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Diplomazia: ultima chiamata

Nella storica settimana in cui in Vaticano vi sarà sede vacante a causa delle dimissioni del Pontefice,  l’Italia si spinge alle urne in mezzo alla neve per cercare le tracce verso una faticosa uscita da una lunga crisi economica e politica. Cipro decide delle sue sorti economico-finanziarie, mentre in Kazakistan ci si riunisce attorno ai sogni di proliferazione di Teheran, il tutto mentre Cina e Giappone continuano il braccio di ferro sulle Diaoyu/Senkaku.

 

 

EUROPA

Lunedì 25L’Europa ci guarda come una vecchia maestra stufa dell’allievo discolo, e così pure il mondo, colpito dall’ennesimo ritorno di fiamma per un Silvio Berlusconi che sembrava ormai caduto nell’oblio. Anche i “mercati” ci scrutano, pronti ad oscillare come sismografi al minimo scossone in arrivo dalle urne tricolori, soprattutto se non uscirà dal voto una chiara maggioranza. Vista da fuori, la campagna elettorale italiana ha regalato diverse sorprese tutt’altro che felici: curriculum inventati, rotture del silenzio pre-voto e spot virali discutibili, ma ormai è fatta. Nella notte di lunedì l’Italia si addormenterà con un nuovo Parlamento, difficile dire se anche con un nuovo premier, visto che tra gli schieramenti destra, sinistra e né destra né sinistra (M5S) difficilmente vi sarà un vincitore assoluto in entrambe le Camere.

 

Lunedì 25 – Cipro, l’isola europea che galleggia tra i cavalloni del suo debito pubblico conoscerà oggi a chi, tra i due sfidanti per il trono di Nicosia, spetterà la firma del bailout deal che potrebbe salvare le sorti economico-finanziarie del paese. L’indipendentista Stavros Malas e il conservatore Nicos Anastasiades hanno vedute completamente diverse sul piano per salvare la barca comune, se il primo punta tutto sulle politiche di austerity in modo da ridurre la dipendenza dall’estero del paese, l’avvocato della destra che ha incassato più del 45 % dei consensi al primo turno è pronto ad accettare la soluzione proposta da UE e FMI in modo da ripartire da capo. La disoccupazione tocca livelli imbarazzanti, vicini al 15%, mentre le casse pubbliche iniziano a svuotarsi pericolosamente dopo un ventennio trascorso sul filo del rasoio.

 

Martedì 26-Mercoledì 27 – Si terrà a Bruxelles il sedicesimo UE-UKRAINE Summit, in cui José Manuel Barroso e Herman Van Rompuy, rispettivamente Presidenti di Commissione e Consiglio, saranno accompagnati dai commissari all’Energia e alla politica di allargamento, Füle e Oettinger nel faccia a faccia con il Presidente ucraino Yanukovych. Oltre all’inevitabile questione Tymoschenko, il meeting si concentrerà sull’agenda di riforme per il paese candidato a firmare l’accordo di associazione con l’UE, che include inoltre patti a latere per le forniture di gas, vitali per il sostentamento delle politiche energetiche dell’Unione. Sul tavolo anche la possibilità di concludere un accordo per un’area di libero scambio che si avvicini sempre più ai territori dell’ex Urss, in cui la rivoluzione energetica ha portato benessere e ricchezze mai viste.

 

 

AMERICHE

CUBA – La nomina scontata, incassata Domenica dal neo-eletto Parlamento cubano, non toglie il velo di mistero che ricopre la guida dell’isola della rivoluzione, un Raul Castro dettosi “stanco ed anziano” per sopportare il carico di responsabilità che il suo ruolo richiede. In realtà, lungi dall’essere una concessione spontanea all’opposizione, il monito potrebbe nascondere l’intenzione di lanciare un nuovo ramo della dinastia castrista, ovvero quello facente capo ai suoi eredi invece che a quelli del lìder maximo. Lasciando da parte un giudizio prematuro sulla sua carriera al governo, occorre riconoscere all’eterno secondo la capacità di aprire, almeno parzialmente, le porte di un regno chiusosi al mondo più di mezzo secolo fa.

 

CC - Bolivar News Agency/Xinhua Press/Corbis
Caracas, 2008: Hugo Chavez (sinistra) abbraccia Raul Castro durante una visita

VENEZUELA – Un paese sull’orlo di una crisi di nervi, questa l’immagine di un Venezuela in preda alle condizioni altalenanti del Presidente Hugo Chávez, stremato dalla lotta contro i tumori più che da quella politica, accantonata da quando il male l’ha colpito per l’ennesima volta. Voci poi smentite di un esercito pronto a lasciare le caserme per appropriarsi dei palazzi del potere e mettere fine all’interregno del Vice Maduro, hanno lasciato la popolazione in sospeso tra la speranza per la guarigione di Chávez e il timore di non sapere cosa accade giorno dopo giorno a Caracas. In un paese governato col pugno di ferro dell’ideologia bolivarista, l’improvvisa mancanza della figura chiave per il successo della propaganda, rischia di regalare spazi vuoti destinati ad essere colmati, dai poteri esistenti, o da una nuova “favola”.

 

 

ASIA

Lunedì 25Ci risiamo, di nuovo il nucleare iraniano, di nuovo il quintetto di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania, di nuovo un incontro per tentare di fermare il tutto prima che sia troppo tardi per qualsiasi soluzione. Almaty giunge dopo Istanbul, Baghdad e Mosca, tutte tappe di una questione mediorientale irrisolta in cui i negoziati sono fermi allo stesso punto. La questione Siria, dove l’appoggio incondizionato di Mosca e Teheran al regime di Damasco inizia a perdere colpi, potrebbe garantire un patto d’acciaio tra Russia e Iran per la conduzione delle trattative del gruppo 5+1. Da parte sua l’Iran ha già lanciato un piano per allargare la rete nucleare civile del paese costruendo 16 nuovi siti per la fissione nucleare diminuendo la dipendenza dal petrolio, destinato all’estero per il sostentamento dell’economia interna bersagliata dalle sanzioni.

 

CINA/GIAPPONE – Distratti dalle improvvisazioni missilistiche del giovane rampollo nordcoreano Kim Jong Un, si rischiava di lasciare in sospeso la vera questione geopolitica che mantiene sul piede di guerra Pechino e Tokyo nel mezzo del Mar Cinese meridionale. Intanto il premier giapponese Shinzo Abe ha accolto favorevolmente la proposta americana di installare presso una base militare lungo la costa vicino a Kyoto sistemi di difesa anti-missile per intercettare minacce provenienti da occidente, Pechino o Pyongyang, a voi la scelta del nemico. Le acque del Pacifico rimangono certamente ad alta tensione, confermandosi il punto nevralgico per la definizione dei ruoli di superpotenza del terzo millennio. L’ultima parola spetta sempre a Washington, che cerca di puntellare l’intero pianeta con una coperta che rischia di diventare troppo piccola per le sfide in ballo.

 

 

MEDIO ORIENTE

SIRIALa guerra civile siriana varca i confini, verso il Libano per l’esattezza, dove nella notte di sabato si sono verificati scontri intensi con raffiche di artiglieria pesante e missili sparati dall’esercito siriano contro bande armate, la cui identità resta sconosciuta. Difficile immaginare un agguato da parte dell’Esercito Libero Siriano contro i lealisti dal territorio in cui nulla si muove senza il consenso di Hezbollah, tra gli ultimi strenui sostenitori di Al-Assad. Tuttavia l’opposizione siriana ha coltivato legami in modo da riuscire a creare basi al di fuori del territorio siriano, in Turchia, Giordania e probabilmente anche in un Libano già martoriato dalle sue fratture inter-etniche. Continua invece il bombardamento di Aleppo, in cui le vittime crescono di giorno in giorno, soprattutto tra le categorie più deboli e indifese come vecchi e bambini, intrappolati nelle case o in quello che ne resta.

 

ARABIA SAUDITADa produttore di greggio per eccellenza a primo paese per le energie rinnovabili, questo il tappeto verde steso dalle autorità regali di Riyadh verso l’autonomia dai combustibili fossili, su cui si basa la ricchezza naturale del paese. Il piano “verde” prevede l’installazione di impianti rinnovabili in grado di produrre 23,9 Gigawatt di energia pulita entro il 2020 e 54,1 entro il 2032. Il tutto grazie agli studi e ai progetti di ricerca della King Abdullah City for Atomic and Renewable Energy e all’incredibile esposizione solare di cui il paese gode durante tutto l’anno. Il progetto include inoltre lo sviluppo dello sfruttamento di biomasse, energia geotermica ed eolica, in modo da non lasciare nessuna strada intentata verso l’indipendenza dal tesoro nazionale.

 

In Mali non è mica finita…

Il Mali è scomparso dai mezzi d’informazione italiani, eppure la guerra continua e, anzi, si prospetta l’inizio di una seconda e più delicata fase per la liberazione dell’Adrar degli Ifoghas, nel nord-est del Paese. Nel frattempo, resta ancora alta l’attenzione sul Niger e sulla rete dell’islamismo combattente nel Sahel.

 

 

A che punto è la guerra in Mali?

In un mese le truppe francesi, con la partecipazione del contingente composto da vari Paesi africani, hanno riconquistato gran parte del Mali settentrionale. Talvolta, l’avanzata degli alleati di Bamako non ha incontrato resistenza, come a Timbuctu, mentre in altre circostanze l’opposizione degli islamisti è stata più intensa. Adesso il fronte si sta spostando verso l’Adrar degli Ifoghas, un massiccio montuoso nel nord-est del Mali che si estende per quasi 250mila chilometri quadrati. La gestione dell’area sarà molto complessa, sia per la natura geomorfologica, che favorisce le imboscate, sia perché si suppone che vi siano tenuti prigionieri sette cittadini francesi. Dalla prima settimana di febbraio, l’Adrar degli Ifoghas – terra abitata da tuareg – è stato più volte colpito dall’aviazione transalpina, mentre sul campo le forze speciali francesi stanno agendo congiuntamente a quelle del Ciad. Tuttavia, le operazioni hanno subìto un rallentamento, proprio perché la conformazione della regione avvantaggia gli insorti, cosicché è più difficile individuare gli obiettivi da colpire. Nel frattempo, si sta prospettando un nuovo rischio: l’insubordinazione delle truppe maliane. L’8 febbraio, infatti, un gruppo di “Berretti Rossi”, un’unità speciale fedele all’ex presidente Touré (deposto nel marzo 2012) avrebbe attaccato una base delle forze governative a Bamako.

 

 

Qual è la reazione degli islamisti?

Il 9 febbraio, nei pressi di Gao, è stato compiuto il primo attentato suicida in Mali dall’arrivo delle truppe straniere, causando il ferimento di un soldato francese. Gli islamisti hanno dichiarato di aver disseminato mine antiuomo in vaste aree dell’Azawad, quindi hanno minacciato di intensificare il ricorso ad attacchi suicidi. Il pericolo è maggiore con l’avanzata verso l’Adrar degli Ifoghas, laddove sarebbe complesso limitare il fenomeno. Quanto agli sviluppi sul campo, la problematica maggiore per il contingente straniero è l’impossibilità di conoscere accuratamente il numero delle forze avversarie in campo, il loro armamento e le loro posizioni.

 

 

È davvero probabile che la missione francese ceda il passo a un intervento dell’ONU?

La Francia e gli Stati Uniti si stanno muovendo proprio per sollecitare il Palazzo di Vetro a rompere gli indugi. Parigi, che avrebbe già speso più di 70 milioni di euro per la “Opération Serval”, ha intenzione di cominciare il ritiro delle truppe già da marzo, prospettiva che, considerato lo stato dell’avanzata sull’Adrar degli Ifoghas, senza contromisure potrebbe vanificare quanto ottenuto. Hollande e Obama (quest’ultimo tramite il vicepresidente Biden) stanno cercando di convincere le Nazioni Unite ad assumere il controllo diretto delle operazioni militari, un’opzione che, tuttavia, andrebbe in senso contrario rispetto alla Risoluzione n. 2085 del 2012, la quale permetteva l’istituzione di una forza d’intervento africana. Il Mali, da parte sua, sarebbe contrario alla presenza di soldati stranieri nel sud del Paese, preferendo che essi fossero schierati per lo più a difesa delle frontiere settentrionali e occidentali. Hervé Ladsous, sottosegretario generale dell’ONU per le operazioni di peacekeeping, propenderebbe invece per l’invio di caschi blu (circa 8mila, quanti i soldati francesi, ciadiani e dell’ECOWAS attualmente impegnati in Mali) solo una volta conclusa “Serval”.

 

 

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Fonte: Magharebia, licenza CC.

Come mai si cita sempre più frequentemente l’eventualità di un ampliamento del conflitto al Niger?

Innanzitutto è necessaria una premessa. Contrariamente a quanto spesso è affermato, in Mali non ci sono miniere di uranio e oro davvero importanti, poiché esse sono rispettivamente in Niger e Burkina Faso. Non è un caso se la Francia, dopo la vicenda di In Amenas, abbia deciso di inviare alcune unità delle forze speciali in Niger per garantire maggiore sicurezza ai siti estrattivi d’uranio. Poco prima, Washington e Niamey avevano sottoscritto un accordo per aumentare il numero di soldati statunitensi nel Paese, in vista dell’ampliamento della flotta di droni impiegati nella regione. Il Niger sta attraversando una crisi politica e sociale ormai pluriennale. Le classi dirigenti stanno perdendo sempre più legittimità di fronte a una popolazione economicamente in difficoltà. Oltretutto, manca il controllo del territorio, cosicché dal confine con la Nigeria transitano regolarmente traffici illeciti e miliziani anche collegati a Boko Haram. Senza un contrasto al rischio di collasso del Niger, non è da escludersi a priori lo spostamento della crisi verso il Sahel centrale.

 

 

Perché alcuni osservatori affermano che la sconfitta degli islamisti in Mali potrebbe aprire scenari ancora più complessi?

Il timore principale è l’ampliamento del raggio d’azione degli islamisti al resto dell’Africa nord-occidentale e all’Europa. I fatti di In Amenas hanno mostrato le potenzialità dei gruppi combattenti, cosicché l’innalzamento del livello d’allerta in Francia è apparso una misura pressoché automatica. Il ripiegamento degli insorti in Mali potrebbe favorire sia una diaspora verso i Paesi vicini (ecco la necessità dell’ermeticità delle frontiere), sia la creazione di formazioni simpatetiche con i miliziani dell’Azawad. Tuttora, infatti, non si conoscono con precisione le reti di collegamento dei movimenti dell’Islam combattente in Sahel.

Pyongyang: un ritorno col botto

L’11 Febbraio la voce della Corea del Nord si è fatta sentire con un boato. A nord-est del Paese, infatti, si è concluso il test che ha visto la detonazione del terzo ordigno nucleare nordcoreano. E Giappone e Corea del Sud non stanno a guardare…

Il 2013 di Xi Jinping in 10 passi

Ha da poco avuto inizio in Cina l’anno del serpente, anno in cui Xi Jinping eredita dal Presidente uscente Hu Jintao un Paese in forte crescita, destinato a diventare la prima potenza economica mondiale, la cui guida richiede di far fronte a numerose sfide, non solo sul piano economico, ma anche politico e sociale. Vi proponiamo dieci sfide che la poderosa crescita sta portando con sé.

 

1) CRESCITA ECONOMICA SOSTENIBILE – “Il popolo cinese desidera che i suoi figli possano crescere in modo sano, avere un buon lavoro e poter condurre una vita più felice. Far sì che tutto ciò possa diventare realtà è la nostra missione”. Questa la promessa fatta al popolo cinese da Xi Jinping durante il primo discorso pubblico, tenuto lo scorso novembre. La nuova leadership dovrà riuscire, passo dopo passo, nell’intento di continuare l’edificazione della “società armoniosa” avviata da Hu Jintao e Wen Jiabao nel 2004 e mantenere al contempo una Cina in forte crescita.

Le linee guida da seguire per i prossimi quattro anni sono già state dettate nel XII Piano Quinquennale (2011), in cui risulta prioritario conferire maggior sostenibilità alla crescita cinese nel lungo termine, ribilanciando l’economia attraverso riforme strutturali mirate alla correzione delle più gravi distorsioni. Per far ciò sarà necessaria la transizione dell’attuale sistema di sviluppo, trainato dalle esportazioni e da investimenti intensivi in prevalenza pubblici, ad un’economia maggiormente orientata sui consumi interni.

 

2) TRAPPOLA DEL MEDIO REDDITO – Il governo di Pechino, dopo vent’anni di crescita senza precedenti, ha deciso di sacrificare qualche punto percentuale del PIL, scegliendo di mantenere un tasso di crescita costante per la Cina attorno al 7-8%, per risolvere tramite un processo di riforme quei problemi sociali ed ambientali che proprio lo sviluppo economico ha contribuito a creare. Per tale ragione, la riduzione degli investimenti pubblici e le politiche restrittive adottate dal governo per contenere i prezzi immobiliari e l’inflazione, insieme alla flessione della domanda estera, hanno rallentato la crescita economica cinese, che per la prima volta in questo secolo è arrivata al di sotto del’8%.

E’ solo continuando sulla via delle riforme che Xi Jinping sarà in grado di sfuggire alla maledizione della “trappola del medio reddito”, una condizione che tende a colpire le economie emergenti, le quali una volta arrivate ad un livello medio di redditi, possono mantenere un alto tasso di crescita solo se in grado di rinnovarsi, pena la stagnazione economica.

 

3) RIFORMA DELLE INDUSTRIE E CORRUZIONE – Per ottenere un modello di crescita più sostenibile, il Piano prevede anche la ristrutturazione delle industrie, attraverso maggiori investimenti in innovazione e ricerca, in particolare nel settore manifatturiero, caratterizzato da alta intensità di manodopera, produzione a basso costo e un livello tecnologico medio-basso. Nell’attuazione del processo di riforma industriale, Xi potrebbe riscontrare una certa opposizione da parte di quei gruppi di interesse chiave che ruotano attorno alle grandi imprese di proprietà dello Stato, restii a perdere la posizione privilegiata di cui tali aziende godono da tempo.

La resistenza di alcune coalizioni non è l’unica sfida interna che la nuova leadership cinese dovrà affrontare. Uno sguardo attento va sicuramente rivolto alla corruzione, alla cui lotta è stata attribuita la massima priorità dallo stesso Xi Jinping, mosso dal timore che la rabbia popolare e le agitazioni che essa provoca, possano nel lungo periodo portare al crollo del Partito e dell’intero Stato.

 

4) IL SISTEMA DI PREVIDENZA SOCIALE – Il governo di Pechino dovrà inoltre continuare l’estensione, già avviata con successo nell’ultimo decennio, di un sistema di previdenza sociale omogeneo, che in primo luogo miri a livellare le disparità tra le città e le campagne, e allo stesso tempo sostenga una maggiore spesa nazionale da parte delle famiglie cinesi. La mancanza di un’efficace rete di sicurezza sociale ha contribuito a rendere il popolo cinese tradizionalmente incline al risparmio, per poter accumulare un fondo al quale attingere in caso di emergenza, tendenza in netta contrapposizione all’attuale priorità del governo di incentivare i consumi interni.

Di pari passo dovrà poi continuare il processo di trasformazione del sistema sanitario nazionale, anch’esso iniziato nell’ultimo decennio, caratterizzato da una crescente disuguaglianza nell’accesso ai servizi sanitari, fondi statali insufficienti e scarsa appropriatezza dei trattamenti erogati, talvolta non necessari per il paziente ma altamente remunerativi per gli ospedali.

 

Area industriale a Liaoning
Area industriale a Liaoning

5) INQUINAMENTO E DEGRADO AMBIENTALE – Sarà compito di Xi Jinping raggiungere gli ambiziosi obiettivi dell’Impero di Mezzo, che da qualche anno tristemente detiene il gradino più alto del podio come maggior paese inquinatore del mondo, per contrastare degrado ambientale ed inquinamento. Oltre al preoccupante livello di inquinamento atmosferico, la dirigenza cinese dovrà fare i conti con la scarsa qualità e quantità delle risorse idriche, i cui valori sono ormai giunti a livelli critici, contribuendo a provocare squilibri interni e instabilità sociale.

Per trasformare il dragone in un Paese più eco-sostenibile, il Piano Quinquennale prevede numerose soluzioni, tra cui l’ampliamento dell’efficienza energetica, in particolare del settore industriale, investimenti per lo sviluppo nell’ambito delle nuove energie pulite e la promozione di misure che spingano le autorità locali a diventare sempre più rigorose riguardo alla protezione ambientale.

 

6) MERCATO IMMOBILIARE ED INFLAZIONE – Dal punto di vista finanziario, Xi Jinping e la sua squadra dovranno continuare a tenere sotto controllo l’inflazione e la bolla speculativa creatasi nel settore immobiliare cinese dopo lo scoppio della crisi economica mondiale.

Nel tentativo di impedire la chiusura delle aziende e la dilagante disoccupazione, nel 2009 il governo cinese fornì ingenti prestiti attraverso le banche a enti locali, costruttori e imprese industriali, provocando una rapida espansione del settore edilizio. I prezzi delle case sono saliti a tal punto da diventare inaccessibili per la maggior parte dei cinesi, le vendite sono crollate e gli imprenditori non sono più in grado di risarcire i debiti contratti con le banche.

L’implementazione delle politiche restrittive, varate per raffreddare il mercato immobiliare e  mitigare l’inflazione a partire dal settembre 2010, anche a discapito del mercato azionario cinese, sono un’ulteriore riprova della determinazione del governo nel garantire al Paese una crescita economica più sostenibile.

 

7) RIFORMA DEL SISTEMA FINANZIARIO – La Cina, che nei prossimi anni continuerà ad essere uno dei paesi al mondo che attrae più investimenti diretti esteri, sta gradualmente procedendo alla rivalutazione della propria moneta, lo yuan, rispetto al dollaro americano, così come più volte reclamato dai paesi industrializzati, in particolare dagli Stati Uniti, che richiedono anche la riforma del sistema finanziario cinese affinché diventi più efficiente, libero e dinamico.

Il Fondo Monetario Internazionale, attraverso un rapporto del 2011, ha suggerito a Pechino di varare un processo di riforma che allenti progressivamente la presa da parte dei poteri pubblici ed accresca il ruolo del mercato attraverso la liberalizzazione e la privatizzazione del sistema. L’obiettivo è chiaro: liberalizzare lo yuan per trasformare la moneta nazionale in una valuta di regolamento internazionale.

 

Yeu Ninje, via Wikimedia Commons
Le isole contese nel Mar Cinese Meridionale (clicca sulla foto per ingrandirla)

8) POTENZA REGIONALE – E’ ormai di importanza prioritaria per Pechino che il ruolo della Cina nello scacchiere internazionale diventi sempre più congruo al suo peso economico. Nel 2013 continuerà l’ascesa pacifica a livello globale del dragone, che necessita prima di tutto di imporsi come potenza regionale.

A livello geopolitico, la sfida più grande che attende la nuova leadership riguarderà proprio la regione Asia-Pacifico, nella quale, la RPC da una parte dovrà fare i conti con i propri vicini, primi fra tutti Giappone, Vietnam e Filippine, con i quali i rapporti sono sempre più tesi a causa delle rivendicazioni sulla proprietà di numerose isole. D’altro canto, dovrà scontrarsi con la presenza sempre più ingombrante degli Stati Uniti, che, come dichiarato più volte dall’ex Segretario di Stato Hillary Clinton, durante l’amministrazione Obama sono fortemente intenzionati a riaffermare il ruolo guida del Paese nella regione.

 

9) STAKEHOLDER RESPONSABILE – La Cina, sempre più consapevole delle aspettative internazionali sulla sua partecipazione alle questioni relative alla pace e alla sicurezza globale, sta gradualmente modificando la propria politica estera multilaterale, in particolare nell’ultimo decennio, in modo tale da essere percepita come una grande potenza responsabile.

Nel 2013, la RPC continuerà a riproporre le proprie credenziali per apparire sempre più come uno stakeholder responsabile, soprattutto riguardo alle questioni internazionali più spinose come l’Iran, la Corea del Nord e gli equilibri finanziari globali, essendo l’Impero di Mezzo il maggior creditore del debito americano.

La strategia di Pechino sta risultando vincente, in quanto non solo sta dimostrando di essere diventata più recettiva alle aspettative globali, ma anche di essere in grado di dare un contributo effettivo alla sicurezza mondiale, guadagnando un miglioramento della propria immagine internazionale e del potenziale di soft power.

 

10) MULTILATERALISMO E SOCIALIZZAZIONE – La crescente partecipazione cinese ai principali consessi della politica multilaterale, prime fra tutti le Nazioni Unite, la Shanghai Cooperation Organitazion (SCO) e l’ASEAN ha contribuito a mettere in atto un processo di socializzazione che, in anni recenti, ha spinto la Cina ad avere un comportamento sempre più conforme a quello degli altri membri della comunità internazionale. La partecipazione alle istituzioni multilaterali nel tempo contribuisce, infatti, a modificare le preferenze e la definizione degli interessi di nazionali.

Nonostante al momento la politica estera della RPC sia ancora dominata da idee di realpolitik stato-centriche, il crescente coinvolgimento alle istituzioni che si occupano di sicurezza in generale sembra aver contribuito a creare all’interno della Cina una platea di operatori favorevoli al multilateralismo, la quale ha internalizzato una visione della sicurezza che pone meno l’accento sui rapporti bilaterali e più sulle strategie di cooperazione multilaterale.

Timori digitali: l’Italia e la cyberdefence

Le minacce telematiche costituiscono un grave pericolo per gli Stati al pari degli armamenti e possono compromettere il corretto funzionamento delle infrastrutture sia civili che militari.

“Burro e cannoni” per l’Australia

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Nell’Ottobre 2012 Julia Gillard, primo ministro australiano, ha rilasciato il libro bianco “Australia in the Asian century”, che delinea gli obiettivi da perseguire nel prossimo decennio. Pochi mesi dopo, il 23 Gennaio, il comunicato “Strong and secure: a Strategy for Australia’s National Security” anticipa un ambizioso programma che proietta la politica australiana verso obiettivi di rilevanza strategica.

 

COMPLIMENTI AUSTRALIA!  – Nell’October 2012 World Economic Outlook, rilasciato dal Fondo Monetario Internazionale (IMF), l’Australia compare come la dodicesima economia mondiale, recuperando tre posizioni dal 2007 e surclassando Corea del Sud, Messico e Spagna. Un risultato sorprendente, soprattutto perché in controtendenza con la depressione attuale. Gli sforzi del governo sono stati proficui e hanno puntato sulla riduzione al minimo dei costi umani legati a lunghi periodi di disoccupazione che, dal punto di vista australiano, avrebbero rappresentato la minaccia peggiore alla loro economia. Ma questo non è l’unico ingrediente della ricetta australiana. Tra le misure messe in campo hanno sicuramente avuto il loro peso l’oscillazione libera (o quasi) del dollaro australiano, la riduzione del gettito fiscale, l’abolizione del salario fisso centralizzato e la contemporanea introduzione della pensione obbligatoria.

 

SFIDE & SCOMMESSE–  Alcuni provvedimenti sono stati oggetto di dibattiti molto aspri con l’opposizione conservatrice, ma i progetti messi in cantiere dal governo laburista hanno dato fino ad oggi discreti risultati. L’aumento delle tasse per l’emissione di anidride carbonica e la riforma del settore minerario sono stati cambiamenti politicamente sofferti, ma hanno svincolato fondi che sono poi stati reinvestiti in programmi di formazione e riqualificazione professionale, i quali migliorano la mobilità dei lavoratori e sono quindi ben accolti dal mondo imprenditoriale. Dopo anni di dibattito, una mossa di coraggio, ma anche di prestigio, è stata il maxi-investimento di 27,5 miliardi di dollari (dei 36 necessari per la realizzazione) nel cosiddetto National Broadband Network (NBN), che proietta l’Australia nel mondo della navigazione internet ad altissima velocità e ne accresce enormemente la competitività nel settore dei servizi. La partita con la crisi economica è tutt’altro che vinta: le congiunture internazionali negative e i pericoli legati all’oscillazione del dollaro sono sempre dietro l’angolo, ma gli australiani possono al momento dormire sonni tranquilli.

 

Una delle due unità LHD in costruzione - Fonte: Governo australiano (clicca sulla foto per il sito ufficiale)
Una delle due unità LHD in costruzione – Fonte: Governo australiano (clicca sulla foto per il sito ufficiale)

CARICAAAAA!  – Dopo il “burro”, i “cannoni”. Il governo Gillard non ha mai nascosto l’ambizione di giocare da protagonisti nell’arena est-asiatica, sempre più calda ma anche economicamente allettante. Così la lista della spesa per la difesa australiana è cresciuta, soprattutto in qualità. L’Australia ha per esempio ordinato due unità LHD (Landing Helicopter Dock), navi da assalto anfibio le cui caratteristiche tradiscono la volontà degli “aussie”di assumere una politica estera più attiva e, di conseguenza, un ruolo più expeditionary, come si dice in gergo. Inoltre il bilancio della funzione difesa verrà accresciuto in proporzione dall’1,56% al 2% del PIL. Questo consentirà di portare a termine con successo i programmi che, uniti alle LHD classe Canberra, traformeranno la fisionomia delle forze armate nazionali: elicotteri da combattimento Tiger, caccia F-35 e sommergibili diesel a grande autonomia. Quindi, se da un lato l’Australia si sta disimpegnando dalle (dispendiose) missioni all’estero lontane da casa (es.: Afghanistan), dall’altro si prepara ad estendere il suo braccio strategico sulla regione.

 

IL TRUCCO C’E’… –  Acquisire nuovi sistemi d’arma non è però sufficiente per garantire che l’Australia rimanga un Paese sicuro e protetto. Anzi, in realtà, ne rappresenta solo l’aspetto più esteriore. Il passo più grande, secondo i decision makers, è rafforzare l’economia per renderla resiliente agli scossoni che le crisi politico-militari tipiche del teatro asiatico attuale possono portare. Insomma, secondo l’attuale governo, è l’abbondanza di “burro” che rende efficaci i “cannoni”. Tra gli obiettivi prefissati figurano inoltre il contrasto al cyber-terrorismo, minaccia crescente che accomuna i Paesi avanzati, il contrasto alla proliferazione delle armi di distruzione di massa e la lotta al crimine organizzato internazionale.

Dove sono i curdi? Donne in trincea e processi di pace

Vivono in un’area compresa tra la Turchia, la Siria, l’Iran e l’Iraq, con una popolazione totale che si aggira sui 35 milioni. Senza pace da ormai un secolo, da quando il Trattato di Londra del 1913 mise momentaneamente fine alle guerre balcaniche e ridimensionò la nazione del Kurdistan, le istanze di questa popolazione sono state variegatamente rappresentate, fino a giungere alla nascita, e poi alla messa al bando, del PKK da parte di Stati Uniti ed Europa, dichiarato partito terrorista e pericoloso. E’ di pochi giorni fa il nuovo rapporto dello Human Right Watch, il quale, tra le analisi effettuate su 90 paesi, ha denunciato come le leggi anti – terroriste turche siano servite al governo di Ankara ad imprigionare manifestanti curdi spesso innocenti.

 

UNA PACE DURATURA? – Dal 1984, anno in cui i terroristi imbracciarono le armi per destabilizzare il governo turco ed ottenere l’indipendenza, ben 40mila persone, e tra loro soprattutto curdi, hanno perso la vita. L’esplosione del conflitto siriano ha notevolmente peggiorato la situazione: gli incidenti al confine tra Turchia e Siria, in particolare nella provincia di Hatay, così come la dichiarazione in base alla quale i vertici del PKK garantirebbero l’appoggio alla Siria in caso di conflitto conclamato contro Ankara, hanno trasformato una calma apparente in una continua “strategia della tensione”. Il numero di profughi che si ammassano al confine è allo stesso tempo un tassello preoccupante per il contenimento di un conflitto che rischia di estendersi al resto della regione. Il governo turco, che ha ora intrapreso un dialogo costante con l’ex leader del partito curdo Ocalan, spinge per una road map di stampo diplomatico, programmando il ritiro delle forze militari curde già da questa primavera, e per un processo di pace che includerebbe una riforma costituzionale, un maggiore riconoscimento, e più diritti politico – culturali per i curdi. Solo il Partito del Movimento Nazionalista (MHP) sembra invece essere contrario ad un allentamento delle tensioni. Eppure una soluzione win – win sembrerebbe essere la migliore per entrambe le parti coinvolte: dal canto suo Ankara dovrebbe proseguire con le trattative per liberare i prigionieri incarcerati negli ultimi 20 anni, piuttosto che continuare a compiere attacchi come quello dell’11 dicembre scorso, durante i quali 24 curdi furono uccisi al confine con l’Iraq durante un attacco aereo.

 

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La mappa del Kurdistan, a cavallo tra Turchia, Siria, Iraq e Iran

LE DONNE CURDE – Il 9 gennaio scorso tre donne curde sono state assassinate a Parigi, in un ufficio del Kurdish Information Center, vicino alla Gare du Nord. Una di loro, Sakine Cansiz, era stata tra i membri fondatori del PKK. Un episodio senza colpevoli, che ha di fatto rallentato il processo di pace tra curdi e turchi: uccise con colpi di arma da fuoco, i loro corpi sono stati ritrovati forse un giorno dopo il loro assassinio. Le donne curde combattono per sfuggire dalla povertà, in una società patriarcale che non le rispetta: il cruento episodio di Parigi è stato accolto dalle donne curde come una dura sferzata all’emancipazione e al femminismo che da anni caratterizza alcune fette della loro popolazione. Le violenze contro le donne sono infatti molto diffuse in particolare nel sudest della Turchia, ed alcune di loro sono punite anche solo per aver parlato con “uno straniero” o per aver ascoltato la radio. Per loro il PKK rappresenta un modo per uscire fuori da un empasse feudale, ma anche la possibilità di un riscatto.

La triplice sfida della Tunisia

La Tunisia sta vivendo una fase delicata nella sua transizione e si trova ad affrontare una triplice sfida: politica, economica e sociale. Ma che cosa sta accadendo? Proviamo a raccontarlo con 5 semplici domande. Le risposte vengono date da uno dei maggiori esperti su questo argomento: Emanuele Santi, Economista principale incaricato della Tunisia presso la Banca Africana di Sviluppo. La maggiore libertà che ha portato il confronto, un franco scambio di idee, ha portato la paura. Cosa attende i giovani tunisini?

 

Qual è la situazione in questo momento in Tunisia? Ci spieghi in termini semplici quali le fazioni e a che punto siamo.

Come dice, la situazione è delicata. La Tunisia deve cercare di costruire un nuovo modello di governance democratica, rilanciare la propria economia in un momento internazionale poco favorevole ed in un contesto di forti pressioni sociali interni, derivanti da problemi non risolti quali la disoccupazione giovanile e l’ineguaglianza sociale. Dopo un anno e mezzo dalle prime elezioni libere, manca ancora un calendario definito per la finalizzazione della Costituzione e per l’organizzazione delle prossime elezioni. L’assassinio di un leader politico dell’opposizione di orientamento laico, avvenuto la scorsa settimana, ha provocato un’ondata generalizzata di protesta popolare con manifestazioni di piazza in numerose località del Paese. La proposta dell’attuale primo ministro Hamadi Jebali di formare un governo tecnico di larghe intese, capace di guidare la transizione ed organizzare le elezioni, potrebbe risolvere l’impasse, ma, nell’attuale stato delle cose, non è ancora certo se la proposta verrà accolta. Il paese vive questi giorni con il fiato sospeso.

 

Dal punto di vista economico come vede la situazione? Siamo di fronte a un crollo dell’industria turistica e di un’inflazione che ormai è alle stelle.

Dopo una contrazione del PIL di quasi il 2% nel 2011, la Tunisia ha avuto una moderata ripresa economica nel 2012, stimata attorno al 3,5%. Una buona stagione dal punto di vista dell’agricoltura, una ripresa del turismo e degli investimenti diretti esteri (IDE), la ripresa della produzione di fosfati, quasi bloccati nel 2011 a causa delle proteste popolari nelle zone minerarie, hanno contribuito a raggiungere questa performance. La crisi economica e finanziaria in Europa e il conseguente calo della domanda estera hanno influenzato negativamente le esportazioni del settore off-shore, in particolare i prodotti tessili e dell’industria meccanica. Nel complesso tuttavia, le attività produttive hanno beneficiato di clima sociale relativamente più stabile rispetto all’anno precedente ed il mantenimento della domanda interna e proveniente dalla Libia hanno sostenuto l’economia. Per tutto il 2013 la ripresa continuerà, ma non a ritmi sufficienti per far fronte alle molteplici sfide socio-economiche del paese. L’industria turistica è in netta ripresa con un aumento del 45% di permanenze (notti in hotel) registrato nel 2012 rispetto all’anno precedente, e del 30% di proventi nel settore alberghiero (di fatto raggiungendo le cifre della Tunisia prima della rivoluzione). Tuttavia il settore è tra i più vulnerabili, risentendo della situazione di sicurezza attuale nel paese. Il settore soffre, inoltre, per il fatto di essere basato su un modello di turismo balneare a basso costo. Lo sviluppo di un turismo alternativo legato alle numerose attrazioni del paese, per esempio sul piano archeologico e naturalistico,  è auspicabile e fattibile. L’inflazione, con conseguente perdita di potere d’acquisto, è un’altra preoccupazione delle famiglie tunisine, anche se lontana dalle cifre a due zeri tipiche di situazioni simili di transizione. Nel 2012 si è attestata al di sotto del 6%, e dovrà ridursi leggermente nel 2013.

 

Sono molte le preoccupazioni anche sull’ordine pubblico, a partire dalle Università. Ci sono novità in tal senso?

E’ chiaro che in seguito alla rivoluzione le preoccupazioni sull’ordine pubblico sono aumentate. L’apertura di un nuovo spazio di discussione e la maggiore libertà, sperimentata grazie alla fine della « paura », ha permesso il confronto, lo scambio di idee, che spesso hanno avuto dei risvolti violenti. In parte ciò è legato al fatto che il paese sta «sperimentando » il gioco democratico, ma certamente anche l’influenza di attori esterni sta avendo il suo ruolo. L’estremismo religioso è emerso con una certa forza, ma resta ancora a mio avviso marginale e poco diffuso tra una popolazione relativamente moderate e progressista. La porosità delle frontiere con l’Algeria e la Libia rappresenta una preoccupazione ulteriore.  Nonostante tutto questo, la Tunisia di oggi resta un paese relativamente calmo e senza grossi problemi di sicurezza, soprattutto se comparato ad altri paesi in via di sviluppo.

 

Basta leggere l’intervista all’Ambasciatore tunisino a Parigi per allarmarsi però. Sembra quasi non sappiano come uscirne. Che ruolo può giocare l’Europa secondo lei?

La Tunisia e i tunisini hanno dimostrato un grande pragmatismo e un’ottima capacità nel superare la crisi. E’ un paese piccolo e relativamente omogeneo, quindi non mi attendo le degenerazioni incontrollabili che abbiamo visto in altri paesi. In più, due attori che hanno avuto un ruolo determinante durante la rivoluzione, la funzione pubblica e l’esercito, potrebbero ancora giocare un ruolo importante in questo momento delicato. La prima è competente e patriottica ed ha assicurato una continuità del servizio pubblico anche nei momenti più difficili del post rivoluzione. L’esercito, dal canto suo, e’ stato ed e’ visto ancora da molti come garante della rivoluzione, assicurando la sicurezza senza cadere nella tentazione di prendere le redini del potere. L’Europa, cosí vicina storicamente e geograficamente alla Tunisia, non dovrebbe, a mio avviso, inserirsi forzatamente in un processo democratico in corso, che si vuole patriottico cosí come gli attori che sono in gioco. Dovrebbe invece essere reattiva nel sostenere in tutti i modi pacifici possibili una transizione ordinata: l’accesso ai mercati europei, dal punto di vista commerciale ma anche dei mercati del lavoro, è il modo più efficace di sostenere un paese in transizione. Il processo democratico è fortemente legato allo sviluppo economico, e in una situazione delicata come quella tunisina, l’Europa potrebbe davvero dimostrare la sua volontà nell’evitare ingerenze politiche ma nel porre le basi per il rilancio economico del paese. L’Europa non deve inoltre entrare nel gioco di chi vuole far fallire la rivoluzione alimentando paure non necessarie. Alcune affermazioni di politici e giornalisti europei, dipingendo scenari apocalittici, non fanno che distruggere il potenziale di ripresa, bloccando il rilancio di turismo e investimenti.

 

Quali le prospettive per i giovani di questo paese che guardano al futuro?

Le prospettive non sono incoraggianti. Il paese ha un problema di disoccupazione strutturale, soprattutto per i giovani laureati. Negli ultimi decenni il paese ha operato una “massificazione” della formazione, trasformatasi in un‘esplosione di università e di nuovi laureati. L’economia non è stata al passo, non riuscendo ad abbandonare il proprio modello basato sull’estrazione, sul turismo di massa e sul tessile, tutti settori in gran parte basati su mano d’opera non qualificata. Come risultato il mercato locale assorbe al massimo 30.000 laureati all’anno, contro i 60.000 laureati che escono dalle università ogni anno. La trasformazione strutturale dell’economia tunisina è dunque prioritaria per poter garantire maggiori opportunità di inserimento dei giovani laureati. È chiaro inoltre che il paese deve approfittare anche della prossimità di altri mercati per le proprie merci e per gli investimenti oltre che per una possibile migrazione controllata di mano d’opera e know-how. In questo senso la Libia, che impiegava oltre 100.000 lavoratori tunisini prima della rivoluzione e ha contribuito fortemente alla perfomance dell’export tunisino negli ultimi due anni, il Maghreb e il continente Africano costituiscono delle opportunità interessanti. Un’altra soluzione e’ quella dell’imprenditorialità giovanile, che però soffre oggi a causa di una certa reticenza a investire e creare un proprio business. Questo e’ normale, soprattutto in una fase di transizione e in vista di anni in cui l’imprenditorialità era repressa da un regime e una cultura che non incoraggiavano lo spirito imprenditoriale libero. Oggi, però, c’è ancora una speranza, grazie all’apertura di molti settori economici a lungo rimasti chiusi e alla nascita di nuovi programmi di sostegno all’imprenditorialità, tra cui il Souk Attanmia ( www.soukattanmia.org), il programma pilota lanciato dalla Banca Africana di Sviluppo assieme a 19 partners dell’ « ecosistema tunisino » per sostenere l’imprenditoria giovanile.

American boom: un modello energetico esportabile?

Il boom dell’unconventional negli Stati Uniti sta sconvolgendo gli assetti geopolitici globali. E’ possibile replicare questo modello? Potranno emergere nuovi protagonisti?

“L’attesa del peggio”

A distanza di più di due mesi dall’inizio di questo 2013, le impressioni sulla strada che le relazioni internazionali hanno imboccato non sembrano regalare sorrisi in nessuno degli angoli conosciuti del pianeta. Ovunque le sfide sembrano più imponenti dei mezzi annunciati per affrontarle, i punti caldi che il 2012 si è trascinato fino alla fine restano a tutt’oggi senza risposte. In questa settimana, riflettori puntati su Europa, Usa, Venezuela, Corea del Nord, Cina, Iraq

 

 

 

EUROPA

 

Lunedì 18 – Si riunisce a Bruxelles il Consiglio per gli Affari Esteri presieduto come sempre dall’Alto rappresentante Caterine Ashton, che porterà all’attenzione dei rappresentanti dei paesi membri una serie di questioni legate alla politica europea per il vicinato meridionale. Tra i punti più spinosi dell’agenda, oltre all’ormai consueto focus sulla Siria, un set di misure per appoggiare l’intervento in Mali e nuove considerazioni sulla questione palestinese dopo le elezioni in Israele e sulla situazione in Iraq. Spazio anche per la partnership strategica con i paesi dell’est-Europa non membri dell’UE, diventati sempre più cruciali per tenere a bada le mire del Cremlino, che sembra essere tornato su una linea di aperto confronto con l’Occidente.

 

Venerdì 22 – E’ ormai giunto il momento per affrontare la dura realtà delle condizioni economico-finanziarie dell’UE per il futuro prossimo (2013-2014), così come auspicate e previste dagli analisti della Commissione Europea. L’analisi copre categorie come prodotto interno lordo, inflazione, disoccupazione, debito e spesa pubblica, concentrandosi non solo sui paesi membri ma anche sulle condizioni dei paesi candidati ad accedere all’UE. Il Vice-Presidente Olli Rehn avrà l’onere di presentare il report ai media internazionali nella conferenza stampa delle 11:00, in cui le imbeccate e le critiche sull’operato delle istituzioni economiche dell’UE non si faranno di certo attendere.

 

AMERICHE

 

VENEZUELAImmagini dal passato, ecco come si potrebbe riassumere il fine settimana attraversato dal Venezuela dopo la pubblicazione delle prime fotografie del Presidente-degente Hugo Chávez dopo l’ultima a Cuba e l’accusa del vice-presdente Maduro nei confronti dell’opposizione. Da quanto emerso dalle rivelazioni pubbliche del pupillo di Chavez infatti, sabato la polizia avrebbe sventato un tentato assalto all’Ambasciata cubana a Caracas, un remake del putsch mediatico andato in scena nell’aprile 2002 secondo i piani di Salvador Romanì, ex agente della polizia di Batista, e dell’avvocato venezuelano Ricardo “Cañita” Koesling. Autori dell’irruzione sarebbero stavolta appartenenti ad un nucleo d’estrema sinistra, anche se la notizia sembra essere più che altro l’ennesima scusa per un’ulteriore crackdown sull’establishment dell’opposizione sconfitta nelle ultime elezioni.

 

STATI UNITI11 milioni di immigrati clandestinamente negli Stati Uniti regolarizzati nei prossimi 8 anni: questa la nuova sfida dell’amministrazione Obama-Biden per il 2013, che dovrà scontrarsi con il muro esistente tra Democratici e Repubblicani a Capitol Hill sul tema. Il sito Usa Today espone nel dettaglio il percorso che porterebbe la massa di cittadini ombra verso una situazione di totale legalità con la domanda per un visto da “Lawful Prospective Immigrant”. La proposta contiene ovviamente delle disposizioni per il congiungimento familiare, ma sembra non incontrare il consenso della nuova stella “ispanica” del Grand Old Party, il Sen. Marco Rubio, che ha battezzato la proposta come “morta prematuramente al suo arrivo al Congresso”.

 

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ASIA

 

CINA – Un messaggio diretto a Washington quello di Xue Xuren, ministro delle finanze di Pechino inviato a Mosca per il Summit dei governatori delle Banche Centrali, in cui si è tentato di raggiungere un accordo di massima sulla stabilizzazione delle varie politiche monetarie del pianeta finanziario. Il tutto mentre il governatore della banca centrale cinese Zhou Xiaochuan s’impegnava personalmente per garantire la realizzazione della riforma dell’assegnazione delle quote e sul sistema di governance dell’FMI, creato nel 1944 e ancora fondato su criteri non proprio al passo con la situazione politico-economica attuale.

 

COREA DEL NORD – Oltre ad essere arrivata ad un livello impareggiabile nell’occultamento dei progressi nella proliferazione nucleare, esiste un’altra proliferazione collegata a Pyongyang che dovrebbe allertare la Comunità Internazionale, soprattutto in vista dei rimedi attuati per ridurre a più miti consigli la sua leadership politico-militare. Sotto sanzioni internazionali dagli anni ’50, l’establishment economico nordcoreano ha imparato a sopravvivere lucrando su qualsiasi sorta di traffico bandito a livello internazionale. Conti correnti “impossibili da tracciare”, nelle parole di un funzionario sudcoreano incaricato di controllare l’applicazione delle sanzioni ONU, fanno capo a traffici di sostanze stupefacenti, truffe finanziarie atte a sostenere il riarmo dell’esercito e lo stile di vita opulento dell’elite politico-militare. Secondo fonti in contatto con i vertici di Pyongyang e Pechino, la capitale dell’hermitage kingdom si sentirebbe ormai pronta a spezzare il cordone ombelicale che la lega alla madre adottiva cinese confidando in un boom economico e nei raccolti da record in programma per il 2013.

 

MEDIO ORIENTE

 

Martedì 19Lakhdar Brahimi compirà l’ennesimo volo della speranza verso Mosca, dove tenterà di spezzare gli ultimi legacci che tengono in equilibrio il governo del terrore in Siria capeggiato da Bashar al-Assad. Nel frattempo, le fazioni salafite raggruppatesi attorno ai gruppi armati dell’Esercito Libero Siriano ottengono sempre più successi tattici nelle azioni di guerriglia e sabotaggio contro le truppe lealiste che stentano ormai a controllare i gangli di comunicazione e snodo dei territori attorno alla capitale e alle province di confine. Mentre i leader dell’opposizione tentano di creare il vuoto attorno alla figura di al-Assad, invitando alle trattative solo personalità non legate alla barbarie, a 23 mesi dallo scoppio delle ostilità risulta ancora quasi impossibile intravedere la luce in fondo al tunnel del conflitto intestino.

 

IRAQ –Una reazione a catena di auto esplosive, innescata nel cuore di uno dei quartieri a maggioranza sciita, ha rotto il silenzio di una delle solite domeniche d’indolenza a Baghdad, dove i segni della frattura inter-etnica tra i due grandi blocchi dell’islam sono ormai evidenti ad ogni angolo di strada. Il risentimento per l’operato delle truppe della coalizione di Iraqi Freedom e per la transizione politica che ha riportato al potere gli sciiti, un tempo avulsi dalla politica, hanno riavvicinato Baghdad a Teheran, un tempo nemiche giurate al crocevia mediorientale. 20 i morti e 88 i feriti dell’ultima strage a Sadr City e nelle esplosioni rilevate nei quartieri di Al-Amin, Husseiniya e Kamaliya. Nel frattempo a Tikrit la polizia avrebbe disinnescato undici ordigni situati lungo uno degli snodi stradali della regione. Il bollettino delle vittime di attacchi del genere sale così a 150 nei soli 18 giorni di febbraio, e la situazione attuale non permette di sperare in una caduta dell’indice del terrore.

Il tricolore su Herat

Se dovessimo sintetizzare l’Afghanistan in una frase, mi verrebbero in mente due cose. La prima, una frase che nel 2009 disse l’allora Rappresentante EU a Kabul Ettore Sequi: “Bisogna parlare al cuore e alla mente degli afgani, ma anche allo stomaco”, mutuandola da quella detta dal Generale Dalla Chiesa. Il riferimento era al fatto che gli Afgani che vivono nei villaggi sperduti delle periferie del paese spesso sentono come giusta la ‘giustizia’ dei talebani perché permette loro di mangiare, e sentono molto lontano il governo di Kabul. La seconda cosa è la lettura di un libro: “The Fragmentation of Afghanistan”, del Professor Barnett R.Rubin, sulla formazione dello stato e il collasso del sistema internazionale nel paese.

 

Libro che ben spiega che non c’è un Afghanistan, ma tanti sotto lo stesso nome, con esigenze e problemi molto differenti tra loro. In questo paese sfortunato, da dove le forze dell’Isaf dovrebbero ritirarsi nel 2014, non si ha alcuna certezza. Il paese sarà stabile e sicuro per allora?

 

Nel 2014 gli anni di guerra saranno tredici. Ma per chi viaggia in Afghanistan la parola ‘sicurezza’ è ancora una chimera. In questo articolo vi raccontiamo come e dove opera il nostro contingente. L’Italia infatti è tra i paesi che fanno parte dell‘ISAF, International Security Assistance Force, missione di supporto al governo dell’Afghanistan che opera sulla base di una risoluzione dell’ONU. La principale minaccia per i nostri soldati è la presenza di ordigni improvvisati (IED).


In uno speciale sull’Afghanistan che prossimamente vedrete sul nostro sito, parleremo dei civili, in particolare donne e bambini.

 

Dove è stanziato il nostro contingente?


Se si guarda la cartina dell’Afghanistan, per capire dove sono gli italiani bisogna guardare ad ovest, al confine con l’Iran. L’Italia ha la responsabilità di 4 province: Herat, Farah, Bagdhis e Ghor.  Gli italiani sono 3900 e operano su un territorio molto vasto. 150.000 kmq, un’area pari all’Italia settentrionale e a parte dell’Italia centrale. A settembre la Brigata Bersaglieri Garibaldi  ha lasciato il terreno agli alpini della Taurinense.  Con altri 9 paesi contributori l’Italia forma il Regional Command West (RCW) nell’ambito dell’operazione Isaf. Il compito principale del contingente italiano è quello di sostenere il governo afgano nella ricostruzione del paese, affinché l’Afghanistan possa essere indipendente.

 

Quali le caratteristiche del territorio afgano in cui gli italiani operano?


E’ un territorio insidioso. Una curva stretta, un saliscendi, una strettoia, rappresentano una possibile minaccia: il mezzo militare afgano è costretto a rallentare e gli insorti possono centrare meglio il loro obiettivo. Quando c’è la necessità di verificare la presenza di ordigni, per esempio, entra in gioco l’unità cinofila. Sono operatori cosiddetti IEDD, ovvero una squadra che si occupa della ricerca e neutralizzazione degli ordigni improvvisati. I nostri genieri sono i migliori al mondo, primato che purtroppo è legato al fatto che l’Italia è stata tra i principali produttori di mine. In Afghanistan hanno battuto le strade con risultati eccezionali, tantissimi i kilometri percorsi a passo d’uomo davanti al convoglio, per cercare un ordigno. L’Arma del genio ha avuto uno sviluppo rapido, legato alla mobilità del conflitto, e ora è in prima linea. Finora ha svolto un lavoro molto utile ai fini dello sminamento in Afghanistan.

 

Come avviene lo sminamento?


Il primo binomio importante parte dall’affiatamento uomo-animale. Il cane indossa un collare particolare ed è stato addestrato: sa che quando indossa quel collare dovrà cercare l’esplosivo. Dopo aver trovato l’esplosivo deve sedersi e non continuare a scavare. Confermata la presenza dell’esplosivo entra in scena il Cougar, apparecchiatura da 600 mila euro che spara acqua sulle componenti elettriche dell’ordigno per disattivarle. L’obiettivo è capire la tipologia dell’Ied e il procedimento usato dal nemico, non distruggere l’ordigno. Gli insorti inoltre potrebbero lasciare delle impronte e queste verrebbero puntualmente verificate nell’archivio biometrico. Arriviamo cosi’ all’uomo che sfida le bombe e si misura in primis con l’ordigno, rischiando la pelle. I compagni lo aiutano a indossare la tuta anti-esplosiva di 40 kg. Spesso la minaccia non è rappresentata dall’ordigno ma anche da chi, quando i nostri militari si avvicinano all’esplosivo, è pronto per un’imboscata e osserva, a distanza, le mosse di approccio alla bomba.

 

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Foto dell’autrice

 

Qual è il principale compito degli italiani?


In una parola il supporto. Supporto alle forze militari afgane che vengono formate dagli italiani affinchè possano gestire da sole la difficile situazione sul fronte sicurezza. Su questo territorio operano circa 32.000 tra militari dell’ANA, Afghan National Army, e poliziotti afghani che hanno acquisito una buona capacità di pianificare e condurre operazioni in piena autonomia. Un altro punto importante è proprio la reintegrazione degli afgani. Un processo che ha visto fino all’ottobre dello scorso anno 2042 reintegrati nel RCW, su un totale di circa 5000 in tutto l’Afghanistan, così suddivisi nelle quattro province: 438 a Herat, 1287 a Bagdhis, 173 a Farah e 144 a Ghor. In particolare, nell’area a responsabilità italiana opera il 207° Corpo d’Armata afgano. Il reintegrato in buona sostanza è un ex-insurgent che abbandona le armi e accetta il programma di reintegrazione. Il programma prevede un breve periodo di formazione, il rilevamento dei dati biometrici e una cerimonia pubblica trasmessa per televisione, durante la quale il soggetto presta giuramento sul Corano. Inoltre, per agevolare il suo ingresso in società gli viene offerto un lavoro. Esiste anche un Police Advisor Team costituito dai carabinieri la cui missione è l’attività di advising a favore del Comando regionale e Provinciale dell’Afghan Uniform Police di Herat. Episodi recenti raccontano di finti reintegrati che si introducono all’interno delle forze occidentali per guardarle dall’interno, o per effettuare attentati suicidi, come purtroppo è successo sia a Kabul sia al sud del paese. Interrogati su questo, gli italiani rispondono che sono episodi molto sporadici.

 

Qual è in questo momento il problema principale degli afgani?


Abbiamo parlato con alcuni di loro a sud di Bakwah, distretto di responsabilità italiana non lontano dall’Helmand. Il problema principale, ci raccontano, è legato alla sicurezza. “Che qui ci sia anche la polizia afgana è un fattore positivo – ci racconta un abitante di un villaggio.
– ma se rimanessero gli italiani sarebbe meglio. Siamo molto grati al vostro esercito. Sono brave persone… non ci sono mai vittime o feriti tra i locali. Non sentiamo spari in continuazione… con gli americani prima era peggio”.
“La sicurezza è il nostro problema principale – ci racconta il capo villaggio Nessuno può andare da chi governa a chiedere aiuto perché se i talebani lo scoprissero lo ucciderebbero. E qui come vede non c’è nulla, figurarsi un mercato,è necessario spostarsi in un altro villaggio per comprare le cose. Ma le strade non ci sono e nel terreno c’è sempre la trappola degli ordigni per cui è molto pericoloso spostarsi”.
E ancora. “Gli italiani hanno portato una maggiore sicurezza. Non uccidono i civili. Molti prima lasciavano quest’area e andavano via. La sicurezza è migliorata. La polizia afgana è un esempio, ai tempi degli americani non c’era. Sono gli italiani ad averla portata qui”.

 

I principali problemi in Afghanistan, ci raccontano queste persone, sono la sicurezza, le condotte per il trasporto dell’acqua e il supporto per le esigenze primarie che il villaggio necessita.
Ad oggi circa l’80% circa dei distretti dell’area di responsabilita’ italiana hanno avviato il processo di transizione alle forze afgane, a partire dalla difficilissima area del Gulistan e di Bakwah. Nel 2012 l’Italia ha stabilito circa 2000 check point lungo le principali vie di comunicazione, con 17.000 veicoli controllati, 5000 pattuglie condotte in tutti i distretti e oltre 170.000 persone controllate.

 

Tra Guareschi e Saint-Exupéry

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Ovvero: di cosa porta con sè realizzare un nuovo sito. Due sensazioni, una domanda, una risposta. E molto di più di un restyling grafico…