Analisi – Il forum economico Russia-Africa di Sochi è un evento storico che riporta la Russia ad un ruolo prioritario nella regione, nonostante qualche dubbio sui risultati materiali dell’incontro. Ma cosa cerca il Cremlino nel continente africano?
La crisi politica in Perù: quali sviluppi?
In 3 sorsi – L’ultimo atto nel confronto tra il Presidente Martín Vizcarra e il Congresso dominato dall’opposizione getta il paese in un limbo dai risvolti incerti.
Diplomazia congelata: torna la tensione tra Corea del Nord e Stati Uniti
Analisi – Le trattative tra Corea del Nord e Stati Uniti sono in stallo da mesi e il tempo stringe. La scadenza di fine anno dettata da Kim Jong-un a Donald Trump è ormai alle porte. Le cose vanno poco bene anche tra Pyongyang e i suoi vicini regionali: di recente il regime nordcoreano ha infatti rivolto parole dure nei confronti del Premier nipponico Shinzo Abe per aver criticato i suoi ultimi test missilistici. Ad ogni modo, denuclearizzare la Corea del Nord resta una delle priorità degli USA, anche se forse non sono gli unici interessati a farlo.
NEGOZIATI FERMI
È prevista per la fine dell’anno la scadenza per la presentazione di nuove proposte e per fissare colloqui per la denuclearizzazione della Corea del Nord, ma sia Trump che Kim sembrano non aver fatto passi avanti a tal proposito. Il clima di silenzio rende ancora più tesa la situazione e per il momento pare congelare quell’incoraggiante percorso diplomatico emerso negli ultimi due anni. L’ultimo tentativo di riaprire le trattative è stato definito dal rappresentante nordcoreano all’ONU Kim Song come un “trucco” degli USA per guadagnare tempo nelle trattative. Lo scorso anno l’insediamento dello stesso Kim Song a New York aveva fatto discutere a causa di un ritardo nel rilascio del suo visto diplomatico; si era infatti cominciato a parlare proprio in quell’occasione di tattiche statunitensi per prendere tempo sulla denuclearizzazione.
Ad oggi si sono tenuti due vertici ufficiali tra Kim e Trump. Il primo storico summit, tenutosi il 12 giugno 2018 sull’isola di Sentosa, a Singapore, è stato certamente più un’occasione mediatica che un reale evento diplomatico.
Al termine è stata infatti firmata una semplice dichiarazione di intenti in cui si affermava che i negoziati veri e propri sarebbero stati tenuti in seguito dal Segretario di Stato Mike Pompeo e da rappresentanti diplomatici nordcoreani. Insomma, Kim e Trump hanno espresso in tale sede solo la volontà di iniziare un dialogo fatto, come si può leggere nei primi due punti del documento, di “sforzi comuni e impegni”. Per quanto riguarda la denuclearizzazione, in questo primo vertice non si è chiarito se il processo sarebbe dovuto avvenire in maniera unilaterale oppure se l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) potesse avere un ruolo nella questione.
Hanoi è poi stata la sede del secondo summit tra i due leader, ed è soprattutto in questa sede che si è percepita la mancanza di esperienza nei negoziati da parte di Trump. Secondo Joseph Yun, ex rappresentante politico statunitense a Pyongyang, sono andati in scena fraintendimenti da una parte e dall’altra e carenza di reali soluzioni. Trump proponeva di sospendere le sanzioni economiche in cambio di un totale annullamento del programma nucleare nordcoreano, ma Kim ha rifiutato categoricamente, proponendo invece solo un parziale smantellamento dei propri siti nucleari. Il tutto si è concluso con un nulla di fatto.
Tra giugno e ottobre poi ci sono state altre due riprese dei negoziati, ma in concreto né Trump né Kim hanno trovato ciò che volevano. Da una parte gli USA sono rimasti inflessibili nelle loro richieste di disarmo, dall’altra il dittatore nordcoreano non ha interrotto i test missilistici e ne ha persino minacciati di nuovi.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Commemorazioni a Pyongyang per l’ottavo anniversario della scomparsa di Kim Jong-il, 17 dicembre 2019
CHI STA PERDENDO TERRENO?
Sembra essere ormai una gara a chi fa la voce più grossa. Intanto, anche i rapporti di Pyongyang con i Paesi vicini si stanno incrinando. Non è infatti un mistero che la Corea del Nord gode delle simpatie della Cina, mentre la Corea del Sud si appoggia, o quanto meno si appoggiava sino a qualche tempo fa, all’alleanza Stati Uniti-Giappone. Proprio il Premier Shinzo Abe è stato etichettato da Pyongyang come “idiota” per aver criticato gli ultimi test missilistici nordcoreani.
In tutto ciò Trump, com’è noto, ha iniziato a muoversi principalmente attraverso rapporti bilaterali, credendo che i trattati multilaterali siano meno efficaci. Questo ha contribuito a intensificare l’attuale crisi del sistema sovranazionale, con il ruolo delle Nazioni Unite sostanzialmente indebolito anche di fronte alla crisi nordcoreana. Non a caso Pyongyang ha avvertito il Consiglio di Sicurezza che ogni nuova discussione sulla situazione dei diritti umani in Corea del Nord verrà considerata come una “seria provocazione”, nonché un allineamento alla politica ostile degli Stati Uniti, concludendo che da queste ne corrisponderebbero misure coercitive. Purtroppo non è la prima volta che la Corea del Nord trascura gli avvertimenti dall’ONU; basti pensare, ad esempio, al lancio di due satelliti nel 2012 e nel 2016 a dispetto del divieto del Palazzo di Vetro. Operazioni del genere sono considerate dal Consiglio di Sicurezza alla pari di test missilistici a lungo raggio. Tutto questo è abbastanza per rendersi conto di quanto si sia deteriorata l’autorevolezza delle Nazioni Unite nell’odierno contesto internazionale.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Stephen Biegun, rappresentante speciale degli Stati Uniti per la Corea del Nord
POLEMICHE E DIVISIONI
Intanto vacilla anche la tradizionale alleanza tra Corea del Sud e Giappone, che ha rappresentato finora una sorta di argine ai disegni del despota nordcoreano. Oggi invece i loro contrasti rischiano di rompere non solo gli equilibri geopolitici dell’Asia orientale, ma anche di compromettere la stabilità del commercio globale. La guerra commerciale tra Seul e Tokyo, iniziata lo scorso luglio con la decisione giapponese di limitare le esportazioni di materiali tecnologici verso la Corea del Sud, ha infatti provocato un impressionante calo dell’export per entrambi i Paesi. Le parti hanno poi cercato di venirsi incontro, anche a seguito dell‘intervento diplomatico degli Stati Uniti che fanno parte del triplice accordo di condivisione delle informazioni di intelligence nell’area. Si è parlato anche della possibile uscita della Corea del Sud dall’accordo bilaterale con il Giappone per lo scambio di informazioni militari, meglio noto come “GSOMIA”. Alla base della crisi tra Tokyo e Seul ci sono controversie sia politiche che storiche: lo scorso anno un tribunale sudcoreano ha infatti decretato che il Giappone deve sdebitarsi per lo sfruttamento dei lavoratori coreani durante l’occupazione coloniale della penisola dal 1910 al 1945. Tokyo ha rigettato tale decisione, affermando che la questione era stata risolta con un trattato con Seul del 1965.
Intanto il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi si è proposto come mediatore della disputa nippo-coreana con l’intento di salvaguardare gli interessi economici dei tre Paesi, che insieme rappresentano secondo la Banca Mondiale circa ¼ del PIL globale, con un commercio trilaterale che passa da 130 miliardi a 720 miliardi di dollari negli ultimi 20 anni.
Embed from Getty ImagesFig. 3 – Trump e Kim durante il loro storico incontro a Panmunjom dello scorso giugno. Sfortunatamente quell’evento non ha contribuito a smuovere i negoziati tra Pyongyang e Washington
Se da un lato la mossa di Pechino mira a preservare una certa stabilità regionale, condizione essenziale per lo sviluppo economico cinese, dall’altro essa cerca anche di separare il più possibile Washington dai suoi storici alleati regionali e di intensificare la polemica contro il protezionismo dell’attuale amministrazione repubblicana. Per quanto riguarda invece il sostegno della Cina alla Corea del Nord, nell’ultimo incontro tra Xi e Kim la Cina ha in pratica pubblicamente avvertito Trump della propria centralità nei negoziati sulla denuclearizzazione. Kim è consapevole dei limiti di questa “protezione” e che potrebbe presto diventare una semplice pedina nella partita tra le due potenze, ma di fatto sta cercando di sfruttare il sostegno cinese per ottenere più flessibilità dagli Stati Uniti. Sembra quindi che gli attuali sviluppi in Asia orientale stiano evidenziando come Trump non sia più l’unico protagonista della crisi nordcoreana. Un esempio su tutti. L’11 dicembre scorso si è riunito il Consiglio di Sicurezza dell’ONU su richiesta degli Stati Uniti. L’ambasciatrice statunitense Kelly Craft ha ammonito ancora una volta che Pyongyang sta andando incontro a nuove sanzioni, invitando gli altri Paesi membri ad agire di conseguenza. Ma la riunione ha evidenziato opinioni contrarie a quella statunitense, soprattutto da parte di Cina e Russia, che vorrebbero ridurre le tensioni nella regione e proseguire con i tentativi diplomatici dei mesi scorsi. L’ambasciatore cinese Zhang Jun ha infatti dichiarato che rivedere le sanzioni è necessario per tutelare il popolo nordcoreano e “creare un ambiente fruttuoso per il dialogo”, mentre quello russo Yassily Nebenzia ha criticato la diplomazia di Washington affermando che non ha concretamente offerto nulla in cambio di un accordo.
Massimiliano Giglia
Le proteste in Iraq: uniti contro il settarismo (e contro Teheran)
Analisi- Da ormai due mesi, l’Iraq è scosso da una violenta ondata di proteste: alle istanze socio-economiche si sono presto aggiunte le rivendicazioni anti-sistemiche di una popolazione stanca della governance settaria e dell’ingerenza iraniana.
Alessandria 1941: i “maiali” mettono al tappeto la Royal Navy
Ristretto – 18 dicembre 1941: tre siluri a lenta corsa della Regia Marina entrano di nascosto nella base navale britannica di Alessandria d’Egitto e danneggiano gravemente due corazzate, una petroliera e un cacciatorpediniere. Si tratta di uno dei più grossi successi della Marina italiana nella seconda guerra mondiale.
Nel dicembre 1941 l’Italia è in guerra da un anno mezzo contro la Gran Bretagna nel Mediterraneo e ha conosciuto finora solo sconfitte e umiliazioni. Dopo i disastri militari dell’inverno 1940-41, le ambizioni regionali di Mussolini sono infatti sfumate e lo sforzo bellico italiano è di fatto succube di quello dell’alleato tedesco, intervenuto in forze con l’Afrikakorps di Rommel e la Luftwaffe per tenere in piedi Roma nel conflitto. Anche la Regia Marina, l’arma più importante dell’Italia nel Mediterraneo, ha conosciuto più disfatte che successi: il raid aereo contro la base di Taranto (11-12 novembre 1940) e il disastro di Capo Matapan (27-29 marzo 1941) hanno gettato ombre pesanti sulla reputazione della flotta e indebolito la sua efficacia bellica contro la Royal Navy. Per cercare di pareggiare la situazione, la Marina decide quindi di affidarsi al naviglio leggero (barchini, MAS, sommergibili) per ostacolare i movimenti della flotta nemica e attaccare le sue unità più importanti. In questa scelta gioca un ruolo chiave il principe Junio Valerio Borghese, esponente della storica famiglia nobile, già distintosi come sommergibilista durante la guerra civile spagnola. Borghese organizza commando di “uomini rana” per attaccare le basi britanniche nell’area e promuove l’uso dei cosiddetti siluri a lenta corsa (SLC), meglio noti come “maiali”, cioè siluri pilotati direttamente da due operatori verso le navi nemiche. Una volta raggiunte tali navi, gli operatori rimuovono la testa del “maiale”, composta da 300 Kg di tritolo, e la attaccano alla carena dei vascelli avversari, provocando così, al momento dell’esplosione, la grave menomazione dello scafo o addirittura il suo affondamento. Naturalmente si tratta di una tattica estremamente rischiosa per i piloti degli SLC, che rischiano di venire uccisi dall’esplosione o dall’equipaggio nemico, ma consente comunque di infliggere grossi danni in maniera efficace e poco costosa.
Dopo un primo successo contro Gibilterra, l’ora della verità per i “maiali” di Borghese arriva nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941: trasportati dal sommergibile “Sciré”, tre SLC con relativi equipaggi vengono infatti messi in mare al largo del porto di Alessandria per colpire la locale squadra della Royal Navy comandata dall’ammiraglio Cunningham. I membri del commando sono Luigi Durand de La Penne, Emilio Bianchi, Vincenzo Martellotta, Mario Marino, Antonio Marceglia e Spartaco Schergat. Penetrati nella base nemica, i marinai italiani installano con successo mine magnetiche sullo scafo delle corazzate Valiant e Queen Elizabeth. Le successive esplosioni danneggiano gravemente entrambi i vascelli, mettendoli fuori uso per mesi, mentre una terza salva di mine su una nave cisterna finisce per distruggere anche parte del cacciatorpediniere Jervis, uno dei più decorati della Royal Navy. Tutti i membri del commando vengono catturati e spediti in campi di prigionia nella vicina Palestina, ma il loro successo ha comunque compromesso la superiorità numerica della flotta britannica nel Mediterraneo orientale e ridato in parte l’iniziativa alla Regia Marina. Ciò consentirà quindi alle forze navali italiane di continuare a giocare un ruolo attivo nel teatro per tutto il 1942, prima della sconfitta finale e della resa agli Alleati nel settembre 1943. Il destino dei protagonisti del raid rappresenterà perfettamente la sanguinosa divisione del Paese successiva all’armistizio: mentre Borghese continuerà infatti a combattere al fianco dei tedeschi, guidando la temuta Decima MAS, Durand de La Penne e i suoi compagni parteciperanno invece alla guerra di liberazione al fianco degli Alleati, ricevendo la medaglia d’oro al valor militare dagli ex nemici nel marzo 1945.
Simone Pelizza
Proteste o Rivoluzioni? Un aperitivo per raccontarvi…
Eventi – L’evento di chiusura di quest’anno per i soci del Caffè Geopolitico è stato dedicato alle proteste in corso nel mondo, con uno speciale reportage fotografico dal Libano.
L’Aquila e il Dragone (I): intervista al professor Giuseppe Gabusi
Le interviste del Caffè – L’attuale scontro commerciale e geopolitico tra Cina e Stati Uniti sta ridefinendo gli equilibri internazionali. È la fine del mondo globalizzato di inizio secolo? E quali sono le conseguenze per i Paesi coinvolti in tale conflitto? Ne abbiamo parlato con il professor Giuseppe Gabusi dell’Università di Torino, esperto conoscitore della realtà economica internazionale e responsabile del programma “Asia Prospect” di t.wai.
La prima domanda che vorrei porre riguarda la guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. Tenuto conto che gli Stati Uniti hanno avuto numerosi trascorsi in termini di guerre tariffarie, si può dire che lo scontro attuale contro la Cina ha delle caratteristiche uniche? Che differenze ci sono rispetto a prima?
Ha fatto riferimento prima alla guerra tariffaria con il Giappone: negli anni Ottanta gli Stati Uniti cercarono di contenere un Giappone che era decisamente cresciuto al di sopra delle aspettative di Washington, in parte anche grazie al ricorso alla svalutazione competitiva. Si adottò una strategia di contenimento tariffario e di rivalutazione dello Yen, culminata con l’accordo del Plaza del 1985. Il contesto era senz’altro diverso: il Giappone era ed è un Paese molto più sensibile alla leverage degli Stati Uniti, in quanto parte integrante del sistema di alleanze di Washington, a differenza della Cina.
Oltretutto, la portata della sfida cinese è maggiore anche per un altro motivo, dato che la Cina rappresenta un’alternativa ideologica credibile al modello di sviluppo liberale del Washington Consensus sostenuto dagli americani. Il sistema dei valori liberal-occidentali, basati sulla centralità dei diritti umani e dell’apertura politica ed economica, e al cui interno il Giappone è stato integrato, sono condivisi dalla Cina solo nella parte che concerne l’apertura strategica della propria economia.
Altra ben visibile differenza è la scala dell’economia della Cina, che con una popolazione di un miliardo e quattrocento milioni di persone ha un potenziale esponenzialmente maggiore rispetto a un Paese come il Giappone.
Ancora, la Cina ha una presenza economica che è globale, che si snoda in ogni teatro regionale, mentre la presenza economica giapponese era presente principalmente negli Stati Uniti e in Europa.
A mio avviso però, ciò che deve essere preso in più stretta considerazione è un elemento che poco c’entra con i paragoni con il Giappone, che è quello della competizione tecnologica. La competizione per la supremazia tecnologica nel XXI secolo è il punto fondamentale all’interno di questa guerra commerciale. Il motivo più profondo per cui la guerra commerciale è in atto è proprio questo: per stabilire quale tra i due Paesi riuscirà ad avere il vantaggio nella prossima generazione tecnologica.
Fig. 1 – L’ex Segretario di Stato USA Henry Kissinger (a sinistra) insieme al Presidente cinese Xi Jinping durante il New Economy Forum di Pechino, 22 novembre 2019
Che tipo di tecnologie?
ICT, robotica, intelligenza artificiale (interazione uomo-macchina), telecomunicazioni, internet delle cose, tutte tecnologie che impatteranno radicalmente sul nostro modo di vivere nei decenni a venire.
Ottenere dei vantaggi produttivi in questi settori strategici detterà le future gerarchie economiche di questo mondo.
Il risvolto commerciale di questa competizione è inevitabile, dato che, essendo fortemente interdipendenti nella realizzazione del proprio output tecnologico, i due Paesi cercano di limitare l’accesso della controparte ai fattori produttivi che le servono.
Fig. 2 – Il gigantesco centro Research and Development (R&D) di Huawei a Shanghai
Passiamo a un’altra domanda, di carattere più teorico. Un’egemonia si regge, inevitabilmente, sulla produzione di beni pubblici che beneficiano l’intero sistema. Secondo i teorici della stabilità egemonica, come Robert Gilpin, questo è il modo con cui l’egemone guadagna consensi e cementifica la sua posizione. Gli Stati Uniti, con le politiche di nazionalismo economico dell’attuale Amministrazione, stanno secondo lei abdicando dal loro ruolo di potenza egemone? Almeno in ambito economico?
L’egemone benevolo è lo Stato che offre beni pubblici all’ordine economico globale. Questo significa mettere a disposizione beni che possono essere sfruttati da tutti senza sopportare un costo, che è sostenuto dallo stesso egemone.
Tra i beni pubblici che gli Stati Uniti hanno messo a disposizione ci sono una valuta di riserva, aiuti allo sviluppo per i Paesi più poveri, l’apertura del proprio mercato alle merci che provengono dall’estero. Paesi come il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan non si sarebbero sviluppati in assenza di un mercato aperto come quello statunitense alle merci di tali Paesi. Anche la Cina, dopo il 1978, ha usufruito di tali condizioni per potersi sviluppare.
Ma oggi siamo arrivati a un punto di svolta, almeno in ambito economico-commerciale: gli Stati Uniti non sono più disposti ad assumersi il ruolo di fornire come bene pubblico il libero accesso al proprio mercato nazionale, e adesso la parola chiave della politica commerciale del Presidente Trump è “reciprocità”.
Secondo alcuni è impossibile, in quanto i costi sarebbero troppo elevati: da una parte, è troppo tardi fermare l’avanzata cinese. Dall’altra, bisogna non sottovalutare quanto le multinazionali americane sono presenti in Cina, connesse sia con i suoi fattori produttivi sia con le opportunità del mercato interno cinese. Ad esempio, Apple ha costruito nel corso del tempo una rete di fornitori tutti cinesi, e allo stesso tempo deve al mercato interno cinese una quota importante del fatturato. Interrompere queste interdipendenze così massicce genererebbe per l’economia americana delle conseguenze fortemente negative. Questa idea di una separazione dei mercati è un’idea difficile da realizzare senza ripensare completamente l’ordine economico globale, e considerare le conseguenze che almeno nel breve periodo sarebbero nefaste.
Fig. 3 – Stretta di mano tra Donald Trump e il vicepremier cinese Liu He alla Casa Bianca, 11 ottobre 2019
Vorrei aprire una riflessione sul futuro: ho l’impressione che un’intera epoca, quella in cui è nata e cresciuta la mia generazione, sia sul viale del tramonto. Un’epoca caratterizzata da un maggiore ottimismo sul futuro della globalizzazione e di crescita sostenuta delle interdipendenze inter e transnazionali. Secondo lei quali spiragli si aprono per la globalizzazione, ora che le relazioni tra le due colonne portanti dell’economia globale sono sempre meno cooperative? Esistono delle tendenze che possono svelare sviluppi futuri? Sarà sempre il caso di parlare di globalizzazione, o di un mondo crescentemente diviso per blocchi di cooperazione?
Per parlare di possibile ritirata della globalizzazione dobbiamo avere una prospettiva storica. Gli strutturalisti ricordano come a partire dalla rivoluzione industriale il mondo sia diventato de facto capitalista, con una proiezione del capitale oggigiorno su scala globale. Finché esiste questo impulso verso il profitto, questa ricerca di guadagni ovunque essi si presentino è una tendenza che fa sì che la globalizzazione sia qui per rimanere. Dunque, il trend di lungo periodo continua a essere di continua apertura e crescita delle interdipendenze. È probabile invece che se guardiamo al medio periodo stiamo assistendo a un ciclo della globalizzazione in controtendenza, un ciclo che tende a ovviare alle storture di una globalizzazione eccessiva, senza limiti, basata sul presupposto neoliberista che la globalizzazione genera solo vincitori. La globalizzazione genera perdenti e spesso abbiamo dimenticato di parlare di disuguaglianze: la rabbia nasce proprio da questo e genera cambiamenti politici, come dimostra il caso della vittoria di Trump alle ultime elezioni presidenziali americane. Quindi, non credo che la globalizzazione scomparirà: il mondo è davvero diventato troppo piccolo e abbiamo una rete di connessione nelle nostre vite quotidiane che è veramente globale. Non escludo che assisteremo a un mondo in cui i network conteranno addirittura di più degli Stati, soprattutto se consideriamo che i problemi che affrontiamo sono problemi globali, un esempio fra tanti è il cambiamento climatico.
Infine, penso che sarà difficile pensare alla globalizzazione come fenomeno in regressione, se teniamo conto di come le aziende multinazionali saranno sempre più potenti e presenti nelle nostre vite: colossi come Amazon, Facebook e Huawei attualmente hanno un fatturato che già supera il Prodotto interno lordo di interi Paesi.
Simone Munzittu
Le elezioni in Algeria non hanno calmato le proteste
In 3 Sorsi – Dopo nove mesi di proteste e nonostante l’opposizione a nuove elezioni da parte dei manifestanti, il popolo algerino è stato chiamato a scegliere il successore di Bouteflika. Riuscirà Abdelmadjid Tebboune a placare l’hirak?
Hong Kong vista da Washington
In 3 sorsi – Una rivoluzione in continua crescita quella di Hong Kong, segnata dal sangue, ma che vede l’intervento USA come lo scacco che potrebbe cambiare le regole del gioco. Vediamo insieme il perché.
Romania: Iohannis confermato Presidente
In 3 sorsi – Nel ballottaggio per la presidenza ha vinto il leader liberale Klaus Iohannis, riconfermato contro la leader di centro-sinistra ed ex premier Viorica Dăncilă, in parallelo a una generale bocciatura del partito socialdemocratico
L’orrore di Nanchino tra Cina e Giappone
Ristretto – 13 dicembre 1937: la città di Nanchino, capitale della Repubblica di Cina, cade nelle mani delle truppe giapponesi. Nelle settimane successive queste ultime compiono massacri e violenze terribili contro la popolazione locale, infliggendo una ferita non ancora rimarginata ai mai facili rapporti tra i due Paesi asiatici.
Dopo lo scoppio della seconda guerra sino-giapponese nel luglio 1937, le forze nipponiche limitano principalmente le proprie operazioni alla regione di Pechino e alle aree costiere, nella speranza di arrivare presto a una pace favorevole con Chiang Kai-shek. A fine novembre, però, la conquista di Shanghai incoraggia l’Esercito Imperiale a lanciare una vasta offensiva contro Nanchino, capitale della Repubblica cinese, con l’obiettivo di costringere il Governo di Chiang alla resa. Guidate dal generale Iwane Matsui, le truppe giapponesi conducono una rapida marcia lungo la valle dello Yangtze, ma incontrano poi una dura resistenza sulla Linea Fukuo, situata a ridosso delle antiche mura costruite dai Ming a difesa della città. Chiang ha infatti deciso di difendere la capitale a qualsiasi costo, ignorando il parere contrario dei suoi consiglieri militari, e ha creato un complesso sistema di trincee, casematte e campi minati per respingere l’assalto nemico. Inizialmente Matsui vorrebbe una resa pacifica di Nanchino e cerca di intavolare negoziati con il generale Tang Shenzi, responsabile della difesa cittadina, che però rifiuta. A quel punto il comandante giapponese ordina un assalto generale delle proprie forze contro la città: i combattimenti sono ferocissimi, soprattutto sul monte Zijinshan (sede del mausoleo di Sun Yat-sen) e nei pressi delle porte di ingresso cittadine, ma le truppe nipponiche hanno gradualmente la meglio su quelle avversarie, spesso male organizzate e male equipaggiate. Dopo due giorni di battaglia, la difesa cinese è sul punto di crollare e Chiang – riparato insieme al resto del Governo a Chongqing – ordina a Tang di abbandonare la città, ma la guarnigione è ormai accerchiata e viene di fatto massacrata dai giapponesi. Solo poche unità riescono ad attraversare lo Yangtze e a mettersi in salvo, talvolta a scapito dei civili che cercano disperatamente di fuggire dalla città in fiamme. Il 13 dicembre Nanchino è completamente nelle mani dei soldati di Matsui.
Da quel momento inizia una mattanza terribile, condotta spietatamente dalle truppe nipponiche sia contro la popolazione civile che i militari cinesi catturati. Per sei settimane si succedono stupri, esecuzioni, torture e violenze di ogni genere, a dispetto delle proteste dei diplomatici stranieri presenti in città e del tentativo di creare una zona di protezione internazionale per i civili nell’area. Le cifre sono ancora oggi discordanti, anche per via della sistematica distruzione della documentazione militare giapponese nel 1945, ma quelle più attendibili si aggirano intorno alle 300mila vittime. Solo l’impegno di diversi residenti occidentali, come il tedesco John Rabe e il danese Bernhard Arp Sindberg, impedirà un bilancio ancora peggiore, salvando la vita a centinaia di persone. Nel 1948 molte di loro invieranno soldi e viveri in Germania a sostegno della famiglia Rabe, ridotta in miseria, accompagnandoli spesso con lettere piene di gratitudine per l’aiuto ricevuto.
Dopo la seconda guerra mondiale, Matsui viene condannato a morte per crimini di guerra, ma il sospetto è che il verdetto copra le responsabilità più gravi del principe Asaka, suo superiore e zio dell’Imperatore Hirohito. Entrato con forza nella coscienza nazionale cinese, oggi il ricordo del massacro di Nanchino continua ad alimentare dure polemiche politiche tra Pechino e Tokyo, contribuendo alla loro crescente rivalità geopolitica e economica. Nel 1995 il Premier Murayama e l’Imperatore Akihito hanno espresso un generico rincrescimento per le violenze e le distruzioni provocate dalle guerre espansioniste giapponesi in Asia, ma il gesto è stato giudicato insufficiente dalle autorità cinesi. Inoltre molti politici giapponesi, soprattutto membri del Partito LiberalDemocratico (LDP) attualmente al potere, continuano a negare l’evidenza del massacro, parlando di “fabbricazione” politica o minimizzando il numero finale delle vittime.
Simone Pelizza
Get Brexit done: Boris Johnson ce l’ha (quasi) fatta
In 3 Sorsi – Le elezioni in Regno Unito hanno decretato una vittoria storica per il Partito Conservatore, che ora ha l’occasione di portare a termine il mandato popolare decretato dal referendum del 2016. Sarà semplice?


