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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Nessuna (buona) nuova da Gerusalemme

Ancora violenze nella Striscia di Gaza. Colloqui fermi ad un punto morto e che difficilmente ripartiranno, come da più parti annunciato, verso la metà di agosto. Le fazioni politiche palestinesi restano ancora sempre più distanti e profondamente divise, mentre anche l'esecutivo israeliano non vive certo uno dei suoi migliori momenti.

Sale la tensione nella striscia di Gaza e nel sud di Israele – Torna a tingersi di rosso la Striscia di Gaza. Alcuni miliziani palestinesi legati a movimenti estremisti di matrice islamica hanno lanciato missili sulle cittadine di Ashkelon, Sderot, Eliat ed Aqaba. Pochissimi feriti ed un solo morto: un tassista giordano. Le decine di missili palestinesi caduti in pochi giorni sul territorio israeliano sono il preoccupante segnale di una ripresa delle violenze nella zona costiera di Israele, mentre a Gaza le violenze non si sono quasi mai fermate. Da alcuni mesi, a cadenza più o meno regolare, l'esercito israeliano ha condotto campagne di repressione nei confronti delle forze palestinesi presenti nella striscia di Gaza ed oggi un attentato dinamitardo, ancora non rivendicato, ha provocato la morte di Issa Abdul-Hadi Al-Batran, capo artificiere delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, il braccio militare di Hamas. Nell'esplosione sono rimaste ferite altre 42 persone ed alcuni esponenti delle Brigate hanno già annunciato vendetta per questo ennesimo affronto.

L'ultimatum di Obama – La prima pagina del giornale arabo al-Quds titolava ieri: "Obama spinge Abu Mazen verso i negoziati diretti entro metà agosto". Più che una spinta una vera propria imposizione poiché, come riportato invece al giornale arabo al Hayat, l'ennesimo rinvio dei colloqui diretti fra israeliani e palestinesi porterà a gravissime conseguenze per Abu Mazen. Fonti diplomatiche rivelano che Obama sarebbe addirittura pronto a tagliare le relazioni internazionali con l'Autorità Nazionale Palestinese. Una "richiesta" quella statunitense che giunge quasi contemporaneamente alle parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu il quale si è detto sicuro che le trattative ripartiranno fra massimo due settimane. Di certo le recenti esplosioni di violenza registrate nel sud della regione non fanno pensare che, dopo un anno e mezzo di stallo, le due parti possano tornare a dialogare in breve tempo. Non sorprende infine il tempismo perfetto della nuova escalation di violenza: anche solo dinanzi alla ventilata possibilità di tornare a sedersi ai tavoli delle trattative la regione è tornata ad infiammarsi.

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Una pericolosa situazione di stallo – Nulla sembra potersi sbloccare. Almeno nell'immediato. Seguendo un copione più volte visto e rivisto, le due parti si perdono in dichiarazioni d'intenti che difficilmente possono effettivamente giungere a risultati tangibili.Al momento attuale anche un'improbabile ripresa delle trattative non fornirebbe alcuna possibilità reale di giungere ad un accordo vista la difficile situazione dei due attori in gioco. L'esecutivo Netanyahu appare sempre profondamente spaccato su quali e quante concessioni fare alla controparte palestinese. Inoltre la popolarità del premier appare in netto calo. Logorata dalla mancata risoluzione del caso Shalit, ad oggi solo il 41% degli israeliani appare soddisfatto della sua leadership e se le elezioni dovessero svolgersi di qui a pochi mesi, il partito di centro Kadima guadagnerebbe più seggi del Likud. Accusato dalla sua stessa coalizione di asservire gli interessi di Washington, il premier israeliano vive uno dei momenti storici più difficili nelle relazioni con gli Usa. D'altra parte Abu Mazen sembra ormai rappresentare esclusivamente il suo partito, Fatah, o ancora meglio solo una parte dello stesso. Il rinvio delle elezioni legislative previste per questa estate ed il prolungamento anti-costituzionale del mandato presidenziale gli hanno ormai alienato gran parte della popolazione e dell'opinione pubblica.

Conclusioni – Il 26 settembre scadrà la moratoria parziale di dieci mesi riguardante l'edificazione nelle colonie della Cisgiordania. La situazione potrebbe allora ancora peggiorare. Non solo a Gaza. Da tempo all'interno dei territori si torna a parlare con insistenza di una ripresa delle violenze sullo stile delle passate sollevazioni popolari del 1987 e del 2001. Una nuova Intifada è dunque prossima? Le parole del deputato arabo israeliano Hanin Zoabi non fanno certo ben sperare: "Israele sta scherzando con il fuoco". Un fuoco che potrebbe iniziare molto presto a bruciare.

da Gerusalemme Marco Di Donato 2 agosto 2010 [email protected]

Ricorrenze pericolose

Il 7 agosto ricorrerà il secondo anniversario del conflitto tra Russia e Georgia: il Caucaso continua ad essere un'area fortemente instabile ed il gran numero di attacchi recenti lascia presagire un periodo decisamente caldo. Inoltre, la pronuncia positiva della Corte Internazionale di Giustizia in merito all'indipendenza del Kosovo potrebbe rinvigorire altri movimenti indipendentisti. Intanto anche in Medio Oriente la tensione sale.

COMPLEANNO GEORGIANO – In occasione della ricorrenza del confronto armato tra Russia e Georgia, scatenatosi due anni fa per via delle mire indipendentiste di Ossezia del Sud ed Abkhazia, si attendono manifestazioni anti-governative in Georgia. La questione infatti non è per nulla sopita. Inoltre, le violenze lungo la frontiera meridionale della Russia sono costantemente aumentate nelle ultime settimane, con diversi attacchi condotti da forze ribelli in Kabardino-Balkaria e da movimenti di ispirazione islamica nel Pankisi Gorge.

Sembra dunque che vi sia in corso una recrudescenza nell'area con il combinarsi di azioni condotte da ribelli e da estremisti islamici. La reazione russa potrebbe non tardare, in considerazione anche del fatto che gli obiettivi colpiti nei recenti attacchi, una infrastruttura elettrica ed una struttura di preghiera di un gruppo musulmano moderato, segnano un potenziale salto di qualità nelle attività dei terroristi.

KOSOVO ED ALTRE SECESSIONI – Dopo la pronuncia della Corte di Giustizia ONU sulla legittimità della dichiarazione di indipendenza del Kosovo, decisione peraltro attesa, si attendono possibili reazioni da parte di altri gruppi indipendentisti. Oltre alle sopra citate regioni del Caucaso, a cui va aggiunto il Nagorno-Karabakh, anche le rivendicazioni della minoranza ungherese in Romania e Slovacchia potrebbero tornare in auge.

MEDIO ORIENTE – Meno bollente, ma comunque calda, la situazione mediorientale. Hamas ha ripreso un intenso lancio di razzi verso Israele (vedi il nostro articolo, dal nostro corrispondente a Gerusalemme).

A questo si aggiunge la sorpresa del viaggio in Libano effettuato dal Re dell'Arabia Saudita in compagnia del Presidente della Siria. Di difficile interpretazione la posizione Araba: la Siria è infatti vicina ad Iran ed Hezbollah, che invece i sauditi hanno sempre contrastato. La coppia risulta ancora più strana alla luce dei motivi che potrebbero aver spinto i due leader a recarsi insieme in Libano: la Siria ha cambiato idea sul proprio sostegno ad Hezbollah? I sauditi hanno deciso un riavvicinamento a Damasco ed al movimento libanese? Di certo sarà interessante seguire gli sviluppi di questo inconsueto incontro a tre.

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ALTRI EVENTI DELLA SETTIMANA

  • Nepal: continuano le difficili consultazioni e votazioni per la scelta del Primo Ministro. I due candidati, Pushpa Kamal Dahal “Prachanda” del Partito Comunista e Ram Chandra del partito del Congresso. Il Paese vive da un anno una notevole instabilità politica, ed il protrarsi dell'incertezza potrebbe essere causa di violenze, come successo nel recentissimo passato.

  • La Corea del Sud condurrà delle esercitazioni militari anti-sottomarino nel Mar Giallo. Continuano dunque gli scambi di segnali bellicosi tra le due Coree, dopo le tensioni degli ultimi mesi.

  • Colombia: Juan Manuel Santos, ex Ministro della Difesa, si insedia come nuovo Presidente, al posto di Alvaro Uribe, a seguito dei risultati elettorali di Giugno.

  • Kenya: si vota per la nuova Costituzione nel paese africano. Dopo un lungo periodo di campagna referendaria, il voto popolare deciderà se adottare il nuovo testo che mira alla ridefinizione dei poteri dello Stato ed un maggiore coinvolgimento femminile nelle Istituzioni. Giorno 6 dovrebbero esser diffusi i risultati.

  • A Washington si terrà un forum internazionale sullo sviluppo della società civile in Africa, ospitato dal Presidente Obama. Circa 120 giovani rappresentanti da oltre 40 Paesi africani discuteranno dello sviluppo di una leadership giovanile nel continente africano.

La Redazione – Pietro Costanzo 2 agosto 2010 [email protected]

Estate e nuovi progetti

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L'estate arriva anche per noi. Ci prendiamo una piccola pausa: dopo tanti caffè è necessaria! In Agosto il nostro sito sarà aggiornato con minore frequenza, ma continueremo ad offrirvi i nostri contributi. A Settembre la nostra scommessa riparte e siete tutti invitati a diventarne parte.

CAFFE' ESTIVO – Non perdete di vista il nostro sito: agosto è un mese caldo, non solo per la temperatura. Il Medio Oriente, l'Afghanistan, la Russia: tante delicate questioni in evoluzione non andranno di certo in vacanza e noi le seguiremo con il nostro stile e con i nostri collaboratori mai troppo sazi di caffè.

NUOVI MIX – Settembre sarà un mese ancor più caldo per noi. Abbiamo messo in cantiere “grandi opere” che intendiamo portare a termine: alcuni nuovi progetti, partnership importanti e nuove opportunità per i nostri collaboratori.

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L'ASSOCIAZIONE – Il Caffè però è anzitutto un'Associazione Culturale: eccovi una piccola chicca… il nostro statuto autografo. Seguiteci: presto le novità legate alle nostre attività associative.

Il Caffè è anche una piattaforma aperta a tutti coloro che pensano che diffondere una "cultura degli esteri", in maniera chiara e comprensibile dal grande pubblico, sia un modo per accrescere le capacità di comprendere chi ci sta vicino (o meglio, lontano!), e di avere maggior consapevolezza sul proprio ruolo di cittadini.

Crediamo che la partecipazione giovanile allo sviluppo ed al rinnovamento della cultura politica nazionale, vera via per mettere in moto il nostro Paese, passi anche per la consapevolezza di quello che accade lontano da noi: la conoscenza è la base di ogni innovazione ed è fondamentale avere la visione più ampia possibile su quello che ci circonda.

Noi ci proviamo, voi siete tutti invitati a diventare parte attiva di questa scommessa.

A presto.

La Redazione.

2 agosto 2010

La guerra del gas

La guerra dell’acqua? La guerra dei missili? Tra Israele e Libano è tensione continua, ma stavolta a innescare le polemiche è il gas naturale, un fattore nuovo nello scontro tra i due Paesi, che potrebbe portare paradossalmente ulteriore instabilità.

 

LO SCONTRO INFINITO – La prossima eventuale guerra tra Israele e il Libano da cosa sarà scatenata? Corrono voci in queste settimane di una escalation nei toni delle accuse reciproche tra il governo israeliano da un lato e, dall’altro, della leadership di Hezbollah, il partito-milizia sciita che, pur non avendo ottenuto la maggioranza dei seggi nel Parlamento libanese nelle elezioni del giugno 2009, tiene sotto scacco il governo di Beirut. Ciò tramite la presenza nell’esecutivo di alcuni suoi membri e, soprattutto, la deterrenza rappresentata dal suo vero e proprio esercito privato, con tanto di armi e arsenale missilistico di tutto rispetto. Dunque un prossimo conflitto sarebbe vicino e dipenderebbe dalle tensioni tra Israele e Hezbollah (che, facendo parte del governo libanese, arriverebbe a coinvolgere tutto il Paese nel conflitto)? Motivi strategici e di sicurezza militare? Oppure, ancora, dietro ad un possibile scontro nell’area vi potrebbe essere la necessità di controllare la risorsa naturale più importante e, allo stesso tempo, scarsa nella regione, vale a dire l’acqua? In effetti la storia di Israele e dei suoi conflitti con i vicini arabi insegna che proprio la questione della gestione delle risorse idriche (come nel caso della Siria con le Alture del Golan), è stata ed è tuttora una delle cause scatenanti delle controversie regionali.

 

IL GAS: LA NUOVA ARMA – Un elemento nuovo, però, irrompe nello scenario israelo-libanese e rischia potenzialmente di innalzare le eventualità di uno scontro: il gas naturale. Non più la guerra dell’acqua tanto paventata, dunque; non più una guerra mirata a salvaguardare la sola sicurezza militare dei confini, ma uno scontro sul gas. Si tratta di una risorsa naturale di cui molti Paesi mediorientali, dall’Egitto al Qatar, fino alle ingenti riserve dell’Iran, sono ricchi. Ma non è questo il caso, né dello Stato di Israele, né del Libano, che in questo costituiscono due eccezioni nel panorama mediorientale, ricco come è di idrocarburi. Perché gli attriti in queste settimane? Israele ha annunciato, tramite la compagnia statunitense (con base a Houston, in Texas) Noble Energy, che al largo di Haifa vi sarebbero ingenti riserve di gas naturale offshore, a circa 90 km dalla costa. Si tratterebbe dei giacimenti di Tamar e Dalit (guarda la mappa in basso), in tutto circa 170 miliardi di metri cubi di gas (Tamar rappresenta il più grande giacimento offshore mai scoperto nel Mediterraneo orientale), la cui produzione dovrebbe cominciare nel 2012. Tanto per coprire il fabbisogno interno per almeno i prossimi venti anni. A ciò si aggiungano le immense risorse che potrebbe nascondere un terzo giacimento in via di esplorazione, il Leviathan (quasi il doppio di Tamar), che potrebbero portare le riserve nazionali totali a circa 450 miliardi di metri cubi. Secondo alcune stime della Noble Energy, addirittura tale dato potrebbe crescere ulteriormente, fino a sfiorare i 700 miliardi di metri cubi.

 

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LE ACCUSE DI BEIRUT – E’ a questo punto che cominciano a spirare i possibili venti, se non di guerra, di forte tensione con il Libano, dal momento che Beirut ha rivendicato la sovranità su una parte dei giacimenti offshore, dichiarando che questi sconfinerebbero fino all’interno delle acque territoriali libanesi. Soprattutto Hezbollah stesso è intervenuto, accusando Israele di rubare al Libano le proprie risorse naturali. Il Ministro israeliano per le Infrastrutture Yaakov Mimran, smentisce tutto e a sua volta ha accusato Hezbollah di voler approfittare delle scoperte per rivendicare diritti non esistenti su tali aree. In un clima già infuocato per via di preoccupazioni legate alla sicurezza e dell’escalation di tensione nel Sud del Libano (da sempre roccaforte di Hezbollah), in cui delle truppe francesi dell’UNIFIL (il contingente dell’ONU preposto alla sicurezza della zona cuscinetto al confine tra Israele e Libano) sono state attaccate dagli abitanti di un villaggio, la controversia sul gas naturale rischia dunque di gettare altra benzina sul fuoco.

 

UNA MINIERA PER TEL AVIV – Si consideri che, per lo Stato di Israele, la dipendenza energetica da fonti esterne è uno dei punti più deboli: costretto a importare gas naturale (di cui quasi 2 miliardi di metri cubi annui dal vicino Egitto, altro motivo di tensione nell’area, essendo Il Cairo accusato dagli altri Paesi arabi di aiutare Israele) e carbone a fronte di una richiesta interna sempre maggiore, Tel Aviv potrebbe vedere nello sfruttamento dei giacimenti di gas appena descritti, la soluzione ai propri problemi di sicurezza energetica. Si stima che entro i prossimi anni, la richiesta interna potrebbe arrivare fino a 10 miliardi di metri cubi di gas naturale l’anno, contro i 5 attuali. Le immense riserve appena scoperte, per cui il governo israeliano ha già dato le licenze per l’esplorazione e la produzione, sono quindi una vera e propria manna dal cielo, ma anche una possibile fonte di ulteriore instabilità, viste le rivendicazioni libanesi. Non solo: per Israele si tratterebbe di un affare redditizio, nella misura in cui Tel Aviv potrebbe passare da importatore ad esportatore di gas naturale verso l’Asia e l’Europa, arrivando ad avere delle rendite totali fino a quasi 20 miliardi di dollari. Un vero e proprio tesoro in fondo al mare, dunque. E i tesori, si sa, sono sempre contesi. Attenzione agli sviluppi di questa vicenda, di cui da noi non si parla.

 

Stefano Torelli

La storia infinita

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Con la rottura delle relazioni diplomatiche, Chávez e Uribe scrivono un nuovo capitolo della interminabile storia di rapporti burrascosi tra i due vicini. Ancora una volta, motivo del contendere é la presunta presenza di guerriglieri delle FARC in Venezuela

UN NUOVO CAPITOLO – Lo scorso giovedí, il ministro degli esteri venezuelano Nicolás Maduro ha richiamato in patria l’ambasciatore a Bogotá e ha invitato il personale dell’ambasciata colombiana a Caracas a lasciare il paese nell’arco di 72 ore.

Qualche ora prima, durante un incontro con Diego Armando Maradona, suo grande amico, il Presidente Chávez aveva annunciato pubblicamente la rottura delle relazioni diplomatiche con Bogotá definendo la sua decisione “una questione di dignitá” e accusando il presidente uscente Álvaro Uribe di essere “succube degli Stati Uniti”. Con la consueta retorica bolivariana, il presidente venezuelano ha affermato nel corso dello stesso evento di avere la Colombia nel cuore, ma di non poter permettere che l’ “oligarchia colombiana” continui ad attaccare il Venezuela. Sempre a  fianco del CT argentino ha poi concluso avvertendo la comunitá internazionale che non accetterá nessun tipo di aggressione o di violazione della sovranità venezuelana.

UN PASSO INDIETRO – A far salire la colonnina di mercurio delle relazioni colombo-venezuelane ci aveva pensato il giorno prima l’ambasciatore colombiano presso l’OSA a Washington, Luis Alfonso Hoyos. Nel corso del suo intervento all’assemblea generale dell’organizzazione panamericana, il diplomatico colombiano aveva denunciato la presenza in territorio venezuelano di circa 1500 guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) e aveva chiesto a gran voce l’istituzione di una commissione internazionale d’inchiesta per far luce sulla questione. Dopo aver presentato alcune foto per provare le sue dichiarazioni, lo stesso ambasciatore aveva tenuto a precisare di essere alla ricerca della cooperazione del Venezuela, non di una sua condanna.   .

La reazione dell’omologo venezuelano Roy Chaderton si era limitata a sottolineare che l’ingerenza dell’ OSA in questioni “interne” di un paese membro costituirebbe un “curioso precedente”. Assai meno diplomaticamente, Chávez ha poi respinto al mittente le accuse colombiane definendole una “menzogna evidente e maliziosa”.

SVILUPPI FUTURI – Con sullo sfondo il cambio della guardia alla presidenza della Colombia e l’inasprirsi della crisi economica in Venezuela, lo sbocco di questa ennesima crisi politico-diplomatica tra Caracas e Bogotá appare incerto. Il ministro degli esteri venezuelano ha chiesto la convocazione di un consiglio della UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane) sostenendo che la questione colombiana trascende i rapporti bilaterali: la guerriglia, il narcotraffico e il permesso accordato agli Stati Uniti di utilizzare le proprie basi militari nel territorio nazionale costituiscono, secondo Maduro, “elementi di disturbo” per tutta la regione. D’altra parte, Bogotá ha definto un “errore” la decisione venezuelana di rompere le relazioni diplomatiche, invitando invece Chávez a tagliare i ponti con le FARC.

Come auspicato dal Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon, c’é da sperare che, ancora una volta, alle schermaglie verbali non facciano seguito azioni militari. Finora a farne le spese è stata soprattutto l'economia dei due Paesi: l'interscambio commerciale si è infatti ridotto fortemente a causa degli attriti diplomatici.

 Vincenzo Placco

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Si sono seduti, hanno parlato e se ne sono andati?

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Neshastan, goftan wa barkhastan”, cioè “si sono seduti, hanno parlato e se ne sono andati”. Così commenta un anziano alla fine della Conferenza dei donatori appena conclusasi a Kabul. È davvero tutto così banale ed inutile? Circa 70 delegati da istituzioni e Paesi donatori si sono riuniti intorno a un tavolo, per la prima volta in terra afghana, per cercare di dare un indirizzo concreto alle tante necessità di cambiamento che tutti sembrano evidenziare ma nessuno mettere in pratica.

QUALE SEGNALE? – Si inizia con i “fuochi d'artificio”: una nottata di razzi lanciati sulla città dagli insorti (gruppi combattenti talebani ma non solo, che avversano il Governo centrale e la presenza straniera), per mettere in difficoltà gli atterraggi dei leader stranieri. Qualche disagio, ma tutti arrivano comodamente al tavolo di Kabul.

Una grande conferenza internazionale sull'Afghanistan si è infatti svolta oggi, per la prima volta, in Afghanistan. Un segnale incoraggiante? Se dopo 9 anni di interventi militari e civili e 9 conferenze internazionali non si è ancora giunti a strategie e programmi condivisi (nel Paese e nella comunità internazionale) e ad una governance del Paese accettabile, non è detto che questa sia la volta buona.

Karzai si è presentato con un programma di 23 priorità e ha ammesso che il Paese, da lui guidato sin dal 2001, non ha avuto un buon livello di governo.

La corruzione, oramai spauracchio di tutti i partner internazionali, è stata messa in evidenza ancora una volta: questa è di certo un grande male per il Paese ma non tutto si riduce a ciò.

Mancano le basi, e le azioni per costruirle sono state confuse: poco lavoro, poca protezione per la gente, poca considerazione delle realtà locali. Un disastro quindi? Non del tutto. Se oggi il Paese discute di Istituzioni, Costituzione, elezioni e rappresentanza è già segno che qualcosa è stato cambiato. Ma concetti tanto “occidentali” possono essere calati dall'alto solo in un prima fase, quella più dura, quella dove qualcuno deve imporsi; poi c'è però bisogno di discutere, di aggiustare, di affinare il tiro. Questo è mancato, sinora.

QUALI PRIORITÀ?Sicurezza… ma va? Però questa volta Karzai ha una richiesta precisa, una scadenza: entro il 2014 le forze di sicurezza afghane dovranno prendere la totale responsabilità per il controllo del Paese. In questo caso il contributo straniero è chiaro, ma difficile: addestramento, tanto addestramento. ANA e ANP (le forze di sicurezza afghane) hanno inoltre bisogno di combattere la corruzione interna assicurandosi la fedeltà dei propri agenti, e quindi hanno necessità di assistenza costante e di fondi.

Coordinamento per la ricostruzione. Stando ai report ufficiali e non, gran parte dei fondi destinati allo sviluppo del Paese sono stati gestiti autonomamente dai donatori, senza che ci fosse una regia centrale, da parte del Governo o di un organo preposto, e senza che le attività portate avanti fossero reciprocamente conosciute. Il risultato: tante opere incompiute o impossibilitate a funzionare.

Omar Zakhilwal, Ministro delle Finanze afghano, ha quindi chiesto che il 50% dei fondi venga gestito a livello ministeriale. Richiesta in teoria ragionevole, ma non accompagnata da programmi o strategie pratiche. Il dilemma non è da poco: come fidarsi di una gestione centrale vista sinora come un “buco nero”? Altrettanto sensata la richiesta di Karzai alle ONG: creare un “common framework” e lavorare quindi all'interno di un programma. Non sembra certo un'idea irrealizzabile, non lo sarebbe stato neanche parecchi anni fa. Meglio tardi che mai?

Riconciliazione. Oramai il termine va di moda: ci sono i talebani buoni e quelli cattivi, con quelli buoni si fa la pace, con quelli cattivi si continua la guerra. Facile no? La pace si fa con il nemico, certo, ma prima di tutto con se stessi: se il Governo attuale non sarà chiaro su chi, nella lavagna, sta dal lato dei buoni e chi dei cattivi, non ci sarà riconciliazione accettabile, soprattutto dalla popolazione. Qui il problema è anzitutto di leadership: Karzai deve rischiare la propria posizione politica per avviare un processo di pace interna affidabile e tracciabile, evitando di barcamenarsi alla meno peggio tra signorotti locali, convenienze politiche e necessità reali. La popolazione non ha sinora accettato i rappresentanti locali scelti dal Governo, spesso personaggi ambigui e da sempre legati agli interessi criminali nel Paese. Un primo passo sarebbe incentivare la nomina dal basso, con elezioni, dei governatori e di altre cariche chiave, anzitutto attraverso una revisione costituzionale. Il cambiamento deve passare dalla legge, dalle regole, che sono l'unico vero strumento per rafforzare le istituzioni e per garantire quei meccanismi di “checks and balances”, controlli e contrappesi, tra i poteri del Paese.

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DA DOVE PARTIRE – Qualunque misura verrà adottata avrà degli elementi di ambiguità: non ci sono soluzioni univoche e certamente esatte. Il fattore decisivo sarà anzitutto l'assunzione di responsabilità da parte di chi deciderà come convogliare e gestire i fondi ingenti dei donatori.

Sinora infatti la pioggia di denaro ha arricchito solo i bacini di chi è riuscito a “spremere” i finanziatori, grazie a meccanismi di corruzione e di gestione di piccoli feudi, lasciando a secco i reali destinatari iniziali dei fondi.

Se questa conferenza volesse portare dei risultati, avrebbe già due recenti progetti da utilizzare come banchi di prova: da una parte la Campagna per l'accesso all'informazione, iniziativa della società civile, che offre ottimi spunti per sviluppare meccanismi di trasparenza nelle decisioni degli organi pubblici. Dall'altra, il progetto del Gen. Petraeus sulla costituzione di forze di sicurezza locali, che potrebbe rappresentare un mezzo importante per la costruzione della fiducia tra istituzioni e dei rapporti centro-periferia (la conclusione negativa di questo processo sarebbe d'altra parte un disastro, con piccole milizie locali sotto il giogo dei “soliti feudatari”).

Il Governo di Kabul, gli Stati Uniti e la coalizione internazionale hanno da oggi, ancora una volta, un ennesimo punto di (ri)partenza. Senza dimenticare che, oltre a questo importante appuntamento appena passato, a settembre ci saranno le elezioni per la Camera bassa del Parlamento.

Pietro Costanzo

20 luglio 2010

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BP: Big Problem

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Il caso British Petroleum è molto più di un disastro ambientale: le implicazioni geopolitiche sono fortissime, in particolare per la special relationship angloamericana, che sembra attualmente in forte difficoltà. Cerchiamo di capire le conseguenze dell'accaduto sull'industria petrolifera, e il terribile impatto che il crollo di BP avrebbe sull'economia della Gran Bretagna.

L'INDUSTRIA PETROLIFERA – Mentre scriviamo Bp esulta per l’avvenuta suturazione della falla petrolifera, il nuovo “tappo” sembra funzionare. Non si tratta comunque della soluzione definitiva, quella è rinviata alla messa in opera dei relief wells (i pozzi di alleggerimento), a cui si lavora da più di due mesi e che saranno ultimati prevedibilmente entro metà agosto.

In ogni caso il danno è stato fatto, ed è ingentissimo. Non si tratta solamente dell’impatto che la macchia di petrolio avrà sui delicati ecosistemi degli stati costieri, sulla catena alimentare, la salute delle popolazioni, il ciclo delle acque, il contenimento dei fenomeni meteorologici estremi, l’industria del turismo e un importante settore ittico – sempre che la Corrente del Golfo non si incarichi di perpetrare un singolare contrappasso recando una parte del danno fino alle verdi coste britanniche. Deepwater Horizon viene paragonata a Chernobyl o a Three Miles Island e potrebbe avere un impatto paragonabile sull’industria petrolifera, limitandone per molti anni lo sviluppo nei giacimenti estremi, quelli dell’offshore profondo e dell’Artico in particolare. Si tratta di settori dove le compagnie multinazionali contano di far valere un primato tecnologico e accedere a nuove risorse, dopo che la stragrande maggioranza delle riserve tradizionali sono passate sotto controllo delle Noc (le società statali dei paesi esportatori, come la saudita Aramco o la brasiliana Petrobras). In particolare gli stessi Usa devono alle acque profonde del Golfo del Messico, dove Bp è la compagnia leader, una parte importante (e soprattutto crescente) dell’output petrolifero – una paralisi o un drastico rallentamento delle attività stravolgerebbe tutto l’orizzonte energetico Usa di medio periodo.

LA BP IN GB – Gli aspetti geopolitici di tutto questo sono complessi e di vasta portata, si può iniziare focalizzando sugli sviluppi nelle relazioni anglo-americane, la special relationship messa a dura prova dal grave danno inferto da una compagnia che nasce britannica ma da tempo non è più tale. In un certo senso Bp è proprio la nervatura energetica della “relazione speciale”, essendo a tutti gli effetti una società angloamericana.

Naturalmente i britannici avrebbero il danno maggiore da un eventuale crack o smembramento di Bp, ma solo perché la company insiste su una economia di dimensioni molto minori rispetto agli Usa.

Bp è tecnicamente una impresa privata, ma il complesso di profili strategici che assume nell’economia e nella società britannica, la sua posizione chiave nelle prospettive energetiche e nelle politiche industriali del Regno Unito, la pongono al cuore stesso dell’interesse nazionale, ben più che se fosse semplicemente una grande azienda di proprietà pubblica.

E’ toccato al vecchio Evening Standard ammonire il giovane presidente, censurarne le intemperanze e gli atteggiamenti minacciosi che sono costati a Bp così gravi perdite nella City e a Wall Street, ricordargli che “la compagnia” stacca annualmente 1/6 dei dividendi percepiti dalle istituzioni britanniche, vale a dire dai fondi d’investimento da cui dipendono le pensioni di milioni di famiglie a basso reddito. Povera gente, non potenti lobbies o grandi elemosinieri elettorali (“fat cats” nella versione del quotidiano londinese). Ma il danno, pesantissimo, sarebbe anche per gli introiti fiscali del regno, e in una fase delicatissima per l’economia e il bilancio pubblico. In pratica, privata o no, Bp opera e rileva per Londra come un fondo sovrano, non molto diverso da quello – ricchissimo – della vicina Norvegia. Già questo farebbe della caduta di Bp un collasso sociale per l’Inghilterra.

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UN COLOSSO FONDAMENTALE (ANCHE PER GLI USA) – E non si tratta solo di questo, Bp è comunque un colosso industriale: la bilancia commerciale britannica (e la Sterlina) è molto appesantita dal crescente deficit energetico, oltre che – congiunturalmente – dalle massicce cure keynesiane del governo Brown e della Banca d’Inghilterra, e le strategie di rilancio di medio periodo puntano tutte le carte su un “surge”, una riscossa dell’industria dopo la ritirata storica degli anni ottanta e novanta. La recente relazione di Uk Oil & Gas conferma che una imponente tornata di investimenti nel settore contribuirà decisivamente alla ripresa del paese. E’ evidentemente il momento peggiore per indebolire, o addirittura perdere BP. Anche perché quegli investimenti sono particolarmente strategici, la società controlla le risorse, sia pure in declino, del Mare del Nord (e le tecnologie per sfruttarle), tuttora vitali per il Paese.

Agli attacchi di tono più prettamente nazionalistico, provenienti però dalla destra repubblicana, Bp può facilmente contrapporre qualche dato: il 40% dei profitti viene dal mercato Usa, quasi il 40% dei suoi 80mila dipendenti è americano e lo è più di un 1/3 del consiglio di amministrazione e quasi il 40% degli azionisti. Si tratta inoltre di un importante fornitore del Pentagono. Oltre al Golfo opera nell’Artico (Alaska), altra terra promessa del petrolio nordamericano. Senza Bp gli Usa non vanno da nessuna parte, e viceversa.

L'OBAMA FURIOSO – Più delicata (e credibile) è la questione sull’indignazione del Presidente. Si può immaginare che le punte più polemiche e colorite siano una reazione necessaria a contrastare la sensazione inizialmente prevalente nell’opinione pubblica Usa, di un commander in chief aristocraticamente distaccato dalla tragedia, ma è noto da tempo che Obama non crede né nella special relationship né nell’Europa come interlocutore privilegiato: il suo sguardo è rivolto più al Pacifico. Nondimeno, dati fattuali e compatibilità sopra richiamate, e altri asset geopolitici di Londra (in primis il contingente militare in Afghanistan), unitamente a un low profile adottato sin da aprile dal saggio Cameron, dovrebbero tenere saldo un matrimonio di non disprezzabili interessi.

Andrea Caternolo [email protected]

I predict a riot

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Da un decennio ormai in Irlanda del nord regna una sostanziale pace. I principali gruppi paramilitari lealisti e repubblicani si sono sciolti e hanno consegnato le armi. Nonostante ciò ogni anno le marce organizzate dall’ordine d’Orange, una specie di loggia protestante particolarmente importante in Irlanda del nord, non mancano di scatenare rivolte una volta che attraversano i quartieri cattolici di Belfast e delle altre città del cosiddetto Ulster. Quest’anno gli scontri nel quartiere cattolico di Ardoyne a Belfast sono durati quattro giorni.

I RIOTS Ardoyne , quartiere a nord di Belfast, è da sempre una delle roccaforti del nazionalismo repubblicano (ovvero di quella parte della popolazione dell’Irlanda del nord che vorrebbe l’indipendenza da Londra, prevalentemente di religione cattolica), nei violenti anni ’70-’80 roccaforte di gruppi paramilitari come il Provisional Irish Republican Army, dove la polizia si guardava bene dal mettere piede. Quest’anno per quattro giorni consecutivi il quartiere è stato messo a ferro e fuoco da giovani cattolici che hanno attaccato la polizia con bottiglie incendiarie per dimostrare la loro opposizione alla marcia della loggia protestante attraverso il loro quartiere. Sono stati sparati anche colpi d’arma da fuoco verso le forze dell’ordine, che non hanno causato vittime. La Psni (Police of Northern Ireland, polizia locale che ha sostituito da quest’anno la famigerata Royal Ulster Constabulary, guidata da Londra) per il momento si è limitata al contenimento, ma ha promesso arresti a tappeto una volta conclusi gli scontri. Il vice capo della polizia dell’Ulster, oltre a denunciare il fatto che i rivoltosi starebbero usando bambini come scudi umani, ha anche accusato i politici nordirlandesi di non fare abbastanza per fermare la violenza.

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LE MARCE ORANGISTE – Queste proteste violente non sono certo una novità in Irlanda del nord. Ogni anno, infatti, il 12 Luglio i membri dell’Ordine d’Orange festeggiano la vittoria del protestante Guglielmo d’Orange sul cattolico Giacomo II nella battaglia di Boyne del 1690, con un sfilata in cui fanno sfoggio dei simboli della loro tradizione. Quelle che potrebbero sembrare innocenti processioni folkloristiche di vecchi in bombetta e collare da massone si trasformano quando attraversano i quartieri abitati da cattolici in plateali provocazioni nei confronti della comunità che lì vive. L’Ordine di Orange è infatti un’istituzione che riunisce fedeli protestanti allo scopo di difendere gli interessi della propria comunità religiosa in particolare contro la minaccia “papista” costituita dalla folta comunità cattolica irlandese. Aldilà della sua base religiosa l’Ordine ha avuto storicamente un ruolo fondamentale nella politica dell’Irlanda del nord: da sempre ha forti legami con i partiti unionisti e ha svolto una forte azione di lobbying per sostenere il governo diretto di Londra sull’Ulster contro qualsiasi progetto di indipendenza o unione con la Repubblica d’Irlanda. Come da tradizione le tensioni sfociano in guerriglia urbana e a farne le spese sono sempre i poliziotti, chiamati a garantire il diritto dei membri della loggia di passeggiare un giorno all’anno in posti dove regolarmente non mettono mai piede.

Jacopo Marazia [email protected]

Per un nuovo paradigma geopolitico

Il “Caffè” intervista Emidio Diodato, professore di Scienza Politica all’Università per Stranieri di Perugia. Nel suo ultimo libro, Diodato traccia quali potrebbero essere i nuovi scenari geopolitici, alla luce della divisione del mondo in blocchi e della crescita inarrestabile di potenze asiatiche come la Cina. In tutto questo, come si caratterizza il ruolo dell’Unione Europea?

Il paradigma geopolitico”, nuovo libro di Emidio Diodato, docente di Scienza Politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, svela al suo interno una grande novità, frutto della rivisitazione della lettura tradizionale delle relazioni internazionali: la multipolarità creatasi dopo il crollo dei due blocchi alla fine della Guerra Fredda può essere interpretata come la garanzia di un nuovo equilibrio e di maggior ordine nell’assetto politico attuale.

“Sì, accanto al ruolo dirompente della Cina e all’osservazione dei grandi spazi di civiltà, utili a comprendere meglio il ruolo dell’Occidente e dell’Islam, si aprono nuovi scenari anche per l’Unione Europea, che potrebbe divenire un attore decisivo per una maggiore multipolarità nel sistema internazionale, ovviamente attraverso una politica estera più incisiva, anche in considerazione o a fronte del processo di allargamento”.

Crede che i Balcani e in particolare la Serbia possano essere inclusi geograficamente, politicamente e storicamente nello spazio europeo, oppure appartengano ancora alla sfera turca?

“L’iniziativa dell’UE di divenire un soggetto politico nell’area balcanica si è rivelata fallimentare durante gli anni ’90, ma ha ottenuto dei successi negli anni successivi. Molto spesso si tende a guardare alla politica estera europea in maniera pessimistica: sappiamo tutti che la politica estera europea è un fantasma, ma bisogna anche osservare l’altra faccia della medaglia. Forse è un errore pensare che l’allargamento europeo possa e debba procedere sempre allo stesso modo, magari con accelerazioni più o meno brusche, come è accaduto durante la Guerra Fredda, con paesi abbastanza omogenei tra loro. Per questo vedo nei Balcani un’area nella quale l’UE può svolgere una propria politica estera, e quest’ultima è importante per definire l’identità europea. L’Europa potrebbe cercare di definirsi proprio dandosi un ruolo rispetto al suo “spazio di relazione” nei Balcani. Non mi aspetto che i paesi della ex Jugoslavia entrino a far parte dell’Europa trasformandola in un luogo sempre più grande e accogliente, ma che ci sia una politica estera europea in grado di instaurare un dialogo diretto e costruttivo. Non ne parlo nel libro, ma penso che la Serbia possa sicuramente essere la protagonista di questo processo”.

Alla luce del processo di allargamento, come si configura il ruolo di grande potenza dell’UE a fronte del deficit di rappresentanza e di coesione identitaria che affligge il suo sistema?

“Nel libro faccio due ragionamenti: il primo è che l’UE deve definire se stessa anzitutto nel       Mediterraneo, intendendo per tale quello che negli anni ’80 nei circoli militari italiani chiamavamo “Mediterraneo allargato”, e che include anche i Balcani. Il secondo ragionamento è che questa Europa può giocare una partita nell’Africa Sub-sahariana in aperta concorrenza con gli Stati Uniti e la Cina. Naturalmente sono consapevole del doppio limite, e dell’effettiva capacità dell’UE di attuare una propria politica estera. A questo si lega il problema interno dell’identità europea e del deficit di rappresentanza. Tuttavia credo che la democrazia in Europa sia totalmente trasformata: oramai sono gli esecutivi che hanno in mano il potere legislativo. È una polemica tutta italiana che l’attuale Governo usi i decreti per smuovere il Parlamento, ma oramai tutte le riforme importanti passano con la fiducia nei Parlamenti attraverso un potere automatico e diretto di tipo legislativo da parte degli esecutivi. Allora il problema del deficit democratico europeo è che a livello europeo il potere decisionale legislativo è in mano agli esecutivi. Ma cosa cambia rispetto agli Stati nazionali? Siamo certi che il deficit di rappresentanza europeo sia diverso dal deficit di rappresentanza degli Stati? Il problema della ristrutturazione delle istituzioni e della qualità della democrazia si affronterà a livello europeo, l’unico livello possibile”.

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Zigmut Bauman ha scritto: “Chi è pronto a morire per Solana?”. Un quesito che mette in luce l’assenza di coesione tra i popoli europei. I Balcani sono un crogiolo di etnie e di religioni: quali effetti può avere sull’UE, e sulla sua coesione, l’inclusione di popoli così diversificati tra loro?

“Credo che l’aspetto culturale sia centrale, ma non sia l’unico. Sicuramente l’Europa deve esprimere una propria identità culturale per poter agire sul piano strategico ed economico, ma questi processi sono simultanei. Però sono d’accordo, penso che l’attuale Europa dei 27 sia un’istituzione giuridica che non tiene. L’Europa deve pensarsi come uno spazio di tipo “imperiale”, quindi uno spazio niente affatto omogeneo, che ha un suo nucleo forte e una serie di regioni che volontariamente — e ciò la distingue da un vecchio impero del passato — ruotano intorno a questo nucleo. Quindi i Balcani, e la Serbia, non sono uno spazio di relazione che deve essere assorbito dall’Europa, ma una “jugosfera” che ruota liberamente intorno all’Europa. Il nucleo d’origine dell’Europa, il nucleo propulsore, resta l’asse franco-tedesco. I francesi e i tedeschi sono due popoli che hanno una grande responsabilità, e hanno oggi un compito molto importante. A mio giudizio hanno smesso di contrapporsi nei termini con cui  von Clausewitz li ha descritti, e tuttavia sono lontani dall’essere capaci di produrre quel salto di qualità del quale l’Europa ha bisogno. Sicuramente Kohl e Mitterrand hanno avuto un grande merito. Oggi Sarkozy e Merkel hanno un profilo e una statura politica decisamente inferiore. Però non è detto che non possano emergere dei leader europei, a partire da Francia e Germania, in grado di accogliere sfide ancora più complesse rispetto a quelle che già stiamo affrontando, quindi capaci di parlare con la Gran Bretagna per stabilire un dialogo anche con gli Stati Uniti e decidere del futuro dell’Europa”.  

La popolazione cinese è sparsa in tutto il mondo: in Serbia, ad esempio, ci sono 50mila cinesi. Nel libro parli di tre archi della Cina, di cui il secondo rappresenta la diaspora della popolazione cinese. Come si può collegare questa questione con i parametri geoculturale, geostrategico e geoeconomico (di cui parla sempre nel libro) in uno scenario di polarità complessa in cui la Cina potrebbe assurgere al ruolo non solo di potenza regionale, ma anche di potenza globale?

“Uno scenario non è una previsione, almeno per il linguaggio scientifico che io adotto. Nel libro non faccio previsioni, poiché non credo che oggi siano possibili previsioni per un periodo più lungo dei due, tre mesi. Allora a cosa serve lo scenario? Lo scenario è un esercizio intellettuale. Ho scelto di lavorare su uno “scenario plausibile” e non su più scenari, perché così si costringe la mente ad una riflessione più precisa e quindi ad un confronto. Io suggerisco il seguente scenario: non c’è alcun dubbio che gli Stati Uniti restino oggi l’unica superpotenza del mondo. Hanno una capacità di governo del mondo decisamente superiore a quella degli altri paesi, soprattutto da un punto di vista militare. Eppure il potere degli USA è in diminuzione, soprattutto nei territori a loro più prossimi, e cioè quelli che sono stati storicamente i principali spazi di relazione tanto in Europa, quanto in America Latina, quanto in Giappone. In Asia, in particolare, assistiamo a una decisa, dirompente crescita della Cina, o meglio sarebbe dire della Cina della costa del sud, quindi di un paese virtuale di 200milioni di abitanti. Ecco perché ho adottato un modello composto da “archi”, dato che ragionando in termini di Stati si capisce ben poco. Ho cercato di includere anche un arco che include il Giappone e l’India nello scenario plausibile che vede la Cina come il nuovo polo alternativo agli USA. Naturalmente la strategia della Cina è diversa da quella degli USA, perchè nel caso della Cina vedo soltanto una sfida di tipo geostrategico e territoriale nell’Asia Centrale, e conseguentemente nel rapporto con la Russia all’interno della SCO (Shanghai Cooperation Organization). Per il resto la Cina si sviluppa e si dispiega attraverso la sua diaspora in tutto il mondo, dal Perù al Cile, fino alla Serbia. Penso che in questo scenario ci possa essere una grande finestra di opportunità per l’Europa: se l’UE sarà in grado di darsi un aspetto imperiale potrà giocare un ruolo di terzo tra Stati Uniti e Cina, anche se i primi non vedono di buon occhio questo divenire della Cina come polo globale, e agiscono per evitarlo. L’Europa potrebbe opportunamente favorire l’emergere della Cina, per giungere ad un maggiore riequilibrio planetario, non nei termini del vecchio balance of power, ma nei termini di equilibrio geopolitico planetario”.

Alessia Chiriatti

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The day after (Mubarak)

Da tempo si rincorrono voci che vorrebbero il presidente egiziano Hosni Mubarak sempre più malato, forse addirittura affetto da un cancro. Qualunque sia il male che affligge il presidente egiziano, ad 82 anni la sua abdicazione alle prossime elezioni presidenziali (2011) sembrava comunque imminente. Tuttavia la figura di un presidente debole e malato apre a nuovi interrogativi sulla sua successione. Una successione che potrebbe essere tutt'altro che pacifica.

EL BARADEI ED I FRATELLI MUSULMANI – Molti analisti ritengono che un'improvvisa uscita di scena del presidente Mubarak (foto sopra) getterebbe il paese nel caos totale. Mohammed El-Baradei ed i Fratelli Musulmani, prima forza di opposizione nel paese, non attendo altro che l'ottuagenario presidente lasci il suo incarico per provare a conquistare la presidenza del paese. El Baradei, scaduto il mandato direttore dell'AIEA, è da tempo tornato in Egitto ed appare come una delle più autorevoli figure in grado di sostituire Mubarak alla guida del paese. Tuttavia i programmi di El-Baradei potrebbero non coincidere, o almeno potrebbero solo temporaneamente, con quelli dei Fratelli Musulmani i quali da decenni rappresentano la prima forza di opposizione nel paese. La Fratellanza, sebbene mancante di un riconoscimento ufficiale, appare come l'unica forza sociale in grado di cooptare realmente la popolazione locale.

Tuttavia prima di attuare qualsiasi ribaltone bisognerà fare i conti con la volontà del Faraone Mubarak il quale pare da tempo aver designato come suo successore il figlio minore Gamal. GAMAL MUBARAK – Ha 47 anni ed un passato da tecnocrate trascorso all'ombra dell'ingombrante padre. Sebbene Gamal possa godere dell'appoggio di molta parte dei generali e dell'onnipresente capo dell'intelligence Omar Suleiman la sua successione non appare affatto scontata. Gli 80 milioni di egiziani sono infatti ormai stanchi dello strapotere esercitato dalla famiglia Mubarak sul paese e potrebbero ribellarsi ad un tale passaggio di consegne. Altri analisti sostengono come Gamal non possieda il carisma e la personalità necessarie per guidare una nazione così complessa e difficile come l'Egitto.

Del resto il figlio di Mubarak non ha ancora nemmeno ufficializzato la sua entrata nell'arena politica egiziana sebbene sia ormai da tempo a capo del Policy Planning Committee del Partito Nazionale Democratico. Nelle sue rare dichiarazioni, Gamal Mubarak ha dichiarato come la lotta alla povertà e la battaglia contro la corruzione siano le due priorità per il PND. Il figlio di Mubarak si è anche inoltre distinto per le sue dichiarazioni di apertura economica, in Egitto è un importante uomo d'affari, e soprattutto per i seppur velati riferimenti alla violazione dei diritti umani nel paese.

Tuttavia la sua figura sembra non convincere la popolazione anche e soprattutto perchè tutti i mali denunciati dal giovane Mubarak sono stati creati, incoraggiati e radicati all'interno della società egiziana proprio dal padre. Ogni denuncia di Gamal diviene inevitabilmente un attacco diretto a colui il quale detiene il potere da quasi 30 anni e va inevitabilmente considerato il principale responsabile dell'attuale situazione dell'Egitto. Il messaggio di Gamal poco si sposa quindi con la volontà di rinnovamento che si respira nel paese e che potrebbe essere invece ben interpretata dall'asse Baradei-Fratellanza Musulmana.

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LA COALITION OF PURPOSE ED IL TERZO INCOMODO – Una coalizione d'interesse, quanto pi∙ ampia possibile, per battere il Faraone e la sua discendenza. Questo l'intento di Muhammad El-Baradei (foto a lato) e dei Fratelli Musulmani i quali hanno prontamente aderito all'appello lanciato del premio Nobel per la Pace egiziano. Durante una recente manifestazione ad Alessandria, la prima in cui El-Baradei si è direttamente scagliato contro le politiche governative, il premio Nobel ha chiamato tutte le forze politiche egiziane ad unirsi sotto un'unica bandiera per scacciare Mubarak ed inaugurare una nuova stagione.

Tuttavia molti altri analisti non escludono che ad averla vinta potrebbe essere il potentissimo capo del'intelligence Omar Suleiman. Estremamente gradito ad Israele grazie ai suoi strettissimi rapporti con l'apparato di difesa di Tel Aviv e potrebbe essere anche l'uomo giusto, negli interessi Usa, al fine di controllare l'ascesa iraniana nella regione medio orientale. Durante l'ultima crisi fra Israele e Libia, causata da una nave che voleva attraccare a Gaza, l'intervento di Suleiman pare sia stato risolutivo e addirittura il Ministro degli esteri israeliano Lieberman ha voluto personalmente ringraziare il capo degli 007 egiziani per la sua preziosa intermediazione.

CONCLUSIONI – Come sottolinea l'Economist, "La maggior parte degli egiziani vede la propria società come crudamente divisa: con il regime che cura principalmente gli interessi dei ricchi, fingendo di rappresentare i poveri". L'ipotesi di uno scontro tanto al vertice quanto per le strade del Cairo non è un'ipotesi da escludere. La società egiziana è spaccata in due e la sua parte più giovane – numerosa, ma soprattutto povera ed arrabbiata  – potrebbe non rimanere impassibile di fronte ad una successione in stile dinastico. Questo anche perchè ormai da tempo i Fratelli Musulmani attendono di scacciare il Faraone Mubarak: anche se questo dovesse significare scatenare una guerra civile. Un presidente egiziano così debole è un'occasione che difficilmente si ripresenterà considerata la frequenza con cui ci si avvicenda al potere nel paese: solo tre presidenti, Nasser, Sadat e Mubarak, dal 1952 ad oggi. Carpe Diem.

Marco Di Donato [email protected]

I danni della marea nera

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Il 20 aprile 2010 è esplosa la piattaforma petrolifera, Deepwater Horizion, della British Petroleum (BP) nel Golfo del Messico, uccidendo 11 persone e riportando un'enorme versamento di petrolio greggio. I commenti fatti dall'amministratore delegato Tony Hayward in riferimento alla marea nera come “relativamente piccola in confronto all'oceano”, hanno compromesso la credibilità della BP. Obama ha delineato il versamento come il “disastro ambientale più grave affrontato nella storia americana”, paragonandolo all'11 settembre, e annunciando la necessità per gli Stati Uniti di investire in un'economia più “verde”

RELAZIONI ANGLO-AMERICANE – A fine aprile il Presidente statunitense Barack Obama ha ordinato al governo federale di bloccare nuovi contratti di perforazioni, finché una profonda revisione determinasse se ulteriori sistemi di sicurezza fossero necessari. È stato autorizzato un team per esaminare le 29 piattaforme petrolifere nel Golfo, nel tentativo di determinare la causa del disastro. Lo stesso giorno, i segretari del Department of Interior, Homeland Security,insieme all’amministratore di EPA e il National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) sono stati inviati per valutare l'incidente.

Il primo comunicato stampa a nome del Department of Interior ha annunciato che le ispezioni delle piattaforme nel Golf del Messico non hanno rilevato nessuna grave violazione.

Dopo i tentativi di contenimento della BP, il Presidente ha fatto il suo primo discorso sulla marea nera, sottolineando la colpevolezza della BP: “è un loro danno e devono assumersi la responsabilità”, affermando “Non c'è dubbio: ci batteremo questa perdita con tutto ciò che abbiamo per tutto il tempo che sarà necessario. Faremo pagare BP per il danno che la loro azienda ha causato. E faremo tutto quello che è necessario per aiutare la costa del Golfo e la sua gente uscire da questo problema”.

Tony Hayward, numero uno di BP (foto sotto),  d'altra parte sembra essere titubante per quanto riguarda lo stato attuale della situazione, nonostante i vari sforzi che sono stati fatti da parte dell'amministrazione Obama, e di un vasto interesse internazionale, a nome delle Nazioni Unite e del governo olandese (sono stati rifiutati aiuti internazionali in merito l'atto Jones del 1920). L'amministrazione Obama ha inviato a BP 69 milioni di dollari per coprire le spese di risanamento. Questi costi hanno adesso raggiunto 2,35 miliardi di dollari.

Nel tentativo di distogliere l'attenzione sulla sua compagnia, Hayward ha dichiarato che – essendo Transocean il proprietario/gestore della piattaforma di perforazione – è responsabile della sicurezza e, pertanto, deve anche assumersi la responsabilità economica. Nonostante ciò, in seguito alla seduta del Congresso, tenutasi il 12 maggio 2010, si è scoperto che sia la BP che Transocean hanno ignorato gli avvertimenti di sicurezza nelle ore prima dell'esplosione, e devono quindi assumersi la responsabilità del problema. D'altra parte, Anadarko Petroleum (uno dei soci di BP), non accetta di assumersi responsabilità per l'esplosione, nonostante possieda un quarto della piattaforma. L'a.d. di Anadarko Petroleum, Jim Hackett, sostiene che: “le azioni di BP probabilmente ammontavano a negligenza grave o di dolo”. Come risposta, la BP potrebbe ricevere un divieto di lavoro, in quanto il governo degli Stati Uniti ha avviato un'indagine penale contro l'azienda.

E I COSTI AMBIENTALI? – Mentre il petrolio viene spinto verso le coste della Louisiana, ambientalisti hanno descritto la crisi come una “vera catastrofe” per la fauna selvatica come, ad esempio, gli uccelli che usano le spiagge come nidi durante la stagione di accoppiamento. Dopo solo due settimane, spesse lastre gommose di petrolio greggio hanno iniziato a diffondersi attraverso le paludi della Louisiana. Il governo ha inviato attrezzature per ripulire il greggio, mentre la BP ha assunto “un'armata” di pescatori, per contribuire a porre 2,25 milioni di piedi di macchinari per contenere la marea nera. Il World Resources Institute (WRI) ha stimato che il danno potrebbe arrivare a 875 milioni di dollari per gli ecosistemi marini e a 60 miliardi di dollari per gli ecosistemi costieri.

L'ecosistema che è stato danneggiato potrebbe richiedere anni, se non decenni, per ricostituirsi. Il petrolio greggio è composto con metano al 40%, rispetto una media del 5% che si trova in depositi di petrolio standard, e quindi la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, potrebbe soffocare la vita marina e creare zone morte dove l'ossigeno è ridotto. Il US Fish and Wildlife Service è preoccupato per le 38 specie animali di categoria protetta ai sensi dell'Endangered Species Act. Ad oggi, 29 delle 38 specie animali sono in pericolo.

Dopo otto settimane di versamento, l'impatto sulla vita marina è diventato sempre più visibile con immagini pubblicate di paguri e pellicani bruni intrappolati ed appesantiti dal greggio, mentre le zone di riproduzione del tonno atlantico Bluefin è minacciato. Le tartarughe marine, specie in via di estinzione, sono state recintate in 500 miglia quadrate di “cordoni ignifughi” e bruciate vive nelle operazioni di contenimento destinato al petrolio. La situazione per questa specie di tartarughe è resa ancora più drammatica dal fatto si sono dovuti prendere provvedimenti per il salvataggio dei loro nidi. Molti ambientalisti e biologi marini si sono attivati per organizzare ed effettuare lo spostamento delle uova in altri siti, per fare sì che avvenga la schiusa in luoghi non contaminati.

Preoccupazioni aumentano anche per la salute pubblica e l'impatto a lungo termine sulla catena alimentare nel Golfo del Messico, dove un terzo delle acque sono state chiuse alla pesca a causa della tossicità per la vita marina, dopo che 600 mila litri di sostanze chimiche tossiche e cancerogene sono state spruzzate sulla superficie della macchia.

A fine maggio il Governo federale ha dichiarato che gli stati dell'Alabama, Texas, Mississippi e Louisiana hanno subito un vero e proprio collasso economico derivato direttamente dal divieto sulle attività ittiche e dal calo dell'economia turistica di questi stati.

Il governatore della Louisiana Bobby Jindal ha dichiarato lo stato di emergenza. Come risposta, NOAA ha chiuso sia la pesca commerciale e quella ricreativa nelle acque federali che sono state colpite tra la bocca del fiume Mississippi e Pensacola Bay, una chiusura del 36% delle acque degli Stati Uniti.

Inoltre, la stagione degli uragani è iniziata con l'uragano Alex, che si sta facendo strada in tutto il Golfo. I tentativi di contenimento del greggio sono stati ritardati a causa dei venti forti e mari mossi. Se l'uragano acquisisse velocità più alte, i danni causati potrebbero estendersi ad una zona molto più ampia che non comprenderanno solo il Golfo del Messico, ma potrebbe diffondersi anche nell'entroterra.

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OPINIONE PUBBLICA- Al fine di sensibilizzare l'opinione pubblica, un sito web è stato creato (www.restorethegulf.gov) in modo che il pubblico possa avere facile accesso ad ogni tipo di informazione per quanto riguarda la marea nera. Un'ulteriore nota, il Department of Energy sta fornendo l'accesso online a schemi, prove di pressione, risultati diagnostici e altri dati sul malfunzionamento dei progetti fin ora.

Sia all'interno degli Stati Uniti che nel mondo, la BP è stata molto criticata. Negli Stati Uniti migliaia di persone hanno partecipato a decine di proteste nelle stazioni di benzina BP e altri luoghi. Alla fine di maggio, attivisti di Greenpeace hanno protestato davanti alla sede centrale della BP a Londra con cartelloni raffiguranti il logo della BP con scritto “inquinatori britannici” con petrolio.

Secondo la agenzia di stampa Associated Press dal 29 giugno le proteste potrebbero aver condizionato il declino delle vendite presso alcune stazioni, tra il 10-40%, anche se la BP possiede poche delle 11.000 stazioni di benzina sul territorio americano. La maggior parte sono di proprietà locale, sotto contratto da BP.

Negli Stati Uniti il Presidente Obama è stato criticato diverse volte per il modo in cui sta gestendo la marea nera. Un recente sondaggio condotto dal quotidiano USA Today con la società Gallup, nel quale si chiedeva ai suoi cittadini se approvavano oppure non approvavano il modo in cui l'amministrazione Obama stesse gestendo la situazione, ha rivelato che il 48% degli statunitensi disapprova a fronte del 44% di approvazione. Il successo che Obama riscuote all'estero non sembra sia rispecchiato nel proprio paese. Obama ha chiaramente affermato che la sua amministrazione farà “qualunque cosa necessaria” al fine di arrestare la perdita, tuttavia, ha anche affermato che questo è un problema di BP da risolvere e che gli Stati Uniti possono aiutarli, anche se è fondamentale che la BP se ne assuma il carico maggiore. Lo stesso Presidente non può fermare la perdita personalmente, ma ha visitato le aree che sono state rovinate per capire i problemi e il modo in cui essi possono essere risolti, rivolgendo la gestione del problema a persone specializzate.

In riferimento alla domanda su come sta gestendo la situazione la BP, il 76% degli americani è contro, mentre il 16% approva. Inoltre, alla domanda se British Petroleum dovrebbe pagare tutte le perdite, anche se questo significa andare fuori mercato, il 59% degli elettori concordano, mentre il 38% ha votato che BP dovrebbe pagare tanto quanto si può permettere e rimanere vitale.

CONCLUSIONI- In conclusione, con maggiori danni di quelli inizialmente stimati e l'arrivo dell'uragano Alex, la situazione non potrebbe che peggiorare. Secondo il governo degli Stati Uniti la BP dovrebbe concentrarsi sulla risoluzione del problema, più che sulla sua ricerca di responsabilità dell'incidente, evitando ulteriori danni e costi. Al momento, l'unica opzione è di aspettare e vedere come e se i due pozzi di soccorso, del progetto che la BP ha attuato, avranno successo.

Ottavia Ferrario [email protected]

Tour verso est

Grandi (?) manovre europee verso est: la settimana è densa di visite da parte di rappresentanti europei ad est, verso i confini dell'Unione e della Russia. L'attività diplomatica di avvicinamento ai Paesi “contesi” ai russi sembra intensificarsi: che cosa aspettarsi? Altro punto caldo, più del solito, è l'Iraq: gli Stati Uniti proseguono il ritiro delle truppe e si avvicinano importanti appuntamenti politici, mentre salgono le preoccupazioni per un aumento delle attività degli insorti.

AD EST! – La Georgia torna al centro dell'attenzione europea (e russa) in questa settimana. Il paese Caucasico ospiterà infatti una delegazione dell'Unione Europea che incontrerà il Presidente Mikhail Saakashvili per riprendere il filo del discorso sulle prospettive di avvicinamento di Tbilisi alla UE. Ma la prospettiva sembra essere più ampia, dato che la delegazione europea incontrerà anche rappresentanti di Armenia e Azerbaijan per progredire sugli Accordi di Associazione di questi tre Paesi all'Unione Europea, sulla base della nuova spinta data dalla recente Direttiva del Consiglio Europeo in materia.

Anche il Ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner farà visita separatamente a Saakashvili, mentre il Cancelliere tedesco Angela Merkel si recherà a Mosca da Medvedev e Putin, che intanto guarderanno a cosa accade sulle sponde caucasiche dei propri confini, consolandosi con la firma dell'accordo che dovrebbe arrivare a breve, con Bulgaria e Grecia per la costruzione del gasdotto South Stream.

Lo slancio europeo non si ferma qui però: Catherine Ashton, Alto Rappresentante Europeo per la Politica Estera e di Sicurezza Comune della UE, incontrerà ad Ankara i rappresentanti turchi per la politica di avvicinamento all'Unione Europea.

Vedremo quali effetti sortiranno questa manovre europee sullo scacchiere.

IRAQ – Mentre si avvicina la data per il ritiro delle truppe combattenti americane dal suolo iracheno, non c'è ancora un Governo in carica a Bagdad. Dopo 5 mesi di trattative tra i principali gruppi politici e dopo l'ultimo incontro, oggi, chiuso senza esito positivo, la situazione si complica sempre di più e pare impossibile che le sedute parlamentari previste per questa settimana possano raggiungere gli obiettivi prefissati, tra cui la nomina del Presidente della Repubblica e del Capo del Governo.

In questo scenario di crescente incertezza aumentano intanto i rischi di azioni violente e di alto profilo da parte di diversi gruppi militanti.

ISRAELE E PALESTINA – L'incontro tra il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed il Presidente degli USA Obama sembra mostrare una distensione nei rapporti tra i due Paesi, che restano comunque in una fase di evoluzione abbastanza delicata. Netanyahu incontrerà a breve anche il Presidente egiziano Mubarak e sarà importante osservare le reazioni delle due fazioni palestinesi, Hamas e Fatah, rispetto a questa nuova, possibile, fase di dialogo.

Intanto, a complicare i giochi con lo strumento maggiormente in voga al momento (la sfida al blocco navale israeliano su Gaza) arriva la Libia, che ha inviato una nave con aiuti umanitari verso Gaza. La gestione di questa ennesima sfida marittima potrebbe dare indicazioni importanti su quanto Tel Aviv sia disposta a negoziare.

CUBA – Fermento politico intorno alle recenti evoluzioni in terra cubana. Fidel Castro ricompare in pubblico, sebbene la sua figura sia oramai poco più che simbolica, e intanto prigionieri politici vengono rilasciati anche grazie all'intermediazione della Chiesa. Cosa sta davvero cambiando a Cuba? Quanto sono in discussione i rapporti con gli USA? E quanto gli stessi USA sono al momento interessati ad inserirsi attivamente in questa complicata transizione?

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ALTRI EVENTI DELLA SETTIMANA

  • Il Kimberly Process, l'accordo per la regolamentazione dell'estrazione e commercio di “conflict diamonds” è ancora in fase di implementazione e nei prossimi giorni si discuteranno in Russia, al World Diamond Council, le modalità per la vendita dei diamanti provenienti dallo Zimbabwe, uno dei Paesi più coinvolti nelle passate attività illegali.

  • Repubblica Ceca: i tre partiti che hanno vinto le elezioni del 28-29 maggio dovrebbero arrivare in settimana alla formazione del Governo.

  • Francia: per l'ennesima volta tiene banco la discussione sul bando del velo integrale in luogo pubblico. Il Parlamento dovrebbe discutere e votare in settimana.

  • Sudan: il Presidente Al-Bashir, già accusato dalla Corte Internazionale dell'Aia di crimini di guerra e crimini contro l'umanità ha esteso le accuse aggiungendo il genocio. Sembra quindi stringersi ancora di più il cerchio intorno al controverso leader sudanese. Intanto rappresentanti del Governo e del Movimento ribelle per la Liberazione e la Giustizia si incontreranno a Doha, in Qatar, per negoziati da cui sembra essere atteso un accordo che potrebbe aprire nuove prospettive politiche nel Paese ed anche complicare la condizione dell'attuale Presidente.

  • Nigeria: si avvicinano le elezioni generali e quelle per il nuovo Presidente . Si terranno in settimana le primarie per decidere i candidati del partito attualmente al potere; intanto nel Paese le organizzazioni sindacali dei lavoratori impiegati nelle attività estrattive in mare sono alle prese con duri negoziati per il pagamento degli stipendi non versati negli ultimi tre anni dalle grandi compagnie petrolifere straniere.

La Redazione – Pietro Costanzo 13 luglio 2010

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