fattori sui quali le nazioni occidentali contavano maggiormente per risolvere la situazione: il coordinamento delle operazioni dei ribelli grazie all’ausilio di istruttori e consulenti NATO. Come già avevamo spiegato (v. La via d'uscita ) i ribelli, seppur numerosi, non avevano infatti alcuna coordinazione e spesso le loro offensive risultavano disordinate e facile preda di imboscate e delle linee difensive dei lealisti.

Ora l’offensiva finale contro la capitale è stata eseguita in maniera più pianificata, con i comandi NATO per primi ad avvertire che sarebbe avvenuta entro poche ore e gli insorti che sono avanzati in maniera più metodica quartiere per quartiere mentre contemporaneamente elementi infiltratisi in città nei giorni scorsi hanno avvertito la popolazione di tenersi pronta a scendere in piazza. Alcuni elementi sembrano essere giunti anche via mare. Mentre la NATO continuava a inchiodare le ultime unità lealiste in sacche di resistenza nel paese dalle quali non potevano – e non possono – più uscire, i ribelli potevano invece muovere indisturbati.

Va detto che la confusione delle ultime ventiquattro ore impedisce di avere una visione ancora chiara dei singoli eventi, ma si può affermare come l’entrata dei ribelli in città abbia affrettato notevolmente la caduta di un regime che comunque aveva dato segni di cedere dall’interno già qualche giorno fa, con l’arrivo in Italia del numero due del regime Abdel Jalloud. Se perfino i fedelissimi abbandonano la nave, motivavano molti analisti, vuol dire che ormai l’affondamento è prossimo.

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CROLLO IN CORSO – Sarebbe dunque sbagliato affermare che il crollo del regime libico sia completamente inaspettato. Secondo la portavoce della NATO Oana Lungescu infatti è il risultato dell’accumularsi di missioni di bombardamento che hanno danneggiato o distrutto oltre 4000 bersagli negli ultimi quattro mesi, erodendo lentamente ma costantemente la capacità di difesa del regime – un trend che è rimasto quasi sotto silenzio nei media nostrani fino a ieri.

I lealisti hanno così dovuto concentrarsi in alcune roccheforti economicamente importanti (come Brega, per il petrolio) o dall’elevato valore simbolico (come i dintorni di Misurata, per mostrare come fosse ancora sotto assedio), ma rimanendo di fatto isolati gli uni dagli altri.

Il Consiglio Nazionale Transitorio (CNT) di Bengasi ha potuto sfruttare una maggiore mobilità delle proprie forze, migliori rifornimenti e fondi grazie al supporto occidentale (oltre alle armi fornite da alcuni governi, alcuni finanziatori tra cui l’ENI hanno versato centinaia di milioni di euro nelle casse del CNT per favorirne la vittoria in cambio di assicurazione sul futuro sfruttamento dei giacimenti  petroliferi e degli impianti di estrazione) e la guida NATO, che ha consentito una veloce avanzata soprattutto da ovest.

Ad ogni passo in avanti, per quanto lento, i ribelli hanno guadagnato morale e nuove reclute, mentre l’avversario subiva gli effetti opposti.

FUGA PER GHEDDAFI? – Rimane il dubbio comunque che il crollo finale del regime che sta avvenendo in queste ore possa essere stato favorito da una fuga del Rais – nonostante le dichiarazioni pubbliche in senso contrario – magari concordata con gli avversari come hanno riportato nei giorni scorsi alcune fonti di intelligence. In tal caso, l’unico dubbio che rimane riguarda la fine della resistenza lealista: Gheddafi può far terminare lo spargimento di sangue con un suo ordine di resa, o provocare ulteriori morti con la richiesta di una resistenza ad oltranza ai suoi ultimi sostenitori.

Sono infatti ancora attivi parte dei soldati della ormai famosa 32a brigata del figlio Khamis, dato per morto più di una volta. Che sia lui o qualcun altro a guidare questi ultimi e meglio armati lealisti, il punto importante è che un loro arrivo nella capitale a difendere il bunker del rais potrebbe prolungare il conflitto di qualche giorno e renderlo ancora più sanguinoso, perché la NATO potrebbe decidere ora di non voler bombardare la città dall’alto per evitare di colpire i ribelli per errore. Già si hanno notizie di scontri in città dovuti al tentativo di contrattacco delle ultime forze del regime e si teme che le forze di Gheddafi possano voler colpire volontariamente anche i civili in un ultimo disperato tentativo di respingere gli oppositori ad ogni costo, sfruttando appunto la riluttanza della NATO ad intervenire dal cielo.

Le altre sacche di soldati fuori dalla capitale appaiono invece ora sostanzialmente ininfluenti e destinate alla resa, soprattutto se ne verrà garantita la salvaguardia.

Lorenzo Nannetti

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Un agosto di proteste ed emergenze

Caffè Nero – Il mese caldo è iniziato con in primo piano ancora l'emergenza siccità e carestia nel Corno d'Africa e con l'intensificarsi di manifestazioni e rivolte che dagli  infuocati paesi arabi si sono  pian piano espanse  in molte regioni dell'Africa subsahariana. La povertà della popolazione e la corruzione delle autoritarie élites politiche stanno causando focolai di disordine e ribellione in molti Paesi

SOMALIA – Continua a consumarsi inesorabile il dramma. La carestia dilaga e il tasso di mortalità ha raggiunto livelli record. E, come se non bastasse, il 5 Agosto scorso  un convoglio di aiuti del programma alimentare mondiale  è stato colpito a Mogadiscio, provocando almeno dieci morti e molti feriti. La dinamica e i colpevoli sono ancora da definire, ma resta lo  scenario inquietante di un' emergenza umanitaria che si estende a macchia d'olio. Aumentano le aree della Somalia che fanno ufficialmente parte della mappa della carestia e secondo alcuni rapporti diffusi un paio di giorni fa, tutta la Somalia meridionale potrebbe essere distrutta da tale emergenza.

Le conseguenza gravissime della siccità, dilagano anche nei restanti paesi del Corno d'Africa tra cui Kenya e Uganda. Ma è la situazione somala quella che appare più critica, a causa della martoriata storia politica del paese  che da vent'anni è  teatro di una guerra civile che non trova via d'uscita.

BURKINA FASO – La crisi ivoriana ha messo e continua a metter in forte  difficoltà il Burkina Faso dopo aver bloccato per mesi l'esportazione di cotone; un commercio che garantiva un minimo di vitalità ad una delle economia più povere del paese. Nulla è valso contro gli aumenti vertiginosi dei prezzi, nonostante le dure rivolte da parte dei piccoli e grandi commercianti.

TOGO – Il Togo, piccolo paese dell’Africa occidentale, vanta un territorio ricco di giacimenti di fosfati ed è per questo che risulta ad oggi il quarto esportatore al mondo. Ma come sempre accade, i proventi di tali ricchezze non garantiscono crescita o abbassamento della soglia di povertà della popolazione. Anche in questo caso la società è stanca della iniqua distribuzione delle ricchezze e sulla scia del Senegal, è scesa in piazza.  Ogni giovedì l'opposizione anima il centro del paese  e manifesta contro il regime di Faure Eyadéma, rieletto nel 2010 con palesi, ma taciuti brogli elettorali.

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NIGERIA – Il 4 agosto scorso è stato reso pubblico un video in cui compaiono bendati e a terra, due tecnici, di cui uno italiano, rapiti a Maggio scorso. I militari che si mostrano accanto a loro affermano di appartenere all'organizzazione terroristica al-Qaeda.

DELTA DEL NIGER – La situazione allarmante è stata resa da un rapporto Onu che evidenzia come il delta del Niger stia progressivamente morendo. Per anni e anni si è sfruttata questa terra per il prezioso oro nero, facendo leva sulle poverissime condizioni della popolazione. La gente è costretta a vivere utilizzando acqua inquinata e mangiando pesce ricco di petrolio. Da tale rapporto si evince anche un'accusa all'azienda petrolifera Shell, per aver inquinato la zona per più di mezzo secolo e  andando a ledere i fondamentali diritti umani. Quest'area è stata colpita da gravi danni all'agricoltura e di conseguenza è messa a repentaglio la sicurezza dell'intera popolazione.

GABON – Sull'esempio, non solo dei paesi arabi, ma anche ad esempio del Senegal, il popolo del Gabon è sceso a manifestare contro un governo dittatoriale e corrotto.  La democrazia del Gabon è palesemente una maschera dietro la quale si cela un potere a carattere dinastico e despotico. La caratteristica di queste violente manifestazioni , dove si sente urlare  “Basta”, è la spontaneità e la rapida diffusione che si è seminata all'interno della società civile , coesa e decisa ad abbattere sopraffazioni.

Adele Fuccio

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Per chi suona la campana

Nella settimana che per le principali organizzazioni internazionali segna la fine dei lavori per la pausa estiva le rotture di Arabia Saudita e Russia con la repressione del regime di Assad rendono la situazione in Siria ancora più drammatica, l’America appena uscita dall’incubo default si trova per la prima volta declassata dalle tanto temute agenzie di rating. E intanto le borse europee viaggiano sempre più in ribasso verso un futuro sempre più incerto. Anche sotto l’ombrellone la campana suona per tutti

EUROPA – Meeting delicatissimo all’orizzonte in quel di Ginevra dove ogni membro dell’Associazione degli Stati dell’Asia dell’Est (ASEAN) incontrerà cinque potenze nucleari. L’incontro segnerà la fine del periodo di stallo dei negoziati che durava ormai da un decennio

Lunedì 8 – Riprende il processo all’ex Primo Ministro ucraino Julia Timoshenko accusata di abuso d’ufficio nella fornitura di gas naturale alla Russia a prezzi di favore.

Lunedì 8 – L’aviazione della Federazione Russa e il Comando di Difesa dello spazio aereo del Nord America (NORAD) condurranno in Alaska un’esercitazione congiunta anti-terrorismo.

Mercoledì 10 – La portaerei francese di classe Charles De Gaulle lascerà la Libia per fare rotta verso le coste patrie di Tolone dove subirà un complesso processo di manutenzione

Venerdì 12– I membri dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva si incontreranno ad Astana in Kazakhstan per un meeting informale. Il Presidente russo Medvedev parlerà degli sforzi russi nell’influenzare i processi in corso in Africa e Medio-Oriente. Il 14 e il 15 Agosto il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è atteso in una dacia fuori Mosca per un incontro informale senza ordine del giorno con il Primo Ministro Vladimir Putin

GRANDE MEDIO-ORIENTE – Venerdì 12 – Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è convocato per discutere degli sviluppi tragici della situazione in Siria, non è scontato che le recenti aperture  della Russia alla mediazione portino la comunità Internazionale verso misure più concrete delle dichiarazioni di condanna che continuano a riempire inutilmente  le agenzie di stampa.

Continua il presidio ad oltranza dei manifestanti israeliani a Tel-Aviv, l’unica democrazia mediorientale sembra ormai fiaccata dai continui sacrifici chiesti dal Governo in nome della sicurezza nazionale, ormai ampliamente raggiunta, nonostante le continue frizioni con i territori palestinesi e il confine libanese.

ASIA – 8-13 Agosto – Continua il mastodontico “war game” dell’esercitazione militare multinazionale in Mongolia soprannominato “Khaan Quest 2011”. Le Forze Armate di Stati Uniti, Cambogia, India, Canada, Giappone, Cina, Singapore e Vietnam sono chiamate a dimostrare la propria efficienza in uno degli scenari più caldi di tutto il globo.

8-10 Agosto – Incontro tra Capi di Stato laotiani e vietnamiti nel tentativo di migliorare le relazioni bilaterali tra i due paesi.

AMERICHE – Il Governo Venezuelano ha annunciato la liberazione di migliaia di prigionieri politici di basso profilo per prevenire lo scoppio di proteste di massa nel paese. Il tumore che ha colpito Chávez sembra aver addolcito la stretta del caudillo sul paese che sogna una proprio percorso verso una maggiore libertà d’espressione.

10-11 AgostoL’Unione degli Stati Sud-Americani terrà un incontro tra i rappresentanti degli Stati membri a Buenos Aires per parlare di previsioni sulla crescita economica della regione e della situazione dei mercati internazionali e dei suoi influssi sul MERCOSUR.

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Anniversari

11 Agosto 2003– La NATO prende il comando della forza di peacekeeping in Afghanistan, che diviene la prima grande operazione al di fuori dell'Europa nei suoi 54 anni di storia. A otto anni dal suo inizio la missione stenta ancora a trovare il bandolo della matassa in un’area che appare ormai immune alla stabilità e dove ogni contingente continua a versare quotidianamente il proprio tributo di sangue.

12 Agosto 1953- L’URSS fa detonare in Kazakhstan la sua prima bomba all’idrogeno, la “Bomba Zar” aveva un potere esplosivo di 57 megatoni pari a 4000 volte quello della bomba che rase al suolo Hiroshima

Fabio Stella

[email protected]