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Labour in progress

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La volata per la leadership del Labour Party britannico è prossima al traguardo finale e mai come in quest’occasione l’ordine d’arrivo appare difficilmente prevedibile. Tuttavia, la maggioranza degli osservatori accredita un lieve vantaggio a David Miliband, Segretario di Stato per gli Affari Esteri del Governo Brown e grande sostenitore del New Labour di Tony Blair

DECLINO DEL NEW LABOUR – Il progressivo sgretolamento dell’elettorato laburista, certamente una delle principali cause della debacle delle elezioni politiche di maggio ha origine con molta probabilità durante il terzo ed ultimo governo di Tony Blair.

In quel preciso periodo storico la spinta innovatrice del New Labour subiva una graduale battuta d’arresto che con la successione di Gordon Brown sarebbe stata sempre più netta ed inarrestabile.

Un’incapacità di rinnovarsi che ha favorito, oltre al classico astensionismo, anche uno spostamento di voti, un piccolo ma decisivo “travaso” in favore del partito dei Liberal Democratici guidato da Nick Clegg, attuale vice Primo Ministro della coalizione di Governo guidata da David Cameron.

L’obiettivo primario per chiunque coglierà l’eredità di Blair e Brown nella leadership del partito sarà quello di lubrificare gli ingranaggi dando un nuovo e chiaro segnale d’indirizzo politico. Certamente non sarà un compito agevole per lo meno inizialmente quando potrebbero continuare a prevalere all’interno del Labour Party le cosiddette “correnti ideologiche”.

CORSA A CINQUE – I cinque candidati rappresentano al meglio le diverse anime politiche che in questo momento caratterizzano il Partito Laburista.

  • Diane Abbot, prima donna di colore deputata nella storia della Gran Bretagna, ha maturato un’esperienza trentennale all’interno del partito. Nota per aver votato contro la guerra in Iraq è una forte sostenitrice dei diritti umani.

  • Ed Balls, ex Ministro del Tesoro negli anni 2006/2007 ha posto al centro del proprio programma la giustizia e l’istruzione con un occhio di riguardo alla riqualificazione del pubblico impiego.

  • Andy Burnham è probabilmente il candidato meno noto. Nonostante la sua lunga militanza nel partito non ha mai ricoperto incarichi di particolare rilievo. Meritocrazia e abbattimento degli ostacoli sociali sono i suoi cavalli di battaglia.

Ed infine lo scontro “casalingo” tra i fratelli Miliband, probabilmente il più atteso.

David Miliband ha curato il settore comunicazioni dei Labour nella storica campagna elettorale vinta da Tony Blair nel 1997 e nel 2005 è divenuto suo Ministro dell’Ambiente. Come già anticipato ha ricoperto anche il ruolo di Ministro degli Esteri nell’esecutivo di Gordon Brown.

Naturale successore del progetto del New Labour, dovrà vedersela tra gli altri con il fratello Edward Miliband, ex Ministro per l’Energia. Più tradizionalista, Ed vorrebbe riproporre un partito più socialista favorendo maggiori interventi dello Stato sul piano economico.

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LA SOLUZIONE DELL’ENIGMA – Le votazioni sono ancora in atto: parlamentari e militanti sono chiamati in queste ore a esprimere la propria preferenza.

Il dubbio sulla leadership ed il conseguente annuncio del vincitore verrà svelato il prossimo sabato durante il Congresso.

Il nuovo leader avrà da subito il compito di presiedere all’annuale Conferenza laburista che si terrà dal 26 al 30 settembre a Manchester. Durante questo importante appuntamento verrà probabilmente svelato il nuovo indirizzo programmatico del partito sia per ciò che concerne l’imminente opposizione al governo sia in vista delle future tornate elettorali.

La domanda che gli elettori del partito si pongono potrebbe essere la seguente: “L’ambizioso progetto di apertura e rinnovamento al quale diede vita Tony Blair avrà un seguito e verrà riproposto sotto una veste rinnovata oppure vi sarà un ritorno ad una maggiore ortodossia laburista?” Difficile a dirsi.

Ad ogni modo non sarà semplice ritrovare quello spirito che 13 anni fa numericamente fece registrare una storica vittoria per la sinistra britannica ma l’obbligo è senza alcun dubbio quello di tentare ogni strada percorribile per ridare linfa ad un partito che, politicamente parlando, pare aver momentaneamente smarrito l’ago della bussola.

Andrea Ambrosino [email protected]

Focus – A cavallo del confine: tra Europa ed Eurasia

Il confine dell'Europa si è progressivamente ampliato verso est, arrivando a lambire lo spazio un tempo occupato dall'Unione Sovietica. I cambiamenti storici e le diverse influenze provenienti da est e da ovest rendono il limes europeo e, soprattutto, i Paesi che vi si affacciano, un delicato punto di incontro tra la storia e l'attualità. In questo Focus vi proponiamo un viaggio in Romania e Moldavia: due Paesi con grandi affinità che si guardano dai due lati di un confine che ne determina, oggi, l'evoluzione. Eccovi la prima parte.

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UN CONFINE DI TROPPO – La storia del confine tra la Moldavia e la Romania va molto indietro nel tempo: lingua, tradizioni, costumi, musiche e danze, così come altre usanze nelle regioni di confine testimoniano di due etnie, quella moldava e quella rumena, simili se non identiche tra loro (Composizione etnica della Moldavia: Moldavi/Rumeni 78.2%; Ucraini 8.4%; Russi 5.8%; Gagauzi 4.4%; Bulgari 1.9%; altri 1.3% – Composizione etnica della Romania: Rumeni 89.5%, Ungheresi 6.6%, Rom 2.5%, Ucraini 0.3%, Tedeschi 0.3%, Russi 0.2%, Turchi 0.2%, altri 0.4% – Fonte: Radio Free Europe/Radio Liberty).

La storia ci racconta che questo è dovuto al fatto che dal Medioevo la regione è appartenuta per lungo tempo al medesimo Stato, il principato di Moldavia (1389-1812), rientrante nella sfera di influenza politica ottomana. Dopo il conflitto russo-turco del 1806-1812 la parte orientale del principato moldavo situato tra i fiumi Prut e Dnestr fu annessa all'Impero russo come bottino di guerra. Il resto del principato è rimasto sotto l'impero ottomano (con una larga autonomia).

Nel 1862 i principati di Moldavia e di Valacchia si fusero in un unico principato romeno, in seguito rinominato Regno di Romania e divenuto indipendente dopo la guerra russo-turca del 1877-1878. Successivamente, la parte moldava del territorio appartenne all'impero russo (1812-1917), alla Romania (1918-1940 e 1941-1944), poi all’URSS (1940-1941 e 1944-1991) ed infine nacque la Repubblica di Moldavia (nel 1991).

Durante il regime sovietico (1944-1991) e soprattutto in epoca Ceausescu il confine nella regione era impenetrabile per le merci, le persone o le informazioni; subito dopo la rivoluzione rumena del 1989 e l'indipendenza della Moldavia nel 1991 il flusso di persone attraverso il confine è stato invece enorme. Attualmente lo scambio di popolazione è quasi a senso unico: i moldavi vanno in Romania a vendere i prodotti agricoli, acquistare beni (che sono più economici rispetto alla Moldavia), per visitare siti storici o per trascorrere le vacanze sui Carpazi.

Durante gli anni ’90 le relazioni tra Romania e Moldavia sono state altalenanti, spesso critiche. Nel periodo 1990-1993 un fronte popolare abbastanza ampio in Moldavia promosse l'idea di unificazione con la Romania; poi invece la vittoria alle elezioni politiche del 1994 dell’Agrarian-Democratic Party ha nuovamente orientato il Paese verso la Russia. In realtà l’idea di unificazione dei due Paesi non ha trovato mai pieno supporto nella popolazione moldava, anche per via delle posizioni politiche rumene spesso ambigue e poco rassicuranti: rimane famosa la dichiarazione del Presidente rumeno Ion Iliescu, il quale affermò che la Moldavia aveva ottenuto l’indipendenza dall’URSS ma non dalla Romania, di fatto fomentando i timori moldavi circa la possibile parità nelle relazioni tra i due gruppi. Di fatto, nessuno dei Governi succedutisi dagli anni ’90 ad oggi è stato in grado di normalizzare le relazioni tra i due Paesi, che comunque hanno siglato parecchi accordi legati alla circolazione di persone e beni.

Una spinta verso la regolarizzazione delle relazioni è stata data dall’entrata della Romania nella UE: essendo i rapporti di buon vicinato un requisito per l’ingresso nell’Unione, la Romania – che ricordiamo oggi rappresenta una frontiera esterna dell’Unione Europea – ha dovuto modificare il proprio atteggiamento verso il vicino, soprattutto in relazione alle regole per l’attraversamento della frontiera da parte di cittadini moldavi.

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TRA RUSSIA ED EUROPA – L’entrata della Romania nella UE ha però significato anche altro: da una parte lo spostamento della frontiera Europea verso est, sempre più verso la Russia; dall’altra, un cambio di passo nello sviluppo del nuovo Paese Membro, che ha beneficiato di strumenti di finanziamento più efficaci e cospicui rispetto al vicino moldavo (che pure riceve fondi dalla UE). Questo ha comportato un ulteriore approfondimento del solco delle condizioni di vita tra le due popolazioni, tanto più evidente nelle regioni di frontiera e, di conseguenza, un aumentato interesse moldavo all’avvicinamento all’Europa.

Proprio questo è uno dei nodi geopolitici dell’area, che si trova geograficamente e politicamente tra la Russia e l’Europa, con quest’ultima che cerca di penetrare le aree storicamente vicine a Mosca, la quale ovviamente non vuole “perdere terreno”.

Se da una parte dunque, anche la Moldavia è attratta dalle opportunità fornite dall’Europa, dall’altra però il legame con la Russia rimane insolubile e di difficile bilanciamento rispetto alla volontà di avvicinamento all’Europa. Mosca infatti ricopre una posizione di forza assoluta nell’area, che sfrutta per contrastare l’aumento dell’influenza europea nelle sue “aree di interesse privilegiato”, cioè quei Paesi confinanti che un tempo erano parte dell’URSS. E per far questo può contare su strumenti di vario tipo. Emblematico, ad esempio, è il recentissimo caso relativo alle esportazioni di vino moldavo verso Bielorussia, Kazakhstan e Russia: Mosca ha pressato i partner bielorussi e kazaki verso un blocco dei commerci di vino con Chisinau (l’esportazione di vino vale alla Moldavia il 10% delle esportazioni totali e l’80% di questo traffico è verso la Russia), mettendosi così nella condizione di acquisire un ulteriore elemento di influenza sulle decisioni moldave.

Pietro Costanzo, Jacopo Marazia, Alberto Rossi, Davide Tentori, Stefano Torelli

23 settembre 2010

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Anni ruggenti

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L'ultimo numero dell' “Economist” ha dedicato un inserto speciale alla straordinaria crescita di cui è protagonista l'America Latina. Il continente potrà giocare davvero un ruolo importante nei prossimi anni? Le carte in regola sembra averle anche se, come sempre, non è tutto oro ciò che luccica.

IL DECENNIO DEL SUDAMERICA? – Che gli anni '10 siano la decade in cui il continente latino possa iniziare a giocare un ruolo da protagonista sullo scenario globale? E' la domanda che si pone l' “Economist” nel numero pubblicato la scorsa settimana e che ospita un inserto speciale dedicato interamente alla straordinaria crescita economica che sta vivendo questa regione. Il “Caffè” l'aveva già ipotizzato alcuni mesi fa. Intendiamoci, lungi da noi voler apparire presuntuosi: non ci sogniamo neppure di metterci in competizione con il settimanale londinese. Però, se persino una rivista così importante sceglie di dedicare tutto questo spazio ad un continente di cui in Europa – e soprattutto in Italia – si parla colpevolmente troppo poco, un motivo ci sarà. Probabilmente il decennio che sta iniziando non sarà appannaggio solamente dell'America del Sud, però c'è da scommettere che questa zona farà sempre più parlare di sé. Vediamo perchè.

 

I PUNTI DI FORZA – Sono trascorsi ormai duecento anni tondi dall'inizio del processo di indipendenza degli Stati dell'America Latina dalla madrepatria, Spagna o Portogallo che fosse. In questi due secoli queste nazioni raramente sono state capaci di intraprendere percorsi di sviluppo stabili e duraturi, a dispetto di condizioni naturali e climatiche davvero invidiabili. Lo scarso dinamismo delle società, caratterizzate dal dominio delle élites dei proprietari terrieri sulle masse nullatenenti, insieme all'endemica instabilità politica, giocarono un ruolo preponderante nell'impedire all'America Latina di compiere lo stesso percorso virtuoso dei “fratelli” settentrionali, Stati Uniti e Canada.

Oggi, però, la tendenza si sta invertendo con chiarezza. Periodi di congiuntura macroeconomica favorevoli e una ritrovata stabilità politica da vent'anni a questa parte hanno creato il clima ideale per una crescita che, attualmente, sembra inarrestabile: basti pensare che la crisi finanziaria che ha rischiato di mettere in ginocchio Europa e Stati Uniti ha soltanto colpito di striscio l'America Meridionale (anche se Messico e il resto del Centroamerica ne hanno risentito maggiormente per la maggiore dipendenza dall'economia statunitense).

I tassi di crescita del PIL sono sorprendentemente alti e stabili: nell'ultimo quinquennio, secondo i dati riportati da Banca Mondiale e Cepal (Commissione Economica per l'America Latina e i Caraibi, facente capo all'ONU), l'intera regione è cresciuta ad un tasso medio del 4%, mentre il reddito pro capite è cresciuto del 2,7 %. Il tutto si è tradotto in una crescita reale a causa dei tassi di inflazione finalmente contenuti (ma non dappertutto, vedere ad esempio l'Argentina dove l'aumento dei prezzi si è mantenuto in doppia cifra percentuale) e a politiche di bilancio volte ad evitare pericolosi disavanzi che avevano contribuito a creare crisi devastanti come quella del debito pubblico degli anni '80 (definiti non a caso il “decennio perduto”).

Ma perchè l'America Latina ha questa performance sbalorditiva mentre il Vecchio Continente langue nella stagnazione? La risposta principale è che la regione ha tutto quello che serve alla Cina. La longa manus di Pechino è giunta anche qui, non tanto in termini di investimenti come in Africa quanto di commercio. Le materie prime di cui è dotata l'America Latina sono varie e ingenti: basti pensare che il 15% delle riserve di petrolio risiede in questa regione, e che potrebbero anche aumentare alla luce delle recenti scoperte in Brasile e delle esplorazioni che sta conducendo un po'dappertutto il colosso dell'energia Petrobras.

Ma non c'è solo il petrolio: rame in Cile, gas naturale in Bolivia, agricoltura ed allevamento in Brasile ed Argentina. Il Brasile è diventato il primo esportatore di carne del mondo ed è all'avanguardia nella produzione di biocarburanti.

 

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LE CRITICITA' – Il Sudamerica non è diventato di colpo l'Eldorado e non ha risolto con un tocco di bacchetta magica tutti i suoi problemi. Il “boom” economico è ancora eccessivamente dipendente dallo sfruttamento delle materie prime, che sono soggette alla volatilità dei prezzi sui mercati finanziari globali e non consentono un aumento considerevole della produttività del lavoro. Ad aggravare ulteriormente questo punto, pesano ancora i deboli sforzi in ricerca ed innovazione, per cui i Governi dedicano ancora risorse insufficienti. Inoltre, manca una leva fondamentale per lo sviluppo economico, ovvero gli investimenti. Questi ultimi sono legati al tasso di interesse: più è basso, più facilmente gli imprenditori avranno a disposizione capitali da investire. Il tasso di interesse è però generalmente alto nella regione, poiché in tale modo si cerca di comprimere verso il basso l'inflazione. E' come una coperta corta: se tiri da una parte, ti scopri dall'altra. Non si può avere tutto, ma sicuramente l'America Latina è sulla buona strada.

 

I PROTAGONISTI – L'abbiamo già detto e ripetuto, il Brasile è la “stella del Sud” destinato a diventare una grande potenza globale nei prossimi anni. Le elezioni presidenziali in programma fra poche settimane sembrano avere preso una piega ormai definita e lo schieramento guidato da Lula per otto anni dovrebbe continuare al Governo con Dilma Rousseff. Povertà estrema e criminalità elevata rimangono ancora i punti deboli dell'ex colonia portoghese, ma i progressi fatti negli ultimi anni lasciano ben sperare.

Il Messico è l'attore fondamentale in America Centrale, ma a nostro avviso è destinato ad una crescita più lenta e difficoltosa. L'insicurezza e la violenza legate al narcotraffico, così come il legame stretto con gli Stati Uniti, danno meno slancio al gigante centramericano.

Cile e Argentina sono stati definiti i “gemelli diversi”: simili per cultura e popolazione, sono in realtà molto differenti per le performance economiche. Se il primo è ben più dinamico e ha saputo affrancarsi dalla dipendenza dalle materie prime, la seconda è frenata dagli scontri tra gruppi di potere politico (i Kirchner) ed economico (gli agricoltori) oltre che da politiche poco inclini al mercato e all'efficienza.

E il Venezuela? Oscillante tra democrazia e una pericolosa deriva autoritaria, il Paese caraibico è la perfetta espressione della teoria chiamata “maledizione delle risorse”. Il petrolio di cui dispone Caracas è la croce e delizia dell'economia nazionale: non a caso, il Venezuela è uno dei pochi Stati dell'area a trovarsi in recessione.

 

Davide Tentori

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Guerra Fredda: solo un ricordo? – seconda parte

Il “Caffè” pubblica oggi la seconda parte dell’intervista al Generale Saverio Cascone. E’ ancora il caso di parlare di un confronto “totale” tra Stati Uniti e Russia? Probabilmente no. Indubbiamente, tuttavia, Mosca sta riaffermando la propria forza sull’area geopolitica di sua pertinenza, come dimostrano le vicende legate allo scudo spaziale e alla guerra in Georgia

Ho sentito parlare di “ritornello” (…è ancora guerra fredda tra Stati Uniti e Russia?). quali altri casi, Generale Cascone, bisogna prendere in considerazione al riguardo?

Vado a braccio, nel senso che l’intervista sull’argomento meriterebbe uno specifico approfondimento, in quanto i casi di presunta guerra fredda sono parecchi; mi riferisco ai più significativi riportati dalla stampa:

· lo scudo spaziale;

· la guerra in Georgia;

·il mantenimento del “controllo” sul territorio della Federazione, anche su quello ex sovietico (Caucaso, Stan Countries ecc.) e sulle basi “strategiche” (Sebastopoli in Crimea, Tartus in Siria sulla costa mediterranea).

Anche il controllo delle risorse energetiche, minerarie e, in questi ultimi tempi, anche alimentari, rientrano in questo contesto; già si parla di interesse russo per le risorse minerarie dell’Afghanistan del nord, all’uscita dal Paese da parte delle forze NATO per fine missione.

Tutto questo, in base a quali criteri viene definito “guerra fredda”?

Occorre, al riguardo, una premessa; si tratta cioè di partire dalla disastrata situazione della Russia ereditata dal Presidente Putin, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. La perestroika (la ristrutturazione di Gorbaciov) non aveva dato buoni risultati; come pure l’accaparramento di settori dell’economia e delle finanze da parte degli “oligarchi” ai tempi di Eltsin aveva ingenerato forti squilibri nella gestione del Paese. A questo si aggiunge la necessità di recuperare il consenso della popolazione in seria difficoltà (disoccupazione, criminalità, scarsa fiducia nelle istituzioni) e mantenere i limiti territoriali della Federazione, già lacerati dall’implosione.

S’imponevano, pertanto, alcune priorità; in stretta sintesi:

. sottrarre lo spazio economico di cui si erano appropriati i cosiddetti “oligarchi” e migliorare l’economia;

· impedire l’ingerenza dall’esterno sul territorio della Federazione Russa e sulla possibile sfera d’influenza di Mosca, evitando ulteriori perdite attraverso indipendenze a autonomie di altri territori;

· recuperare il consenso della popolazione attraverso il nazionalismo e i suoi valori anche con discutibili metodologie, tipiche della guerra fredda (controllo ad ogni costo dei mass media e dell’ “intelligentia” del Paese); rilanciare le Forze Armate, nonostante le forti limitazioni delle assegnazioni di fondi a loro favore.

Di qui i possibili accostamenti alla “guerra fredda” di avvenimenti ad essa successivi:

· lo scudo spaziale (stazioni di controllo della minaccia e sistemi missilistici di reazione, dislocati in due paesi europei, rispettivamente in Repubblica Ceca e in Polonia) voluto dal Presidente Bush per garantire, a suo dire, l’Europa dalla minaccia missilistica dell’Iran, fortemente  avversato dalla Russia che lo considerava una vera e propria provocazione! Lo scudo fu sostituito, con il Presidente Obama, dallo schieramento nel nord e nel sud dell’Europa di unità navali USA con tecnologia “Aegis” (difesa di 1° tempo) e dallo schieramento di missili sulla terra ferma (difesa di 2° tempo), prevedibilmente nel 2015;

· anche la guerra di Georgia rientra nella stessa logica. Alla base del conflitto dell’agosto 2008, l’opportunità (ottimisticamente valutata dal Presidente della Repubblica Mikhail Saakashvili) di porre fine alla secessione di fatto dei due territori georgiani, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud; secessione che comprometteva l’integrità territoriale della Georgia, in quanto i due territori si comportavano come stati indipendenti, anche perché protetti dai contingenti “peacekeeping” russi. Il 7 agosto 2008, reparti georgiani attaccano l’Ossezia del Sud, provocando la reazione russa: un conflitto diretto della Georgia con le truppe del Distretto Militare russo del Caucaso settentrionale, sicuramente queste ultime meglio armate ed equipaggiate, conclusosi con l’occupazione dell’Ossezia del Sud, dell’Abkhazia e di buona parte della Georgia stessa, da parte dei russi. A ottobre del 2008, le truppe russe si ritirano dal territorio georgiano mantenendo il controllo dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud; territori, questi, riconosciuti indipendenti immediatamente dalla Russia, dal Nicaragua e dal Venezuela. La valutazione ottimistica del Presidente Saakashvili era basata su un maggiore coinvolgimento degli USA in termini di supporto militare; supporto limitatosi alla sostituzione dei centri di trasmissione georgiani (neutralizzati dalle truppe russe) con le apparecchiature di una unità navale USA;

· sul piano strategico, è di questi ultimi mesi la firma del contratto di affitto, tra Russia e Ucraina, della base navale di Sebastopoli in Crimea, fino al 2042, per un importo pagato dalla Russia di 1,8 miliardi di dollari l’anno (anche se per i soli primi dieci anni), cui si aggiunge uno sconto sul prezzo del gas russo fornito all’Ucraina. La base navale di Sebastopoli, come noto, costituisce un “sistema di proiezione” della Russia nel Mar Nero, da dove, attraverso gli stretti turchi, è possibile immettersi nel Mediterraneo e, attraverso Suez, nel Mar Arabico – Oceano Indiano. Nella circostanza è stato annunciato altresì un programma di sostituzione di almeno 50 unità navali della Flotta del Mar Nero con navi di concezione più moderna e tecnologicamente più avanzate;

· per quanto si riferisce all’accaparramento delle risorse energetiche, ha avuto ampia risonanza nei mass media il collocamento, nel 2007, della bandiera russa sulla dorsale sottomarina di Lomonossov, sul fondo del polo Nord, da parte di due batiscafi russi (Mir 1 e 2), allo scopo di affermare l’appartenenza alla Russia della dorsale indicata, ricca di risorse energetiche e minerarie. Tale avvenimento ha riacceso la conflittualità relativa al possesso della dorsale in questione tra USA, Canada e Danimarca, nonostante le previste difficoltà a portare in superficie le risorse (il gas, in particolare) da considerevoli profondità (4000-4500 metri), superando temperature marine bassissime.

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Tornando all’avvenimento di partenza (la retata spionistica), secondo Lei, le spie in un mondo globalizzato hanno ancora ragion d’essere?

Stiamo parlando del secondo più vecchio mestiere del mondo, che avrà seguito e interesse finché c’è guerra, competizione e concorrenza. L’insigne analista Fukuyama aveva previsto, con la caduta del Muro di Berlino, la “fine della storia” e della guerra; e, con quest’ultima, la fine degli armamenti e dello spionaggio; Fukuyama ha rivisto e corretto la propria previsione!

L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, contro le Twin Towers, ha evidenziato che la minaccia permane nel “mondo globalizzato”, se pure con altre forma di aggressione; e con la minaccia permane l’esigenza di garantirsi, ai fini della propria sicurezza.

In conclusione, cambiano i settori di applicazione dello spionaggio, si intensifica lo spionaggio economico e tecnologico, ma continua l’infiltrazione di spie, per conoscere in tempo, più da vicino e meglio, la situazione.

Chiara Maria Léveque

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Guerra fredda: solo un ricordo?

Il Caffè intervista in esclusiva il Generale Saverio Cascone, che illustra la diatriba Usa-Russia riguardo alla retata di spie russe in territorio americano del giugno-luglio scorso, e mostra come la guerra fredda non sia affatto solo un fase di storia passata senza alcuna connessione con il presente. Un’intervista in due puntate: oggi ci soffermiamo sui fatti degli ultimi mesi, domani presenteremo le analisi a riguardo del Generale Cascone

Per cominciare, visti i suoi trascorsi di studio e di servizio, come preferisce che La chiami: Dottore, Professore, Generale?

Faccia Lei! Non mi sono preparato a rispondere a questa Sua richiesta; sarei portato a chiederLe la “domanda di riserva”. Scherzi a parte, preferisco che Lei si riferisca al mio impegno di vita militare.

Cosa Le risulta in concreto della retata verificatasi a fine giugno scorso, in alcune località degli USA (New Jersey, New York, Virginia, Massachussets)?

Dai quotidiani statunitensi, il 29 giugno scorso, viene riportata la notizia diffusa dal Ministero della Giustizia che, a seguito di un blitz della Polizia, erano stati arrestati dieci cittadini russi, accusati di spionaggio nei confronti di esponenti politici e di governo statunitensi per conto del Dipartimento SVR (operazioni all’estero) dell’FSB (i servizi di intelligence russi, l’ex KGB); secondo l’FBI, gli agenti in questione avrebbero effettuato ricerche anche nel settore del riciclaggio di denaro e per l’acquisizione di “fonti” a favore di una rete spionistica russa, operativa da anni negli USA.

La stampa si è soffermata in particolare su alcuni esponenti più giovani (30-40 anni) della retata:

  • un’avvenente russa dai capelli rossi, Anja (Anna) Kishenko (nella foto sotto), laureata in economia, sposatasi nel 2001 con il cittadino britannico Alex Chapman, dal quale ha divorziato nel 2006, trasferendosi da Londra negli Stati Uniti (a Manhattan); negli USA figurava come agente immobiliare;
  • una coppia di giovani sposi; la moglie, Cynthia Hopkim, bancaria nata a New York (a suo dire), e il marito, Richard Murphy, in prevalenza “casalingo”, si occupava dei loro due figli e di giardinaggio, godendo di rispetto da parte dei vicini di casa; entrambi erano negli USA da tre anni. Secondo la Polizia, la moglie controllava le attività finanziarie di un miliardario americano.

Ai dieci cittadini russi arrestati occorre aggiungere l’undicesimo esponente del team spionistico, il quale, allontanatosi dagli Stati Uniti qualche giorno prima della retata e individuato a Cipro, era riuscito a far perdere le proprie tracce.

Come considera la tecnica operativa degli agenti russi arrestati?

Le riferisco quanto riportato dai mass media nella circostanza, e cioè che il team utilizzava tecniche operative “tradizionali”, non all’avanguardia:

  • nomi di copertura presi da cittadini USA deceduti;
  • sistemi di “finta coppia”;
  • comunicazioni tra gli agenti in wi-fi, nei coffee shop e nei book store;
  • scambio di messaggi attraverso il “brush pass” (scontro apparentemente fortuito, per strada);
  • incontri attraverso “flash meeting” (giornale predefinito, in tasca; storiella di verifica per il riconoscimento, concordata in precedenza).

Ci sono dati attendibili per stabilire quando è stata “impiantata” la rete di spie negli USA?

Purtroppo no. Sussiste tuttavia, secondo i quotidiani, una conferma dell’esistenza di alcune reti spionistiche russe negli USA, da parte di Oleg Gordievskij, ex Vice Capo del KGB, passato all’Occidente (Londra) nel 1985: negli USA sarebbero impegnati in operazioni di spionaggio 500 agenti russi, ivi trasferitisi nel periodo tra le fine degli anni ’80 e i primi degli anni ’90 (alla fine cioè della guerra fredda).

Come ha reagito il governo russo nella circostanza dell’arresto?

Dopo le proteste della prima ora, il governo russo avrebbe effettuato vari tentativi nei confronti dell’Amministrazione USA per convincerla a mostrare buon senso, in considerazione anche del positivo stato delle relazioni tra Mosca e Washington (mi riferisco alla presenza del Presidente Medvedev negli USA, dal 24 al 26 giugno: visita alla Silicon Valley; hamburger e patatine, consumate in un fast food con il Presidente Obama).

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Come si è conclusa la retata?

Sono da prendere in considerazione, secondo me, tre eventi connessi:

  • il primo riguarda il processo della magistratura statunitense, alquanto sbrigativo (27 giugno – 7 luglio); la stampa ha parlato di processo “lampo”. Alle spie è stato contestato il solo reato di “attività al servizio di un governo straniero contro cittadini statunitensi”; la pena, peraltro, è stata convertita in “deportazione nel Paese di origine, con divieto di pubblicare le proprie memorie sulla vicenda”. L’accelerazione del processo tendeva a ridurre la diffusione di troppe notizie sull’avvenimento e a non creare “ombre” sullo stato delle relazioni tra i due Paesi, entrambi, peraltro, spinti dalla necessità di apportare miglioramenti all’organizzazione del proprio sistema di intelligence:

    _ Washington, per mettere ordine tra le diverse strutture di intelligence, talvolta in contrasto tra loro (NSA, CIA, FBI);

    _ Mosca, per rafforzare l’FSB (ex KGB) ai fini della sicurezza dello Stato;

  • il secondo evento è dell’8 luglio scorso; è stato effettuato uno scambio di “prigionieri” tra Washington e Mosca presso l’Aeroporto di Vienna, su una pista dove erano accostati due velivoli, coprendo così la visuale dei reporter (quello con i prigionieri russi della retata e un velivolo di stato partito da Mosca). Un emissario di ciascun governo provvedeva all’accertamento delle identità dei prigionieri da “scambiare”. In analogia a quanto avveniva durante la guerra fredda, da un charter della “Vision Airlines”  (Las Vegas) sono scesi i dieci arrestati dall’FBI e consegnati alle Autorità russe; dall’aereo di stato russo sono scesi, e consegnati, alle Autorità di Washington tre agenti dell’FSB, in carcere da anni in Russia per spionaggio a favore degli USA e della Gran Bretagna. Ai tre si è aggiunto un quarto, in carcere in Russia da 11 anni sempre per spionaggio, un ricercatore del settore “armamenti nucleari”. La scelta dei “prigionieri” russi è stata effettuata di comune accordo tra il Capo della CIA, Leon Panetta, e il responsabile del già citato Dipartimento SVR dell’FSB, Mikhail Fradkov;
  • il terzo evento è successivo allo scambio dei “prigionieri”; riguarda l’incontro riportato dal quotidiano “la Repubblica”, dopo i rituali debriefing, tra il Primo Ministro Putin e le spie russe: non un incontro formale, è detto nell’articolo, ma una “rimpatriata” tra ex commilitoni dei Servizi di Intelligence (ricordo che Putin è stato a capo di un importante Direttorato del KGB e poi, sotto la presidenza di Eltsin, ha diretto l’FSB, prima di impegnarsi in politica). Nel corso dell’incontro è stato intonato l’inno dell’era sovietica, adottato dal KGB, ai tempi della vittoria sul nazismo, dal titolo “Dove comincia la nostra Patria”. Putin avrebbe anche garantito che i dieci sarebbero tornati presto al lavoro nel settore dell’intelligence e che gli stessi erano stati “smascherati” a seguito del tradimento di una persona già individuata (si può pensare all’undicesimo componente del team il quale, individuato a Cipro, avrebbe fatto perdere le proprie tracce).

    (1 – continua)

    Chiara Maria Leveque [email protected]

L’altra faccia della medaglia

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Da Hanoi – Dopo il primo appuntamento sul Vietnam, interessante Paese asiatico in fortissima crescita, ritorniamo per vedere quali sono i punti di criticità. Oggi il Vietnam si propone come una punta di diamante tra i paesi della penisola Indocinese, ma non vanno sottovalutati i rischi di questa frenetica corsa alla ricchezza, sia per il paese, che per chi ci investe. La forte crescita economica è dovuta infatti a settori a basso contenuto tecnologico e di innovazione, mentre permangono forti problemi per quanto riguarda il rispetto di norme basilari per il commercio globale come l’anti-imitazione.

LE POTENZIALITÀ – La sorprendente crescita del Vietnam e lo sforzo per l’apertura al mercato globale hanno innescato la competizione dei paesi vicini e messo la pulce nell’orecchio agli investitori esteri.

Tra il 2000 e il 2009 il paese ha registrato più di 120 miliardi di US$ in investimenti esteri con un picco di 64 miliardi solo nel 2007 in occasione dell’entrata nel WTO. Questo ha valso al Vietnam il 12° posto per 3 anni consecutivi nell’indice Kearney di attrattività per l’investimento estero, spiazzando Indonesia e Malesia che sono rispettivamente 20 e 21esima.

A favore del paese ci sono numerosi fattori come la discreta stabilità del governo, un mercato interno in espansione e soprattutto il basso costo della manodopera. Quest’ultima è la leva che sta spingendo molti produttori del manifatturiero a spostare le sedi verso sud, dinanzi ad una Cina che si specializza, alza i salari e apprezza la moneta, trasformandosi da fabbrica a negozio del mondo (China-plus-one strategy).

Il Vietnam riesce a battere i suoi vicini perché ha un costo del lavoro (0,40$ all’ora) a livello di paesi come il Bangladesh o la Cambogia, che però sono molto inferiori per infrastrutture.

I RISCHI – In realtà gli investitori si sono dimostrati più cauti di quello che sembra: solo il 50% del capitale estero registrato è stato effettivamente sborsato, a causa di ritardi e difficoltà di natura operativa.

Il paese è ancora debole per quanto riguarda i trasporti, la logistica e i canali di distribuzione. Se è vero che la manodopera è a basso costo, c’è da dire che la forza lavoro è poco specializzata e richiede grossi investimenti nel training. Coloro che puntano alla domanda domestica invece devono considerare i costi di adattamento del prodotto e le differenze culturali, in un mercato dove il marketing e la pubblicità sono pratiche pressoché inesistenti.

Altri ostacoli riguardano la difficile applicazione della nuova normativa WTO, soprattutto a livello locale, un sistema di prezzi doppi che portano elettricità, acqua e affitti a livelli quasi europei, infine la totale indifferenza verso la normativa anti-imitazione. Non c’è quindi da stupirsi se, nonostante gli incentivi per settori ad alto tasso tecnologico, più del 55% dei capitali esteri si sia concentrato in edilizia, immobiliare e turismo: investimenti non produttivi e a basso trasferimento di know-how.

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UNO SGUARDO AI NUMERI – Nell’ultimo piano quinquennale il governo si è posto come obiettivo il raggiungimento della completa industrializzazione entro il 2020. Superata l’euforia da WTO molti dubbi rimangono. Gli indicatori macroeconomici parlano chiaro: la bilancia commerciale presenta un deficit sempre più allarmante dovuto ad un export a basso valore aggiunto e un import ad alto contenuto tecnologico (macchinari e materie prime lavorate). In un tentativo di risanamento, il governo ha svalutato la moneta ben tre volte negli ultimi dodici mesi e ridotto il costo del denaro. Queste manovre, combinate a un pacchetto di stimoli anticrisi, hanno fatto ripartire l’economia all’inizio dell’anno, ma già si temono pressioni sui prezzi. Per ristabilizzare la bilancia dei pagamenti e fugare il rischio inflazione, la banca centrale ha alzato l'interesse domestico, ma ha tagliato quello sui prestiti in US$, aumentando così l'esposizione verso l'estero.

Una situazione complessa che oggi vede gli interessi stranieri allineati con quelli del governo, ma fa presagire la trasformazione dell’idillio in un braccio di ferro nel medio lungo periodo.

Se il governo non implementa oggi delle politiche che assicurino uno sviluppo concreto rischia il collasso e la conseguente fuga di capitali nel medio periodo. D’altro canto, così com’è successo in Cina, una scommessa più lungimirante in tecnologie, energia, welfare e infrastrutture, risulterà in un rafforzamento della struttura paese, ma anche in un adeguamento dei redditi e dunque dei costi del lavoro. Se ci aggiungiamo la possibilità di perdere il vantaggio competitivo sulle tecnologie, la convenienza a investire nella “nuova tigre” inizia a sfumare.

Valeria Giacomin

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Diario di Srebrenica

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“Cartolina dalla fossa” (Edizioni Beit, Trieste), di Emir Suljagiæ è la testimonianza diretta di un ragazzo, ormai diventato uomo, che visse in prima persona gli orrori del massacro di Srebrenica, in Bosnia, avvenuto nel 1995. Un’opera letteraria che ci invita a riflettere sulla violenza di cui può essere capace l’uomo e sul ruolo della comunità internazionale, che troppo spesso rimane indifferente – o peggio complice – davanti a tragedie come questa.

«Ero sopravvissuto perché Mladiæ quel giorno si sentiva Dio: aveva il potere assoluto di decidere sulla vita e sulla morte. In seguito, per mesi lo sognai ogni notte: rivivevo da capo quell’incontro, cercando di dimenticare i dettagli che mi perseguitavano. Mi svegliavo davanti ai suoi occhi iniettati di sangue, mi veniva da vomitare per il fetore che gli alitava dalla bocca, nelle mie narici era rimasta la puzza di alcool che aleggiava attorno a lui. Temevo che sarei impazzito cercando di spiegarmi perché mi avesse risparmiato, visto che ero altrettanto insignificante quanto dovevano esserlo stati ai suoi occhi tutti i miei amici che aveva ordinato di fucilare. Non riuscivo a trovare una risposta».

 

Emir, classe 1975, ha solo 17 anni quando la guerra impazza per le strade di Srebrenica. È ancora un ragazzo quando inizia a patire la fame, ché Srebrenica è ormai un’enclave assediata dalle milizie serbe di Bosnia, dove l’unico sale che si riesce a reperire per cucinare è quello secco e sporco utilizzato per pulire le strade dal ghiaccio in inverno e la gente è affetta dal gozzo. È ancora un ragazzo e già sa che cosa significhino il freddo e la miseria. È un ragazzo e ha paura, una gran paura,  lui che vorrebbe solo vivere, come le 56 persone tra cui molti bambini, che il 12 aprile 1993 vennero freddati durante un torneo di calcio dall’artiglieria serba.

Reclutato fin da subito come interprete per l’ONU, si trova a ricoprire un ruolo privilegiato rispetto al resto della popolazione, beneficio di cui però si ostina a non voler usufruire, cosicché, quando gli verrà data la possibilità di essere evacuato assieme ad un convoglio di feriti, non esiterà a cedere il suo lasciapassare ad un altro uomo; ed è grazie alla sua testardaggine ed al suo coraggio che si devono le uniche comunicazioni radio uscite da Srebrenica poco prima della disfatta.

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Emir Suljagiæ ha una sola domanda da porre a tutti noi: «dove eravate l’11 luglio del 1995?». «Ciò che avvenne a Srebrenica durante quei giorni è uno dei peggiori tradimenti del genere umano»: il tono accusatorio è una costante del libro che, unito all’eco violenta di un dolore sordo, ne fa per certi versi un’opera angosciante che non permette al lettore di immaginare un futuro per Srebrenica. In appendice, la conclusione di Guido Franzinetti corrobora questo senso di cupa rassegnazione con affermazioni quali: «la violenza paga», «la giustizia non è di questo mondo», «le Nazioni Unite sono un inutile teatrino», «l’America è lontana, e l’Europa privilegia i propri interessi» e la poesia di Abdulah Sidran, sottolineando che «quanti di noi sono rimasti, siamo più morti di tutti i nostri morti» completa il senso di disfatta totale.

Pubblicato in Italia esattamente 15 anni dopo quel terribile luglio del 1995, questo Diario di Srebrenica si può ascrivere al genere narrativo che ha per fulcro il resoconto in presa diretta di un genocidio, da quello ebreo raccontato nella magistrale opera di Primo Levi, a quello armeno de “La masseria delle allodole”. L’opera di Emir Suljagiæ, primo documento letterario dedicato all’assedio di Srebrenica, pur senza la pretesa di segnare una pagina nel panorama narrativo mondiale, si presenta come un prezioso J’accuse nei confronti di ciò che l’ignavia della Comunità internazionale ha potuto consentire, appena quindici anni fa, alle porte di casa nostra, nel cuore di quel continente che afferma di poter vantare una delle più alte considerazioni del valore della vita umana.

Chiara Maria Lévêque [email protected]

L’autunno caldo di Caracas

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Nel caliente autunno latinoamericano, caratterizzato dalle elezioni presidenziali in Brasile e legislative in Venezuela, spicca la nuova ondata di protesta contro la politica autoritaria del presidente Hugo Chávez. Dopo cinque mesi di sciopero della fame è morto lo scorso 31 agosto Franklin Brito, il quarantanovenne agricoltore e biologo venezuelano che protestava contro la politica di espropri del governo di Hugo Chávez. Le terre di Brito rientrano tra i cinque mila chilometri quadrati di terreni coltivabili confiscati dal governo.

EFFETTO DOMINO – Questo tipo di proteste non è nuovo in Venezuela: lo scorso maggio seimila detenuti hanno iniziato lo sciopero della fame lamentando la lentezza dei loro processi nelle Corti. Tuttavia, la morte di Brito (nella foto sotto) ha alzato il livello dello scontro innescando un effetto a catena nel paese. Migliaia di detenuti stanno facendo ricorso allo sciopero della fame: nello Stato di Yaracuy novecento prigionieri protestano per presunte scorrettezze nei loro processi, a Tocuyito vicino la Costa Caraibica altri trenta reclamano per aver subito maltrattamenti da parte delle guardie carcerarie, più di tremila a Tocorón, nella parte ovest di Caracas, lamentano il sovraffollamento e la precarietà delle condizioni igenico-sanitarie della prigione.

CONDIZIONI ALLARMANTI – Le prigioni venezuelane sono tra le più violente e affollate in tutta l’America Latina. Secondo l’Observatorio Venezuelano de Prisiones (OVP), un’organizzazione non governativa composta da avvocati, più di 43.000 detenuti, i cui 4/5 non sono ancora stati condannati, si trovano in strutture che in realtà hanno una capienza di 15.000.

Le condizioni delle carceri venezuelane sono sempre state precarie, ma la situazione sembra essersi deteriorata durante la presidenza di Hugo Chávez. Il livello di criminalità è aumentato nell’ultimo decennio proprio in coincidenza della stretta giudiziaria attuata dal governo per colpire gli oppositori. Nonostante i vari proclami del governo relativamente agli innumerevoli sforzi che starebbe compiendo per migliorare le condizioni nelle carceri, al momento l’unico progresso registrato riguarda la costruzione di una nuova prigione. 

RICHIESTE IMPOSSIBILI – La storia di Brito inizia 7 anni fa quando i suoi 290 ettari di terra a Iguaraya, nello Stato di Bolivar a sud del Venezuela, sono stati confiscati dai vicini proprietari terrieri. Successivamente, Brito scoprì che l’Istituto Nazionale di Terre (INTI), l’agenzia governativa che si occupa della riforme agrarie, aveva dato loro i diritti per occupare le sue terre. Da quel momento l’agricoltore cominciò la sua lotta per rientrare in possesso della sua proprietà. Ai sei scioperi della fame che Brito ha fatto negli ultimi 7 anni, il governo ha risposto in vari modi: dalla disponibilità a un incontro, qualora avesse interrotto la sua protesta, all’offerta di 230.000 dollari come indennizzo per l’esproprio. Quest’ultima possibilità è stata sempre rifiutata dall’agricoltore sia perché avrebbe potuto essere accusato di corruzione.

Nel 2009, Brito porta la sua causa dinanzi la sede dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) a Caracas. Una delegazione accettò di mediare con il governo, il quale, nel dicembre del 2009, inviò come risposta un corpo di polizia che trasferì Brito con la forza nell’ospedale militare della capitale. 

PRO BRITO – L’organizzazione umanitaria Foro por la Vida ha dato la colpa allo Stato per la morte di Brito puntando il dito sulle autorità che “stimolano in maniera permanente le impunità”.  Il Foro, che raggruppa circa venti organizzazioni che si occupano della difesa dei diritti umani, ha sostenuto che le decisioni politiche nei confronti dell’agricoltore non sono state in grado di garantire un’investigazione imparziale, al contrario si sono dimostrata complice di atti violanti la dignità dell’agricoltore.

 Nonostante le pressioni esercitate dalla Commissione Interamericana dei diritti umani, i Tribunali venezuelani, che nella maggior parte dei casi sembrano seguire le direttive chaviste, hanno negato il rilascio di Brito, in quanto, a loro avviso, non era nel pieno delle sue condizioni mentali, motivo per cui la detenzione era una misura per proteggerlo.

Tuttavia, il Ministro dell’Agricoltura Juan Carlos Lovo, ha definito lo sciopero della fame come un digiuno volontario piuttosto che una protesta. Secondo il governo, la morte dell’agricoltore è da imputare all’opposizione che ha sostenuto e alimentato la protesta per convertirla nell’ennesimo atto simbolico contro il presidente Hugo Chávez.  

GLI ALTRI CASI –  Negli ultimi anni si è riscontrato il ricorso allo sciopero della fame per chiedere il rispetto dei diritti fondamentali come nel caso del giornalista cubano Guillermo Fariñas che iniziò il suo digiuno il 24 febbraio, il giorno dopo la morte di Orlando Zapata Tamayo causata da uno sciopero della fame di 85 giorni, per chiedere la liberazione dei prigionieri politici del Grupo de los 75. Il giornalista Fariñas abbandonò la sua protesa l’8 luglio a seguito dell’annuncio del governo cubano di liberare i 52 dissidenti, conseguenza di un’inedita azione diplomatica con la Chiesa Cattolica e il governo spagnolo.

Il caso venezuelano sembra essere ben diverso: il governo avrebbe potuto evitare la morte dell’agricoltore, ridando semplicemente il diritto di proprietà terriero al legittimo proprietario. Ma Chávez ha ritenuto opportuno rimanere fermo nella sua posizione, considerando evidentemente questa mossa politicamente più vantaggiosa.

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ELEZIONI E CONTRADDIZIONI – L’autunno latinoamericano sarà all’insegna delle elezioni che avranno una rilevanza decisiva perché i protagonisti sono i due paesi che si contendono l’egemonia della regione: il Brasile e il Venezuela. Per quanto riguarda quest’ultimo, si rileva che a a dispetto della grande popolarità di Chávez, risultato anche degli innovativi programmi di redistribuzione, c’è il rischio che nelle prossime elezioni legislative programmate per il 26 settembre la destra ottenga avanzamenti significativi.

A vantaggio del Partito Socialiasta Unito del Venezuela (PSUV) diretto da Chávez, vi sono una serie di elementi, tra cui una crescita economica elevata e la diminuzione della disoccupazione. Contro una riconferma del partito di maggioranza, invece, si rilevano i 18 mesi di recessione, un alto tasso di inflazione e criminalità, e soprattutto l’aumento delle contestazioni contro le politiche governative.

Queste contraddizioni sono ben presentate nella campagna elettorale in corso: mentre la destra punta sulla corruzione governativa e sul traffico di droga, l’opposizione segnala che il Procuratore Generale del Venezuela ha annunciato l’avvio di processi giudiziari per 2700 casi di corruzione e 1700 di traffico di droga; e ancora, mentre la destra pone l’accento sull’incapacità del sistema di distribuzione statale (PDVAL) di canalizzare le tonnellate di alimenti che sono finiti nei rifiuti (vedi articolo de “Il Caffè”: “Qué pasa en Caracas?”,), il Partito del presidente ricorda che il Ministero per l’alimentazione si occupa di distribuire nel paese un terzo degli alimenti di base a un prezzo più basso fino al 50% rispetto a quelli praticati nei supermercati privati.

Nonostante ciò, il partito di maggioranza non sembra essere realmente in pericolo di riconferma per le prossime elezioni: l’opposizione si presenta frammentata e non sarà agevolata dalla legge elettorale, che da un assetto proporzionale è stata modificata in senso maggioritario, con la chiara finalità di penalizzare le minoranze.

 

Valeria Risuglia

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Urne calde

Urne calde in Afghanistan: nel fine settimana si vota per il rinnovo del Parlamento, ma le solite vecchie questioni rimangono sul tavolo. In Europa si terranno diversi incontri di rilievo, con al centro questioni di grande importanza, mentre le trattative di pace in Medio Oriente cominciano ad entrare in fase operativa.

AFGHANISTAN – Giorno 18 settembre si terranno in Afghanistan le elezioni per il rinnovo del Parlamento. Gli elettori sono chiamati a votare per i 249 membri della Camera bassa, la Wolesi Jirga. Il contesto intorno alle elezioni appare critico, come sempre, forse anche più del solito, dato il concorrere di diversi fattori che accentuano le solite vecchie questioni irrisolte (violenza, corruzione, accordi tra le etnie, ecc.). In evidenza in particolare: nelle ultime settimane il Presidente Karzai ha rilanciato nuovamente la proposta di un tavolo di pace con i Talebani, ma nessuna trattativa è ancora ufficialmente partita e le tensioni potrebbero crescere; l'avvicinarsi della stagione invernale, che generalmente “congela” i combattimenti, dovrebbe portare i talebani ad organizzare degli attacchi mirati ed il processo elettorale sarà di certo un obiettivo più che sensibile.

EUROPA – Il Presidente ucraino Viktor Yanukovich sarà a Bruxelles per discutere sul processo di affiliazione del suo Paese all'Unione Europea. Le note tensioni tra Ucraina e Russi, legate principalmente alla gestione dei gasdotti verso l'Europa, rende questo processo particolarmente delicato, dato anche l'avvicinarsi dell'inverno e la necessità europea di evitare che contrasti tra russi ed ucraini incidano sulla regolarità delle forniture.

Intanto la Slovacchia, al voto con un referendum, prova a diminuire il numero dei propri parlamentari ed i privilegi della classe politica: tentativo più volte ipotizzato da diversi Paesi europei.

Riprende inoltre vigore la questione legata alle espulsioni di Rom (soprattutto in Francia): si terrà a Bruxelles un incontro ad hoc tra rappresentanti degli Stati Membri, con in discussione la proposta di creare un ufficio europeo per l'asilo.

MEDIO ORIENTE – Molti i soggetti impegnati questa settimana nella (ri)costruzione delle trattative di pace. Un delegato francese visiterà Damasco per discutere della ripresa dei negoziati tra Siria e Israele.

Dal 13 al 15 il Presidente Palestinese Abbas, il Primo Ministro israeliano Netanyahu, il Segretario di Stato americano Clinton e l'Inviato Speciale americano Mitchell si incontreranno prima a Jerico (West Bank) e poi a Sharm-el-Sheikh (Egitto).

Il Cairo ospiterà invece un meeting dei Ministri degli Esteri della Lega Araba: oggetto dell'incontro saranno sempre i colloqui di pace in corso.

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ALTRI EVENTI DELLA SETTIMANA

  • Rappresentanti di Azerbaijan, Georgia, Romania e Ungheria firmeranno a Baku l'approvazione definitiva del progetto AGRI, che prevede la costruzione di un gasdotto che porterà gas naturale dall'Azerbaijan all'Europa attraverso Georgia, Romania ed Ungheria.

  • Il Ministro della Difesa russo Anatoly Serdyukov incontrerà il suo omologo kyrghizo, Abibulla Kudaiberbiyev, a Mosca. Sul tavolo l'ipotesi della realizzazione di un centro di formazione militare in Kyrgyzstan, che rafforzerebbe la presenza russa nell'area centro asiatica.

  • Teheran al centro di incontri importanti: numerosi Ministri africani parteciperanno alla Conferenza sulla Cooperazione tra Iran e Africa. Inoltre, alti rappresentanti da Afghanistan, Pakistan e Iraq si incontreranno per discutere la gestione delle principali minacce sanitarie della regione.

  • Nuovi rischi di tensioni in Thailandia, dove le Camicie Rosse tornano a manifestare per ricordare il colpo di stato del 2006, che depose l'ex Premier Shinawatra; intanto il principale partito di opposizione terrà un'Assemblea generale per eleggere le sue più alte cariche.

La Redazione – Pietro Costanzo 7 settembre 2010 [email protected]

Islamofobia?

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La minaccia del pastore evangelico Terry Jones di bruciare pubblicamente alcune copie del Corano ha fatto il giro del mondo, suscitando proteste di molte comunità musulmane. L'episodio fornisce l'occasione per riflettere sul processo di integrazione dei fedeli islamici negli Stati Uniti: a nove anni dal terribile attentato delle Torri Gemelle, tuttavia, il bilancio non sembra positivo. E Obama non sta facendo granchè

MOSCHEA A GROUND-ZERO? – Negli Stati Uniti si dibatte ormai da qualche settimana riguardo all’allargamento di un centro islamico sito nella famosissima Manhattan e chiamato Park 51, da anni incastonato tra bar e uffici ed ora finito sulle prime pagine dei maggiori quotidiani e nei servizi dei telegiornali nazionali. Molti considerano un oltraggio alla memoria dei caduti lasciare che i musulmani allarghino una moschea già esistente, a pochi isolati di distanza dal luogo in cui migliaia di civili inermi hanno perso la vita quella mattina di nove anni fa. Tuttavia inutili generalizzazioni, soprattutto quando si tocca un tema così delicato come il terrorismo di matrice religiosa, rischiano di incendiare gli animi di chi colpevole non è e né si sente tale. A rendere ancor più complicata una situazione in cui le opposte fazioni, i manifestanti anti-moschea contro i musulmani statunitensi, non si sono risparmiate accuse e insulti ci ha pensato Terry Jones, un pastore di anime della Florida (nella foto sotto) che ha organizzato nientemeno che il Koran Burning Day, minacciando ovvero di bruciare pubblicamente centinaia di copie del Corano.

TERRY NON FARLO – A questo punto però, la questione si è fatta più seria. Il presidente Barack Obama ha chiesto di sospendere la manifestazione per cercare di evitare un disastro mediatico di proporzioni internazionali. I governi di Iraq ed Indonesia hanno immediatamente chiesto spiegazioni alla Casa Bianca e dimostrazioni di piazza sono già avvenute in molti paesi musulmani. Il generale Petraeus, comandante delle forze ancora impegnate in guerra, ha chiesto di non mettere ulteriormente in pericolo gli uomini e le donne statunitensi schierate in Afghanistan. I leader degli studenti islamici hanno fatto sapere che, se in Florida fossero state bruciate copie del Corano, nel paese asiatico sarebbero stati attaccati i cristiani, anche se innocenti. Il Segretario alla Giustizia ha definito stupida, quanto pericolosa, l’intera iniziativa, ma che avrebbero potuto essere formalizzate solo accuse minori al pastore evangelico se il “rogo” avesse avuto luogo. I leader delle principali religioni hanno lanciato appelli  a favore della tolleranza e hanno espresso la loro solidarietà ai fedeli musulmani e il Vaticano, in una nota ufficiale, ha definito un oltraggio il rogo del Corano. Alla fine Terry Jones ha deciso rinunciare al rogo simbolico del testo sacro: il miliardario Donald Trump comprerà i terreni dove avrebbe dovuto sorgere il centro islamico di New York. Alla fine sono stati il denaro e le speculazioni edilizie a prevalere.

I MUSULMANI IN USA – Entrambi gli episodi lasciano però pensare: gli Stati Uniti sono in preda all’Islamofobia? E’ forse presto per dirlo, ma i segnali scatenatisi negli ultimi giorni preoccupano il governo di Washington. La minoranza musulmana a stelle e strisce rischia di non riuscire ad integrarsi completamente ed episodi di intolleranza si sono verificati in tutto il paese. Su 305 milioni di cittadini statunitensi 2,5 milioni sarebbero di fede musulmana, distribuiti in circa 1900 moschee. Sebbene un sondaggio abbia rilevato che il 55% degli intervistati sia favorevole alla costruzione di un luogo di culto musulmano nel quartiere dove risiede, sono ancora in molti a credere che l’Islam sia una religione che incoraggia ad usare la violenza contro i non credenti. Il problema non sembra essere quindi dei cittadini di fede musulmana, che sembrano avere per la maggior parte valori tipicamente U.S. – oriented, quanto più degli statunitensi cristiani, ebrei e di altre religioni.

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E OBAMA CHE FA? – Il problema vero, dunque, sembra quello dell'integrazione. L’attuale amministrazione statunitense non sembra essere riuscita a governare una situazione che rischia ancora di sfuggire di mano e di divenire un problema sul piano delle relazioni in politica estera. Molti osservatori hanno fatto notare che, a differenza del suo predecessore, Obama non ha ancora compiuto alcun gesto volto a favorire la tolleranza nei confronti dei musulmani statunitensi. George W. Bush si recò in una moschea a poche settimane dall’attacco al World Trade Center, il suo successore ha stentato nelle prime dichiarazioni sul possibile allargamento della moschea di New York e ha dovuto incassare, al contempo, i pesanti attacchi da parte Repubblicana. Il leader conservatore Newt Gingrich, ex speaker della Camera e possibile avversario di Obama alle prossime elezioni presidenziali del 2012, e Sarah Palin, altra possibile candidata alla leadership del ticket del Grand Old Party, hanno guidato la crociata anti-moschea, guadagnandosi l’appoggio dei molti cittadini incapaci di tollerare un minareto su suolo statunitense. Dall’altra parte i leader Democratici sono colpevolmente rimasti schierati su posizioni ambigue, in molti hanno dichiarato di considerare la decisione sulla moschea di stretta competenza delle autorità locali. Barack Obama ha difeso con forza i diritti della comunità musulmana newyorkese, ma si è trovato a dover fronteggiare in solitaria la furia dei Repubblicani, che hanno dominato le scena con dichiarazioni sprezzanti quanto pericolose. A ridosso della commemorazione del giorno di maggior dolore nella storia degli Stati Uniti sono tornate a bruciare ferite profonde, non ancora cicatrizzate. Riusciranno gli Stati Uniti, paese fondato sulla libertà e sulla tolleranza religiosa, ad integrare una minoranza che molti considerano con diffidenza, se non con odio?

Simone Comi [email protected]

Dove va la Turchia?

La Turchia è oggi chiamata ad esprimersi, tramite referendum popolare, sulle modifiche alla Costituzione volute dal governo dell'AKP. Le modifiche vanno in due sensi: più spazio ai diritti civili, per venire incontro alle richieste di adeguamento dell'UE in vista di una possibile adesione; meno potere ai militari e più controllo della magistratura per quanto riguarda la politica interna. Il risultato darà un quadro del reale cambiamento -o meno- della società turca.

IL REFERENDUM – La Turchia va alle urne. Non si tratta di un’elezione politica o parlamentare, ma poco ci manca. Anzi, si potrebbe quasi dire che in realtà la votazione di oggi sia molto di più. Si tratta del referendum costituzionale fortemente voluto dal governo in carica dell’AKP e dal suo Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan. Gli emendamenti alla Costituzione del 1982, in realtà, sarebbero dovuti passare già in Parlamento, ma il governo non è riuscito ad ottenere la maggioranza dei due terzi necessaria. Ciononostante, ha avuto tanti voti, quanti fossero sufficienti per far proclamare al Presidente della Repubblica Abdullah Gul un referendum popolare.

Perché il referendum è tanto importante? Perché potrebbe andare a scalfire, per la prima volta nella vita repubblicana, il rapporto privilegiato che ha la classe militare con la politica. Classe militare che, della politica, pur ne è stata protagonista per tutti questi anni. A tal proposito, non è un caso che il giorno del referendum, appunto il 12 settembre, sia esattamente il trentesimo anniversario dell’ultimo colpo di Stato militare che ci fu nel Paese (o, per lo meno, l’ultimo effettuato manu militari, visto che nel 1997 vi fu un'altra grande ingerenza dell’Esercito nella politica, che portò alla caduta dell’allora governo presieduto da Necmettin Erbakan, seppur senza spargimento di sangue -il cosiddetto soft coup), da cui sarebbe poi nata l’attuale Costituzione.

I CONTENUTI – Siamo arrivati alla resa dei conti e, tra stasera e domani, saremo in grado di sapere se la Turchia sarà un Paese più vicino agli standard di democratizzazione di tipo europeo o, piuttosto, ancora saldato ai vecchi ideali del kemalismo in tutto e per tutto. Qui sta la questione fondamentale, infatti. Si potrebbe a ragione affermare che oggi si consuma una vera e propria resa dei conti tra le due anime che, soprattutto da un quindicennio a questa parte, si contendono la maggioranza dei consensi non solo politici, ma anche sociali in senso più ampio. A voler andare più nello specifico, il popolo turco sarà chiamato a pronunciarsi circa i cambiamenti proposti riguardo al ruolo e alle modalità di selezione della Corte Costituzionale e del Consiglio supremo della Magistratura. In un Paese in cui la magistratura spesso è stata al fianco dei militari nel tentare di mantenere il sistema kemalista in cui l’Esercito avesse un peso sproporzionato all’interno dell’arena politica, toccare queste due istituzioni vorrebbe dire, in un certo senso, ripensare gli equilibri interni della stessa Turchia.

Se il referendum passasse, per esempio, i membri della Corte Costituzionale passerebbero da 11 a 17, di cui tre verrebbero eletti direttamente dal Parlamento e 14 dal Presidente stesso e la durata massima sarebbe di 12 anni, mentre adesso vi è solo il limite di età a 65 anni. Si stabilisce che anche le cariche come il Presidente del Parlamento e i Capi di Stato Maggiore, sia generale che delle tre divisioni (Marina, Aeronautica ed Esercito), possano essere processati dalla Corte Costituzionale e da quella Suprema. Infine, per ciò che concerne la Corte Costituzionale, ci vorranno i due terzi dei voti favorevoli, e non più la maggioranza relativa, per poter mettere al bando un partito. Questo è un punto molto importante, se si pensa che due anni fa gli ambienti militari hanno tentato proprio la strada del ricorso alla Corte Costituzionale per mettere fuori gioco l’AKP; in quell’occasione la Corte si dichiarò contraria, ma solo dopo un serrato dibattito. Dal momento che nella storia della Turchia tutti i partiti di ispirazione islamica (ma anche curda) sono stati prima o poi messi al bando da tale organo, tale limitazione appare cruciale. Per ciò che concerne la giustizia militare, i tribunali militari potranno avere giurisdizione soltanto su alcuni reati militari, mentre, al contrario, i reati contro la sicurezza nazionale verrebbero giudicati esclusivamente da tribunali civili. I tribunali militari non potranno più, come ora, giudicare persone civili, se non in tempo di guerra.

Accanto a questo tipo di riforme, vi è poi un pacchetto di emendamenti che riguarda i diritti civili e umani: bambini, anziani, disabili, vedove, orfani, invalidi e veterani vedranno garantiti maggiori diritti, così come stabilito dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Una parte è dedicata al diritto alla privacy dei singoli cittadini e si stabilisce che i dati personali vengano protetti e possano essere trattati solo previa autorizzazione (e, dunque, informazione agli interessati). Si stabiliscono maggiori libertà di movimento e residenza: un cittadino non potrà avare vincoli nella libertà di lasciare il proprio Paese, tranne decisioni della magistratura riguardanti casi in cui l’interessato sia sotto procedimento penale. Inoltre saranno maggiormente tutelati i bambini contro le violenze e, in ambito sociale, saranno concesse maggiori libertà di libera associazione e di sciopero.

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I DUE SIGNIFICATI DELLE RIFORME – Le riforme hanno, dunque, due facce: una è rivolta all’esterno e in particolar modo all’UE e mira a sottolineare gli sforzi dell’attuale esecutivo turco in materia di diritti umani e civili. L’altra, e questa è quella che più infiamma il dibattito in Turchia, è rivolta all’interno e riguarda il futuro equilibrio di potere tra civili e militari, o meglio tra questa classe dirigente e la vecchia elite composta dai kemalisti. Quanto il popolo turco, dopo aver concesso all’AKP due vittorie schiaccianti alle scorse elezioni parlamentari del 2002 e del 2007, sarà disposto a concedere in materia di equilibri istituzionali, vale a dire in poche parole di ideali kemalisti, vale a dire, in ultimo, quegli ideali che comunque rappresentano la nascita e il cuore della Turchia stessa? Si tratta di una sfida non solo politica, ma di una sfida di modernizzazione e proiezione verso un Paese sicuramente più democratico -almeno nell’accezione europea del termine. Questo è il punto e, per questo, non è affatto scontato che i successi politici dell’AKP vengano automaticamente tradotti in consensi per queste modifiche che riguardano il sistema statale ed istituzionale stesso del Paese. Il risultato del referendum non ci dirà tanto se la Turchia sarà cambiata o no, ma se i Turchi sono cambiati e pronti a voltare pagina (nella foto in alto, sostenitori della campagna per il "sì", in turco "evet"). E’ lo stesso motivo per cui, a priori, non si può affermare che l’esito della votazione di oggi ci dirà quali saranno i risultati della prossime elezioni parlamentari, indette per il luglio del 2011.

Dalle urne non dobbiamo attenderci un risultato che sappia semplicemente dirci chi vincerà le prossime elezioni e quali saranno i nuovi assetti politici del Paese, ma dobbiamo aspettarci un risultato che sappia dirci molto di più: dove andrà e cosa diventerà la Turchia, consapevoli del fatto che, male che va, rimarrà come è adesso. Bene che va, avrà fatto un ulteriore passo verso l’Europa, se Bruxelles vorrà accorgersene.

Stefano Torelli

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La multinazionale del Caffe’

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Dopo la pausa estiva, riprendono le pubblicazioni del “Caffè Geopolitico”, che si presenta sempre più internazionale. Numerose sono infatti le firme dei collaboratori che ci scrivono dall'estero, avvicinandoci alle vicende politiche ed economiche che avvengono a migliaia di chilometri di distanza da noi. Ma che spesso ci riguardano comunque da vicino.

SI RICOMINCIA – A dire il vero, non ci eravamo mai fermati del tutto. E' vero, le pubblicazioni del “Caffè Geopolitico” durante il mese di agosto sono state meno frequenti, ma anche la nostra redazione aveva bisogno di ricaricare le batterie. Ed ora eccoci qui, pronti a farvi “sorseggiare” tanti altri “Caffè” in arrivo da ogni parte del mondo.

LA RETE – “Da ogni parte del mondo” non è una frase fatta, ma nel nostro caso è la verità. Sì, perchè sono sempre di più i nostri collaboratori sparsi per il globo che ci inviano articoli come se fossero veri e propri corrispondenti dei giornali più importanti. Giornalisti improvvisati, forse? Nient'affatto: sono persone dal curriculum e dai percorsi differenti, studenti o lavoratori, tutti comunque molto preparati, informati e calati nella realtà di cui ci raccontano.

Quello che li accomuna è la passione per le relazioni internazionali e la convinzione che anche quello che accade dall'altra parte del mondo non può essere ignorato a casa nostra. E' proprio questa la motivazione principale che ha animato la nascita del “Caffè Geopolitico”, che con poco più di un anno di vita può già contare su un discreto numero di collaboratori dall'estero: un vero e proprio “network” oppure, per utilizzare la nostra tipica terminologia, una “multinazionale del Caffè”.

Anna Bulzomi da Shanghai, Andrea Cerami da Città del Messico, Gilles Cavaletto da Haiti, Vincenzo Placco da Tegucigalpa (Honduras), Michele Penna da Pechino, Valeria Giacomin da Hanoi (Vietnam), Manuela Travaglianti da Bujumbura (Burundi), Mirko Tricoli da Khartoum (Sudan): ecco alcune delle nostre “firme”, che contribuiscono a dare un grande valore aggiunto alle nostre pubblicazioni parlandoci da punti di osservazione privilegiati e aiutandoci quindi a vedere più da vicino le dinamiche politiche ed economiche in atto nei vari continenti.

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La Redazione – Davide Tentori 10 Settembre 2010 [email protected]