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Il ritorno di Fidel

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Dopo quattro anni di assenza dalla vita pubblica il Líder Máximo dismette la ormai famosa tuta sportiva che lo aveva accompagnato durante la convalescenza e torna a indossare il verde oliva. Dopo aver partecipato a vari eventi pubblici all’Avana e dintorni, il maggiore dei fratelli Castro si é raccontato in una intervista esclusiva al quotidiano messicano La Jornada.

L’INTERVISTA – Era il 31 luglio del 2006 quando Fidel Castro annunciava a Cuba e al mondo intero il suo ritiro dalla vita pubblica e il passaggio provvisorio dei poteri al fratello Raúl. Quarantotto mesi dopo, il Líder Máximo é ricomparso in pubblico, é tornato a occuparsi di questioni interne e internazionali e ha concesso, per la prima volta dopo la sua lunga convalescenza, un’intervista a un giornale straniero, accordando la sua preferenza a “La Jornada”, quotidiano izquierdista (tendente a sinistra) della UNAM, l’Universitá Nazionale Autonoma del Messico.

Oltre a trattare argomenti di stretta attualitá internazionale, Fidel non ha esitato a descrivere i momenti di sofferenza vissuti nel corso della sua malattia, arrivando persino a sostenere di essere stato a un passo dalla morte ma di essere poi “resuscitato” grazie all’equipe di medici al suo servizio. Medici cubani, ovviamente, orgoglio e fiore all’occhiello della Revolución.

IL PERICOLO NUCLEARE – Dal momento in cui é ricomparso in pubblico Fidel non si é risparmiato, dividendosi tra incontri, discorsi e le sue celebri Reflexiones, i pensieri affidati al “Granma”, il quotidiano del Partito. “Il Mondo si trova nella fase piú interessante e pericolosa della sua storia – afferma –  e io non voglio essere assente”. A suo dire, il mondo sarebbe sull’orlo di una guerra nucleare: non contro la Corea del Nord peró (“la Cina non lo permetterebbe”), bensí contro l’Iran.

Le sanzioni contro Teheran votate dal Consiglio di Sicurezza lo scorso giugno (con l’astensione di Brasile e Turchia) rappresenterebbero, nelle parole di Castro, una vera e propria minaccia per la sicurezza mondiale. Se il braccio di ferro tra la comunitá internazionale capeggiata degli USA e l’Iran sfociasse in un conflitto nucleare le conseguenze per l’umanitá sarebbero inimmaginabili. La soluzione é solo una: “bisogna impedire che Barack Obama prema il bottone”.

In realtá, le parole di Fidel Castro hanno suscitato piú ironie che consensi: c’é chi l’ha accusato di catastrofismo e chi, piú maliziosamente, ha parlato di deliri di un ultraottantenne. Quel che é certo, peró, é che la “questione iraniana” rappresenta, anche alla luce delle inedite alleanze geopolitiche che ha determinato, un problema da non sottovalutare. Anche se sembra difficile che Cuba possa giocare un ruolo influente nell’ambito di questa vicenda.

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 L’ECONOMIA – Come tutti sanno, a Cuba vige un’economia totalmente pianificata di stampo socialista. Se questo modello aveva dimostrato di poter reggere finchè è esistita l’Unione Sovietica, che sosteneva l’isola caraibica generosamente, ora il sistema produttivo locale è sempre più in difficoltà ed obsoleto. Castro ha sostenuto, un po’ a sorpresa, che “il sistema economico cubano non funziona più”. In effetti, qualche timida riforma era stata annunciata nei mesi scorsi, ma non in senso così radicale da rinnegare il socialismo per approdare ad un’economia di mercato. Intanto, la popolazione locale è sempre più in difficoltà: il salario mensile medio è di 20 US$ e per via dell’embargo le transazioni commerciali avvengono quasi esclusivamente sul mercato nero. Per quanto tempo ancora L’Avana potrà continuare così?

Vincenzo Placco (da Tegucigalpa, Honduras)– Davide Tentori

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Nella tana del leone

Da Shanghai – Cina e Africa sono sempre più vicine. La potenza asiatica è ormai protagonista indiscussa della penetrazione economica nel continente nero: dalle relazioni commerciali agli investimenti esteri, Pechino ha stabilito una presenza capillare, funzionale al proprio export e a soddisfare la sua enorme “fame” di materie prime. I segreti? Non preoccuparsi di fare amicizia con regimi poco democratici e approfittare delle difficoltà dell'Occidente. Direttamente dalla Cina, il “Caffè” vi descrive questa dinamica cruciale per i prossimi equilibri geoeconomici.

ANDATE E ARRICCHITEVI – C’era una volta la Cina maoista. Ermetica, misteriosa, tagliatafuori dal mondo e ancora convalescente per le ferite inflitte dalla Rivoluzione Culturale. Poi arrivò Deng Xiaoping (o meglio, tornò dalle tenebre in cui era stato relegato dagli estremisti del PCC), e pronunciò parole che ancora oggi giungono forti e chiare alle orecchie dei cinesi: “Uscite dalla Cina e arricchitevi!”. Ma uscire per andare dove? Guo wai, che significa ‘fuori dal proprio paese’, era un’informazione talmente vaga da lasciare ampio margine alla fantasia di tutti coloro che fossero desiderosi di tentare la fortuna oltre i confini dell’Impero di mezzo.

Il nuovo corso inaugurava un’ottica tutta diversa, stavolta davvero rivoluzionaria: ogni paese estero doveva trasformarsi in un’opportunità per dare impulso allo sviluppo economico, un’occasione per far crescere il volume complessivo dell’export cinese e, in definitiva, per generare ricchezza.

I primi imprenditori della Repubblica Popolare (e ancor prima quelli di Hong Kong) si concentrarono sulla creazione di una solida rete commerciale con Stati Uniti e Giappone, ma ben presto iniziarono ad investire oltre le mete “tradizionali”, spingendosi fino in Africa. Il volume degli scambi sino-africani passò dai 300 milioni di dollari del 1976 (anno della morte di Mao) ai 2 miliardi e mezzo di dollari del 1988 (dieci anni dopo l’inizio delle riforme di Deng).

Già allora era chiaro che i cinesi avevano smesso di guardare all’Africa attraverso il filtro della propaganda terzomondista e che al posto della solidarietà tra poveri sarebbe presto comparsa quella particolare forma di realpolitik che va sotto il nome di win-win cooperation, ovvero una forma di interazione da cui entrambe le parti potessero trarre un profitto stabile.

La vera svolta non si fece attendere: nel 1989, all’indomani dei fatti di Tiananmen, calò il gelo sulle relazioni economiche e diplomatiche sino-occidentali, e Pechino si rivolse sempre più agli stati africani, con i quali era certa di condividere l’insofferenza verso le critiche delle democrazie occidentali. Per mantenersi alla guida della gigantesca Repubblica popolare, il PCC aveva bisogno di ritrovare la propria legittimazione in una crescita economica talmente robusta da mettere a tacere tutte le contraddizioni del regime.

Non è difficile dedurre da questa premessa che lo sguardo dei cinesi abbia indugiato sul continente nero, ricco di materie prime e risorse energetiche, mercato ancora vergine per le merci cinesi, terra fino ad allora esclusa dalle reti economico-commerciali della globalizzazione occidentale. E fu così che da buoni samaritani dell’era maoista, i cinesi in Africa divennero novelli conquistadores.

IL FASCINO DEL CONTINENTE NERO – La malìa esercitata dall’Africa sulla Cina poggia su tre pilastri ben definiti. Il primo è indubbiamente quello dello sfruttamento delle risorse naturali, vera garanzia di crescita per il colosso cinese. Nel 2000, il Sudan era l’unico paese del continente da cui la Cina riceveva petrolio, mentre ora si sono aggiunti Angola, Congo e Guinea Equatoriale (solo per citare i maggiori fornitori, ai quali andrebbero però sommati tanti altri stati, dal Camerun al Ciad, che hanno aumentato il volume di esportazioni di greggio verso Pechino). Impressionanti sono anche le percentuali relative a ferro (dal Sudafrica), manganese (da Sudafrica e Ghana), cobalto (dal Congo), rame (dallo Zambia) e legno (dal Gabon). Insomma, la lista della spesa è lunga, e ogni paese contribuisce a far sì che a Pechino non manchi mai nulla. Il volume commerciale degli scambi Cina-Africa è aumentato del 700% dall’inizio degli anni Novanta ad oggi. La seconda ragione che spinge la Cina verso l’Africa è la potenzialità rappresentata da un mercato nuovo, in grado di assorbire la sovrapproduzione del sistema economico cinese. Dato che la crisi del 2009 ha sensibilmente ridotto la domanda di beni di consumo in Europa e Stati Uniti, la Cina si è trovata a dover smaltire una quantità notevole di prodotti a basso costo e a tal fine l’Africa, in forte crescita economica e demografica (soprattutto in alcune regioni) è parsa come una destinazione ideale.

Oltre ad una mera questione di export, l’influenza cinese nel continente nero si può spiegare con il crescente interesse di Pechino ad investire in Africa attraverso multinazionali a partecipazione statale. Questo piano non tarderà a mostrare i suoi frutti, dato che gli investimenti cinesi arrivano in un momento in cui la recessione ha bloccato quelli occidentali, o comunque scoraggia costantemente le poche compagnie private che, avendo forti vincoli di bilancio, sono lontane anni luce dal poter promettere grandi affari agli africani.

Terza e ultima ragione che muove Pechino verso l’Africa è il peso strategico che il continente ha nei forum multilaterali. All’ONU la Repubblica Popolare ha avuto spesso bisogno di alleati, e dove trovarne di migliori dei paesi africani, che votano in blocco in suo favore? Le occasioni in cui l’Africa si è rivelata un partner fondamentale sono numerose: dall’assegnazione delle Olimpiadi 2008 a Pechino a quella dell’EXPO 2010 a Shanghai, dalla bocciatura della proposta di adesione di Taiwan all’Organizzazione Mondiale della Sanità all’assoluzione della Cina dalla condanna per violazione dei diritti umani dinanzi allo Human Rights Committee delle Nazioni Unite.

PERCHE’ I CINESI VINCONO E NOI PERDIAMO – Da anni ormai, quando va in scena il solito copione sulla ricerca e l’estrazione di risorse naturali, l’Occidente si trova costretto a dividere la scena con la RPC. Sono lontani i tempi in cui Europa e USA costituivano il solo polo economico mondiale in grado di dettare le proprie condizioni. Come se non bastasse, la Cina ha individuato dei territori dove la concorrenza occidentale è più debole, soprattutto per motivi di carattere politico (basti pensare al Sudan). La regola d’oro dei cinesi è racchiusa nell’espressione “non-interferenza”. La Cina ha invaso i mercati africani stravolgendo gli standard che i paesi occidentali tentano di imporvi da anni, e tratta con la stessa disponibilità e amicizia tutti i suoi clienti africani, siano essi despoti, governi democraticamente eletti, dittatori, regimi patrimoniali o clan di ogni sorta. Per il PCC, chiunque sia al potere è un potenziale alleato e tutto ciò che accade entro i confini di questo o quel paese non è altro che politica interna. Una tale posizione si spiega ovviamente alla luce della situazione politica cinese. Pechino, come molti dei regimi africani suoi alleati, non crede che competa all’Occidente porsi come giudice di questo o quel sistema politico e ritiene che non sia compito di qualsivoglia attore esterno modificare la struttura interna di un certo paese. D’altra parte, la stessa Cina non è una democrazia, e sarebbe dunque quantomeno contraddittorio che essa esigesse dai suoi alleati il rispetto dei diritti umani o le garanzie di una società libera.

L’unica pretesa del governo di Pechino è l’adesione dei futuri partner al principio “one China only”, costringendoli così ad interrompere le loro relazioni diplomatiche ed economiche con Taiwan (ad oggi, solo Swaziland, Burkina Faso, Sao Tomé e Principe e Gambia restano schierati con Taipei).

All’ombra della loro rigorosa definizione di sovranità, i cinesi del Partito, del Ministero del Commercio, della China Exim Bank e di enti simili concludono grandi affari, mentre l’Europa e gli Stati Uniti restano a guardare.

Un nuovo Beijing Consensus (opposto al più noto Washington Consensus) si sta affermando, e la Cina regna sovrana nel mercato africano, offrendo in cambio la costruzione di infrastrutture di ogni sorta, dalle ferrovie alle centrali idroelettriche agli ospedali, il tutto senza chiedere alcun cambiamento di rotta né la minima trasparenza ai sanguinari leader africani.

Per quanto ancora resteremo a guardare? Forse l’ultimo treno per riacquistare credibilità agli occhi degli africani non è ancora passato e possiamo ancora presentarci come partner affidabili, reali, in grado di tenere testa ai cinesi e inserirci in questo nuovo circolo della geopolitica mondiale.

Anna Bulzomi – da Shanghai

9 settembre 2010

Hanoi accende il motore

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Da Hanoi – Con 89 milioni di abitanti ed un prodotto interno lordo di 93 miliardi di US$ nel 2010, la terra dei Vietcong diventa a pieno titolo un middle-income country. Dopo l’entrata nel WTO nel 2007, il Vietnam sembra non aver nulla da invidiare ai suoi vicini di casa asiatici. Il "Caffè", direttamente dalla capitale vietnamita, vi porta a scoprire questo interessante Paese

UN SORSO DI STORIA – Quando il carro armato T-55 sovietico del Fronte per la Liberazione Vietnamita sfondò trionfalmente i cancelli del Palazzo d’Indipendenza di Saigon il 30 aprile del 1975, non ci si poteva certo immaginare che, a trentacinque anni di distanza, il Vietnam si sarebbe proposto come una tra le più promettenti economie di mercato dello scenario asiatico.

La tanto aspirata riunificazione, ottenuta col sangue e motivo di grande orgoglio per il popolo Vietnamita, era destinata ad essere solo l’inizio di un lungo percorso verso la piena affermazione nazionale. Nonostante avesse dimostrato di meritare l’indipendenza, la giovane Repubblica Socialista del Vietnam si ritrovò di fronte a più di 3 milioni di perdite, un territorio martoriato dai bombardamenti, gravemente contaminato dagli agenti chimici, privo di risorse e isolato dal punto di vista economico.

LA CORSA VERSO IL RINNOVAMENTO – Nel 1986 il governo, guidato dal CPV (Partito Comunista del Vietnam), decise di lanciare la politica economica conosciuta come Doi Moi (rinnovamento) con lo scopo di convertire il sistema centralizzato di matrice comunista in un’economia orientata al mercato.

La manovra si collocava sulla scia dei successi di altri paesi Asiatici come il Giappone, all’epoca secondo solo agli Stati Uniti; le tigri (Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud) che registravano tassi di crescita a due cifre e la nuova Cina di Deng Xiaoping, che si accingeva ad aprire le sue porte al mercato globale.

Il Doi Moi fu il primo passo che condusse il Vietnam attraverso una serie di riforme e accordi internazionali come l’entrata nell’ASEAN nel 1995 e la firma del FTA con gli Stati Uniti nel 2001. La tumultuosa corsa del paese verso il benessere, culminò l’11 gennaio del 2007, quando, dopo dodici anni di trattativa, diventò ufficialmente il 150esimo membro del WTO.

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LA SFIDA WTO – L’obiettivo WTO fu un’ulteriore molla di profondo cambiamento: dal 1995 al 2007 il prodotto interno lordo è cresciuto a un tasso medio annuale del 7.5%, attraverso il potenziamento dell’industria (soprattutto nel settore manifatturiero) e la crescente efficienza nella produzione di materie prime per l’export come riso, caffè, gomma e pepe.

Il governo ha dimostrato notevole flessibilità e impegno verso lo svecchiamento della struttura legislativa; sforzo che permette oggi agli investitori esteri di avviare un’attività attraverso una procedura più snella e con il sostegno di numerosi incentivi fiscali.

Il paese sembra dunque una grande promessa. Un recente studio di John Hawksworth (Price Water House Coopers) stima che di questo passo l’economia Vietnamita supererà quella Italiana nel 2050, collocandosi prima in Asia per tasso di crescita atteso.

In realtà le opinioni sul futuro del paese sono contrastanti. Se da una parte si pensa che il Vietnam sia sulla buona strada per diventare il nuovo gioiellino Asiatico, dall’altra gli scettici si domandano se l’economia sia abbastanza solida da competere a livello globale nel lungo periodo (la teoria del middle-income trap). WTO significa maggiore apertura sia in termini di volumi di produzione, che di maggiore esposizione ai prezzi delle commodities e agli shock dell’economia globale, specialmente per chi, come Hanoi, vanta USA e Cina tra i suoi principali partner commerciali. Un primo assaggio si è già avuto con la crisi, che nel 2008 ha “regalato” al Vietnam un rallentamento di oltre 2% sulla crescita del GDP. Altre difficoltà riguardano la scarsa qualità di infrastrutture, educazione e sistema sanitario, che insieme alla corruzione dilagante, costituiscono un freno allo sviluppo e al corretto utilizzo della nuova regolamentazione, soprattutto a livello locale.

OGGI – La scorsa settimana, in un torrido 2 settembre, Hanoi festeggiava l’indipendenza nazionale. Mentre migliaia di vietnamiti si accalcavano nelle strade, gli ufficiali del governo prendevano appunti per le celebrazioni che si terranno di qui ad un mese, in occasione del millenario della capitale. Nel frattempo il governo si prepara a varare il nuovo piano quinquennale il prossimo gennaio, che dovrebbe portare il GDP a 200 miliardi di US$ nel 2015.

Vedremo se ancora una volta il Vietnam saprà stupire come sul campo di battaglia: ora le armi non sono più i carri armati sovietici e cinesi e la rete di cunicoli dei Vietcong, ma gli indicatori macroeconomici, il sistema industriale e le politiche del governo.

Valeria Giacomin (da Hanoi)

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L’estate sta finendo

Finite le vacanze estive, il Caffè torna ad aggiornarvi con la rubrica “Sette giorni in un ristretto”, con una panoramica su cosa la settimana in corso ci offrirà di maggiormente rilevante in tutto il mondo. Questa settimana: in Medio Oriente, Cina, Corea del Nord di fronte a questioni insolute e delicate potrebbero sorgere criticità di rilievo. Afghanistan: si avvicinano le elezioni Parlamentari, ed è stato aperto il tavolo di dialogo con i Talebani. Quali effetti?

PRELIMINARI MEDIO ORIENTALI – Il dialogo tra Israeliani e Palestinesi è ripartito, sotto il forte patrocinio americano. Dopo gli incontri a Washington di settimana scorsa che hanno posto le basi per il dialogo (nella foto il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas), adesso si attendono le mosse di quei gruppi (ultra ortodossi israeliani ed estremisti palestinesi) che cercheranno di osteggiare i nuovi negoziati. Allo stesso modo, sarà interessante osservare le eventuali reazioni ed i contatti con gli altri soggetti regionali, Egitto su tutti, che dovranno giocare un ruolo in questo nuovo round di trattative.

CINA E STATI UNITI: CHI VA E CHI VIENE – Settimana scorsa le indiscrezioni circa la possibile defezione del capo della People's Bank, con una ventilata fuga negli Stati Uniti, hanno messo in difficoltà l'establishment cinese. Ad oggi quelle voci non hanno ancora trovato riscontro, anche grazie ad un puntigliosa opera di censura online da parte delle autorità cinesi. Intanto sia l'ex Presidente americano Jimmy Carter che il Deputy National Security Adviser Thomas E. Donilon ed il Direttore del National Economic Council americano saranno in visita in Cina.

COREA DEL NORD, TRA NUOVA LEADERSHIP E NUOVE SANZIONI – Il processo che dovrebbe portare alla successione di Kim Jong Il da parte del suo figlio minore è in pieno sviluppo. Come dimostra il passato, queste successioni richiedono tempi lunghi per il loro consolidamento: ci vollero circa tre anni per consolidare e far accettare all'establishment coreano la successione di Kim Jong Il al padre Kim Il Sung nel 1994. Adesso il venticinquenne Kin Jong Un si troverà di fronte al primo “check point”: il Workers Party infatti terrà a breve una sessione plenaria, dove dovrebbe arrivare un primo riconoscimento in merito alla successione. Intanto, gli Stati Uniti potrebbero annunciare già in settimana nuove sanzioni contro Pyongyang, per la sua controversa politica nucleare.

AFGHANISTAN – Si avvicinano le elezioni Parlamentari, che in ottobre sottoporranno le Istituzioni e la leadership del Paese ad un duro test. Dopo la controversa rielezione di Karzai nel 2009, segnata da brogli e giochi politici ben poco chiari, adesso le pressioni sul Presidente sono ancora maggiori, soprattutto da parte degli Americani. Con l'avvicinarsi dell'inverno infatti, la necessità di portare a termine le elezioni si somma a quella di intensificare le attività militari prima della stagione fredda, che notoriamente è sfruttata dagli insorti per riorganizzarsi. Il tutto a due mesi dalle elezioni di medio termine negli Stati Uniti: un doppio filo quanto mai diretto lega Obama e Karzai, che nonostante il raffreddamento dei rapporti tra i due leader richiederà uno sforzo collaborativo non indifferente.

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ALTRI EVENTI DELLA SETTIMANA

  • In Francia si terrà un meeting sull'immigrazione a cui parteciperanno Germania, Italia, Spagna, Regno Unito, Canada e Grecia. Date le tensioni in corso, soprattutto in merito alle proposte politiche francesi ed alla gestione delle comunità rom, interessanti indicazioni potrebbero venire dal meeting.

  • Il Ministro per l'Energia e le Risorse Naturali turco Taner Yildiz incontrerà a Bruxelles gli omologhi europei, per affrontare il tema dell'energia nell'ottica dell'ingresso della Turchia nell'Unione Europea.

  • Il Presidente russo Dmitri Medvedev ospiterà il Presidente Sud Coreano Lee Myung Bak ed il Primo Ministro Berlusconi al Global Policy Forum di Yaroslav.

  • Dal 9 al 25 settembre si svolgono le esercitazioni anti-terrorismo nell'ambito della Shanghai Cooperation Organization, con la partecipazione di oltre 5000 operatori da Kazakhstan, Cina, Kyrgyzstan, Russia e Tajikistan.

  • 11-12 settembre: il Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad visiterà il Libano.

  • Nigeria: ricomincia il delicato tormentone elettorale. Il Presidente ad interim Goodluck Jonathan annuncerà se si candiderà o meno alle prossime elezioni. Questa decisione, insieme a quella del Peoples Democratic Party di tenere o meno delle consultazioni primarie per la scelta del candidato, inciderà sulla stabilità del processo elettorale che porterà alle elezioni del gennaio 2011.

  • 8 settembre, Rosh Hashanah: l'inizio del nuovo anno ebraico.

  • 8-10 settembre: si chiude il mese del Ramadan.

La Redazione – Pietro Costanzo 7 settembre 2010 [email protected]

4 settembre duemiladieci

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Dopo l'ultimo appuntamento prima della pausa estiva, quello con “Baro romano drom”, la rubrica torna a parlare del mondo dei rom. Un mondo sconosciuto ai più, di nuovo alla ribalta delle cronache per le politiche del governo francese e le polemiche scaturite in Europa. Un argomento che, oggi più che mai, torna ad avere una rilevanza geopolitica nello scenario europeo. Ecco una testimonianza diretta dalla manifestazione dei rom svoltasi sabato scorso a Roma.

Doveva approdare in Piazza Farnese, di fronte all’ambasciata di Francia, la manifestazione di Rom e Sinti indetta a Roma in concomitanza con le oltre 130 manifestazioni svoltesi in territorio francese, in segno di protesta contro la decisione del governo Sarkozy di espellere i Rom dal territorio, secondo i critici presa per ottenebrare alle difficoltà che attraversa il suo mandato con il solito tema della “sicurezza”. Si è fermata a Campo de’ fiori, invece, aspettando che i mercanti del mattino ritirassero la propria merce e che la piazza venisse ripulita, perché la “sicurezza” ha disposto di non oltrepassare via dei Baullari.

“Tremblez, tyrans et vous perfides / L’opprobre de tous les partis,/ Tremblez!”, recita l’aperture di un volantino informativo datomi da una ragazza all’ arrivo, riecheggiando “La Marsellaise”, inno della rivoluzione che doveva essere di tutti e che chiedeva, proprio in quella terra, la libertà. Oggi cronache francesi e italiane non si intrecciano solo nella solidarietà: hanno visto brutture cronachistiche succedersi di pari passo dagli ultimi giorni di Agosto. Dalle decisioni di Sarkozi, del resto plaudite dal ministro degli Interni italiano Maroni, all’incendio del campo Rom della Magliana, in cui ha perso la vita un bambino di tre anni, fino a conglutinare questi eventi nella recente fobia sull’ipotetico arrivo dei “rapatiers” proprio nella zona, come sottolineato da un articolo di Elena Panarella sul Messaggero di Giovedì 2 Settembre, brandito da uno dei manifestanti come la perfetta costruzione xenofoba di una notizia sin dall’impaginazione.

Poco più di duecento persone. Bambini entusiasti che chiedono una foto a testa; ragazzi, soprattutto adulti e qualche anziana signora, insieme ai mediatori culturali che organizzano attività culturali e sociali con e per loro: Them Romanò, l’associazione organizzatrice coordinata da Santino Spinelli (nella foto in basso) -docente di Lingua e letteratura romanì all’università di Chieti, musicista e quant’altro-, l’Arci, l’Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi), Accoglienza in Italia, Federazione Romanì e Rom e sinti. Supporter, la CGIL e alcuni politici dal basso profilo (come Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione e l’onorevole del PD Letizia De Torre) . Un’assenza pesa: quella della comunità Rom romana, sottolineata in un comunicato stampa dalle parole del delegato del sindaco Alemanno ai rapporti tra il comune e la comunità rom, Najo Adzovic, perché “questa è una manifestazione organizzata dai centri sociali a scopo strumentale e non ci rappresenta”. Il mormorio dei partecipanti parla di “ricatto” e “indottrinamento”; di “contentino”, come quello che ha permesso proprio all’uomo ombra della giornata, a Nicolàs, di chiamare le espulsioni “rimpatri volontari”- un modico incentivo di 300 euro- , nonchè di aggirare la direttiva europea 38 del 2004, quella che regola la libera circolazione dei cittadini europei e dei loro familiari all’interno dei Paesi membri. Alemanno, dal canto suo, si preoccuperà di inviare un messaggio stizzito -e proprio da Parigi!- definendo la manifestazione “molto ideologica e poco sostanziale” e promettendo per l’autunno “l’apertura di altri tre cantieri per la costruzione di tre nuovi campi”.

Ma è proprio contro questo concetto, contro un confinamento in zone troppo spesso insalubri e pericolose che si scaglia il messaggio dei partecipanti. Integrazione non assimilata, ma con la speranza di una pari dignità che si denoti sin dalla scelta delle sue modalità. “Il 70 % dei Rom italiani vive nelle case e paga regolarmente le tasse grazie alle attività svolte. Ci sono artigiani, giostrai, operai. Ma un Rom integrato non ha visibilità, perché la sua immagine non interessa, non è funzionale al ruolo di capro espiatorio di cui necessità questa politica”, dice Santino Spinelli. “Rigettiamo completamente la politica della deportazione -perché di questo si tratta, non di rimpatri assistiti-, nonché quella della costruzione di nuovi campi, retaggio culturale del nazifascismo. C’è bisogno di una Consulta nazionale Romanì, scelta dalla base e non dalle amministrazioni locali, per decidere insieme le procedure da attuare. Si devono costruire delle case, e per questo non servono i soldi delle tasse italiane: ci sono fondi dell’Unione Europea elargiti proprio per questo scopo, che lo Stato italiano impiega invece per atti repressivi e discriminatori”- su quest’ultimo concetto insiste molto anche Nazareno Gualtieri, presidente dell’Associazione nazionale Rom e Sinti, dal proscenio offertogli dai gradini sotto la statua di Giordano Bruno: “Quello che chiediamo è invece un’assicurazione sanitaria, l’accesso alla scolarizzazione. E la possibilità di lavorare”.

“Fino a otto anni fa non riuscivo a trovare lavoro, perché alla parola “rom” mi veniva detto immediatamente di no”, dice Berisa Sabahudin, rom kosovaro che ha casa a Trento, dove lavora come operaio edile. E’ informatissimo su tutte le leggi che riguardano “la sua gente” – “E’ arrivato internet anche per noi!”, afferma sorridendo. Ma poi si rivela uno studente di giurisprudenza, abile nel citare le varie direttive europee in materia, con un particolare rilievo per quella che chiama “Legge Decade” , emanata a Sofia nel 2005, che prevede appunto l’integrazione di Rom e Sinti nei territori in cui risiedono entro il 2015. E’ tenace Berisa. Ammette però che è stato “grazie alla solidarietà degli italiani”che è riuscito ad andare avanti quando era disoccupato. Questo è l’aspetto che più stupisce- e non dovrebbe- delle parole che risuonano in piazza oggi: una solidarietà sottolineata da ciascun intervistato, che cozza con il comportamento di questo governo dalle percentuali elettorali molto ampie. Le iniziative sorte nei territori del comune di Roma, e da esso parzialmente sostenute, sono qui a mostrarlo.

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Cheja Celen, è un progetto che favorisce l’integrazione di bambine e ragazze rom nelle scuole, dalle elementari alle superiori secondarie, attraverso un laboratorio di ballo e musica volto a insegnare anche alle loro compagne gage le danze del proprio popolo. E’ un programma nato nel campo nomadi Cesare Lombroso, zona nord di Roma, che ha coinvolto diverse scuole e destato gli interessi di alcuni teatri. Cinque ragazze sono qui, cangianti nei vestiti delle danze: minute, sorridenti ma molto timide, scuotono l’interesse di tutti i presenti. Sono tutte rom italiane, le cui famiglie provenienti dall’ex Jugoslavia sono qui da almeno tre generazioni. Vania Mancini è coordinatrice del progetto (sul quale ha scritto due libri, di cui l’ultimo “Zingare Spericolate” –con le fotografie di Tano D’Amico, gode dell’appoggio divulgativo del cantante Vasco Rossi)insieme all’Arci Solidarietà Lazio per il dipartimento delle Politiche Educative del comune di Roma, racconta la loro storia: “Sono cittadine italiane a tutti gli effetti che però non hanno documenti. Per questo non possono iscriversi a scuola, godere della dovuta assistenza sanitaria, persino farsi rilasciare il certificato di nascita. Noi mediatori culturali diventiamo una sorta di “prestanome”, garanzie per enti e istituzioni affinchè una percentuale sempre più alta possa avere accesso ai servizi scolastici e ottenere il diploma alla fine del percorso. Le loro famiglie sono in Italia da almeno tre generazioni, fuggite dall’ ex Jugoslavia senza documenti in seguito all’incendio dell’ambasciata . E’ assurdo che non siano ancora iscritte all’anagrafe, sono tutte nate in ospedali come il Bambin Gesù, il Policlino Gemelli, il San Filippo”. Stella, una di esse, ha 12 anni, frequenta la prima media alla scuola Fabriani – “nessuno mi tratta male” e vorrebbe diventare una cantante. Sua madre lo scorso anno è stata trattenuta nel CPT di Ponte Galeria per 6 mesi, lontana dalla famiglia, solo perché non aveva con sé i documenti.

Questa storia si raccorda bene alle sfumature delle discussioni di questo soleggiato pomeriggio. Le denunce, i numeri, i sorrisi e la memoria di un “riscatto” mai ottenuto per il genocidio patito, a differenza di altre popolazioni vittime della follia totalitaria novecentesca, sin dalla loro esclusione dal processo di Norimberga. “I rom non hanno mai fatto la guerra” e “Ogni popolo è una ricchezza per l’umanità” dicono le manine e gli occhi nerissimi che reggono gli striscioni. Ricordano ai passanti, all’Italia che li vedrà, cos’è stato il passato e qual è la strada che le opzioni di“Unione” e “Globalizzazione” in senso proprio avrebbero dovuto già scegliere. Ma soprattutto lo ricordano all’Europa. Una creolizzazione mai compiuta, ferma a principi populistici che sistematicamente ignorano le direttive parlamentari e la mutazione culturale già in atto. Per ancorarsi a quel passato glorioso che l’ha vista lottare e filosofeggiare “per” e “su” i diritti umani, mentre colonizzava e perseguitava i “dannati della terra”.

E’ ora che faccia i conti.

Con la Storia e con il futuro.

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La ragnatela

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Come un ragno che tesse lentamente la sua tela per poi catturare la preda, così la strategia dei coniugi Kirchner, leader dell'Argentina, è volta a mettere sempre più in difficoltà il principale gruppo di potere oppositore, rappresentato dal gruppo mediatico “Clarín”. Con un obiettivo implicito ma abbastanza chiaro: ottenere la rielezione alle Presidenziali del 2011.

ANTEFATTO – Il rapporto tra mass media e potere è sempre stato critico, e anche nelle democrazie più avanzate non mancano contrasti o tentativi da parte delle autorità di Governo di “tenere a bada” giornali e televisioni. In Argentina tale dinamica è particolarmente intensa da circa un anno e mezzo, durante il quale l'esecutivo di Cristina Kirchner (che sarebbe più opportuno considerare un “tandem” vista l'influenza decisiva del marito Néstor, già Presidente dal 2003 al 2007) ha intentato una dura battaglia contro il gruppo mediatico “Clarín”, il più influente del Paese in quanto titolare, oltre che dell'omonimo quotidiano (che insieme a “La Nación” è il più letto), di un network di televisioni via cavo, del principale provider di servizi Internet e di stazioni radio. La Casa Rosada ha segnato il primo punto a suo favore ottenendo l'approvazione, nel 2009, di una controversa legge (leggi l'articolo del “Caffé”) sulle telecomunicazioni che limitava drasticamente il numero di licenze per le trasmissioni radiotelevisive, con l'intento dichiarato di contrastare gli oligopoli (e quindi il grande potere del gruppo “Clarín”). Un secondo successo per il Governo era stato raggiunto ad autunno scorso, quando il Governo intervenne per “salvare” la trasmissione delle partite del campionato di calcio sottraendole alla società titolare dei diritti (in joint-venture con il gruppo “Clarín”) e pagando di tasca propria per trasmettere gli incontri in chiaro: un bel colpo per l'immagine appannata dell'esecutivo, specialmente in un Paese dove il calcio è considerato di vitale importanza.

OGGI – Torniamo al presente e all'ultima “stoccata” dei Kirchner. Il Governo ha infatti revocato nei giorni scorsi la licenza di Fibertel, principale fornitore di servizi Internet in Argentina controllato dal “Clarín”, giustificando tale atto con il fatto che la fusione avvenuta anni addietro con Cablevisión (che provocò l'inclusione della società nel grande gruppo mediatico) sarebbe irregolare perchè avvenuta senza la previa autorizzazione dell'autorità garante delle Telecomunicazioni.

L'offensiva non si è fermata qui, ma è proseguita anche sul lato della carta stampata. Cristina Kirchner infatti, nel corso di una conferenza stampa, pochi giorni fa ha annunciato la pubblicazione dell' “Informe Papel Prensa: la verdad”, un'inchiesta condotta dalle autorità nei confronti di Papel Prensa, principale produttrice di carta per quotidiani controllata, oltre che da “La Nación”, manco a dirlo anche dal “Clarín” (oltre che in minor parte anche dal Governo). Secondo il rapporto, Papel Prensa abuserebbe del proprio potere di mercato e l'attuale assetto proprietario sarebbe stato originato da una delle tante pagine oscure della dittatura militare di fine anni '70: in pratica, i precedenti proprietari sarebbero stati costretti a vendere l'azienda sotto minaccia da parte dei membri della Giunta dittatoriale.

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GLI OBIETTIVI – Al di là delle dichiarazioni ufficiali, tese a manifestare la difesa da parte del Governo della democrazia e della libertà di stampa, il vero obiettivo di questa campagna sembra essere proprio il gruppo “Clarín”, che in Argentina, Paese in cui purtroppo chi conta davvero sono alcuni oligopoli (come, ad esempio, quella dei produttori agricoli), costituisce un centro di potere influente ed alternativo a Cristina Fernández e Néstor Kirchner.

Lo scopo è, nel breve periodo, quello di far recuperare consensi al Governo, in vista delle elezioni presidenziali che si terranno fra un anno. Molto probabilmente Néstor Kirchner si riproporrà alla guida del Paese, avendola lasciata solo formalmente per cedere il posto alla moglie (in Argentina la Costituzione non consente che uno stesso individuo possa essere eletto per due mandati consecutivi). Per fare ciò, la coppia ha bisogno di contrastare i propri avversari dentro e fuori dal Parlamento. L'opposizione parlamentare, nonostante attualmente costituisca la maggioranza, è troppo frammentata e difficilmente le prossime elezioni potranno essere vinte da una formazione non appartenente al Peronismo, “oficialista” o dissidente che sia.

I Kirchner possono sfruttare una congiuntura economica tornata ad essere favorevole: le stime prevedono una crescita del PIL dell'8% per il 2010. Pochi Paesi in Sudamerica soffrono però come l'Argentina di una ciclica instabilità macroeconomica, dovuta all'eccessiva dipendenza dallo sfruttamento delle risorse agricola, quindi non è scontato che questa condizione propizia duri a lungo.

Da ultimo, appunto, la strategia messa in atto contro il “Clarín” rappresenta il compimento della ragnatela evocata nel titolo dell'articolo. Da qui a un anno, però, potrebbero ancora succedere molte cose in un Paese per nulla scontato come quello sudamericano.

Davide Tentori

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Tempismo perfetto

Ripartono i negoziati, dunque ripartono le violenze di chi si oppone fermamente a qualsiasi tentativo di accordo tra Israeliani e Palestinesi. Un agguato di miliziani di Hamas uccide quattro israeliani. La reazione dagli insediamenti:”Da oggi ricominciamo a costruire ed espanderci”. Ecco perché i negoziati di domani sembrano destinati a sicuro fallimento, prima ancora di cominciare

IL FATTO – Un attacco definito “feroce” dai soccorritori. Un agguato in piena regola. Villaggio di Beni Nai, nei pressi dell'insediamento di Kiryat Arba, non lontano da Hebron. Quattro israeliani, tutti appartenenti alla stessa famiglia (due uomini di 25 e 40 anni, e due donne, tra cui una incinta) uccisi da miliziani palestinesi appartenenti alle Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, che ieri sera ha rivendicato l’attentato definendolo “la prima operazione di una lunga serie”. Dopo aver fermato il veicolo bianco su cui viaggiava la famiglia con una raffica di colpi, i miliziani hanno estratto i quattro israeliani dall’auto e li hanno uccisi a bruciapelo. Tutto questo accade alla vigilia della ripresa dei colloqui tra Israeliani e Palestinesi a Washington, con l’assai arduo obiettivo di ripartire con i negoziati per giungere ad un accordo sullo status definitivo (addirittura entro un anno, secondo gli – utopistici? – obiettivi americani). I due avvenimenti, come vedremo, sono tutt’altro che slegati.  

LE REAZIONI – Mentre il premier palestinese Salam Fayyad ha pronunciato parole di sdegno e condanna per l’accaduto, i Comitati di resistenza popolare palestinesi definiscono l’attacco un messaggio per i negoziatori. “Non avrebbero dovuto imbarcarsi in questa vicenda senza il sostegno del popolo palestinese – ha detto il portavoce dei Comitati, Abu Mujahid, a Ynet -. La nostra gente sposa ancora la causa della resistenza e non crede in quei fittizi colloqui”. Centinaia di persone a Gaza hanno esultato e sbandierato bandiere verdi di Hamas. In serata, decine di soldati israeliani si sono schierati nella parte palestinese di Hebron, città ad altissimo tasso di tensione, dove vivono 500 israeliani a fronte di 200mila abitanti palestinesi. Dagli insediamenti israeliani sono partiti lanci di pietre contro macchine palestinesi a Havat Gilad, Givat Assaf e nell’area di Silwad. “Per ogni nostra vittima i palestinesi dovranno pagare un prezzo”: queste le parole dei leader religiosi. Forze di sicurezza israeliane hanno inoltre fermato un tentato assalto ad una casa isolata abitata da una famiglia musulmana, mentre a Naalin, una bottiglia molotov è stata lanciata contro un’auto palestinese, senza provocare feriti.

LE PAROLE – Dagli Usa, il premier israeliano Netanyahu afferma, direttamente e tramite il portavoce Mark Regev: “Israele non permetterà che lo spargimento di sangue di quattro suoi cittadini in Cisgiordania resti impunita. Troveremo gli assassini, puniremo i loro mandanti. Non permetteremo che i terroristi decidano dove devono vivere gli israeliani o la configurazione dei confini definitivi, e nel corso dei negoziati chiederemo misure di sicurezza destinate prevenire questi omicidi. Quanto accaduto non produce però alcun cambiamento nell’avvio dei negoziati di pace. Restiamo impegnati a raggiungere la pace ”. Queste invece le parole di Abu Mazen, Presidente palestinese: “L'’Autorità nazionale palestinese si oppone agli attacchi contro i civili di entrambe le parti, sia israeliani che palestinesi. Questi gesti hanno l’unico obiettivo di ostacolare il processo diplomatico”. La Casa Bianca ha condannato “nel modo più forte possibile” l’attentato. Il Presidente Israeliano Shimon Peres, condannando l'attacco, ha dichiarato: “I terroristi non avranno il sopravvento. Unendo le forze è possibile sopraffarli. Con i terroristi non è possibile negoziare, ma invece occorre trattare con quanti si oppongono al terrorismo e vogliono la pace”, riferendosi alla delegazione guidata da Abu Mazen.

LE CONSEGUENZE – Al di là delle parole, assai più significativa è la decisione presa nella notte dal Moatzat Yesha, l’organizzazione che racchiude e coordina tutte le comunità ebraiche della Cisgiordania. Una delibera che, se attuata, avrà conseguenze pesantissime. Il blocco dell’espansione degli insediamenti israeliani (la moratoria di dieci mesi relativa al congelamento degli insediamenti, in scadenza il 26 settembre) non sarà più rispettato, sin da oggi. Questa la comunicazione: «Invitiamo tutti i coloni a iniziare a costruire dalle sei di mercoledì mattina. Loro ci attaccano e la risposta di noi sionisti sarà quella di costruire ovunque».

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ECCO PERCHE’ – Nella storia del conflitto israelo-palestinese, questa scena si è ripetuta costantemente. È un film già visto: ogni volta che si tenta di fare un passo in vista di un accordo di pace, piccolo o grande che sia, ecco un attentato, puntuale come un orologio, da parte di chi la pace non la vuole affatto, a ribadire il suo no ad un accordo. Attentati da parte di estremisti palestinesi ve ne sono stati parecchi in simili situazioni; d’altra parte, non si può dimenticare come il premier israeliano Rabin, uomo che forse più di tutti ha provato a cercare un accordo, sia stato ucciso nel ’95 da un estremista israeliano. Finchè da entrambe le parti non si riuscirà a superare questi pur tragici avvenimenti, alla pace non si arriverà mai. È triste ma doveroso andare oltre i morti e gli attentati e proseguire con i colloqui, se si vuole raggiungere la meta finale. Interrompere negoziati di pace in caso di attentati, fatto avvenuto più volte negli ultimi 20 anni, rende i governanti sempre “ricattabili” da chi non vuole la pace. Certo, per riuscire ad andare oltre occorre desiderare davvero un accordo e avere una forza e un peso politico di gran rilievo. E non sembra certo questo il caso, da entrambe le parti.  

SENZA PROSPETTIVE – I negoziati che partono domani hanno davvero scarse possibilità di successo. Le delegazioni e i governi israeliani e palestinesi non hanno un “mandato popolare” alle spalle. In questo momento, nessuna delle due parti (sia a livello di esecutivo, sia a livello di opinione pubblica) sembra avere alcuna intenzione di cedere minimamente sui punti nevralgici di un negoziato attendibile: insediamenti, confini, ritorno dei profughi, Gerusalemme capitale. Un negoziato senza punti negoziabili difficilmente può avere buone prospettive. Abu Mazen, Presidente palestinese, inizierà i colloqui nonostante il suo mandato sia scaduto da oltre un anno, senza nuove elezioni all’orizzonte, con un peso politico quanto mai ridotto, senza assolutamente poter parlare a nome del popolo palestinese, da anni diviso tra Fatah (Cisgiordania) e Hamas (Gaza). Netanyahu è il leader di un governo che cadrebbe automaticamente in caso di qualsiasi concessione ai palestinesi. La moratoria sul congelamento degli insediamenti non sarà rinnovata, come già comunicato dallo stesso premier israeliano, e stanotte negli insediamenti si è unilateralmente deciso di tornare a costruire. Insomma, manca anche la più basilare precondizione per iniziare un negoziato. L’attentato di ieri, come tanti altri nella storia recente e non, era volto a provocare il fallimento dei negoziati che inizieranno domani. Con amarissima ironia, bisogna dire che questa volta proprio non sarebbe servito: questo accordo non s’ha da fare, anche questa volta, e i negoziati sono già indirizzati sulla strada del fallimento con le proprie gambe, senza bisogno di tragici e sanguinari “aiuti” dall’esterno.

Alberto Rossi [email protected]

Il sorpasso

Dopo una rincorsa silenziosa e paziente, non appena la campagna elettorale brasiliana è entrata nel vivo, Dilma Rousseff, “erede” designata di Lula, ha superato – e distanziato – nelle intenzioni di voto il suo rivale principale, José Serra. A un mese e mezzo dalle elezioni ecco gli scenari che si presentano per la potenza sudamericana

DILMA SE NE VA – E pensare che fino a un anno fa José Serra raccoglieva oltre il doppio delle intenzioni di voto dei brasiliani, in vista delle prossime elezioni presidenziali che, ormai imminenti, si terranno domenica 3 ottobre. Il candidato del principale partito di opposizione al Governo di Lula, il Partito della Socialdemocrazia Brasiliana, dominava i sondaggi forte dei suoi successi come governatore dello Stato di São Paulo, la megalopoli perno dello straordinario successo economico brasiliano. E invece Dilma Rousseff, candidata a prendere il posto di Lula da Silva (che in base alla costituzione non può ripresentarsi per un terzo mandato consecutivo) ha recuperato, conquistando consensi in maniera costante e – apparentemente – inarrestabile. Se all'inizio della campagna elettorale, circa un mese e mezzo fa, i due erano appaiati (leggi l'articolo del “Caffè”), il trend favorevole alla Rousseff non si è arrestato ed è notizia di queste ultime ore che la candidata del Partito dei Lavoratori (PT) ha accumulato un vantaggio di addirittura 17 punti percentuali: 47% contro 30%.

PARTITA FINITA? – Si tratta ovviamente di sondaggi, ma di ragioni per pensare che la Rousseff può davvero diventare la prima donna Presidente del Brasile ce ne sono parecchie. Anzi, probabilmente ce n'è una sola che è però più che sufficiente per ottenere la vittoria, e si chiama Lula. Il presidente uscente viene da due mandati trionfali ed è stimato in maniera pressochè unanime in patria (dove ha un consenso popolare attorno all'80%) e all'estero. In questi otto anni il Brasile ha saputo rendersi protagonista di una crescita economica stabile e solida, riuscendo a generare per la prima volta ricchezza che è stata condivisa anche dalle fasce più povere della popolazione.

E' dunque l'immagine del “presidente operaio” (in questo caso non solo metaforicamente, dato che Da Silva davvero lavorò in una fabbrica, come testimonia il moncherino del suo mignolo sinistro) il principale asso nella manica della Rousseff, che sta riuscendo a far dimenticare il suo personale “scheletro nell'armadio”, ovvero il suo passato da guerrigliera filo-marxista durante gli anni della dittatura militare.

I critici di Lula sostengono che la vittoria della Rousseff non sarà altro che un modo per il Presidente di aggirare la costituzione e di rimanere – di nascosto – nella stanza dei bottoni, un po'come sta avvenendo in Argentina con il tandem Néstor – Cristina Kirchner. Si tratta di un'osservazione sicuramente fondata, che però tiene solo parzialmente conto della realtà. Dilma Rousseff, economista e Ministro uscente della Casa Civil, non è un “personaggio” e non riesce a riscuotere grande appeal negli elettori: però ha dalla sua il merito di essere una delle principali menti del successo economico brasiliano. Anche a lei, infatti, si deve il programma “Bolsa Familia”, che attraverso un sistema di sussidi, è riuscito a strappare alla povertà oltre trenta milioni di brasiliani in questi ultimi anni.

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SERRA E MARINAJosé Serra insegue, cercando di recuperare terreno. Già sconfitto da Lula alle elezioni del 2002, dovrà probabilmente rassegnarsi alla sconfitta anche questa volta, pur essendo un politico navigato e rispettato, alla guida dello Stato più popoloso e ricco del Brasile. Serra, tuttavia, pecca anch'egli di scarso appeal, oltre a subire il peso insostenibile della figura di Da Silva.

Intanto, più indietro cerca di inserirsi una terza candidata, l'esponente del Partido Verde Marina Silva. I sondaggi la danno al 10%: potenzialmente un buon risultato, che però sottolinea una volta di più il netto vantaggio della Rousseff, che rasenta il 50% dei consensi pur con una sostanziosa fetta di voti “rubata” a sinistra.

Davide Tentori

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La lunga strada della ricostruzione

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Il “Caffè” torna puntualmente ad Haiti per verificare come si evolve la situazione a sei mesi dal terribile terremoto. Mentre i mass media si ricordano dell’isola caraibica solo per la vicenda legata alla candidatura del rapper Wiclef Jean alle prossime elezioni presidenziali, noi andiamo più in profondità, analizzando le ragioni per le quali la strada della ricostruzione appare sempre più in salita.

 

L’ORA DELLA RICOSTRUZIONE – Lo scorso 12 luglio Haiti ha commemorato sei mesi dal terribile terremoto che ha provocato oltre 300.000 vittime ed ingenti danni materiali ed economici. Il semestre trascorso, oltre a contenere un alto valore simbolico, in termini pratici  scandisce anche il momento per la transizione dallo stato d’emergenza a quello della ricostruzione del paese piú povero dell’emisfero occidentale. Aiuti per una cifra di poco inferiore al miliardo di dollari sono stati iniettati principalmente dalle organizzazioni umanitarie ed in alcuni casi attraverso il governo per far fronte alla crisi. La maggior parte di questi fondi sono serviti per la distribuzione di razioni alimentari, costruzioni temporanee -fra cui scuole e la rilocalizzazione di un milione di rifugiati – e per la riattivazione dei servizi sociali di base, su tutti educazione e salute. Ma è giunto il momento di pensare alla ricostruzione.  Nelle riunioni di alto livello organizzate dall’ONU che hanno seguito la catastrofe del terremoto (due a Santo Domingo ed una a New York fra marzo e aprile), la comunitá internazionale ha promesso aiuti allo sviluppo per 11 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Al momento peró solamente 100 milioni sono stati versati (dal Brasile per oltre la metá). Ció équivale all’1,9 % dei 5,4 miliardi promessi nei primi due anni post-terremoto. Un Fondo per la Ricostruzione di Haiti, sotto l’egida del governo e copresieduto dall’ex presidente statunitense Bill Clinton, era stato creato per facilitarne la gestione  e per finanziare il piano di ricostruzione nazionale le cui necessitá su diciotto mesi sfiorano i 4 miliardi di dollari (3864 milioni). Se lo slogan delle autoritá é di ricostruire un Haiti migliore, in realtá molti haitiani si chiedono quando la ricostruzione comincerá.

 

NUOVE DIFFICOLTA’ – L’inadempienza dei donanti riguardo alle promesse di aiuti non é cosa nuova, come insegna il caso dello tsunami del Pacifico ed altre crisi analoghe. Ciononostante per Haiti questo implica che i lavori di ricostruzione stentino faticosamente a decollare per l’assenza di risorse (diversi progetti sono stati sottomessi alla Commissione del Fondo di Ricostruzione, l’organo incaricato di coordinare e ripartire il denaro promesso, per poi essere “congelati” in attesa dell’arrivo dei finanziamenti). Ma a discapito dei rallentamenti, la paralisi degli esborsi ed in particolare del Fondo che avrebbe dovuto assicurare una ricostruzione diretta “dagli haitiani per gli haitiani” ripropone la questione spinosa dell’autonomia del governo. Molti dei paesi donanti infatti non sarebbero pronti a dar fiducia ad Haiti che naviga tutt’ora agli ultimi posti nella classifica dei paesi a maggior tasso di corruzione. Ciononostante l’appoggio esterno é oggi più che mai necessario. Il terremoto del 12 gennaio, oltre alle drammatiche conseguenze sulla popolazione, ha provocato una brutta battuta d’arresto nello sviluppo del paese, che stava cominciando a dare qualche frutto positivo. La disoccupazione e l’insicurezza si sono aggravate con il diffondersi di accampamenti senza controllo e con scarso sostegno del governo ed internazionale mentre l’imminente stagione delle piogge (24 potenziali cicloni potrebbero riversarsi sull’isola in queste settimane)  rappresenta un rischio per i migliaia di senza tetto che, in particolare nella capitale Port-au-Prince, vivono ancora in accampamenti. Ma per Haiti che soffriva giá prima di una drammatica fragilitá, i problemi rimangono gli stessi. Su tutti, l’assenza di risorse umane, molte delle quali e le piú qualificate hanno abbandonato il paese, la corruzione e la stabilitá politica. Quest’ultima é fondamentale per favorire gli investimenti promessi nel 2009, in particolare dagli Stati Uniti attraverso le petizioni di Bill Clinton nelle vesti di inviato speciale dell’ONU. Ma adesso questa prospettiva sembra meno sicura dal momento che il Senato americano rivaluta i rischi di una implicazione commerciale sull’isola.

 

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ELEZIONI IN ARRIVO – Nel corso dei prossimi dieci mesi Haiti attraverserá un intenso periodo elettorale (le legislative si svolgeranno in novembre mentre il mandato del Presidente René Préval giunge a termine nel febbraio del 2011). La sfida del prossimo governo sará sicuramente d’assumere la coordinazione degli aiuti internazionali. Nei suo quinquennio alla presidenza Préval, che non potrá ricandidarsi, ha assicurato la stabilitá richiesta dai donanti internazionali.  Questo peró non é stato sufficiente per rilanciare il paese sulla strada dello sviluppo. Préval non ha fatto mostra della leadership necessaria lasciando spesso alla comunitá internazionale  la responsabilitá di scrivere le strategie e di implementarle. É vero che solamente nel 2006 il paese é uscito da una lunga parentesi d’instabilitá e di conflitto sociale e che negli ultimi anni Haiti ha visto il passaggio di cicloni devastatori (nel 2007 e 2008) e particolarmente  sofferto le conseguenze della crisi globale dei prezzi degli alimenti (2008). Ciononostante i risultati sono stati lenti e poco consistenti, a discapito di una – seppur debole- crescita fino al momento del terremoto.  Inoltre, il governo non ha saputo rispondere alle richieste della popolazione che oggi, come sempre alla vigilia di stagioni elettorali in Haiti, si fanno sempre piú pressanti, un rischio di instabilitá che preoccupa le Nazioni Unite presenti sul territorio con una forza militare di stabilizzazione. Tuttavia, l’aspetto di maggior rilevanza é che il prossimo presidente haitiano, ed il suo governo, riescano nel difficile esercizio d’assumere la responsabilitá della ricostruzione soddisfacendo alcune (per lo meno ) delle piú incalzanti esigenze della popolazione e fare in modo che gli aiuti internazionali arrivino concretamente all’uomo della strada.

 

Gilles Cavaletto (da Haiti)

Quale pace?

(Da Gerusalemme) – La parola pace è uno dei termini maggiormente abusati quando si trattano, paradossalmente, tematiche e questioni relative ai conflitti ed alle guerre attualmente in essere in diverse parti del mondo. Quando poi si accostano queste quattro lettere all'area del vicino oriente l'abuso di questo termine raggiunge picchi elevatissimi. Oggi, ancora una volta, il presidente americano di turno, Barack Obama, annuncia solennemente che il 2 settembre Abu Mazen e Netanyahu si recheranno a Washington per discutere il possibile raggiugimento di un accordo di pace.

LE QUESTIONI SUL TAVOLO – Si rischia di diventare ripetitivi quando si cerca di spiegare quali siano le problematiche che dividono, da oltre 60 anni, israeliani e palestinesi. Lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi e la definizione dei confini del futuro stato palestinese. Questo solo per ricordare le tre contrversie di maggiore rilievo. E gli insediamenti? Ed il muro di separazione? E la gestione delle risorse idriche? Anche queste ultime tre questioni non possono assolutamente essere ignorate. Tre questioni che appaiono inoltre strettamente interconnesse. Gli insediamenti sono circondati per buona parte dalla barriera difensiva israeliana: 8 metri di cemento armato continuamente interrotti da torrette di avvistamento e dotati di sensori di movimento. Il muro ha in molti casi, vedi Qalqilya, deliberatamente modificato il proprio percorso per includere falde acquifere ed ampie fette di territorio: in molti casi ben oltre la linea di confine stabilita nel 1967. Non solo. La gran parte degli insediamenti, per non dire tutti, sono costruiti in corrispondenza delle falde acquifere presenti nella West Bank e questo contribuisce ad aggravare la penuria d'acqua presente nei Territori Palestinesi.

E se abbiamo visto come insediamenti, acqua e muro siano strettamente interconnessi, non dobbiamo dimenticare le storiche problematiche che spaccano la regione. In primis lo status di Gerusalemme, la quale oggi appare una città israeliana a tutti gli effetti. Proclamata capitale indivisibile dello stato ebraico, la città santa è oggi più che mai considerata parte integrante dello stato israeliano e molto difficilmente verrà fatta alcuna concessione sulla sua condizione. Una città divisa da confini invisibili, ma estremamente tangibili.

Ed i profughi? Come far tornare migliaia, milioni considerando tutte le generazioni, di palestinesi in case di cui è ormai rimasta solo la chiave che stringono fra le mani? Gran parte dei villaggi palestinesi da cui furono scacciati nel 1948 semplicemente non esistono più e anche molte delle case di cui rivendicano la proprietà sono state abbattute o occupate. I profughi esistono ormai come reale problema solo per i paesi arabi limitrofi che il più delle volte malvolentieri li ospitano. Tutto questo senza considerare che uno stato palestinese, per esser definito tale, dovrebbe avere una continuità territoriale che al momento sembra davvero impossibile da raggiungere e dei confini che sono ben lontani dall'essere definiti.

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IN RAPPRESENTANZA DI CHI? – Abu Mazen e Bibi Netanyahu avranno dunque la forza, morale ma soprattutto politica, di sedersi al tavolo delle trattative e fare scelte difficili, coraggiose e soprattutto impopolari? Per quanto riguarda la parte palestinese, Abu Mazen arriverà il 2 settembre a Washington in rappresentanza di se stesso e dei propri interessi: nulla più. La sua popolarità fra i palestinesi è ai minimi storici e continua a calare con il passare del tempo. Il mandato presidenziale è scaduto da oltre un anno e la sua estensione ha provocato moltissime proteste nel mondo politico palestinese. La sua figura è debole, inflazionata e non gode di fiducia nemmeno all'interno di alcune frange di Fatah le quali sembrano invece molto più vicine al premier Salam Fayyad. Inoltre il presidente palestinese dovrà fare i conti con le contestazioni delle altre forze politiche palestinesi, Hamas su tutte, le quali si sono già espresse in maniera negativa riguardo alla possibile ripresa delle trattative con il governo israeliano. Le parole di Hamas portano inoltre alla luce la drammatica situazione della Striscia di Gaza, situazione che al momento non sembra però rientrare nelle priorità della Casa Bianca.

Governo israeliano che vive anch'esso momenti di grande difficoltà sul piano della coesione interna. Quali concessioni potrà permettersi Bibi Netanyahu senza mettere in crisi la sua squadra di governo? Avigdor Lieberman, attuale ministro degli esteri ed esponente del partito di destra Israel Beitenu, accetterà di riportare con la forza entro i confini del 1967 gli oltre 300mila coloni presenti nella West Bank o i 184mila israeliani che vivono a Gerusalemme est? Difficile. Lo stesso Netanyahu si è più volte negativamente espresso sulla soluzione "due popoli-due stati", e gli 11 rappresentanti del partito ultra-ortodosso dello Shas difficilmente favoriranno un'azione governativa tesa a colpire gli interessi dei coloni a favore delle trattative di pace. Due leader deboli ed i cui rapporti non sono mai stati idilliaci. Un rapporto di reciproca sfiducia che non sembra essere in grado di portare alle coraggiose scelte di cui ci sarebbe invece estremamente bisogno.

CONCLUSIONI – Resta infine da vedere quale sarà l'atteggiamento assunto da Washington. Punto non meno importante questo se si considera che nel corso degli anni, da Oslo fino ad Annapolis, gli USA hanno costantemente agito quasi da avvocato difensore degli interessi israeliani. Ad oggi l'unica speranza che le trattative di pace risultino quanto meno credibili, risiede nell'impegno che il presidente Obama deciderà di profondere dal 2 settembre in poi. Solo forti pressioni americane potranno costringere Israele a fare concessioni in materia di territori e solo Obama può ridare credbilità ad un Abu Mazen sempre più isolato.

Nonostante gli sforzi però, le trattative rischiano di arenarsi già in partenza. L'Autorità Nazionale Palestinese ha infatti annunciato che interromperà il dialogo se Israele riprenderà a costruire nuovi insediamenti ed il 26 settembre scadrà la moratoria parziale di 10 mesi durante i quali, teoricamente, Israele non avrebbe dovuto costruire nuovi insediamenti. Cinque giorni fa un alto ufficiale dell'esercito israeliano ha annunciato che nelle vicinanze della Ariel University, situata nell'omonimo insediamento, verranno costruite nuove strutture per accogliere gli studenti ed il comitato centrale del Likud ha votato in giugno una risoluzione che mira a riprendere, non appena possibile, la costruzione di nuove case israeliane nella West Bank. Se il buongiorno si vede dal mattino…

Marco Di Donato

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Elezioni in Burundi: tra democrazia e (in)stabilità

La lunga stagione elettorale attesa in Burundi dal 2005 volge al termine in un clima di tensione, assenza di trasparenza, intimidazioni e violenze. Quale futuro per questo stato stremato da una più che decennale guerra civile?

Bujumbura, Burundi, 11/8/2010

È dalla fine di maggio che gli elettori burundesi sono chiamati alle urne a cadenza mensile per eleggere i consiglieri comunali, il presidente , i deputati e i senatori (Foto sopra: il Presidente della Repubblica Pierre Nkurunziza durante l’ultimo comizio elettorale a Bujumbura prima delle elezioni presidenziali; M.Travaglianti). I consiglieri delle più piccole amministrazioni sono attesi invece per gli inizi di settembre, in un clima che resta ogni giorno più teso. Questo ciclo elettorale lungo quattro mesi, atteso con ottimismo dalla popolazione e dalla comunità internazionale, è stato segnato invece da boicottaggi, granate, arresti, e ostruzionismo della Commissione Elettorale. Un bilancio non proprio roseo per questo piccolo paese dell’Africa orientale, adombrato da Congo, Ruanda e Tanzania, che inizia oggi a riprendersi dopo 13 anni di guerra civile.

Le elezioni, le seconde dopo quelle del 2005 seguite agli accordi di pace di Arusha, e le prime dopo la demobilizzazione di tutti i gruppi ribelli, erano iniziate con 24 partiti politici, un dibattito intenso e la presenza di una stampa pluralista che aveva donato a tutti la speranza che, dopo la pace, si potesse raggiungere anche la democrazia. Ancora prima del vicino Ruanda del dittatoriale Kagame, dove, come dicono qui, “sono ancora nel medioevo”.

E invece pace e democrazia si sono scontrate, lasciando da un lato la comunità internazionale a favorire la prima, e l’opposizione a favorire, chiaramente, la seconda. Ad oggi, nessuna si è ancora assestata. 

PRIMI RISULTATI E CONTESTAZIONI – Il CNDD-FDD, ex- movimento ribelle Hutu durante la guerra e attualmente partito al potere, ha mantenuto la sua posizione di supremazia. Secondo i risultati ufficiali delle elezioni comunali di fine maggio, infatti, ha ottenuto il 64% dei voti, seguito a larga distanza da FNL, altro gruppo ribelle trasformato in partito politico appena un anno fa, dall’UPRONA, storico partito unico a dominanza Tutsi, dal Sahwanya FRODEBU, erede del partito del primo presidente Hutu eletto democraticamente nel 1993 e subito dopo ucciso, e dall’MSD, nuova formazione guidata dall’ex-giornalista Alexis Sinduhije.

Questi ultimi, che dietro le quinte si aspettavano risultati molto migliori, contestano aspramente lo scrutinio e, chiedendo lo scioglimento della Commissione Elettorale e la ripetizione delle elezioni, annunciano di boicottare quelli successivi.

D’altro canto, le Ambasciate invitano ad andare avanti. Sebbene alcuna frode non sia stata ad oggi provata, la mancanza di affissione immediata dei risultati nei seggi elettorali, la scoperta di urne ancora chiuse a distanza di giorni, e la reticenza della Commissione Elettorale a spiegare ritardi e irregolarità non ha certo aiutato la credibilità dello scrutinio.

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GLI SCRUTINI SUCCESSIVI – Il risultato e’ una campagna per le presidenziali ridotta ad un partito unico, disturbata da granate notturne in tutto il paese, da arresti e assassinii mirati di personalità della stampa e della politica, e dagli sforzi, vani, della comunità internazionale a far rientrare tutti gli attori in campo. 

(Foto: uno dei seggi elettorali a Bujumbura Mairie durante le elezioni presidenziali; M.Travaglianti)

Lo scrutinio presidenziale di giugno si svolge nella calma, accompagnato da polemiche sul tasso di partecipazione, che ha raggiunto in molte aree “picchi bulgari” sopra il 90%. Infatti per l’opposizione l’astensionismo era la strategia per mostrare a tutti il numero effettivo di voti, e se a due ore dalla chiusura dei seggi spesso meno della metà degli aventi diritto al voto si era recata a votare, come spiegare il successo di partecipazione presentato dalle stime ufficiali?

A luglio arriva infine l’elezione dei deputati. Con i termini per la presentazione delle candidature continuamente procrastinati per permettere all’opposizione di rientrare, e continui arresti di membri dell’opposizione, lo scrutinio legislativo è ufficialmente multipartitico. Ma a parte l’UPRONA, che gode di una base elettorale specifica e che beneficerà delle quote etniche previste da Arusha, tutti gli altri sono partiti che hanno raggiunto appena una manciata di voti alle comunali, e che non fanno quasi campagna elettorale. I senatori vengono eletti dai consiglieri comunali pochi giorni dopo con elezioni indirette.

IN ATTESA DELL’ULTIMO SCRUTINIO – Dopo quattro scrutini, la missione di osservazione dell’Unione Europea ha condannato l’assenza di trasparenza della Commissione Elettorale nella gestione dei risultati delle varie tornate elettorali, la sua mancanza di volontà a rimediare a tali problemi, e i tentativi continui di ridurre la libertà di espressione e di riunione. E, ad oggi, il Burundi si trova con lo stesso presidente del 2005 eletto per acclamazione popolare, un parlamento con una maggioranza dell’80%, e un gruppo folto di partiti politici che non riconoscono i risultati delle elezioni ed annunciano di fare opposizione extra-parlamentare per i prossimi cinque anni. A ciò si aggiunge che due importanti leader dell’opposizione (Nyangoma del CNDD e Sinduhije dell’MSD) sono in esilio da settimane per ragioni di sicurezza personale, il leader dell’ex movimento ribelle FNL è latitante da mesi col sospetto che stia preparando una nuova insurrezione, e salgono i rumori di defezioni nell’esercito. E c’è già chi parla di guerra.

Da Bujumbura, Burundi, Manuela Travaglianti [email protected]

Aiutati…che il Brasile t’aiuta

Si parla tanto di aiuti allo sviluppo da parte dei Paesi del cosiddetto “Nord” del mondo e delle strategie che bisognerebbe adottare per aiutare le nazioni più povere ad uscire dalla povertà. Si rischia di non accorgersi che anche altri attori si stanno distinguendo nel campo della cooperazione internazionale: è il caso del Brasile. Perchè gli aiuti non sono solo filantropia, ma anche e soprattutto espressione del soft power

CI PENSA LULA – E pensare che il Brasile fino a pochi anni fa era un destinatario, più che un donatore, di aiuti internazionali allo sviluppo. Un Paese in cui la maggioranza della popolazione sembrava condannata alla povertà e all'arretratezza che invece oggi si propone sullo scenario globale come una delle grandi potenze del futuro. In tutti gli ambiti: non solo dell'economia e della politica, ma anche per quanto riguarda la cooperazione internazionale. Già, perchè il colosso sudamericano si sta proponendo come uno degli attori di riferimento nel panorama degli aiuti allo sviluppo, di pari passo con il suo crescente peso a livello mondiale.

Di primo acchito, le statistiche ufficiali non sembrerebbero così lusinghiere: i fondi erogati dalla agenzia governativa preposta alla cooperazione internazionale, ABC, ammontano solo a 30 milioni di US$. Il Brasile però contribuisce al World Food Program con 300 milioni di dollari e ne destina 350 ad Haiti, dove è peraltro protagonista con le proprie truppe della missione MINUSTAH sotto l'egida delle Nazioni Unite. Il dato che è però più interessante è quello relativo ai prestiti destinati ai Paesi in via di Sviluppo, erogati dal BNDES (Banca Nazionale di Sviluppo Economico), che ammontano a 3,3 miliardi di dollari. Insomma, nel complesso Brasilia spende meno della Cina in termini assoluti, ma nella classifica globale dei maggiori “donatori” si trova appaiata alla Svezia, uno dei Paesi leader nel settore della cooperazione.

IL DIBATTITO SUGLI AIUTI – Sulla cooperazione internazionale c'è un ampio dibattito: da una parte, vi sono i sostenitori a spada tratta dell'aiuto allo sviluppo, che chiedono a gran voce che gli Stati più benestanti riservino quote sempre maggiori del proprio PIL per sostenere i Paesi più poveri. All'estremo opposto, vi sono altri che sostengono l'inutilità della distribuzione “a pioggia” di denaro, che spesso finisce nelle casse delle corrotte élites politiche che governano molti Stati, soprattutto africani. Come sempre, molto probabilmente, in medio stat virtus: gli aiuti allo sviluppo possono essere utili, a patto che vengano usati nel modo giusto, e cioè se vengono utilizzati per progetti concreti, nel rispetto delle peculiarità di ogni singola realtà ricevente di questi aiuti.

L'approccio del Brasile sembra essere vincente proprio perchè, al pari della Cina, non vincola i Paesi riceventi al rispetto di parametri macroeconomici o di standard democratici (il cosiddetto “tied-aid”, aiuto vincolato), come tendono a fare gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali. Al contrario, rispetta maggiormente le comunità locali senza entrare nel merito della gestione politica di questi aiuti.

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BUONI? SOPRATTUTTO FURBI – Ovviamente va sgombrato il campo dal fatto che l'azione sempre più energica del Brasile in questo campo sia fatta per pura e semplice filantropia. L'espressione chiave per comprendere al meglio questo fenomeno è: “soft power”. Il “potere morbido” è una categoria molto utilizzata in politologia per studiare le azioni compiute da un attore al fine di accrescere la propria influenza facendo leva non sulla forza, bensì su altre risorse molto meno violente ma spesso più efficaci. Gli aiuti allo sviluppo rientrano proprio all'interno di questa categoria, e sono assolutamente funzionali alla crescita economica del Brasile e soprattutto al suo impressionante dinamismo per quanto riguarda gli Investimenti Diretti Esteri. Imprese come Petrobras e Vale, molto attive in Africa, conducono iniziative di promozione economica e sociale di pari passo con l'implementazione delle proprie attività. In questo modo il Brasile può riempire spazi molto importanti, guadagnando in prestigio internazionale e sicurezza per i propri interessi economici.

Davide Tentori

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