venerdì, 19 Dicembre 2025

APS | Rivista di politica internazionale

venerdì, 19 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

Home Blog Page 534

Primi passi verso la pace in Colombia

Da Santiago (Cile) – Dopo oltre mezzo secolo di conflitto interno uno spiraglio sembra aprirsi nel percorso verso la pace in Colombia, Paese attanagliato da un duro confronto interno fra i gruppi rivoluzionari che reclamano l’indipendenza delle zone rurali del paese e lo Stato colombiano. I negoziati che sono in corso da oltre un anno hanno finalmente prodotto un primo accordo di massima su uno dei punti dell’agenda: la questione agraria. Ma la strada verso il raggiungimento di un accordo completo, e quindi della pace, é ancora lunga

Geostrategia del jihadismo africano (I)

Miscela strategica – Provocatoriamente, si potrebbe dire che la guerra al terrorismo in Asia stia terminando e che il fronte si stia spostando verso l’Africa, per alcuni analisti il vero obiettivo della guida di al-Qaeda, al-Zawahiri. La sconfitta di al-Shabaab in Somalia ha condotto ad una diaspora dei miliziani verso le regioni limitrofe, dinamica che potrebbe favorire la costruzione di una rete internazionale a cavallo tra il Corno d’Africa e i Grandi Laghi. Allo stesso tempo, il nord della Nigeria è posto sotto stato d’emergenza per fronteggiare la violenza di Boko Haram, mentre il Sahel continua a bruciare infiammato dalla guerra in Mali e dalle azioni dei gruppi jihadisti: un triangolo che racchiude ampia parte dell’Africa e attraverso il quale corrono i collegamenti dell’islamismo radicale combattente.

 

INTRODUZIONE – Il corridoio jihadista africano è un lungo arco che unisce lo Yemen al Sahel, traversando aree ad alta instabilità politica, ma strategiche e ricche di risorse. Questa via privilegiata del terrorismo – una linea teorica – si estende lungo scacchieri nei quali operano alcune tra le maggiori formazioni islamiste del mondo, un triangolo che ha vertici estremamente diversi tra loro in storia, contesto, modus operandi e prospettive, però collegati, seppure non sempre saldamente e formalmente: al-Shabaab e le componenti dell’islamismo combattente somalo, Boko Haram in Nigeria e la rete – complessa e difficilmente ricostruibile – del jihadismo sahelo-sahariano (al-Qaida nel Maghreb islamico, Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest, Ansar Dine…). Per comprendere meglio come il corridoio si sia costituito in tempi recenti, conviene cominciare proprio dall’ultima tessera aggiunta, la diaspora di al-Shabaab.

 

LA PORTA DELL’AFRICA – Contrariamente a quanto talvolta è riportato, al-Shabaab fu inserita formalmente nella rete di al-Qaida solo nel febbraio 2012, quando la guida del gruppo, l’emiro Abu Zubeyr, comparve in un video promettendo fedeltà ad Ayman al-Zawahiri, il quale confermò l’unione. Al-Shabaab agiva in Somalia dal 2004-2005, ma raggiunse la propria massima espansione dal 2008, ossia con la conquista della città di Chisimaio, porto strategico nel sud della Somalia liberato dalle forze keniote e del contingente africano (AMISOM) solo nell’autunno del 2012. La formazione somala aveva più volte tentato di unirsi ad al-Qaida, ma si era scontrata con il veto di Osama bin Laden, il quale da un lato riteneva che Abu Zubeyr fosse inaffidabile, dall’altro era consapevole che al-Shabaab avesse caratteri peculiari, ossia che fosse un gruppo che intendeva il jihad come sforzo di liberazione della Somalia dalle ingerenze straniere e la cui base fosse contraria all’ingresso di elementi provenienti da altri Paesi. Bin Laden mirava a mantenere integra la forza di al-Qaeda in Africa orientale, mostrandosi favorevole al più a un coordinamento regionale. Al-Zawahiri, invece, dall’estate del 2011 riprese il dialogo con al-Shabaab, soprattutto perché Abu Zubeyr gli chiese aiuto contro le numerose defezioni che il movimento stava subendo in seguito all’avanzata delle truppe alleate di Mogadiscio. Se per Abu Zubeyr l’obiettivo era dare nuovo vigore ad al-Shabaab, per al-Zawahiri, invece, lo scopo era ampliare quanto più possibile la rete in Africa, sfruttando i vuoti di potere nella regione subsahariana e creando nello specifico una testa di ponte in Somalia per favorire l’alleggerimento del fronte asiatico.

 

Combattenti di al-Shabaab a Mogadiscio (2009).
Combattenti di al-Shabaab a Mogadiscio (2009)

Il progetto complessivo era giungere a un coordinamento – anche solo di massima – tra al-Shabaab, Boko Haram e la rete di al-Qaida in Africa orientale (AQOA) e nel Maghreb Islamico (AQIM). In realtà, i rapporti non sono mai stati formalizzati, sia per motivi ideologici, sia per le rispettive diffidenze. Il 28 settembre 2012, inoltre, la coalizione a sostegno del GFT espugnò Chisimaio, sconfiggendo al-Shabaab, ma gestendo la fase successiva con una strategia potenzialmente dannosa già nel breve periodo. Secondo alcuni osservatori, il legame tra al-Shabaab, Boko Haram e AQIM non sarebbe stato concretato in alcun modo, una teoria che non convince molto, giacché, pur essendo vero che l’alleanza non sarebbe stata possibile, è un dato di fatto che miliziani nigeriani si siano addestrati in Somalia. La stessa collaborazione tra Boko Haram e i gruppi sahelo-sahariani (AQIM e MUJAO su tutti) è un fenomeno ancora da approfondire, poiché, alla naturale difficoltà per la ricostruzione delle reti terroristiche, si sovrappone quella per l’individuazione delle numerose formazioni che, restando sulla sottile linea tra il terrorismo e il puro banditismo, svolgono un ruolo di intermediazione o azione collaterale, come nel caso della compravendita degli ostaggi rapiti. Tornando al vertice somalo del triangolo, poco prima si anticipava che la gestione da parte di AMISOM dei postumi della battaglia di Chisimaio avrebbe potuto paradossalmente favorire in qualche modo l’idea originaria di al-Zawahiri di un Corno d’Africa inteso come porta del continente. Dopo aver conquistato la città, infatti, le forze keniote e di AMISOM lasciarono una via di fuga ai combattenti di al-Shabaab, un corridoio che dalla costa si estendeva in direzione nord-ovest, ossia verso aree rurali e semidesertiche al confine tra Somalia, Kenya ed Etiopia, nelle quali una riorganizzazione del movimento sarebbe stata più difficile, sia per il territorio geomorfologicamente impervio (oltretutto si andava verso l’inverno), sia per la tradizionale diffidenza della popolazione delle regioni periferiche nei confronti di islamisti e stranieri.

 

La motivazione del corridoio di fuga è implicita nella strategia adottata per la conquista di Chisimaio: la città fu liberata dopo un intenso bombardamento aero-navale e con azioni mirate, ma i vertici kenioti preferirono evitare un assalto frontale via terra, timorosi – a ragione – che le difese imbastite da al-Shabaab avrebbero trasformato l’operazione in un sanguinoso assedio. Tralasciando le conseguenze per la vicenda somala, è importante seguire la sorte dei miliziani di al-Shabaab, poiché molti di essi, ben lungi dall’arrendersi, sono riusciti a varcare le frontiere, rifugiandosi nell’Ogaden etiope e nelle Province Nordorientali keniote, due regioni la cui popolazione è per gran parte composta da musulmani d’etnia somala e che storicamente hanno sempre costituito bacini fondamentali per il nazionalismo combattente e il terrorismo in Somalia. Gli uomini di al-Shabaab hanno preso a riorganizzarsi in queste regioni, mentre ancora alcuni gruppi stanno agendo nei territori somali meridionali. La distinzione tra i combattenti rimasti in patria e quelli trasferitisi all’estero sarà fondamentale, poiché i primi continueranno la guerra contro il Governo di Mogadiscio, mentre i secondi combatteranno nel resto dell’Africa orientale (Etiopia, Kenya e Tanzania in particolare), spingendosi secondo alcuni analisti fino in Yemen e, pertanto, rafforzando la via tra la Penisola araba e il Corno d’Africa e creando un arco di tensione che, tramite i vuoti di potere nella regione centrale del continente (Repubblica democratica del Congo, parte dell’Uganda e Centrafrica) giunge direttamente nel raggio d’azione di Boko Haram e al Sahel.

 

(Segue – II parte)

 

Beniamino Franceschini

Qatar, non solo petrolio

Il Qatar, penisola con nemmeno due milioni di abitanti, all’incirca dello stesso peso geografico dell’Estonia e circondato da “pesi massimi” del sistema internazionale, gioca tuttavia un ruolo più che rilevante sullo scenario mondiale che ad un primo sguardo stride con i propri limiti fisici. Se si esamina più attentamente, però, si comprende come questo paese si sia ritagliato il proprio ruolo con metodo e strategia, attraverso un attento lavoro diplomatico e di soft power, che l’hanno reso qualcosa di molto più importante che la “solita” petro-monarchia.

 

NON SOLO PETROLIO –  Nato come potenza petrolifera, il Qatar ha recentemente scoperto nel proprio sottosuolo impressionanti riserve di gas naturale, in un ammontare tale da guadagnarsi la terza posizione a livello mondiale, dietro solo a Russia ed Iran, ed il primato assoluto in quantità di LNG esportato. Non solo greggio, quindi, ed in un periodo storico in cui il prezzo del barile sta scendendo e l’attenzione mondiale si sta spostando verso il gas naturale, il Qatar può decisamente continuare a giocare un ruolo da protagonista sullo scenario energetico globale.

 

BRANDING STRATEGY – Le risorse del proprio sottosuolo, però, da sole non bastano a fare la differenza. Il Qatar non è l’unico stato della regione a vantare considerevoli proventi dal settore energetico, e dunque , per emergere sui propri vicini, alcuni dei quali abbastanza scomodi, ha bisogno di differenziare la propria strategia. La quadratura del cerchio è stata trovata in un’attenta strategia di branding. Doha ha svolto un attento lavoro decennale sulla propria figura e la propria posizione, non solo all’interno della regione, ma a livello globale. Attente azioni d’immagine, come la fondazione di una propria linea aerea, tra le migliori nel proprio segmento al mondo, la Qatar Foundation, associazione non-profit che sponsorizza tra l’altro il Barcellona, ed investimenti diretti in segmenti strategici e del lusso internazionale in tutto il mondo, come i magazzini Harrods a Londra, l’aeroporto di Heathrow, il neo-complesso di Porta Nuova a Milano, o addirittura il marchio Valentino, contribuiscono a portare il proprio nome oltre i confini regionali ed accrescerne il peso a livello sia economico, che di soft power.

 

CENTRO NEVRALGICO –  La centralità di Doha nella regione non è però solo portata vanti da operazioni di tipo commerciale. La capitale del Qatar è riuscita ad inserirsi da protagonista nei principali processi diplomatici della regione, e non solo, diventando una sorta di centro nevralgico dell’area. Doha infatti ospita numerosi congressi internazionali e summit, come i diversi Doha round del WTO ed altre iniziative internazionali, rivelandosi anche un mediatore particolarmente presente: dalla crisi somala a quella yemenita, potendo contare su di un certo prestigio ed un notevole peso economico, usato con estrema perizia, come quando, poco tempo fa, fu il primo Stato a recarsi in visita ufficiale a Gaza, portando in dono 400 milioni di dollari americani, Doha si è rivelata sempre più protagonista. Non bisogna inoltre dimenticare che la Tv panaraba, Al Jazeera, che ha avuto un ruolo cosi fondamentale nella diffusione delle primavere arabe, ha sede proprio a Doha ed è controllata dalla famiglia reale.

 

La strategia di Doha è un misto di straordinarie risorse e tecniche di sopravvivenza
La strategia di Doha è un misto di straordinarie risorse e tecniche di sopravvivenza

GRAND STRATEGY – Come detto, la strategia di Doha è un misto di straordinarie risorse e tecniche di sopravvivenza, essendo circondato da altri stati con cui intrattiene relazioni abbastanza ambigue, Arabia Saudita e Bahrain in testa, ma si potrebbero citare anche l’Iran e l’Iraq. Il Qatar, per poter sciogliersi da questo abbraccio, mira sostanzialmente a rendersi indispensabile, sia a livello economico che a livello diplomatico, e ci è riuscito talmente bene che gli “outcomes” hanno di gran lunga superato i meri obiettivi di sopravvivenza. Doha ha giocato un ruolo di primo piano in gran parte dei maggiori cambiamenti del mondo arabo, dalla Libia, passando per l’Egitto, alla Siria, dove, insieme alla Turchia, è uno dei maggiori sostenitori regionali dell’opposizione al regime di Assad. La sua posizione però non appare sempre lineare: intrattiene difatti rapporti con Israele, pur recandosi in visita ufficiale a Gaza, fa sentire tutto il proprio peso, a fianco degli Stati Uniti e Francia nella crisi libica e siriana, pur tuttavia permettendo ai Talebani di aprire degli uffici di rappresentanza a Doha. Il Qatar è riuscito ad affrancarsi dall’ingerenza di vicini di dimensioni più grandi, ed è uno stato talmente piccolo che può anche a risparmiarsi l’incombenza di seguire una determinata ideologia politica, preferendo piuttosto una linea di alleanze funzionali, destreggiandosi quindi senza pregiudiziali di alcun tipo. Tutti questi elementi donano a questo piccolo stato un peso decisamente superiore alle sue dimensioni e, vista la lungimiranza della propria leadership e la collocazione geografica, non ne impediscono anche futuri sviluppi, magari verso l’Asia.

 

Marco Lucchin

Abbiamo frainteso Occupy Turkey?

Non si placano le contestazioni e i duri scontri in Turchia, mentre tra gli osservatori imperversa il dibattito sull’interpretazione dei fatti. Eppure le rivolte non sono in primo luogo contro l’islamizzazione, bensì contro il metodo di governo autoritario di Erdogan, accusato di voler cancellare la democrazia anche tramite misure gradite ai religiosi più radicali.

 

GLI AGGIORNAMENTI: OCCUPY TURKEY – In Turchia continuano ancora gli scontri che da una settimana stanno attraversando il Paese. I manifestanti hanno preso d’assalto anche alcune sedi del partito di Erdogan, l’AKP, nelle principali città turche e il bilancio dei morti è salito sicuramente a tre, dopo che ieri un ragazzo è stato colpito da un proiettile ad Antiochia. Il presidente della Repubblica, Gul, da parte sua ha invitato alla calma e, incontrando il capo dell’opposizione, Kilicdaroglu, ha escluso che le elezioni previste per il 2014 possano essere anticipate. A prendere posizione contro il Premier è anche una tra le principali confederazioni sindacali turche, che ha indetto uno sciopero per oggi e domani. Ieri Erdogan si è recato in visita in Marocco, sostenendo che le proteste fossero ormai nella fase conclusiva, ma i fatti, purtroppo, stanno mostrando l’esatto contrario.

 

UN PUNTO DI VISTA – Col passare dei giorni, emerge sempre più chiaramente come in Turchia non sia in atto uno scontro tra islamisti e laici, né, meno che mai, tra conservatori e progressisti. L’argomentazione della resistenza all’islamizzazione del Paese è divenuta la lettura preferita da molti osservatori, soprattutto nel mondo occidentale, ma in realtà, pur essendo presenti nelle manifestazioni istanze di laicità, la problematica principale resta la contestazione a Erdogan, e conseguentemente all’AKP, poiché il Primo Ministro, forte dei risultati elettorali, sta governando con cipiglio decisionistico e con insofferenza verso le richieste delle opposizioni. Tutto questo, però – lo ripetiamo – all’interno di un sistema che, nonostante le evidenti lacune, resta sostanzialmente democratico (Erdogan ha vinto consultazioni regolari), con dinamiche tipiche anche dei Paesi occidentali e ben diverso da altre situazioni nel Vicino Oriente. Le folle di piazza Taksim imputano a Erdogan di voler imprimere alla Turchia una svolta autoritaria e islamista, con i toni più aspri rivolti verso il rischio della cancellazione della democrazia. Il conflitto è contro il metodo di governo: l’islamizzazione, il modello economico spregiudicato e la politica estera sono elementi presenti e comprimari nelle proteste, ma collegati alle accuse indirizzate al Primo Ministro di usare maniere dittatoriali. Ecco perché in Turchia si sta assistendo a vicende simili a quelle dei movimenti “Occupy” e non a un fenomeno paragonabile alle cosiddette “Primavere arabe”: non c’è alcun despota da deporre, né l’unità dello Stato è in pericolo. E sicuramente non è da rimpiangere una Turchia nella quale il compito di dettare i tempi e ritmi della vita politica competeva all’esercito.

 

Beniamino Franceschini

Giustizia del popolo in Argentina?

Da Coquimbo (Cile) – L’8 maggio scorso il Parlamento argentino ha approvato un’importante riforma legislativa che modifica la composizione del Consiglio della magistratura e istituisce – per la prima volta nella storia della Repubblica albiceleste – l’elezione popolare dei giudici nazionali e federali. Il polemico progetto di legge, proposto dal governo guidato da Cristina Kirchner, è passato dopo un lunghissimo dibattito in Senato grazie alla stretta maggioranza di 38 voti a favore contro 30. Qual è la posta in gioco?

 

 

COSA STABILISCE LA NUOVA LEGGE – La legge appena approvata aumenta il numero dei membri del Consiglio della magistratura che passa da 13 a 19, ribaltando una precedente modifica proposta dalla stessa Kirchner nel 2006 in qualità di senatrice, che riduceva da 20 a 13 i componenti del massimo organo amministrativo giudiziario. Tra le altre innovazioni c’è l’obbligo di superare un esame statale per entrare in magistratura, la pubblicazione dei beni posseduti dai magistrati e la creazione di un registro delle cause pendenti.

La novità più interessante della riforma è però rappresentata dall’elezione popolare diretta di giudici, avvocati e funzionari che sostituisce la loro designazione da parte di organi interni al Consiglio della magistratura. Una rivoluzione in seno al potere giudiziario che converte l’Argentina nell’unico paese latinoamericano i cui i giudici sono eletti con voto popolare, dato che nel resto della regione i magistrati sono nominati dal Consiglio della magistratura, dalla Corte suprema di giustizia, dal Congresso o dallo stesso Presidente della Repubblica. Solo la Bolivia ha adottato una forma di elezione popolare dei magistrati, che però si discosta dal modello argentino: la riforma voluta dal presidente Evo Morales nel 2009 prevede che il Congresso nomini dei candidati poi sottoposti al voto popolare, rendendo in questo modo fondamentale il voto politico.

 

LE MOTIVAZIONI POLITICHE – Ma quali sono le ragioni che hanno spinto il governo Kirchner ad approvare una riforma tanto radicale? La nuova legge potrebbe essere considerata una scoria dell’infinita polemica tra il governo Kirchner e la giustizia in merito ad importanti vicende giudiziarie che si trascinano da anni. Una su tutte il caso Clarín: la piú importante holding radiotelevisiva latinoamericana ha recentemente ottenuto una nuova sentenza favorevole che la sottrae all’applicazione della Ley de Medios, una legislazione antimonopolistica voluta dalla Kirchner nel 2009 che obbliga le imprese più potenti del settore radiotelevisivo a ridurre il loro peso economico, vendendo parte delle società controllate. La sentenza arriva dopo un’altra decisione di un tribunale nazionale favorevole al gruppo Clarín che sottopone l’entrata in vigore della Ley de Medios all’esito della discussione sulla sua costituzionalità.

Un altro caso che ha acceso lo scontro tra istituzioni è quello relativo alla Sociedad Rural Argentina, una delle corporazioni piú importanti del settore agricolo. Lo scorso gennaio è stata pronunciata una nuova misura cautelare contraria alla decisione del governo Kirchner di espropriare la sede principale della Sociedad Rural. A tal proposito, secondo l’opposizione, l’esecutivo avrebbe introdotto nella riforma della giustizia recentemente approvata una modifica sostanziale sull’uso delle misure cautelari decise dai magistrati contro lo Stato, che ora potranno durare al massimo sei mesi prorogabili per altri sei e non potranno essere adottate per i beni di proprietà statale. Una novità legislativa fortemente criticata anche dal Centro di studi legali e sociali argentino, che evidenzia come i limiti alle misure cautelari contro lo Stato riducono gli strumenti giudiziari a disposizione dei cittadini che ricevono un danno dai pubblici poteri.

 

UN REGALO DI COMPLEANNO PER IL KIRCHNERISMO – La polemica riforma della giustizia arriva a ridosso di una data storica molto importante per l’Argentina. A maggio, infatti, l’oficialismo ha potuto celebrare 10 anni di kirchnerismo al potere. Era il 25 maggio del 2003 quando Néstor Kirchner, un uomo sconosciuto dalla maggior parte degli argentini, diventava presidente della Repubblica per poi passare la mano nel 2007 in favore di sua moglie Cristina.

E’ proprio a partire dal 2007 che si denota un cambio di marcia nel denominato ‘modello K’. Néstor Kirchner aveva impostato la sua politica ricalcando le orme del socialismo peronista, fatto di assistenzialismo statale e politiche sociali, ma i primi anni del governo di Cristina hanno evidenziato le prime crepe con la società civile e segnato la nascita di movimenti di protesta nati proprio da quei settori, come quello agricolo, giornalistico e sindacale, che avevano propiziato l’ascesa del kirchnerismo.

Ciononostante, la Kirchner è riuscita ad ottenere un’agevole rielezione nel 2011 con il 54% dei consensi e la maggioranza in entrambe le camere del Congresso. La sua riconferma tuttavia non ha fatto altro che acuire la spaccatura in seno alla società argentina sulla stessa figura presidenziale, considerata dai suoi detrattori arrogante ed elitaria e dai suoi sostenitori decisionista e combattiva.

 

Pochi giorni fa in Argentina il kirchnerismo ha celebrato dieci anni ininterrotti al potere
Pochi giorni fa in Argentina il kirchnerismo ha celebrato dieci anni ininterrotti al potere

SOCIETA’ CIVILE VS. GOVERNO KIRCHNER – La nascita della nuova legge sulla giustizia è stata travagliata sin dalla sua gestazione: nei mesi precedenti alla sua discussione in Parlamento, gran parte della società civile argentina – inclusi gli organi rappresentativi di giudici e avvocati – si è schierata contro la proposta, ritenuta pericolosa per l’indipendenza della magistratura e per il rischio ingerenza dell’esecutivo nelle questioni giudiziarie. Un recente sondaggio del giornale digitale Infobae, che ha coinvolto circa 300.000 lettori, ha mostrato che circa l’86% degli argentini non è d’accordo con la riforma. Gli oppositori del governo Kirchner sostengono inoltre che l’esecutivo ha già avuto un’influenza rilevante sulla giustizia: il 55% dei giudici nazionali e federali sono stati nominati dal kirchnerismo da quando è salito al potere nel 2003.

L’oficialismo, dal canto suo, ha sottolineato l’importanza di una riforma della giustizia che riequilibri l’influenza delle corporazioni economiche nella vita politica e giudiziaria argentina e riduca “il deficit democratico che negli ultimi anni si è creato nel Paese riconsegnando potere al popolo”, secondo le parole del Ministro della giustizia, Julio Alak. Ora ci sarà da capire se la nuova legge verrà impugnata dall’opposizione dinanzi alla stessa magistratura oggetto della riforma o se, già a partire dalle elezioni di ottobre, gli argentini saranno chiamati a votare i propri giudici .

 

Alfredo D’Alessandro

‘Occupy Istanbul’ o ‘Primavera turca’?

Che cosa sta succedendo in Turchia? Le proteste che stanno attraversando il Paese, avviate a Istanbul, sono state da più parti interpretate quali rivolte contro l’islamizzazione imposta dal premier Erdogan. Eppure, forse il movimento di piazza Taksim è più vicino alla rete occidentale di “Occupy” che alle controverse “Primavere arabe”.

 

 

I FATTI – Durante il fine settimana, l’argomento principale nella pagina estera di giornali e telegiornali è stato la serie di dure proteste che hanno attraversato la Turchia. Cerchiamo di riproporre rapidamente la vicenda: a innescare la scintilla è stata la decisione da parte delle Autorità locali (guidate dall’AKP di Erdogan) di abbattere seicento alberi nel parco di Gezi, cuore verde di Istanbul, per far posto a un enorme complesso commerciale e a una moschea.
Contro questa misura – ritenuta del tutto anti-democratica – era stata organizzata una manifestazione in piazza Taksim, ma la reazione del Governo è stata particolarmente dura, al punto che, oltre a più di 1500 arresti (in varie città), secondo Amnesty International ci sarebbero stati anche due morti e almeno quattro persone con lesioni irreparabili agli occhi. Una delle interpretazioni attraverso le quali si è tentato di riflettere sugli avvenimenti è la rivolta del popolo turco contro l’islamizzazione del Paese imposta dal premier Erdogan – non a caso i manifestanti sventolavano immagini di Ataturk, il grande modernizzatore laico.

 

 

La protesta di "Occupy Gezi" ha suscitato dubbi sull'adeguatezza della risposta delle isituzioni
La protesta di “Occupy Gezi” ha suscitato dubbi sull’adeguatezza della risposta delle isituzioni

SVILUPPO, IDENTITÀ E CONTRADDIZIONI – Da un decennio l’AKP domina la scena politica in Turchia, avendo la capacità di attirare un elettorato islamico conservatore, ma non necessariamente estremista. Erdogan ha impostato il proprio mandato sull’ampliamento della base elettorale del partito, operando nelle relazioni internazionali al fine di rendere la Turchia un modello di Paese musulmano moderato e dinamico per gli altri Stati del Vicino Oriente e dell’Africa (il “neo-ottomanesimo”), mentre in politica interna ha concesso campo libero alle forze in precedenza inespresse dell’economia capitalistica. Le contraddizioni dello sviluppo sono emerse drammaticamente, soprattutto nella gestione dell’opinione pubblica.
Erdogan ha attuato alcune misure certo sgradite ai laici, quali la possibilità per i dipendenti pubblici di tornare a indossare simboli religiosi, oppure, recentemente, la restrizione alla vendita di alcolici. Tuttavia, probabilmente, le manifestazioni in corso non sono da imputarsi alla reazione del popolo contro il rischio di islamizzazione del Paese, quanto contro il metodo di Erdogan, il quale, con l’accrescere del consenso elettorale, si è posto come un nuovo sultano, sprezzante nei confronti delle istanze degli altri gruppi politici e insofferente alle dinamiche del confronto democratico, spesso arrogante e autoritario («Twitter è un nemico!», ha gridato in queste ore). Considerata la Turchia contemporanea, sospesa tra vecchie e nuove identità e con le turbolenze di una società dinamica in pieno sviluppo, però di fatto democratica nei processi e nei sentimenti, le proteste di questi giorni sono molto più simili ai vari movimenti occidentali della rete “Occupy” che alle controverse “Primavere arabe”.

 

Beniamino Franceschini

Il Kosovo e la sua guerra al crimine organizzato

I Balcani sono da molto tempo una rotta privilegiata per la distribuzione dell’eroina in Europa. Il traffico di droga non conosce guerre, conflitti nazionalistici, che anzi sfrutta per crearsi uno spazio e muoversi in maniera più facile. Dopo gli anni novanta con la caduta dei regimi comunisti, questi territori sono diventati terreno fertile per le mafie.

Iran al voto, quattro anni dopo

Teheran, giugno 2009, data scolpita nella cronologia degli eventi rilevanti all’interno della complicata storia del Medio Oriente. Le televisioni di tutto il mondo (e in modo ancor più rilevante i social network) mostrarono e testimoniarono la più grande sollevazione popolare che il Paese sciita per eccellenza avesse registrato sin dalle manifestazioni votate alla cacciata dello Shah nel 1979. Alcuni si sono spinti persino ad affermare come in tali ondate di protesta vi siano stati i prodromi delle rivolte viste in Tunisia ed Egitto, ovvero ciò che in Occidente viene considerata la “Primavera Araba” e proprio in Iran il “Risveglio Islamico”. Quattro anni dopo, le nuove elezioni. Come finirà, e qual è la posta in gioco?

 

L’ELEMENTO “INNOVATIVO” – Oggi, dopo diversi anni, il mondo e specialmente le potenze occidentali sono nuovamente in attesa di capire cosa accadrà il 14 giugno, e quale sarà l’uomo che metterà un sigillo definitivo sull’era di Ahmadinejad. Quest’ultimo, infatti, dopo lo scadere del suo secondo mandato non potrà ricandidarsi nuovamente, sebbene anche in caso contrario non avrebbe certamente avuto più nessuna possibilità di essere rieletto, data la scarsissima stima di cui gode in ampi settori della popolazione ma soprattutto in virtù delle diatribe pesantissime nate con il potente apparato che circonda la Guida Suprema Ali Khamenei. Tuttavia la scaltrezza di cui è dotato il Presidente, forgiato dalle dure lotte della politica nazionale, gli ha suggerito di cementare la propria eredità spingendo nell’arena politica il consuocero, cioè Esfandiar Rahim Mashaei, già suo consigliere, magari con la segreta ambizione di replicare sul plateau iraniano il tandem “Putin-Medvedev”, quindi tenendosi aperta la porta per ripresentarsi alle presidenziali del 2017.

Essendo che la politica iraniana non è per stomaci deboli, ed anche in virtù del sistema di potere, il trucco suddetto non è andato a buon fine, dato che per legge le candidature alla presidenza (così come per il Majles, cioè il Parlamento locale) devono essere vagliate dal cosiddetto Consiglio dei Guardiani, un corpo nominato su input della Guida Suprema e, di conseguenza, ad essa fedele. Martedì 21 maggio, non a caso, tra le candidature ammesse non vi era quella del suddetto Mashaei, escluso proprio per la sua vicinanza estrema con lo screditato Ahmadinejad, per alcune sue dichiarazioni a favore del ripristino dei contatti con Stati Uniti e, in un certo qual modo, israeliani, e soprattutto a causa della tendenza a mostrarsi un po’ troppo aperto in campo religioso, finendo addirittura per essere accusato di “deviazionismo” e di scarsa devozione al presente islamico in favore del passato persiano. Sostanzialmente la carta del nazionalismo può essere utilizzata, ma bisogna sapere anche qual è il momento di “mollare il piede dall’acceleratore”, fatto che pare non essere avvenuto in luce degli eventi odierni.

 

Ritratto della Guida Suprema
Ritratto della Guida Suprema

I RIFORMISTI – Il campo riformista, invece, non vede protagonista un personaggio trascinante come avrebbe potuto essere quattro anni fa Mir-Hossein Mousavi, ex Primo ministro ai tempi della guerra tra Iran e Iraq, o il suo compagno di lotta, Mehdi Karroubi, ex Presidente del Parlamento. Tale fazione è stata distrutta, o perlomeno ridotta al silenzio nei due anni successivi alle elezioni presidenziali; anche in Parlamento i suoi rappresentanti sono scarsi. Una figura di riferimento come il Grande Ayatollah Hussein-Ali Montazeri, successore designato dell’Imam Khomeini e poi defenestrato da Khamenei e dai conservatori, è morto negli anni scorsi, ed il movimento è privo di un personaggio forte cui rivolgersi, oltre che di un’idea ispiratrice. Il risultato è che l’entusiasmo della borghesia urbana, dei giovani e delle minoranze etniche si è perso in quelle giornate estive del 2009.

Un protagonista magari non eccessivamente riformista, ma indubbiamente di respiro pragmatico, sarebbe potuto essere Akbar Hashemi Rafsanjani, ex Presidente della repubblica nei primi anni ’90. Non a caso la speranza di molte persone che non si riconoscono nel campo conservatore era proprio Rafsanjani, che tuttavia non ha incontrato il gradimento del Consiglio, molto probabilmente a seguito dell’aperto schierarsi con i manifestanti quattro anni fa e del suo invito alla mediazione. Le accuse e le condanne contro i membri della sua famiglia (ad esempio la notissima figlia) non hanno fatto altro che tingere il suo profilo di connotazioni negative agli occhi dell’apparato di potere. Una delle motivazioni addotte è stata che “il candidato, avendo 78 anni, non è in grado di svolgere appieno le funzioni correlate alla carica”, un fatto paradossale dato che nel sistema vi sono persone della medesima età o più anziane ricoprenti incarichi istituzionali. Va sottolineato anche come la squalifica di Rafsanjani sia stata uno shock notevolissimo per la popolazione, poiché l’uomo fu uno dei protagonisti della Rivoluzione, se non addirittura uno dei padri.

 
 
 

 

I SEGUACI DELLA GUIDA – Volgendo lo sguardo all’ampio e favoritissimo campo conservatore scorgiamo diversi soggetti più o meno vicini alla Guida Suprema. I loro nomi sono Ali Akbar Velayati, Saeed Jalili, Mohammad Bagher Qalibaf e Gholam Ali Haddad-Adel. Senza ombra di dubbio il più popolare della lista è Qalibaf, sindaco di Teheran, teoricamente capace di assicurare una gestione economica migliore a causa della sua esperienza di governo cittadino. Nel contempo, da ex pasdaran, potrebbe essere in grado di rassicurare l’ala dura del regime. Velayati, invece, è stato Ministro degli esteri per ben 16 anni ed è un fedele consigliere di Khamenei per quanto attiene alle questioni estere. La sua esperienza risulterebbe estremamente utile in caso di colloqui diretti con gli Stati Uniti. Saeed Jalili, già negoziatore sulla questione nucleare, gode ovviamente della fiducia della Guida Suprema ed è forte conoscitore della realtà internazionale, della diplomazia e della necessità di far uscire il Paese dall’angolo. Infine rimane Haddad-Adel, ex speaker del Parlamento e soggetto non di primissimo piano, ma che ha dalla sua un fattore assai rilevante: è il consuocero di Khamenei. Quest’ultimo potrebbe tentare la mossa già provata da Ahmadinejad, ovvero di porre al vertice della Repubblica un suo candidato (in questo caso piuttosto debole) ed assicurare al figlio Mojtaba un avvenire ancora più importante e di peso all’interno del potere esecutivo.

 

AVVERTENZE – In ogni caso, quale che sarà il risultato, le cancellerie occidentali sperano che nei prossimi quattro anni si riuscirà a trovare un accomodamento con il regime sui differenti punti di contrasto, proprio perché la Repubblica Islamica ad oggi, nonostante problemi socio-economici e politici, è lo Stato chiave da cui passano tutti i dossier più scottanti (Siria, Iraq, Afghanistan, questione palestinese, proliferazione nucleare) della regione.

L’importante è non scordare che l’Iran fu il luogo dove il gioco degli scacchi venne perfezionato ed elevato ad arte, tanto che l’espressione “scacco matto” non è altro che la derivazione di “shah mat”, ovvero il “re è morto”. E gli iraniani in questi ultimi 30 anni si sono rivelati dei magnifici scacchisti.

 

Luca Bettinelli

Cinque sorsi di Cina

Dati economici del 2013, opinioni degli analisti, prossime mosse della Banca Centrale cinese, rapporti con gli Usa, opportunità per le imprese italiane: cinque domande e cinque risposte sulla situazione attuale del mondo e del mercato del Paese di mezzo

Kurdistan, tra Baghdad e Ankara

Crescita economica, ricchezza petrolifera e voglia di indipendenza: sono questi gli “ingredienti” principali che caratterizzano il Kurdistan iracheno. Un’area in pieno fermento che sta cercando di smarcarsi sempre più da Baghdad. E che, per riuscirci, non disdegna di scendere a compromessi con la Turchia

 

LO SCENARIO – Un’oasi curda nel caos iracheno: l’instabilità dell’Iraq, dilaniato dagli scontri settari e dal disordine istituzionale, non sembra toccare l’autonomia regionale curda nel Nord-Est del Paese. Erbil, governata dal Kurdish Democratic Party di Mesud Barzani, sta sperimentando una crescita economica senza precedenti e – nonostante la costituzione irachena le riconosca un alto livello di indipendenza e autogoverno – preme in maniera crescente per allontanarsi da Baghdad. Il sottosuolo del Kurdistan iracheno è pregno di idrocarburi e molti dei principali giacimenti della regione non hanno ancora conosciuto un vero sfruttamento. L’attenzione delle grandi compagnie petrolifere internazionali è da anni forte sul Kurdistan e se ne è ben resa conto la Turchia di Erdogan, che ha deciso di prendere il Kurdish Regional Government di Barzani sotto la propria ala protettrice, cercando di massimizzare i vantaggi che può ottenere da tale avvicinamento. Resta ora da vedere dove porterà la crescente ostilità tra la capitale e la regione autonoma: conflitto aperto o tensione sotterranea?

 

LONTANO DA BAGHDAD – Il Kurdistan iracheno sta sperimentando un periodo di forte crescita economica e stabilità interna e continua ad allontanarsi da un Iraq sempre più frammentato e in preda alla violenza (oltre 400 morti nel Paese nello scorso aprile). Le tensioni tra Erbil e Baghdad sono aumentate sempre più, a seguito della decisione del Governo regionale curdo di iniziare a sfruttare in proprio il petrolio di cui dispone: dallo scorso anno, lunghe file di camion hanno iniziato a esportare per via stradale metano e petrolio curdo direttamente in Turchia, senza passare dall’oleodotto nazionale iracheno. La notizia ha fatto crescere in maniera esponenziale le tensioni tra il Kurdistan iracheno e Baghdad, culminate nel dispiegamento di uomini dell’esercito iracheno e di peshmerga curdi lungo i confini regionali, vicino Kirkuk. La decisione di stipulare contratti in proprio con numerose compagnie straniere (l’anglo-turca Genel e la statunitense Exxon) per la prospezione e lo sfruttamento dei suoi giacimenti rompe il patto centrale con Baghdad sulla gestione centrale delle risorse e solleva dispute sulla legittimità dell’esportazione: la costituzione irachena – che devolve buona parte dei proventi nazionali ricavati dall’estrazione del petrolio e del Pil direttamente all’autonomia regionale curda, nel tentativo di mantenere allacciati i fili con Erbil – lascia effettivamente spazio all’interpretazione sull’eventuale diritto del Kurdistan di esportare direttamente il proprio petrolio e Erbil ne sta approfittando appieno.

 

La mappa del Kurdistan iracheno
La mappa del Kurdistan iracheno

RAPPORTI PIU’ STRETTI CON ANKARA – “Il Kurdistan iracheno è la capitale mondiale dell’esplorazione di petrolio” ha dichiarato Tony Hayward, già CEO della British Petroleum e oggi a capo della Genel Energy, società anglo-turca che sta guidando grande parte delle prospezioni e delle trivellazioni nei campi curdi di Taq Taq e Tawke. Ankara ha saputo sfruttare appieno il desiderio del KRG di allontanarsi dall’Iraq, fornendo liquidità necessarie al completamento e al perfezionamento di un sistema di oleodotti che collegherà direttamente il territorio curdo alla Turchia. La risposta irachena è stata perentoria: l’Iraq ha sospeso i pagamenti alle compagnie petrolifere che stanno esplorando l’area. Non è solo il petrolio però ad avvicinare la Turchia al Kurdistan iracheno: legittimare il KRG di Barzani, garantisce ad Ankara l’alleanza con la principale autonomia curda della regione, utile per fornirle leverage nella contrattazione in corso con il PKK per il disarmo. La stabilizzazione dei rapporti con la minoranza curda presente in Anatolia è oggi divenuta una delle priorità per il Governo di Erdogan, e il raggiungimento di tale scopo passerà anche da Erbil.

 

Andrea Ranelletti

Myanmar, un anno di violenze

1

E’ passato quasi un anno dall’inizio delle violenze nello stato birmano dell’Arakan (anche chiamato Rakhine), dove è in corso un duro conflitto tra il gruppo buddista di etnia Arakan e la minoranza Rohingya, di fede musulmana. Gli scontri hanno causato centinaia di morti da entrambe le parti. Migliaia di Rohingya hanno lasciato i loro villaggi rifugiandosi nei campi profughi o scappando oltre confine. Nonostante il Governo centrale abbia pubblicamente condannato le violenze e si sia impegnato con il Presidente Obama a favorire la pacificazione etnico-religiosa, le forze di polizia, i militari e le autorità civili hanno avuto un atteggiamento ambiguo nei confronti dei musulmani. Questi fatti traumatici hanno radici profonde nella storia del Myanmar indipendente e gettano luce sulle difficoltà che ostacolano lo sviluppo della democrazia in questo Paese.

Francia-Germania, quasi amici (II)

0

Seconda parte del nostro viaggio nel rapporto Francia-Germania: arriviamo all’attualità e all’affanno francese nel tentativo di smarcarsi dai diktat di austerità di Berlino. Eppure, magari un po’ controvoglia, il rapporto tra i due Paesi non potrà che rimanere forte. Ecco perchè