Una spaventosa tratta di uomini percorre da Sud a Nord l’intero territorio nazionale egiziano, partendo dai campi rifugiati del Sudan orientale e diretta verso le nude lande della Penisola del Sinai. Da anni le organizzazioni per la protezione dei rifugiati e gli attivisti per la difesa dei diritti umani cercano di attirare l’attenzione sul traffico di rifugiati eritrei rapiti dai campi vicino Kassala – agglomerato urbano di 400 mila abitanti al confine tra Sudan ed Eritrea- e trasportati per migliaia e migliaia di chilometri in condizioni disumane verso i territori di confine tra Israele ed Egitto, da dove partono ingenti richieste di riscatto. Una terribile fine attenderà coloro le cui famiglie non riusciranno a soddisfare le richieste dei rapitori.
L’Iran di Rohani: malintesi e opportunità
Hassan Rohani è il nuovo Presidente iraniano: a eleggerlo è stata la metà degli aventi diritti, mentre gli altri candidati hanno raccolto consensi molto limitati. Che cosa cambierà adesso nel Paese? È vero che Rohani è un moderato che potrebbe stravolgere il sistema iraniano? Le interpretazioni in questo senso sono molte, però non sarà proprio così, soprattutto perché il nuovo Presidente è in primo luogo un membro del clero fedele a Khomeini. Tuttavia, già in passato Rohani ha mostrato avversità alle linee di Ahmadinejad.
IL RISULTATO – La vittoria di Hassan Rohani nelle elezioni presidenziali iraniane giunge inattesa (nonostante alcuni osservatori l’avessero prevista), ma non coglie di sorpresa. Il tasso di partecipazione alle consultazioni, che si temeva basso, ha invece superato il 70%, mentre la divisione del fronte conservatore tra più candidati (tra i quali Qalibaf e Jalili) non è sufficiente a giustificare la vittoria dei moderati, poiché Rohani ha ottenuto il 50,71% dei voti, ossia la maggioranza assoluta. Inoltre, nonostante l’esclusione dalla competizione di Rafsanjani e Khatami avesse destato i sospetti di una riproposizione di quanto avvenuto nel 2009, con gli esiti elettorali manipolati in favore di Ahmadinejad, in questa occasione il voto è stato assolutamente libero e trasparente. Si potrebbe obiettare che, comunque, tutti i candidati presentatisi fossero personalità approvate da Khamenei proprio per evitare un’eccessiva indipendenza da parte del vincitore e la riapertura dello scontro tra le Istituzioni. Vero, però bisogna tener presente che il sistema iraniano, salvo l’eccezione degli ultimi anni, ha sempre visto una forte ingerenza della Guida suprema nella scelta nei candidati, ma non l’alterazione dei risultati elettorali in modo così palese come nel 2009. Il disincanto che molti osservatori ritenevano foriero di astensionismo si è invece rivelato uno stimolo alla partecipazione.
CHI È ROHANI – Hassan Rohani è nato nel 1948 a Semnan, nell’Iran settentrionale. Ha studiato a Qom e a Teheran, entrando in contatto diretto con Khomeini e dedicandosi all’impegno politico e religioso. Rifugiatosi a Parigi nel 1978 per evitare la mano della polizia segreta dello Scià (Savak), Rohani tornò in Iran con Khomeini al momento della rivoluzione per partecipare attivamente alla nascita della Repubblica islamica: il suo maggiore apporto fu nell’organizzazione delle forze militari. Rimase quindi costantemente in Parlamento tra il 1980 e il 2000, ricoprendo prestigiosi incarichi, lavorando alacremente durante la guerra con l’Iraq (1980-1988) e ottenendo la guida del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale dal 1989 al 2005, ruolo con il quale svolse anche funzione di capo negoziatore per le trattative sul nucleare con EU-3, la delegazione europea composta da Francia, Germania e Gran Bretagna (2003-2005). Non bisogna tralasciare, inoltre, che Rohani sia stato anche consigliere per le questioni strategiche di Rafsanjani e Khatami, nonché direttore del Center for Strategic Research, un Istituto che sostenne materialmente molti intellettuali invisi ad Ahmadinejad.
L’OCCASIONE PER LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE – In questi giorni si stanno moltiplicando le previsioni circa un futuro radioso e illuminato per l’Iran, sotto la guida del riformista Rohani. Questa interpretazione risente molto di alcuni malintesi di fondo dell’opinione pubblica mondiale riguardo alle dinamiche di Teheran. Rohani, infatti, è prima di tutto un membro del clero – tanto che “The Diplomat” si pone una domanda: «È il ritorno del clero al potere?» –, nonché uno dei più fieri sostenitori dell’eredità di Khomeini. Il nuovo Presidente non contesta per alcun motivo l’esistenza della Repubblica islamica, ma casomai ne auspica solo alcune modificazioni per adeguarla ai tempi. Rohani, inoltre, è contrario alle politiche radicali intraprese da Khamenei e Ahmadinejad – in modi diversi – negli ultimi anni, negandone l’efficacia, però non la legittimità. Il nuovo Presidente dovrà innanzitutto dedicarsi alla ripresa economica del Paese, quindi alla rottura dell’isolamento internazionale dell’Iran, dovuto in primo luogo alla questione del nucleare. Tuttavia, e torniamo al punto precedente, il fatto che Rohani sia integrato nel sistema islamico, ma al contempo sia anche il portatore di importanti istanze di rinnovamento, deve convincere la comunità internazionale della necessità di riaprire il dialogo con l’Iran in modo coraggioso e, soprattutto, con la flessibilità che deriva dall’aggiornamento delle interpretazioni su un Paese fondamentale per la pace mondiale.
Beniamino Franceschini
G8, le tre “T” per lo sviluppo economico
Trade, Taxation and Transparency: ovvero apertura commerciale, lotta all’evasione fiscale globale e più trasparenza nei Paesi in via di sviluppo. Sono le tre frecce nell’arco di David Cameron, il premier britannico che ha quest’anno il compito di ospitare il vertice del G8, in programma in Irlanda del Nord. Riuscirà a centrare il bersaglio?
Mandaci il tuo Caffè e vinci…
In occasione del lancio del nuovo sito, vogliamo puntare con forza all’interazione con voi lettori. Tra le varie modalità, ce n’è una davvero speciale, che è questo concorso che proponiamo a tutti voi. Vogliamo infatti inserire nel nostro sito una sezione dedicata alle recensioni di libri e film che trattino nelle modalità più diverse tematiche di geopolitica, relazioni internazionali, politica estera. Per creare questa sezione, abbiamo bisogno di voi! Ecco come intendiamo coinvolgervi: potete mandarci, scrivendo a [email protected], le vostre recensioni di film o libri (lunghezza massima: 7.000 battute spazi inclusi). Tutte le recensioni che incontreranno l’interesse e il gradimento della redazione verranno pubblicate, e la migliore in assoluto (sulla base del giudizio della redazione e di criteri oggettivi, tra cui numero di letture, commenti e interazioni sui social network) verrà premiata con un buono regalo da spendere online nella tua libreria preferita del valore di 50 euro.
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La svolta di Qusayr
Un Assad che sembra più saldamente in sella, un’importante battaglia vinta dalle sue forze, gli USA che lo accusano di usare armi chimiche e decidono di armare i ribelli… cinque domande e cinque risposte per capire le ultime evoluzioni della guerra in Siria.
Si è recentemente parlato di una battaglia vinta dalle forze di Assad contro i ribelli vicino alla cittadina di Qusayr… perché è stato importante?
Di scontri tra ribelli e forze leali al regime ce ne sono molti in Siria, ma Qusayr è particolare. La località è in posizione strategica: controlla le linee di comunicazione terrestre tra la capitale Damasco e le città a nord, e principalmente la zona a maggioranza Alawita (gli sciiti fedeli ad Assad) sulla costa del Mediterraneo. Per il regime è dunque essenziale per poter muovere truppe e rifornimenti più in libertà. Anche per i ribelli era un’importante base logistica, attraverso la quale passavano molti rifornimenti di armi e munizioni dal Libano.
Ma come ha fatto Assad a vincere? Non era quasi spacciato?
Negli ultimi mesi l’Iran ha incrementato il suo appoggio ad Assad, fornendo armi, equipaggiamenti e uomini, sotto forma di istruttori delle Guardie della Rivoluzione (i pasdaran) e di miliziani di Hezbollah giunti dal Libano. Questi aiuti hanno permesso di avere più truppe (grazie a Hezbollah), di addestrare e riorganizzare le milizie Shabiha, che erano poco più di bande armate, in una forza militare almeno decente, chiamata Forza di Difesa Nazionale. I comandanti lealisti hanno poi organizzato un piano di battaglia efficace, con l’aiuto di artiglieria e aviazione. I ribelli invece erano disorganizzati, poco coordinati tra loro, e le potenze occidentali finora non hanno fornito loro le armi che avrebbero permesso di combattere più alla pari. Il risultato è stata la vittoria delle forze di Assad a Qusayr.

Assad dunque sta per vincere la guerra?
Non è così semplice. Quella di Qusayr è stata solo una battaglia: importante, ma non è ancora possibile dire quanto decisiva. Gran parte del paese è ancora pieno di forze ribelli, che possono ricevere armi anche da altre direttrici, e Assad finora ha mostrato di perdere i vantaggi acquisiti in ogni grande scontro non appena il grosso delle sue forze si allontanano, perché finora aveva troppi pochi uomini per mantenere il controllo. E’ certo però che per il regime le cose ora stanno volgendo al meglio: l’aiuto di Hezbollah gli permette di esercitare una pressione maggiore e di controllare più territorio, così come l’appoggio iraniano gli fornisce armi e addestramento per rendere migliori le sue truppe. Inoltre, ormai la maggior parte di chi voleva disertare l’ha fatto, e questo rende le sue forze rimaste più fedeli.
In mezzo a tutto questo, gli USA – e forse anche alcuni paesi europei – hanno dichiarato che forniranno armi ai ribelli. Perché ora?
L’amministrazione Obama non ha voluto aiutare subito con armi i ribelli per evitare che ne beneficiassero anche gruppi estremisti, come era successo in Libia. Così facendo però l’aiuto fornito ai ribelli è stato molto limitato e, finora, non sufficiente ad abbattere il regime. Chiunque abbia seguito le discussioni a Washington sa che proprio per questo il Presidente ha subito molte critiche, venendo accusato di non avere un piano, di essere indeciso, di aver addirittura indirettamente contribuito allo stallo – e dunque al massacro – in Siria privando i ribelli dell’aiuto necessario. Nemmeno la prudenza rispetto ai gruppi estremisti pare aver pagato, perché questi gruppi sono comunque cresciuti in importanza e numeri, indebolendo le formazioni invece più moderate. Si può dire dunque che Qusayr sia stato uno scontro effettivamente decisivo, nel senso che ha posto l’amministrazione USA davanti all’evidenza che senza aiuti militari diretti c’è addirittura il rischio che Assad possa infine vincere. Ovviamente non a breve, forse solo tra mesi o anni, ma questa possibilità ora viene tenuta in considerazione.
Gli USA, come motivazione, adducono l’uso di armi chimiche da parte di Assad. Ma sarà vero?
Non è possibile saperlo con certezza. Le voci sull’uso di armi chimiche si rincorrono da settimane, ma per il pubblico è difficile reperire informazioni affidabili. Inoltre entrambe le parti in Siria continuano ad accusarsi a vicenda. Ma nella situazione attuale ha davvero importanza? I danni al paese e le vittime civili sono già molto elevate e l’uso o meno di armi di distruzione di massa non cambia comunque la sostanza della questione umanitaria, già critica. Inoltre senza aiuti militari i ribelli non appaiono capaci di vincere, e Assad, nel caso continui a ricevere appoggio iraniano, può diventare sempre più forte. Armi chimiche o meno, il prospetto è che senza aiuto esterno questa rimanga una guerra lunga, sanguinosa, e con forti perdite civili. In un conflitto sfuggito di mano ai contendenti sul campo per diventare uno scontro “per procura” tra potenze, per gli USA l’unica possibilità per impedire al fronte pro-Assad di trionfare rimane aiutare i ribelli a girare la partita a loro favore più velocemente, con armi, equipaggiamenti e, forse, un aiuto diretto come una no-fly zone. Nella speranza serva anche a ridurre i massacri.
Lorenzo Nannetti
Le elezioni in Iran e la mano di Khamenei
In Iran si elegge il nuovo Presidente: dopo i due mandati di Ahmadinejad, il Paese si trova in una situazione complessa, nel pieno della crisi economica e profondamente gravato dalle sanzioni internazionali.
La Forza Nec e le novità in casa Nato
Miscela strategica – Il concetto di guerra “networkcentrica”, concepito dagli Stati Uniti per rimodernare le proprie forze armate nel nuovo secolo, è stato recepito solo in parte dalla NATO, che ha ampiamente modificato il percorso iniziale.
La calda estate dell’Unione Europea
L’Europa ha di fronte un’estate molto complessa, sia economicamente, sia politicamente. Vediamo in modo rapido tre esempi che Bruxelles dovrà seguire con estrema attenzione, ossia gli sviluppi della crisi in Grecia, con la chiusura della televisione pubblica e il declassamento della Borsa, il dibattito sull’adesione della Lettonia all’euro nel 2014, l’ingresso della Croazia nell’Unione il I luglio.
GLI IMPEGNI IMMINENTI – Dal I gennaio la Lettonia adotterà l’euro (sì, la Lettonia è un Paese membro, dal 2004!), mentre dal I luglio la Croazia sarà il 28° Stato ad aderire all’Unione Europea. Nel frattempo, però, la Grecia da un lato ha chiuso il servizio radiotelevisivo pubblico, la ERT, licenziando 2500 dipendenti e annunciando la sua ricostituzione con forte privatizzazione all’interno del programma concordato con la troika (BCE, FMI e UE), dall’altro lato ha subìto un declassamento della propria borsa (non dello Stato) nell’indice MSCI di Morgan Stanley da Paese sviluppato a Paese emergente. L’estate dell’Unione Europea si prospetta quindi piuttosto delicata, poiché sarà necessario gestire con oculatezza sia la ricostruzione del sistema radiotelevisivo greco, sia il percorso della Lettonia, con il via libero definitivo che dovrebbe arrivare a fine luglio, sia le prime fasi dell’allargamento alla Croazia. Si tratta di tre situazioni molto complesse, sebbene per motivazioni diverse.
GOVERNO A RISCHIO IN GRECIA? – La chiusura della ERT, infatti, oltre a essere un gravissimo vulnus per l’informazione in Grecia, nonché a significare la perdita del lavoro per più di 2mila persone, potrebbe condurre a una crisi di Governo: le opposizioni e il PASOK (partito nell’esecutivo di larghe intese) hanno duramente contestato il provvedimento, giunto con decreto ministeriale, ma il primo ministro Samaras non esclude di subordinare la discussione parlamentare sull’argomento a un voto di fiducia. Questo a pochi giorni dal fallimento dell’asta per la privatizzazione della società greca del gas, DEPA, con Gazprom che ha ritirato improvvisamente la propria offerta (più di 900 milioni euro) per le forti perplessità di Bruxelles.
LA LETTONIA NELL’EURO – Riguardo alla Lettonia, le Autorità europee hanno sostenuto che il Paese abbia raggiunto «un alto livello di convergenza economica sostenibile», dopo che, stante il crollo del PIL del 26,5% tra il 2008 e il 2010, anche Riga era dovuta sottostare a un intenso programma di austerità. In questo senso, secondo alcuni analisti la vicenda potrebbe giovare al rafforzamento dei cosiddetti “falchi” della rigidità economica, mentre per altri osservatori l’ingresso lettone potrebbe essere deleterio in primo luogo per il Paese stesso, e in seguito per l’Eurozona, per analogia col caso di Cipro. Al di là delle valutazioni strettamente economiche, Bruxelles ha sollecitato la Lettonia a porre rimedio alle zone oscure sulle quali aleggiano sospetti fondati di riciclaggio di denaro e movimenti finanziari dubbi, operando al contempo anche per tenere sotto controllo l’inflazione e i prezzi durante il passaggio all’euro.
BENVENUTA CROAZIA – Infine, l’adesione della Croazia all’Unione, prevista per il I luglio al termine di un percorso avviato nel 2003 e non sempre facile. Per esempio, per lungo periodo Francia, Gran Bretagna e Olanda hanno proposto che fosse applicata una sorta di “clausola di monitoraggio”, consistente nell’impegno per la Croazia di inviare trimestralmente rapporti a Bruxelles sullo stato del processo di attuazione dei Trattati, soprattutto circa la lotta alla corruzione. In Italia, solo pochi giorni fa, il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, si è rivolto al presidente Enrico Letta chiedendo di tenere sotto controllo il rischio dumping, ossia, in questo caso, l’eventualità che nel nostro Paese arrivi un alto numero di lavoratori croati (analogamente alla celebre “calata dell’idraulico polacco”), un tema che sta destando preoccupazione anche in altri Stati. E, tuttavia, che è sempre ricorrente nelle circostanze dell’adesione di un nuovo membro. Per l’Unione Europea, quindi, l’estate non sarà certo tempo di vacanze.
Beniamino Franceschini
Che cosa si sono detti Obama e Xi?
Venerdì 7 e sabato 8 giugno, Obama e Xi hanno tenuto una serie di colloqui in California: che cosa si sono detti? Gli accordi di massima sull’ampliamento della cooperazione, sulla lotta a inquinamento e attacchi cibernetici e sulla Corea del Nord sono prove generali di convivenza tra le due potenze? In tal caso, probabilmente ad avere la meglio è stata la circospezione di Xi.
L’OCCASIONE – La scorsa settimana, Barack Obama e Xi Jinping si sono incontrati in California per un vertice a lungo atteso e riguardo al quale gli osservatori avevano da tempo tentato di fornire interpretazioni e previsioni. In effetti, il summit è andato esattamente come ci si aspettava, poiché si è discusso del rafforzamento e della istituzionalizzazione dei rapporti tra i due Paesi, nonché dello scottante tema del contrasto alle attività di disturbo cibernetico. Lo scopo di Obama era ricevere dalla controparte risposte chiare e impegni certi, ma Xi ha mantenuto il tipico cordiale distacco cinese (la “politica del sorriso”), da un lato mostrandosi disponibile al confronto, dall’altro evitando accuratamente impegni davvero vincolanti.
I TEMI – Cina e USA si sono accordati per ampliare i canali di collaborazione nell’àmbito delle organizzazioni internazionali (G-20 e Forum Asia-Pacifico in particolare) e circa temi specifici, dalla tutela dell’ambiente, all’Afghanistan, passando dal dialogo in Corea e – ovviamente – dalla sicurezza informatica. Proprio quest’ultimo argomento è stato il più critico, poiché di fronte alla posizione decisa di Obama, il quale non ha nascosto che per Washington i responsabili degli attacchi hacker delle scorse settimane siano sostenuti direttamente da Pechino, il Presidente cinese ha replicato parlando di una serie di malintesi e dichiarando che la Repubblica Popolare sia parte lesa allo stesso modo degli Stati Uniti. A rendere la questione ancora più complessa, però, è il fatto che Edward Snowden, il protagonista del cosiddetto “Datagate” (lo scandalo per la raccolta di informazioni sui cittadini statunitensi da parte della National Security Agency), in quei giorni si fosse rifugiato a Hong Kong. I due Presidenti si sono trovati concordi anche nella necessità di convincere la Corea del Nord a sospendere il programma nucleare e nell’urgenza della lotta ai cambiamenti climatici. A lato del vertice, però, sono corse le indiscrezioni circa un presunto – in realtà certo – sgarbo diplomatico: l’annullamento dell’incontro tra le First Ladies Michelle e Liyuan, probabilmente dovuto alla consapevolezza che il presidente Xi stia contando sulla moglie per comunicare un’immagine più solare e rassicurante della Cina, cosicché è probabile che, evitandone una sovraesposizione mediatica negli USA, si sia inteso limitare il vertice istituzionale ai soli aspetti formali.
PROVE DI DIALOGO – Il summit californiano, pertanto, è apparso soprattutto come un tentativo di sondare il terreno da parte di entrambi i Paesi in vista dell’evoluzione futura dei rapporti, con gli Stati Uniti impegnati in una politica di containment (“Pivot to Asia”), che, tuttavia, dato il livello degli scambi economici e le contese nel Mar Cinese meridionale, nel lungo periodo potrebbe mostrarsi controproducente, e con la Cina che alterna la “strategia del sorriso” e la proposta di fatto della creazione di un Beijing Consensus in Asia, agli attacchi informatici e alla guerra commerciale.
Beniamino Franceschini
Fracking, minaccia per il dominio russo?
La diffusione delle tecniche di estrazione non convenzionali sta facendo emergere tutti i limiti del modello economico russo. Dopo anni di dominio quasi monopolistico in Europa, la Russia si trova a fare i conti con potenziali competitors. Paure e reazioni di un colosso energetico mondiale alla prima vera sfida dall’avvento dell’era Putin.
Chi comanda in Libia?
I fatti di sabato a Bengasi, con gli scontri tra la popolazione locale e le milizie di “Scudo della Libia”, formazione di insorti inquadrata nella riserva dell’esercito, riportano nel dibattito internazionale il tema della sicurezza nel Paese: chi comanda davvero e come può essere controllato il flusso di armi?
GLI SCONTRI DI BENGASI – Sabato 8 giugno, un gruppo di dimostranti a Bengasi ha assalito la sede di “Scudo della Libia”, una milizia armata che prese parte all’insurrezione contro Gheddafi e che adesso è riconosciuta dal Governo quale unità di riserva dell’esercito. Dopo alcune ore di duri scontri, il bilancio è stato di almeno 30 persone morte e oltre 70 ferite. Il fatto, che non costituisce un precedente, giacché episodi analoghi si sono verificati nell’ultimo anno in tutto il Paese, porta nuovamente in evidenza una problematica che costituisce una seria minaccia per la già fragile unità della Libia contemporanea, ossia la totale assenza di razionalità nella gestione della sicurezza, a cominciare dall’impossibilità per le Autorità di procedere a una reale campagna di disarmo. La vicenda di Bengasi, oltretutto, giunge proprio a pochi giorni dalla polemica tra il Primo Ministro libico, Ali Zeidan, e il Presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, il quale, all’indomani degli attacchi terroristici degli uomini di Mokhtar Belmokhtar alla miniera di Arlit e alla caserma di Agadez, affermò che la Libia costituisse «la maggiore fonte di destabilizzazione nel Sahel».
IL VUOTO DI POTERE A SUD – In effetti, il sud del Paese resta tuttora assolutamente fuori controllo, a maggior ragione da quando l’avanzata francese in Mali ha costretto un ampio numero di combattenti islamisti ad attraversare i confini algerino e nigerino, transitando anche verso la Libia. È innegabile che il quadro nella regione sahelo-sahariana sia divenuto quanto mai caotico in seguito alle turbolenze degli ultimi due anni, con gruppi combattenti sospesi tra il jihadismo e il banditismo che sono riusciti a sfruttare i vuoti di potere – anche connessi alle cosiddette “Primavere arabe” – per perseguire intenti terroristici e criminali (sequestri e traffici di armi e droga), tuareg sul piede di guerra e compagini armate di ribelli. In Libia continua a circolare un volume di armi non ben quantificabile e in molte zone il controllo del territorio, e con esso quello della giustizia e della sicurezza, restano appannaggio di clan, potentati locali e milizie più o meno regolari per i quali la guerra civile non è ancora finita. Il progetto della Commissione suprema di sicurezza (CSS), che avrebbe dovuto comprendere le varie formazioni armate degli insorti, è al momento solo una sigla sotto la quale operano componenti con propri interessi. Lo “Scudo della Libia” è un’altra organizzazione costituita da combattenti anti-Gheddafi, ma che, a sua volta, mira a obiettivi talvolta confliggenti con lo stesso Governo di Tripoli e spesso in aperta ostilità nei confronti della CSS.

CHI COMANDA IN LIBIA? – La complessità del quadro sta proprio nell’assenza di linearità nella gestione della sicurezza, poiché alle sigle ora indicate devono essere aggiunti coloro che sarebbero i detentori legittimi dell’uso della forza, ossia i militari regolari e la polizia. La Libia meridionale, inoltre, è ormai un’area centrale per il transito dei traffici illeciti e per il rifugio di alcuni gruppi islamisti attivi nella regione sahelo-sahariana, soprattutto Ansar al-Shari’a, che intrattiene profondi rapporti con al-Qaida (molti suoi membri sono reduci del jihad in Iraq e Afghanistan), pur non facendone direttamente parte e nonostante recentemente alcune sue figure di spicco siano state uccise. Tutto ciò contribuisce a rendere la Libia estremamente instabile, scomponendo il contesto socio-politico in base a direttrici da sempre presenti nel Paese, ma riemerse tragicamente dopo la caduta di Gheddafi e destinate, stante anche la moltiplicazione di milizie armate e il flusso incessante di armi, a perdurare nel lungo periodo. In questo senso l’origine primaria delle vicissitudini libiche è da ricercarsi nella mai sedata frammentazione etnica e tribale.
Beniamino Franceschini
Turchia, le improbabili dimissioni di Erdogan
Le città turche tornano a infiammarsi al termine di un fine settimana all’insegna della tranquillità. Che cosa ci si deve aspettare dai prossimi giorni? In molti chiedono le dimissioni di Erdogan, ma in realtà è molto improbabile che il Primo Ministro compia un passo indietro


