Analisi – Lungo l’asse est-ovest, la nuova Via della Seta cinese si muove non solo attraverso l’Asia centrale, e da lì mediante la Russia verso l’Europa, ma anche tramite il corridoio transcaspico, che transitando dal Caucaso proietta agevolmente Pechino sul Mar Nero, così come in Medio Oriente, infine sul Mediterraneo.
L’Indonesia nel mirino del terrorismo jihadista
Analisi – Con la progressiva sconfitta militare dello Stato Islamico (IS) in Siraq nel corso dei mesi passati, l’Indonesia e, in generale, il Sud-est asiatico, sono divenuti un nuovo territorio fertile per l’espansione del terrorismo islamista.
Commissione Europea: siamo pronti, mettiamoci al lavoro
In 3 sorsi – Dopo alcune difficoltà iniziali, la squadra di Ursula Von der Leyen si prepara ad iniziare il suo mandato. I Commissari sapranno essere all’altezza?
Babilon n. 5: Silk and Rain, dove va la Cina
Secondo un’antica tradizione cinese, l’augurio “possa tu vivere in tempi interessanti” è in realtà una maledizione e sinonimo di sventura. Di “tempi interessanti”, tuttavia, la Cina ne sta attraversando uno proprio adesso.
Non solo in campo economico, ma anche politico-sociale. Ne sa qualcosa Hong Kong, dove uno sfortunato disegno di legge sulle estradizioni verso la Cina continentale ha innescato lo scorso luglio una pericolosa spirale di proteste nell’ex colonia britannica, ancora lungi dall’esaurirsi, che sta facendo tribolare i vertici di Pechino. Se mai l’onda lunga degli studenti pro-democrazia di Hong Kong dovesse attecchire nella capitale o in qualsiasi altra località strategica del Paese, questo sì rappresenterebbe un allarme per il governo. Ma finché la valvola di sfogo resterà confinata alla “ribelle” Hong Kong, il Partito Comunista non avrà poi molto da temere e potrà gestire la situazione con atteggiamento paternalistico e indulgente. Diverso il discorso, se a questo trend si agganciasse un’involuzione economica che portasse il malcontento anche nelle province lontane della Cina rurale. Se alla richiesta di più democrazia si agganciasse, cioè, una sofferenza distribuita. Un grande Paese come la Cina possiede sufficienti risorse per assorbire questo e molti altri colpi. Ciò nonostante, i tempi sono cambiati anche per la Repubblica Popolare. Xi Jinping e il Partito dovranno trovare una soluzione per adattare le esigenze del popolo con quelle del regime». Lo scrive il direttore Luciano Tirinnanzi nell’introduzione di Silk and Rain, Dove va la Cina, il nuovo numero della rivista Babilon, primo magazine di geopolitica bilingue in italiano e in inglese edito da Paesi Edizioni. Alle prospettive della Nuova Via della Seta è dedicato il numero 5 della rivista. Come sempre, Babilon è ricca di spunti, opinioni, riflessioni, approfondimenti di analisti, ricercatori e giornalisti. In questo numero: le ansie e le sfide di Pechino, il futuro dell’ex Impero Celeste, i rischi geopolitici connessi all’espansione di una potenza emergente, i volti del 2019, e non solo.
SUMMARY
SCENARIO
- THE TRIALS OF THE DRAGON, Sfide e ansie di una potenza emergente
- THE SILK ROAD, Antiche suggestioni peer nuovi orizzonti
- CHINA PURSUING SECURITY FOR AFRICAN BRANCHES, L’Africa nel progetto One Belt One Road
- LOOKING BEYOND TRADE IMBALANCES, Cina-Usa relazioni pericolose;
GEOPOLITICS
- 5G: A CHINESE TROIAN HORSE? Il Cavallo di Troia tecnologico
- PATHS OF GLORY: LET’S GO TO CHINA! Verso la Cina
- RENMINBI: AN INTERNATIONAL CURRENCY, Una moneta ancora poco attraente
CULTURE
- CHINA IN SEARCH FOR SPACE, Fate spazio a Pechino!
- CHINESE NATIONALISM: MORE COUNTRY, LESS SYSTEMS, Un Paese due sistemi?
- UYGHURS: A GEOPOLITICAL PROBLEM? Il dilemma degli Uighuri
- THE CHINESE ARMED FORCES, La nuova dottrina militare cinese
SPECIALE
- THE OPINION, Perché la fragilità di Xi risiede nel suo potere;
- DURA LEX, La Via della Seta e non nei diritti
- DIPLOMATIC COURIER, THE POPE WHO WHISPERS TO BEIJING, Il Papa che sussura a Pechino
Direttore Responsabile Luciano Tirinnanzi
Direttore editoriale Alfredo Mantici
Caporedattore Rocco Bellantone
Coordinamento Editoriale Pietro Costanzo, Emiliano Battisti
Hanno collaborato: Simone Pelizza, Elisabetta Esposito Martino, Beniamino Franceschini, Federico Zamparelli, Erminia Voccia, Edoardo Limone, Filippo Fasulo, Sofia Ferigolli, Paola Subacchi, Raimondo Neironi, Daniele Garofalo.
La Redazione
Per battere un miliardiario serve un miliardario? Bloomberg vs Trump
In 3 Sorsi – Michael Bloomberg ha ufficializzato la sua candidatura nelle fila dei democratici per correre alle elezioni presidenziali che si terranno a novembre del 2020. Il magnate può essere un avversario forte contro Trump?
Approvata la nuova Commissione Europea: delineato il programma politico 2019-2024
In 3 sorsi – Poco prima dell’approvazione della nuova Commissione UE, con a capo Ursula von der Leyen, la neoeletta Presidente aveva pubblicato le linee guida per i prossimi cinque anni. Tra i punti più rilevanti vi sono zero emissioni e sviluppo sostenibile, l’UE nell’era digitale e un’Europa più forte a livello internazionale.
Fumata nera a Parigi: il vertice della tensione tra Putin e Zelensky
In 3 sorsi – Alla fine è andato tutto come previsto: risultati modestissimi e discussioni spesso tese e inconcludenti tra le parti. Ma ora il ghiaccio tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky sembra comunque essere rotto e c’è una strada diplomatica per chiudere la guerra del Donbass, per quanto stretta e irta di ostacoli.
1. FREDDEZZA E SCARSI RISULTATI
Quello di ieri era il primo summit del Quartetto di Normandia (Francia, Germania, Russia e Ucraina) dall’ottobre 2016 e rappresentava anche il primo banco di prova importante per Zelensky a livello internazionale. Iniziato in ritardo, l’incontro è durato circa nove ore, diviso in colloqui individuali tra i leader e una fase di dialogo a quattro intorno a un tavolo rotondo. Separati fisicamente dal duo Merkel-Macron, Putin e Zelensky non si sono stretti la mano e hanno evitato accuratamente qualsiasi contatto visivo tra loro. Il momento clou dell’evento è stato ovviamente il meeting individuale tra i due Presidenti, primo faccia a faccia dall’elezione di Zelensky nell’aprile scorso: secondo quanto rivelato da diverse fonti, le discussioni sono state piuttosto accese, soprattutto intorno al controllo del confine orientale ucraino (parzialmente in mano a separatisti e russi dal 2014), e non hanno segnato passi avanti significativi anche sullo spinoso problema delle elezioni politiche nel Donbass, viste da molti come unica soluzione costruttiva al conflitto nella regione. Nonostante ciò, la conferenza stampa finale dei quattro leader è parsa cautamente ottimista e Macron ha annunciato un accordo di base per nuovi scambi di prigionieri tra le parti e per ulteriori ritiri concordati lungo la linea del fronte. Si è parlato anche di raggiungere un completo cessate il fuoco entro la fine dell’anno. Si tratta però di risultati molto modesti e Zelensky non ha nascosto un po’ di delusione per l’esito finale del vertice, promettendo comunque di lavorare a sostegno di un nuovo summit del Quartetto nella prossima primavera.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – La conferenza stampa conclusiva del vertice di Parigi, 9 dicembre 2019
2. STALLO DIPLOMATICO
La verità è che né Putin né Zelensky possono fare troppe concessioni all’avversario, perché timorosi di affrontare la rabbia nazionalista delle rispettive popolazioni. Per Putin, poi, la persistenza di un conflitto a bassa intensità nel Donbass rappresenta un ottimo strumento di pressione nei confronti di Kiev ed è quindi riluttante ad abbandonarlo, per quanto esso si sia rivelato parecchio costoso per Mosca sia a livello economico che diplomatico. Zelensky invece non può permettersi di continuare la guerra perché affosserebbe il suo ambizioso programma di rifoma dello Stato ucraino, ma non può nemmeno abbandonare la causa patriottica contro la Russia e i suoi clienti locali, pena la perdita di consensi a favore di partiti nazionalisti come Svoboda e del rivale Petro Poroshenko. Non a caso il Presidente ucraino ha ribadito ripetutamente in conferenza stampa la sua ferma opposizione a cedere terreno alle repubbliche separatiste in Donbass e ad accettare l’annessione russa della Crimea del 2014. Quello tra i due leader è quindi uno stallo di difficile soluzione, ma le necessità interne e le pressioni di Francia e Germania – desiderose di chiudere la crisi ucraina per rilanciare i propri rapporti economici con Mosca – potrebbero comunque forzarli lentamente ad uscire dalle proprie posizioni e a fare graduali concessioni l’uno all’altro.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Soldati della milizia della Repubblica popolare di Donetsk abbandonano il villaggio di Petrovskoye in seguito a un accordo locale con le forze ucraine, 9 novembre 2019
3. ALTRI MORTI IN DONBASS
Intanto si continua a combattere e morire in Donbass. Giusto ieri, a poche ore dall’inizio del vertice, si sono segnalati vari scontri a fuoco lungo la linea del fronte e tre militari ucraini sono stati uccisi da un’esplosione. A inizio dicembre ne erano morti altri tre in circostanze analoghe, andando a incrementare il bilancio finale di un conflitto che ha già ucciso oltre 13mila persone in cinque anni. Una stanca e brutale guerra di posizione, come descritta recentemente dal giornalista Christopher Miller su BuzzFeed, ormai dimenticata in Occidente e ancora in cerca di una sua possibile conclusione.
Simone Pelizza
I Democratici verso l’Iowa
In 3 sorsi – Il 20 novembre i candidati democratici si sono confrontati in vista del primo importantissimo appuntamento elettorale in Iowa. E Harris getta la spugna.
La Cina e il nuovo slancio democratico di Hong Kong
In 3 sorsi – Le tanto attese elezioni distrettuali della città di Hong Kong hanno portato a un risultato inaspettato per la Cina continentale, rischiando di far vacillare un sistema che comincia a sentire la pressione di una rivolta che non sembra volersi arrestare.
Proteste o rivoluzioni? 2019: l’anno delle piazze
Evento – 16 dicembre, Milano – Che cosa accomuna le tante proteste in America Latina, Africa, Medio Oriente, Asia?
“Freedom come”: gli USA e l’eredità persistente della schiavitù
Ristretto – 6 dicembre 1865: viene ratificato il 13esimo emendamento della Costituzione USA che abolisce definitivamente la schiavitù nel Paese. È la fine di un brutale sistema economico e sociale durato oltre 200 anni, ma la cui eredità continua a pesare come un macigno sull’odierna democrazia americana.
La schiavitù in Nord America comincia nel 1619, quando 20 schiavi africani vengono presi con la forza da una nave portoghese e portati a lavorare nella colonia britannica di Jamestown, in Virginia. Negli anni successivi la Gran Bretagna inizia poi a trasportare massicciamente schiavi dall’Africa occidentale per sostenere lo sviluppo delle sue altre colonie sulla costa atlantica. Gli schiavi vengono infatti giudicati come fisicamente più forti ed economicamente meno costosi rispetto ai servi di origine europea impiegati sino ad allora nei lavori coloniali. Nel XVIII secolo la tratta assume dimensioni gigantesche con circa 6-7 milioni di persone deportate con la forza attraverso l’Atlantico per lavorare nelle piantagioni di tabacco, riso e indaco delle colonie meridionali di Maryland, Virginia, South Carolina e Georgia. Le condizioni di vita degli schiavi sono terribili: il lavoro nei campi è continuo e massacrante, le donne vengono spesso stuprate da padroni o sorveglianti e le famiglie vengono divise con la forza per essere vendute sul mercato ad altri proprietari terrieri. La guerra di indipendenza americana del 1775-83 non cambia la situazione: nonostante gli ideali di libertà della rivolta contro Londra e la partecipazione di alcuni neri liberi alle campagne delle armate rivoluzionarie, la Costituzione dei nuovi Stati Uniti finisce per legittimare implicitamente l’istituzione e per garantirne la sopravvivenza al di sotto della Pennsylvania. In particolare, gli schiavi africani sono considerati come “tre quinti” di una persona bianca e il loro possesso finisce persino per assicurare una fortunata carriera politica ai proprietari. Non a caso molti dei primi Presidenti statunitensi sono grandi proprietari di schiavi, come George Washington e Thomas Jefferson.
Nella prima metà del XIX secolo il cotone soppianta il tabacco come principale coltura della piantagioni e ciò porta ad un’ulteriore espansione del sistema schiavistico nel delta del Mississippi. Allo stesso tempo, però, comincia a svilupparsi un forte movimento anti-schiavistico negli Stati settentrionali che chiede l’abolizione della “peculiare istituzione” per ragioni sia morali che economiche. L’espansione della schiavitù verso ovest provoca anche crescenti attriti politici tra le diverse parti del Paese, con il Nord e il Midwest sempre più insofferenti dell’egemonia del Sud schiavistico e ben decisi a rivendicare i territori di nuova colonizzazione per il “lavoro libero” dei tanti migranti provenienti dall’Europa. Tali attriti diventano sempre più pesanti e sfociano in aperta guerra civile nel 1861, quando gli Stati del Sud secedono dall’Unione in risposta all’elezione presidenziale di Abraham Lincoln, visto come il candidato “ufficiale” del movimento abolizionista. In realtà, Lincoln è sì contrario alla schiavitù ma solo nei territori di nuova colonizzazione, promettendo di rispettarne l’esistenza negli Stati meridionali. Nel corso della guerra, però, il Presidente cambierà idea, colpito anche dal sacrificio di migliaia di soldati neri accorsi in difesa dell’Unione, ed emanerà un primo proclama di emancipazione indirizzato alle aree controllate dai secessionisti nel gennaio 1863. Due anni più tardi, dopo un’estenuante battaglia congressuale, l’abolizione della schiavitù verrà infine sancita dall’inclusione del 13esimo emendamento nel testo costituzionale.
Ma la fine della schiavitù pone il problema dell’integrazione degli ex schiavi nel corpo politico americano e quello dello smantellamento della cultura razzista che ha consentito il loro brutale sfruttamento per oltre duecento anni. Tali problemi restano ancora oggi irrisolti e continuano ad essere al centro del dibattito politico statunitense.
Simone Pelizza
Unione Europea: entra in vigore l’accordo di libero scambio con Singapore
In 3 sorsi – L’accordo di libero scambio è entrato in vigore il 21 novembre ed è il primo che Bruxelles stringe con uno degli Wtati membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN).


