sabato, 20 Dicembre 2025

APS | Rivista di politica internazionale

sabato, 20 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

Home Blog Page 540

Cercando una visione

Vero, non possiamo permetterci di dire oggi che la politica estera deve essere la priorità dei nostri politici, in un momento in cui non sappiamo se, come e quando ci sarà un governo. Eppure è proprio adesso, in questa situazione così ingarbugliata, che occorre tornare con forza a parlare dei temi della politica estera italiana, perchè è anche così che possiamo iniziare ad uscirne. Contraddizioni? Noi crediamo di no, e vi spieghiamo il perchè

Un chavismo “Maduro”?

La scomparsa di Hugo Chávez era un evento ormai annunciato. La classe politica al potere ha dunque avuto il tempo di organizzarsi e preparare la successione del leader che, nel bene o nel male, ha fatto la storia del Venezuela. Il vicepresidente Nicolas Maduro sarà chiamato nelle prossime imminenti elezioni a consentire al “Socialismo del XXI secolo” di proseguire la propria missione. Ce la farà?

 

LA MORTE DI UN LEADER – “Alle 16:25 (ora venezuelana) si è spento il comandante e presidente della Republica bolivariana de Venezuela, Hugo Chávez Frías”. Con queste lapidarie parole e la voce rotta dal pianto il vicepresidente del Venezuela, Nicolas Maduro, ha annunciato martedì 5 marzo la morte del Hugo Chávez.

Maduro, circondato da funzionari del governo e membri delle Fuerzas Armadas, ha chiesto alle migliaia di venezuelani scesi nelle piazza per rendere omaggio al leader scomparso di “canalizzare il dolore in manifestazioni di pace”. Il vicepresidente in carica ha anche annunciato la probabile apertura di un’inchiesta contro i “nemici della patria che hanno avvelenato il comandante Chávez”, insinuando così una pesante tesi complottista che sembra chiamare in causa in modo indistinto l’opposizione e gli Stati Uniti come responsabili della morte dell’ex presidente.

Hugo Chávez si è spento all’età di 58anni dopo le complicazioni respiratorie seguite all’ultimo dei quattro interventi ai quali si era sottoposto per estirpare il cancro alla regione pelvica che gli era stato diagnosticato nel 2011. Dopo l’annuncio della sua morte, il governo venezuelano ha immediatamente schierato l’esercito su tutto il territorio nazionale per evitare disordini nelle piazze. Le accuse di complotto espresse da Maduro hanno portato addirittura all’espulsione dal Venezuela di due addetti militari dell’Ambasciata statunitense a Caracas. Il funerale di Chávez si terrà venerdì e il suo feretro è stato trasportato ieri dall’ospedale all’accademia militare della capitale venezuelana, dove si è aperta la camera ardente.

 

IL RITRATTO DI UN LEADER CONTROVERSO – Considerato un dittatore dai suoi detrattori e un padre della patria dai sui sostenitori, Hugo Chávez è senz’altro una delle figure più rilevanti e controverse della storia contemporanea del Venezuela e di tutta l’America latina. L’ex presidente venezuelano era stato eletto per la quarta volta consecutiva il 7 ottobre scorso, dopo quasi 14 anni di potere nei quali aveva cercato di imporre, tra alti e bassi, il cosiddetto “socialismo del XXI secolo” nel subcontinente americano. Una politica vicina ai poveri e marcatamente antimperialista che si richiamava alle gesta del mitico libertador Simón Bolívar e del leader cubano Fidel Castro.

Chávez comparve sulla scena politica venezuelana il 4 febbraio del 1992 quando, con il “movimento bolivariano rivoluzionario 200”, organizzò un golpe militare contro l’allora presidente Carlos Pérez. Il fallito intento golpista, condiviso con altri membri dell’esercito, portò alla carcerazione di Chávez ma invece di oscurare la stella del futuro caudillo venezuelano ne rafforzò la popolarità soprattutto tra i poveri.

Il perpetuarsi al potere di una classe politica inefficiente, corrotta e asservita alla volontà degli Stati Uniti, spianò la strada all’ascesa di Chávez che, dopo aver fondato il partito Quinta repubblica, si presentò come l’alternativa al dominio dell’alta borghesia capitalista e riuscì a riunire la sinistra venezuelana in un’unica coalizione in vista delle elezioni del 1998. Il risultato fu un trionfo: Chávez fu eletto per la prima volta presidente della Repubblica con il 56 % dei consensi.

Da quel momento, il leader bolivariano mise in pratica ossessivamente i principi della sua revolución: dai programmi sociali a favore delle classi più disagiate, alla modifica radicale della Costituzione venezuelana fino alla nazionalizzazione di emittenti tv e colossi del petrolio, quella di Chávez può essere descritta come l’ascesa inarrestabile dell’uomo solo al comando. I proventi derivanti dal settore petrolifero gli hanno consentito di radicare il suo potere moltiplicando le poltrone per il suo establishment, rafforzando il potere dirigista del suo governo e depotenziando la funzione di bilanciamento degli altri organi istituzionali. Ma soprattutto gli hanno permesso di trasformare il ruolo internazionale del Venezuela, emancipandolo da Washington e avvicinandolo a paesi portatori di un antiamericanismo congenito come Cuba, Russia, Cina e Iran.

A livello regionale, Chávez è riuscito a catalizzare col suo carisma il rispetto di molti governi che hanno cercato di seguire il suo esempio. La Bolivia di Evo Morales, l’Ecuador di Rafael Correa, il Brasile di Lula da Silva e l’Argentina dei Kirchner, anche se in modi differenti, hanno avuto nel caudillo venezuelano un punto di riferimento essenziale per tenere unite politicamente ed economicamente le sorti dell’America latina.

 

LA SUCCESSIONE – La Costituzione venezuelana dice che, trascorsi 30 giorni dalla morte del presidente della Repubblica,

Il candidato alla successione di Hugo Chavez, l'attuale vicepresidente Nicolas Maduro
Il candidato alla successione di Hugo Chavez, l’attuale vicepresidente Nicolas Maduro

devono essere indette nuove elezioni. Dal suo ultimo ricovero a La Havana, avvenuto l’11 dicembre per affrontare la sua quarta operazione chirurgica, Chávez era stato sostituito al potere dal ministro degli esteri poi nominato vicepresidente, Nicolas Maduro. Indicato dallo stesso Chávez come suo delfino, Maduro è fedele collaboratore dell’ex presidente venezuelano dai tempi della prigionia sofferta dopo il fallito golpe del 1992. Ed è anche la figura politica che è stata più vicina al leader durante gli ultimi mesi di agonia.

A capo della diplomazia venezuelana, Maduro ha seguito senza indugi la linea chavista di ricerca dell’indipendenza dell’America latina dall’egemonia nordamericana. L’attuale successore designato di Chávez è l’uomo che ha intessuto negli ultimi anni legami con paesi come la Libia di Gheddafi o la Siria di Assad, attori internazionali che per un motivo o per un altro sono nettamente ostili alle politiche degli Stati Uniti e caratterizzati da una “reputazione” quantomeno dubbia sulla scena internazionale. Maduro e’ anche l’uomo che prevedibilmente sarà il prossimo presidente del Venezuela, potendo cavalcare l’onda emotiva dell’elettorato dopo la morte di Chávez anche se non sarà affatto facile accollarsi la pesante eredità politica lasciata dall’ex presidente.

L’opposizione, rappresentata dalla coalizione Mesa de Unidad Democratica (Mud) e guidata da Henrique Capriles, vorrebbe incarnare il contraltare politico di quello che è stato il chavismo per il Venezuela negli ultimi 14 anni. I sostenitori della Mud sono scesi in piazza a più riprese in questi ultimi mesi per avere chiarimenti dal governo sullo stato di salute del Presidente, in un momento in cui le notizie trapelavano col contagocce. “Con Chávez siamo stati avversari, non nemici” ha dichiarato Capriles nelle ore successive alla morte dell’ex presidente mentre cercava di placare il giubilo dei suoi sostenitori nelle strade.

Questa opposizione non sembra però in grado di polarizzarsi e di catalizzare un margine di consensi sufficienti a contrastare Maduro alle prossime elezioni. Il leader della Mud avrà pochissimo tempo per cercare di ribaltare un esito elettorale che lo ha visto perdente dal confronto con Chàvez lo scorso ottobre. Quella di togliere di mezzo il chavismo e il suo leader maximo in un solo colpo sembra una missione difficile da compiere.

 

Alfredo D’Alessandro

Piccole dittature crescono

0

Il Myanmar, o ex Birmania, è uno stato dalle peculiarità particolarmente interessanti per la Repubblica Popolare Cinese: innanzitutto, è situato in posizione strategica tra di essa e l’Oceano Indiano, fattore che lo rende una valida alternativa via terra allo stretto di Malacca, per l’approvvigionamento di quelle risorse vitali allo sviluppo cinese (soprattutto materie prime) provenienti dal Medio Oriente. Inoltre questo Paese è isolato diplomaticamente dal resto del mondo, a causa dello propria situazione politica: esso è infatti retto da una giunta militare che poco spazio lascia alle libertà personali ed allo svolgimento di una libera attività politica. Famoso il caso di Aung San Suu Kyi, leader del partito d’opposizione, che vinse il Nobel per la pace nel 1991 ma, a causa di un susseguirsi di misure restrittive alla propria libertà, è stata in grado di ritirarlo solo quest’anno. Questi fattori potrebbero farne un alleato desiderabile agli occhi di Pechino. La situazione però non è, come quasi sempre nelle relazioni internazionali, cosi lineare come appare

 

LA PRESENZA CINESE – Al fine di ottenere diretto accesso al Golfo del Bengala, Pechino da anni promuove una serie di processi per rafforzare i propri legami con lo stato Birmano. Tra i numerosi investimenti del Dragone nell’area, però, sono due quelli particolarmente cruciali: una pipeline che, dal confine cinese, si dirama sino all’Oceano Indiano, e la costruzione della diga di Mystsone, la prima di un sistema di chiuse sul fiume Irrawaddy, volto a soddisfare l’incredibile fame di energia del colosso asiatico. Oltre il 70% dei proventi economici di questa diga ed il 90% dell’energia ricavata sarebbero infatti diretti verso il territorio cinese.

 

UN PIEDE IN DUE SCARPE – Alcuni elementi però, stanno scompaginando le carte di quella che, a prima vista, sembrava una partita facile, uno dei quali è la costruzione della diga sopramenzionata. Questo progetto non solo recherebbe pochi vantaggi dal punto di vista economico ed energetico allo stato birmano, ma è addirittura collocato nel cuore dello stato del Kachin, dove da anni sono attivi fermenti etnici con costanti scontri tra le milizie locali e l’esercito regolare. Milizie che la Cina non fa nulla per ostacolare, visto anche che questo stato confina col proprio territorio e spesso gli scontri attraversano la frontiera, ma con cui addirittura intrattiene dei rapporti, creando non pochi imbarazzi con il governo centrale. Pechino conta ovviamente sull’isolamento politico di Naypyidaw, usando la leva del proprio appoggio e della collaborazione bilaterale per ottenere condizioni più vantaggiose, tuttavia nel 2011, inaspettatamente, la giunta militare ha alzato il prezzo di questo rapporto, ponendo uno stop alla costruzione di questo controverso progetto.

 

Lo stato del Kachin, in una posizione strategica tra Myanmar e Cina

IL RIPENSAMENTO STRATEGICO – Lo stop alla diga cinese e l’apertura all’Occidente non va visto come un’apertura delle ostilità con Pechino, ma piuttosto come un caveat rispetto ad un altro, e più rilevante, progetto, quello della pipeline che, dal Golfo del Bengala, porta gas e greggio sino al confine cinese, ed ad eventuali future collaborazioni. La Birmania, da piccolo stato isolato, si è riscoperto pieno di risorse naturali e strategiche, al centro di un gioco che può sfruttare per accrescere la propria importanza, e non intende più svendere i propri asset strategici. L’alleato più naturale, per ora, è pur sempre Pechino, ma Yangon ha preso coscienza dei propri mezzi, e rivendica il proprio ruolo sullo scacchiere asiatico, dimostrando anche un notevole realismo politico, e capacità di apertura verso gli altri attori. La Cina è avvertita.

 

Marco Lucchin

 

 

Rischio di embargo finanziario

Il primo febbraio il Fondo Monetario Internazionale ha emesso una “Dichiarazione di censura” ai danni dell’Argentina per non aver fornito dati economici sufficientemente adeguati. E’ la prima volta dall’anno della sua fondazione nel 1944 che l’organizzazione adotta una simile sanzione nei confronti di un Pese membro. Un caso che rischia di aprire una controversia internazionale senza precedenti

 

L’INFLAZIONE – Dopo aver preso in esame una nota informativa redatta da Christine Lagarde, con una procedura anomala il FMI ha “censurato” il Governo argentino. La motivazione espressa nel comunicato ufficiale è il mancato adeguamento qualitativo “dei dati ufficiali riportati al FMI sull’Indice dei Prezzi al Consumo della regione del Gran Buenos Aires (IPC-GBA) e il Prodotto Interno Lordo (PIL)”. Tradotto: Buenos Aires sostiene che il tasso d’inflazione nell’economia si aggiri sui 10,8 punti percentuali, un rilevamento “truccato” secondo Washington, secondo cui invece l’inflazione argentina avrebbe raggiunto il 25%, la più alta del Sudamerica e tre le più alte al mondo. Una discrepanza notevole. In tal modo l’Argentina avrebbe violato l’Articolo VIII, sezione 5 dell’Accordo Costitutivo con il FMI, il quale impegna ciascun integrante a fornire indicatori statistici in linea con i parametri utilizzati a livello internazionale.

 

L’ESPULSIONE – La mozione di censura fa seguito al richiamo ufficiale del 24 settembre scorso, giorno che inaugura quella che ormai è da più parti considerata la “guerra delle due Cristine”: la Direttrice Lagarde da un lato, la Presidenta Kirchner dall’altro. Già in quella circostanza fu possibile intravedere le avvisaglie di quanto poi successo il primo febbraio. Cristina Fernández, in un discorso pronunciato dinanzi l’Assemblea Generale dell’ONU pochi giorni dopo, dichiarò con fermezza la volontà di difendere il popolo argentino da ciò che riteneva essere un’esplicita minaccia. All’ammonizione verbale della Lagarde faceva infatti seguito la possibilità di un’espulsione, sancita di fatto dalla censura, che impone al Governo argentino la correzione dei dati forniti entro e non oltre il 29 settembre 2013. Il rischio è quello di un’automatica ineleggibilità dell’Argentina per l’utilizzo delle risorse finanziarie e la sospensione del diritto di voto, con la conseguenza diretta di dover abbandonare l’organizzazione. Se si escludono i casi della Cecoslovacchia nel 1954, di Cuba nel 1964, della Somalia e dello Zimbabwe, le cui circostanze differiscono enormemente dal caso argentino, mai nella sua storia il FMI ha intrapreso un’azione simile nei confronti di un paese membro. L’ipotesi dunque creerebbe un precedente eclatante, la cui imprevedibilità potrebbe senz’altro ripercuotersi sugli equilibri già precari di un sistema economico alle prese con la più grande crisi finanziaria dopo la Grande Depressione degli anni Trenta.

 

LA SENTENZA GRIESA – Altro punto su cui si snoda l’intero confronto sembra essere l’esito della sentenza Griesa. Il giudice statunitense ha condannato l’Argentina al pagamento di 1,33 miliardi di dollari quale copertura di garanzia per quegli hedge funds che non hanno accettato le due ristrutturazioni del debito, nel 2005 e nel 2010, dopo la crisi del 2001. Il verdetto definitivo del processo è stato posticipato da dicembre 2012 a febbraio 2013. A questo si aggiunga che sempre a dicembre le due delle principali agenzie di rating, Fitch e Moody’s, hanno abbassato in un sol colpo il livello di affidabilità argentina da B a CC. Il livello di un paese prossimo al default. C’è una contraddizione evidente, poiché proprio durante l’ultimo Vertice del FMI di Tokyo dell’ottobre scorso, la stessa Lagarde valutava il debito pubblico argentino nel 2011  pari al 41,8%, contro il 166,4% del 2002. Non pochi analisti hanno dunque intravisto un’ambigua pressione del FMI dal momento che la censura, rilevando ufficialmente l’inattendibilità di Buenos Aires, aumenterebbe ulteriormente la speculazione finanziaria.

 

L’EMBARGO FINANZIARIO – Dopo aver affrontato le conseguenze del default più grande della storia, a partire dal 2003

Lagarde vs. Kirchner: chi la spunterà tra le due Cristine?
Lagarde vs. Kirchner: chi la spunterà tra le due Cristine?

l’Argentina ha basato il proprio sviluppo su un maggiore controllo delle proprie risorse economiche e delle politiche sociali. Ha adottato un modello di gestione finanziaria volta a far rientrare nel perimetro statale la schizofrenia dei mercati. Inoltre con il pagamento di 9530 milioni di dollari nel 2006 ha estinto il proprio debito, ritagliandosi in tal modo un’importante margine di autonomia dai condizionamenti del FMI. Così come sottolineato da Julio C. Gambina, la critica ai dati sul tasso d’inflazione non è sbagliata. Sbagliato semmai è stigmatizzare il paese costringendolo ad un aggiustamento strutturale regressivo. L’adeguamento infatti stringerebbe un cappio finanziario al collo della spesa pubblica e di quella sociale, colpendo direttamente il settore del lavoro, dell’educazione e della salute.  Ossia quelli su cui si basa in parte il successo del kirchnerismo e della seconda economia più grande del Sudamerica. Tecnicamente la censura e l’eventuale espulsione non infliggerebbero dei danni diretti, considerando che da sette anni l’Argentina non chiede alcun prestito basando la propria crescita esclusivamente sulle proprie risorse interne. Ma è proprio dall’interno che agirebbe quello che può definirsi un vero e proprio embargo finanziario. Messa ai margini del sistema internazionale e date le ripercussioni dirette che si avrebbero sulle relazioni con organismi quali la Banca Mondiale o l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), il rischio sarebbe quello di una implosione indotta dai mercati e un accartocciamento dell’economia su se stessa. Non sarebbe fantapolitica pensare quindi ad una situazione talmente critica che porterebbe ad un inevitabile cambio politico nel paese.

L’incubo nucleare coreano

1

Sappiamo bene che la Corea del Nord è uno dei Paesi meglio sorvegliati e più inespugnabili del pianeta, un paese da cui arrivano solo notizie frammentate, sempre sottoposte alla censura esasperata del regime guidato dal giovane Kim Jong-un. Uno stato spesso alla ribalta delle cronache internazionali per i suoi esperimenti atomici che terrorizzano ogni volta l’area del Pacifico e i suoi milioni di abitanti. Ma come può un Paese cosi isolato politicamente e diplomaticamente dal resto del mondo possedere la tecnologia e la capacità di costruire ordigni nucleari, e minacciare persino gli Stati Uniti?

 

VERSO L’ESCALATION- Il sogno  di un arsenale nucleare nord coreano risale a circa 50 anni fa, all’indomani della conclusione della guerra coreana. Kim Il-sung, “padre” della Corea del nord, era a conoscenza del fatto che il generale McArthur richiese armi nucleari da utilizzare contro il suo paese durante il conflitto. Documenti declassificati ci informano che in tutta risposta Kim chiese ai suoi alleati nella Guerra fredda, in un primo momento l’Unione sovietica, e successivamente la Cina, tecnologie per sviluppare l’ordigno atomico.

Il processo di assemblaggio e sviluppo avrebbe tuttavia richiesto diversi decenni e solo nell’ultima decade si è assistito ad un consistente raggiungimento dello scopo. Dal 2003 si erano intensificati i segnali che il paese si stesse preparando ad un test nucleare, i satelliti americani monitoravano incessantemente una mezza dozzina di siti sospetti,in particolare si erano concentrati sulla regione montuosa di Kilju dove era ben visibile l’entrata di un tunnel nel fianco di una montagna.

Il 9 luglio 2006, il “club” degli stati in possesso della tecnologia nucleare in ambito militare, dava il benvenuto ad un nuovo membro, senza dubbio il più instabile e pericoloso. Sebbene il test fu inaspettatamente fallimentare, probabilmente a causa di qualche difetto tecnico, la condanna internazionale non si fece attendere e nel febbraio 2007 dopo che Washington ripristinò le sanzioni contro le banche che facevano affari con Pyonyang, il regime acconsentì al processo di smantellamento nucleare, e ad una serie di passi che avrebbero portato alla verifica costante dell’ effettiva interruzione del programma atomico nord coreano.

Per complicare ancora di più la questione, non dobbiamo dimenticare che per funzionare la testata nucleare ha bisogno di essere installata su un vettore missilistico a lungo raggio. Proprio lo sviluppo di questo sistema missilistico, sviluppato in parallelo alla costruzione della vera e propria testata, fu uno dei motivi principali dell’interruzione degli accordi del 2007. I tentativi falliti di lancio dei due missili balistici Taepodong-1 e 2 rispettivamente nel 1998 e nel 2006 avevano ottenuto come risultato l’inasprimento di alcune sanzioni economiche e l’approvazione della risoluzione 1718 da parte del Consiglio di Sicurezza ONU il 14 ottobre 2006. Il test del 2009 aveva costretto invece l’ONU ad una sessione d’urgenza e al rimprovero del presidente Obama.

La risposta del regime non si fece attendere: il 25 maggio 2009 il secondo test nucleare avveniva con maggiore successo e alzava drammaticamente la posta in gioco. Il consiglio di sicurezza inaspriva le sanzioni contro la Corea del nord in accordo alla risoluzione  n°1718.

 

Il giovane dittatore Kim Jong-un sembra osservare compiaciuto lo sviluppo del programma nucleare-missilistico nordcoreano
Il giovane dittatore Kim Jong-un sembra osservare compiaciuto lo sviluppo del programma nucleare-missilistico nordcoreano

SPERANZA DISATTESA?- L’insediamento al posto di comando di Kim Jong-un, terzogenito figlio di Kim Jong-Il, stroncato da un infarto nel dicembre 2011, aveva fatto ben sperare l’amministrazione Obama e le cancellerie di Giappone e Corea del sud, senza dubbio i più preoccupati dall’ indecifrabile vicino.

Il giovane Kim già dal gennaio 2012 si era detto disposto a riaprire i negoziati, fermi da tre anni, riguardo alla possibilità di fermare il programma di arricchimento dell’ uranio in cambio di aiuti alimentari alla popolazione. Un accordo fu raggiunto dopo due giorni di colloqui a Pechino, che comprendevano inoltre una moratoria riguardo il lancio di missili a lungo raggio, causa di grosse tensioni militari con i vicini del Sud e il Giappone.

Il lancio del razzo UNHA-3 il 12 dicembre scorso,ad un anno esatto dalla scomparsa di Kim jong-Il, ha sorpreso tutti, non solo per avere infranto l’accordo faticosamente raggiunto solo dieci mesi prima ma anche per essere andato a buon fine. Segnale che i progressi tecnologici di Pyongyang procedono nella giusta direzione, e l’ alleanza  commerciale militare con Iran, Siria e Pakistan volta per l’appunto allo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate, sta dando i suoi frutti.

Lo sdegno internazionale è stato come sempre unanime, ma c’è da registrare un evento di non poco conto, lo smarcamento della Cina, che per la prima volta ha criticato lo storico alleato  nordcoreano. Purtroppo le ulteriori sanzioni verso il regime, già al vaglio del consiglio di sicurezza ONU, non hanno ottenuto altro risultato che l’annuncio da parte della dittatura di un nuovo test atomico, come riportano molte agenzie Sudcoreane. La tensione è molto alta: si potrebbe davvero arrivare ad un definitivo punto di non ritorno?

Il popolo saharawi e il grido di Taghla

Taghla, studentessa di 26 anni, è un fiume in piena quando racconta la situazione del popolo saharawi. L’esilio della sua famiglia, la situazione dei campi profughi, il disinteresse internazionale e lo stallo della situazione attuale configurano un problema che da troppo tempo è sottovalutato dagli attori internazionali. Il Sahara occidentale, oltre che essere ancora un caso irrisolto di decolonizzazione, coinvolge numerose problematiche relative alla tutela dei diritti umani e all’autodeterminazione dei popoli.

 

IL PROBLEMA – Il Sahara Occidentale è una regione dell’Africa nord-occidentale confinante con Marocco, Mauritania e Algeria. Ex colonia spagnola, con un accordo con Marocco e Mauritania del 1975, il governo di Madrid cedette il controllo del Sahara Occidentale ai due stati africani. Quando l’esercito marocchino occupò la zona molti abitanti dovettero fuggire nel vicino deserto algerino dove costituirono i primi campi profughi. Dagli anni ‘60 nacquero numerosi movimenti di liberazione ed il più importante, il Fronte Polisario, pretendeva l’autodeterminazione del popolo saharawi e la creazione di uno stato indipendente. Nel 1976 il Fronte, oltre a reagire militarmente all’occupazione, proclamò la Repubblica Araba Saharawi Democratica, stato che attualmente è riconosciuto solo dall’Unione Africana mentre l’ONU lo definisce ancora come stato non autonomo. Mentre la Mauritania si ritirò dal territorio nel 1979, riconoscendo la RASD, l’occupazione marocchina si intensificò e il governo diede inizio alla costruzione di un muro che divideva la zona in due parti: la fascia più estesa controllata dalla forze marocchine e l’altra sotto il controllo del fronte Polisario. Nel 1991 Marocco e RASD si accordarono per il cessate il fuoco e il Consiglio di sicurezza dell’ONU istituì la missione MINURSO (Misión de las Naciones Unidas para el referéndum del Sáhara Occidental), con il compito di sorvegliare il rispetto del cessate il fuoco, di facilitare il rientro dei profughi e di supervisionare un referendum di autodeterminazione, previsto per il 1992. Da allora le ostilità non sono cessate e il referendum è stato continuamente rinviato.

Mappa del Sahara Occidentale

 

L’INCONTRO – Taghla studia relazioni internazionali all’Università degli studi di Milano e dal 1996 vive in Italia. Anche se il suo accento toscano tradisce la sua origine, Taghla viene dal Sahara occidentale e precisamente dal campo profughi di Tindouf, nel deserto algerino, dove, ci tiene a sottolineare, “il mio popolo è in esilio da quasi 40 anni!”. “Sono arrivata con un’associazione di Livorno che ogni anno ospita, durante i mesi estivi, i piccoli ambasciatori per la pace. In Italia infatti esistono molte associazioni amiche del popolo saharawi; questo è un modo per far conoscere la nostra causa e per fuggire al caldo del deserto che spesso supera i 50 gradi all’ombra”.  “Per problemi sanitari, sono rimasta ospite di una famiglia che mi accoglie ancora oggi come se fossi loro figlia dandomi anche la possibilità di studiare e frequentare le scuole. Nel 2011 mi sono laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a Pisa e oggi frequento il secondo anno del corso magistrale a Milano”.

Taghla ci spiega quanto sia stata fortunata ma anche come la nostalgia della sua terra si faccia spesso sentire: ”Ho lasciato la mia terra all’età di 10 anni, non è stato facile lasciare la famiglia e vivere in un paese così diverso dal mio; inizialmente era come vivere in un sogno perché vivi in una vera casa e non in una tenda, hai l’acqua corrente, tanti giocattoli e cibo in abbondanza  ma vivi comunque con la nostalgia dei tuoi cari, della tua terra e della tua cultura e ben presto capisci anche che è il prezzo da pagare per poter avere un futuro, per studiare e per cercare in qualche modo di aiutare la tua gente”.  Continua spiegandoci come spesso anche la burocrazia italiana non è d’aiuto: “ovviamente non ho perso i contatti con la mia terra ma, documenti permettendo (infatti sono 17 anni che annualmente devo rinnovare il permesso di soggiorno, inoltre è da 3 anni che ho fatto domanda per la cittadinanza), ogni anno riesco a tornare nella mia terra dove mi aspettano i miei genitori e i miei 10 fratelli”.

 

TAGHLA E LA SITUAZIONE DEL SUO POPOLO – Taghla è molto consapevole dei problemi e delle dinamiche che coinvolgono il Sahara Occidentale. Il primo elemento, e forse il più urgente, è la questione umanitaria.

Oggi i saharawi sono divisi da un muro costruito dal Marocco negli anni ’80 in cui sono stanziati più di 135.000 soldati marocchini. Da una parte vi sono le zone occupate dal Marocco, e dall’altra i campi profughi situati nel deserto algerino dove sopravvivono circa 200.000 persone…

…sottolineo sopravvivono, perché riescono ad andare avanti solo grazie agli aiuti umanitari che ultimamente, anche a causa della crisi, sono diminuiti”. “La situazione è complicata anche nei territori occupati, dove noi saharawi siamo perseguitati, non ci è permesso manifestare pacificamente e siamo discriminati rispetto ai cittadini marocchini”.  Il secondo elemento, che anche grazie ai suoi studi Taghla conosce bene è la questione di diritto internazionale che coinvolge il Sahara Occidentale. Infatti la situazione può essere inquadrata come uno dei residui casi di colonialismo ancora esistenti nel panorama mondiale. “Il popolo saharawi, specialmente dopo il cessate il fuoco del 1991, si è affidato alle Nazioni Unite affinchè si trovasse un accordo per poter esercitare il nostro sacrosanto diritto all’autodeterminazione! Non vogliamo subire più questa colonizzazione del tutto illegale, con tutte le conseguenze che porta con sé. Ma come al solito gli interessi economici e politico-strategici prevalgono sui diritti dei popoli. Abbiamo anche la “sfortuna” di avere una costa pescosissima (e l’Europa lo sa bene) e un territorio ricco di fosfati, petrolio, ferro. Tutto ciò è una situazione tipica di colonialismo”.

 

Manifestazione contro il muro
Manifestazione contro il muro

IL CASO DI GDEIM IZIK – Di pochi giorni fa è la notizia della conclusione di un processo che per molti operatori internazionali, tra cui Amnesty International, è stato caratterizzato da gravi irregolarità da parte delle autorità marocchine nei confronti di attivisti saharawi. Taghla, informatissima, ci spiega come “la manifestazione dell’8 Novembre del 2010 a Gdeim Izik, abbia anticipato le manifestazioni che poi avrebbero dato il via alla primavera araba. In quel campo, allestito per rappresentare la protesta saharawi, si sono riunite spontaneamente circa 5000 persone per chiedere pari dignità e pari diritti civili. Il Marocco è intervenuto militarmente sgomberando il campo e causando la morte di diversi cittadini saharawi. Sono seguite numerosi arresti di attivisti saharawi costretti ad una carcerazione preventiva in attesa del processo che si è concluso pochi giorni fa. Un processo vergognoso e inaccettabile anche perché sotto gli occhi della comunità internazionale”.” Il processo è durato pochi giorni“ continua Taghla alzando i toni del discorso “è iniziato l’8 febbraio 2013 e si è concluso solo il 17 febbraio. Nove ergastoli e 14 condanne tra i 20 e i 30 anni, senza certezza di prove e con interrogatori sotto tortura! La cosa più vergognosa è che gli imputati siano stati giudicati da un tribunale militare”.

 

IL SAHARA OCCIDENTALE OGGI E L’ATTENZIONE DEL MONDO – Il racconto di Taghla continua esaminando come la situazione odierna segni una situazione di stallo e come il suo popolo, dal cessate il fuoco del 1991, abbia sempre rispettato i termini degli accordi internazionali. “Noi abbiamo sempre privilegiato il dialogo e la lotta pacifica, rivendicando il nostro diritto all’autodeterminazione, abbiamo sempre rispettato le varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (a differenza del Marocco) nella speranza di poter tornare nella nostra terra” poi continua evidenziando la posizione di alcuni stati e attori internazionali “la Francia si è apertamente opposta alla creazione di uno stato indipendente saharawi perché sarebbe un fattore destabilizzante per il Regno marocchino e potrebbe compromettere i suoi interessi.

Dall’altra parte ci sono gli Stati Uniti, da sempre favorevoli al principio di autodeterminazione dei popoli ma che nel nostro caso sembrano aver messo da parte questo principio. La presenza dell’operazione MINURSO dell’ONU appare inutile dato che anche se è presente nei territori occupati non ha un mandato per il rispetto dei diritti umani.” Il paradosso è infatti questo: da una parte nessuno riconosce la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale, ma dall’altra parte non si agisce per cambiare questa situazione di congelamento. Taghla conclude sottolineando come “la situazione sia molto complessa, e per trovare una soluzione ci debba essere la volontà da parte della comunità internazionale di risolvere quest’ultimo caso di colonizzazione. Noi saharawi siamo stanchi di aspettare questo referendum, stanchi di aspettare che qualcuno decida per noi.

Sembra che le uniche soluzioni siano o il dialogo, che però non ha portato a nessun risultato, o le armi. Quest’ultima soluzione sta prendendo piede soprattutto tra i giovani delle nuove generazioni che hanno viaggiato e studiato all’estero e capiscono che bisogna fare qualcosa per uscire da questa situazione di impasse

Il grido di Taghla, come quello di molti altri giovani saharawi, si leva forte sia grazie all’associazionismo sia grazie alla potenza mediatica del web. Ciò dimostra come le giovani generazioni  siano coscienti e pronti all’azione per difendere il proprio popolo ed è proprio per questo che la comunità internazionale non può più trascurarne la portata.

 

Le grandi ambizioni del piccolo Qatar

L’aumento dell’autorevolezza internazionale di questo piccolo Emirato, alleato dell’Occidente e mediatore tra e con il mondo arabo, gioca sul filo di un equilibrio sospeso tra gli interessi del grande alleato americano e una strategia ben più ambiziosa.

La NATO che verrà

All’inizio di Febbraio il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen ha approfittato della Munich Security Conference per delineare il futuro della NATO, in particolare dopo il ritiro dall’Afghanistan previsto nel 2014.  L’intervento del Segretario Generale non ha aggiunto molte novità, ma ha fatto il punto sullo stato della NATO e i suoi obiettivi programmatici, già emersi in embrione ai summit di Lisbona e Chicago.

 

TORNA A CASA, NATO! – Un pò come nell’avventuroso viaggio del simpatico Lassie, le truppe NATO torneranno presto dall’Afghanistan. E’ stato proprio un lungo percorso, oltre dieci anni fuori area danno ai decision makers abbondante materiale per trarre preziose lessons learned e tracciare un bilancio complessivo, ancora incerto. In effetti il sentiero è stato tortuoso, soprattutto quando, nel corso del 2012, si è dovuto fare a meno delle strade Pakistane. Dopo l’incidente di Salala, in cui un drone statunitense ha erroneamente bombardato dei soldati pakistani, uccidendone 24, Islamabad ha chiuso le cosiddette GLOC (Ground Lines Of Communications). L’incremento del trasporto per via aerea e i percorsi alternativi si sono rivelati opzioni troppo costose. La crisi si è trascinata fino al Summit di Chicago, in giugno, che per questo ed altri motivi è apparso sottotono e poco incisivo. Ad accordo raggiunto, il Pakistan ha chiesto un aumento del pedaggio per riaprire le proprie strade ai convogli, giocando sul fatto che essi rappresentano il principale filone di approviggionamento delle forze terrestri. Ma, nonostante tutto, l’Afghanistan è stato messo in sicurezza e il passaggio di consegne con le forze armate afghane può finalmente avvenire. E’ proprio questo che Rasmussen vuole sottolineare, evidenziando come portare a termine una missione così lunga e complessa abbia sicuramente ricadute benefiche in termini di interoperabiltà, senso di appartenenza all’istituzione e obiettivi comuni.

 

UN’ALLEANZA “INTELLIGENTE” – Nello scacchiere europeo, il concetto sul quale si è voluto porre l’accento ancora una volta è la cosiddetta “smart defence”, concepita per eliminare sprechi e duplicazioni nella catena di comando ed evitare sovrapposizioni di ruoli sulle attività core. La scelta è stata quasi obbligata dalla sensibile diminuzione delle risorse finanziarie, in seguito ai pesanti tagli che i Paesi membri hanno operato sul comparto difesa. Punti cardine della dottrina sono il pooling degli assetti strategici e la specializzazione in quelli tattici. La riduzione degli strumenti militari comporta l’impossibilità, da parte del singolo membro, di coprire l’intera gamma di missioni e capacità che le forze armate dovrebbero esprimere. Di conseguenza, i Paesi NATO metteranno insieme le (poche) risorse disponibili per gestire in pool quelle capacità che sono sentite come comuni e irrinunciabili, ad esempio il trasporto strategico o gli assetti ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaissance). L’idea è quella di ricalcare il successo della flotta AWACS, i radar volanti gestiti centralmente da Bruxelles e con a bordo equipaggi multinazionali, che da anni garantiscono la sorveglianza sui cieli europei. I primi embrioni del nuovo corso riguardano il già citato trasporto strategico, con i programmi SALIC (Strategic AirLift Interim Solution) e SAC (Strategic Air Capability). La specializzazione, invece, richiederà una scelta di campo da parte di ciascuno Stato membro. Ogni membro si concentrerà su poche missioni, che dovrà svolgere per conto dell’intera Alleanza, e che verranno decise di comune accordo con gli altri membri. Il budget assegnato alla difesa verrà speso in larga parte per espletare i compiti assegnati. Infatti i criteri da rispettare sono credibilità ed efficienza, in quanto la NATO deve continuare a garantire la piena operatività delle proprie forze e la massima efficacia. A titolo di esempio, l’Italia garantisce da qualche anno la difesa dello spazio aereo sloveno. La Slovenia indirizzerà quindi i fondi verso altre missioni più adeguate al proprio budget.

 

Missili Patriot al comando della NATO rischierati in Turchia. Fonte: NATO, sito ufficiale.
Missili Patriot al comando della NATO rischierati in Turchia. Fonte: NATO, sito ufficiale.

CYBER WARFARE E DIFESA MISSILISTICA – Questi sono i due campi in cui l’Alleanza non ammette repliche. I recenti attacchi ad infrastrutture e centri di comunicazione attraverso il cosiddetto “cyber space” hanno delineato un nuovo campo di battaglia in cui perfino l’intramontabile Sun Tzu sembra invecchiare. Nuove regole, nuovi colpi, dottrine ancora da scrivere. Una sfida che suona quasi entusiasmante, ma che va presa molto sul serio, soprattutto da quando anche il terrorismo internazionale ha manifestato interesse in materia. Alcuni analisti parlano addirittura di possibili cambi ideologici e gerarchici all’interno di Al-Qaeda che, ammesse le pesanti sconfitte degli ultimi anni, potrebbe cambiare il terreno di scontro e tentare di sorprendere i Paesi NATO a guardia bassa. Anche lo scudo missilistico si farà, a quanto pare, per contrastare la diffusione di missili balistici in Paesi considerati inaffidabili, Iran in testa. I Russi continuano ad osteggiare il progetto e l’Europa fatica a reperire le risorse. Tuttavia i fatti sembrano confermare la forte volontà di portare a termine il disegno di una difesa missilistica integrata e credibile. I missili Patriot rischierati in Turchia sembrano il preludio di una maggiore attenzione che l’Alleanza presterà al “ventre molle” della NATO (il Mediterraneo – nda). Di vitale importanza saranno gli sforzi per garantire la piena interoperabilità degli assetti antimissile europei e quelli statunitensi, con un’attenzione speciale alle unità navali, considerate più mobili e più versatili per schermare l’Europa da minacce provenienti da sud oppure per proteggere uno schieramento di forze fuori area.

 

MEDICINA PALLIATIVA – Un dato certo: la NATO è ancora una grande alleanza, in grado di portare a termine missioni complesse su scala globale, dispiegando uno strumento militare di capacità ed efficacia impressionante. Ma per quanto ancora? Negli ultimi anni, la scarsità di risorse finanziarie e i crescenti problemi di indirizzo politico cominciano a far sentire il proprio peso. Qualche tempo fa l’ex segretario della difesa statunitense, Robert Gates, tuonava da Bruxelles spronando l’Europa a cambiare atteggiamento in materia di difesa, lamentando al contempo inefficienze economiche e politiche. Secondo Gates l’Europa non si è ancora affrancata dal vecchio modello di difesa basata sul territorio e l’ormai improbabile minaccia Russa. Le forze Europee, quindi, sebbene numerose, sono poco flessibili. Come se non bastasse, le spese per la difesa sono diminuite troppo per il ruolo che l’Europa vorrebbe ricoprire (o le si vuole far ricoprire? Ai posteri…). Soltanto due le possibili soluzioni: rivedere gli obiettivi politici o incrementare i bilanci. A proposito di obiettivi politici, lo spostamento strategico degli Stati Uniti verso l’Asia allarga a dismisura le aree in cui la NATO potrebbe trovarsi ad operare. Nei desiderata statunitensi l’Europa dovrebbe rendersi indipendente in materia di difesa comune per svincolare forze e risorse americane da trasferire ad est. Ciò potrebbe significare un’esasperazione del concetto di “expeditionary role” che i membri europei potrebbero non condividere. In questa prospettiva, il concetto di smart defence non aiuta realmente la NATO ma ne prolunga artificialmente la vita nella forma in cui la conosciamo, fungendo da medicina palliativa.

Corea del Nord, due passi a Pyongyang

0

Google Maps ha finalmente alzato il sipario sul Paese più misterioso al mondo, ma una visita in Corea del Nord rimane un viaggio surreale su Marte. O come un giro sulle montagne russe. Il paese vive in un isolamento quasi totale dall’armistizio del 1953, con una popolazione ridotta alla miseria dalle carestie e dall’imperizia di governi che hanno accumulato macroscopici errori economici. Per la dinastia familiare dei Kim, ora alla terza generazione, l’unica opzione sembra quella di vedere nemici e imperialisti dappertutto. La propaganda incessante inneggia alle glorie delle forze armate e alle imprese missilistiche e nucleari degli ultimi anni, per le quali Pyongyang si è vista imporre sanzioni economiche e una condanna unanime, compresa la Cina, unica potenza amica, ma sempre più perplessa sulla condotta del vicino nordcoreano.

 

COMUNICAZIONI INTERROTTE – La Corea del Nord è l’unico Paese al mondo senza Internet. Gli unici che ne usufruiscono sono (tranne per i pochi stranieri e i diplomatici residenti, che ricorrono a telefoni satellitari). I cellulari ci sono ma non possono comunicare con l’estero. Questa sensazione di isolamento, non sempre sgradevole, non si prova più neanche a 5.000 metri nelle sperdute montagne del Tibet.

Il traffico è inesistente, anche se negli ultimi anni è aumentato il numero delle vetture ufficiali che sfrecciano sulle strade a dieci corsie nella capitale. A Pyongyang si moltiplicano i Luna Park dove, nel freddo siberiano, si riversano frotte di cittadini estasiati per un giro sulle montagne russe. Giovani soldati con le loro fidanzatine fanno diligentemente la fila per provare una nuova emozione.

Le onnipresenti guide ti spiegano che è stato il nuovo giovane leader, Kim Jong-Un, a sovrintendere ai lavori di costruzione dei Luna Park. I parchi, spiegano, sono stati realizzati per il bene del popolo, che deve distrarsi dopo il duro lavoro.

 

Una rara immagine di strada
Una rara immagine di strada a Pyongyang

LA COLLINA DELLE DIECIMILA VISTE – La cosa in effetti risulta un po’ difficile in una città come Pyongyang dove, dopo le 20:00, non esiste un ristorante aperto. Ma un posto dove mangiare si trova sempre: tranne è il caso della nuova incredibile pizzeria all’italiana, dove  la gentile proprietaria ti accoglie i clienti cantando dal vivo “Santa Lucia” e “O’ Sole mio”.

Il culto della personalità è arrivato al punto da nominare il defunto dittatore e padre della Corea del Nord, il “Grande Leader” Kim il Sung, Ppresidente Perenne. Nemmeno Stalin e Mao erano arrivati a tanto, dopo la morte. Le enormi statue in bronzo di Kim il Sung e di suo figlio Kim Jong-il sono istallate su un’immensa piazza, ma avvicinarsi comporta l’inchino e la deposizione di fiori.

Alle spalle delle statue, nel Museo della Rivoluzione, si può ammirare sotto teca la treccia di capelli della “Madre della Corea”, cioè la madre di Kim Il Sung, Kang Pan-sŏk. Se si vuole approfondire la materia, basta recarsi sulla collina Mangyongdae (in coreano, “Delle diecimila viste”) dove è stato trasportato il villaggio natale del “Grande Leader”. Poco distante c’è anche il villaggio natale della suddetta “Madre della Corea”. Per non parlare del mausoleo dei due dittatori, padre e figlio, che fa impallidire quelli dei dittatori sovietici e cinesi in quanto a grandezza e magnificenza.

 

Il mercato centrale di Pyongyang.
Il mercato centrale di Pyongyang

DUE PASSI IN CENTRO – Se mai avrete la possibilità di fare due passi da soli, i passeggeri degli scalcagnati bus pubblici che vengono dalla provincia e si fermano alla Stazione Centrale, sono persone reali, in carne ed ossa. La loro povertà e la sofferenza del vivere sono stampate sui loro volti e assomiglia a quella delle centinaia di milioni di poveri dell’Asia e dell’Africa. Al Mercato Centrale Ortofrutticolo la gente guarda lo straniero con una diffidenza ostile, frutto della propaganda che insegna ai coreani la paura verso gli “imperialisti occidentali”. Tentare un approccio amichevole è quasi impossibile.

Anche nelle campagne, negli ordinati villaggi dove è possibile fermarsi, la vita reale emerge prepotente e senza veli. I mocciosi di campagna sono scugnizzi allegri e diffidenti con gli stranieri come in ogni parte del mondo.

La notte è buia anche a Pyongyang, l’energia è poca e razionata. Così non resta che la televisione di stato, che trasmette per ore marce militari e storie immancabili sulla vita del “Grande Leader”.

A notte fonda una strana marcia New Age si spande dagli altoparlanti onnipresenti. Dovrebbe rassicurare, ma il suo ritmo ipnotico, invece, inquieta. Dalle finestre dell’albergo per stranieri, l’unica luce in mezzo ai casermoni bui è quella che illumina a giorno un’immagine gigante del leader.

 

 

E’ il momento dell’Abenomics

Da dicembre il Giappone ha un nuovo Governo: le elezioni hanno infatti riportato al potere il Partito Liberaldemocratico, storico protagonista della politica del Sol Levante, dopo una parentesi non troppo felice del Partito Democratico. Il premier Shinzo Abe non ha perso tempo e ha già intrapreso misure radicali per cercare di rilanciare l’economia, tanto che il nuovo corso impresso al Paese ha preso il nome di “Abenomics”. Vediamo, con cinque domande e cinque risposte, in cosa consiste tutto ciò

 

Chi è Shinzo Abe?

Il nuovo Primo Ministro dell’Impero giapponese non è alla sua prima esperienza di Governo, bensì alla seconda. Tuttavia, il precedente tentativo alla guida dell’arcipelago asiatico non fu dei più felici e durò solamente un anno, dal 2006 al 2007. In questa occasione tuttavia Abe si presenta con un solido successo elettorale alle spalle. Il Partito Liberal Democratico, conservatore e sempre al potere in Giappone da quando è diventato una democrazie, ha perso le elezioni infatti solo una volta, nel 2009, quando il Partito Democratico ha avuto la prima (e finora ultima) possibilità di governare.

 

Qual è l’attuale situazione economica del Giappone?

Dopo aver compiuto un percorso di crescita e di sviluppo che probabilmente non ha precedenti nella storia recente dalla fine della II Guerra Mondiale all’inizio degli anni ’90, il Sol Levante è entrato in un periodo di stagnazione che dura da circa un ventennio. Bassa crescita e un aumento anche negativo dei prezzi (la cosiddetta “deflazione”) hanno impedito al Giappone di mantenere il dinamismo del proprio sistema economico, sfidato dall’emergente vicino cinese.

 

In cosa consiste la “Abenomics”?

Dalla fine di dicembre ad oggi, quindi in soli due mesi, lo yen giapponese si è deprezzato del 14% rispetto al dollaro statunitense. Come si spiega questa svalutazione “verticale”? Abbastanza facilmente: il governo di Abe ha infatti adottato immediatamente una politica monetaria espansiva del tipo “quantitative easing”, che consiste nell’acquisto illimitato di titoli finanziari da parte della Banca Centrale al fine di immettere denaro liquido nel sistema economico. La svalutazione dello yen è stata accompagnata ad un aumento della spesa pubblica e allo stabilimento di un livello di inflazione “target” pari al 2% annuo. Tali politiche saranno in grado di ridare slancio all’economia giapponese? Probabilmente uno yen meno “caro” potrebbe sostenere l’export giapponese. Dall’altro lato, il rischio che i tassi di interesse sui titoli nipponici si alzi non va trascurato: non va dimenticato che il debito pubblico giapponese è di gran lunga il più grande al mondo, stabile e stazionario ma con un livello ben oltre il 200% del PIL. Abe si sta dunque muovendo su un crinale che deve invitare alla prudenza.

 

Shinzo Abe
Il nuovo premier giapponese, Shinzo Abe

Quali i rapporti con i principali partner economici?

La svalutazione dello yen ha portato gli analisti economici a parlare di una nuova currency war, una guerra tra le valute dei diversi Paesi. In che cosa consisterebbe? Dato che la svalutazione è l’arma più semplice da utilizzare per ripristinare la competitività dei propri prodotti, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna potrebbero adottare strategie simili (mentre per la zona Euro sarebbe più complicato operare una svalutazione). Il risultato sarebbe uno stallo negli importantissimi negoziati commerciali che stanno per cominciare tra Unione Europea e Giappone in vista dell’istituzione di un’area di libero scambio. Nonostante queste preoccupazioni, tuttavia, il recente incontro dei Ministri delle Finanze del G20 (in preparazione del vertice che si svolgerà a Mosca tra qualche mese) non ha prodotto un ammonimento alla politica monetaria giapponese. Una riduzione dell’austerità per stimolare la crescita è evidentemente stata giudicata una situazione accettabile per il momento, anche in ragione della bassa interdipendenza finanziaria del Giappone con il resto del mondo.

 

Che prospettive ci sono per l’economia giapponese e i rapporti con il resto del mondo?

E’ difficile che il Giappone possa ricominciare a crescere con uno slancio simile alla Cina, e probabilmente Tokyo si dovrà rassegnare davanti al fatto che non è più il leader incontrastato dell’Asia. Il Dragone cinese ha sopravanzato il Giappone nelle principali classifiche economiche e per demografia, risorse e potenziale ancora inespresso, è destinato ad oscurare la leadership nipponica negli anni a venire. E’ importante dunque per il Governo di Abe mantenere uno stretto dialogo con i principali partner, UE e Stati Uniti su tutti: politiche monetarie coordinate potranno infatti aiutare a diminuire la percezione del Giappone come “free rider” e a ridurre i rischi sistemici legati ad un improvviso aumento dei tassi di interesse giapponesi. Il G20 che quest’anno si svolgerà in Russia dovrà mettere al primo posto le questioni dei tassi di cambio e del commercio internazionale come fondamentali per rilanciare l’economia globale.

In Cambogia influenzare l’opinione pubblica è reato

0

La storia di Mam Sonando, 71 anni, condannato a vent’anni di prigione in ottobre per «secessione». Per assistere in diretta al processo del proprietario di una delle più importanti radio dell’opposizione

Cile, il business delle università

In Cile da tre decenni si osserva un processo di progressiva privatizzazione del sistema universitario. Uno scandalo recente ha però colpito una riconosciuta istituzione, la Universidad del Mar con sedi in tutto il paese, ed ha messo a nudo le debolezze del sistema nel quale le università lucrano a discapito degli studenti. Un fenomeno diffuso in tutta l’America Latina.

 

DIRITTO O LIBERTA’? – I sistemi educativi si dividono in quelli dove l’educazione pubblica è maggioritaria e quelli dove l’educazione è gestita, in prevalenza, da organizzazioni private. Il primo sistema si fonda sul principio del diritto all’educazione. Nel secondo prevale il concetto della libertà d’insegnamento. Ovvero della facoltà per le famiglie di poter scegliere il tipo d’educazione che preferiscono per i loro figli. Fin qua tutto bene, salvo che, in sistemi poco regolati, la libertà di gestire privatamente le strutture educative non derivi nello sfruttamento, a fini commerciali, dell’educazione. È quello che sta succedendo in Cile da diversi anni ma che è uscito alla luce recentemente in seguito alle accuse rivolte ad una nota università, la Universidad del Mar, di trarre benefici economici dalla funzione educativa, un’azione proibita dalla legge. L’Università è accusata di filtrare oltre il 90% degli introiti ricevuti in termini di tasse d’iscrizione degli studenti a profitto dei proprietari dell’istituzione, mentre nessun fondo sarebbe stato destinato alla ricerca, un asse fondamentale dell’ateneo, oltre che alla gestione. Come risultato, l’Universidad del Mar si trovava in un costante deficit finanziario che arricchiva i suoi proprietari ma che colpiva la qualità degli insegnamenti attraverso contratti precari per i professori e una gestione dello stabilimento ridotta al minimo, o ancora l’assenza di infrastrutture.

 

COSA ACCADE IN CILE – I fatti dell’Universidad del Mar, che adesso conta 12.500 studenti in attesa di essere relocalizzati in altri atenei in seguito all’ordine di chiusura decretato dal governo, hanno motivato la formazione di una Commissione d’Inchiesta nel Parlamento sull’intero sistema d’educazione superiore che ha rivelato quello che era già ben saputo. Ossia che il “fine di lucro” era diffuso nel sistema universitario. Altre sei università sono state incluse nello stesso studio. Inoltre il governo è coinvolto nella vicenda visto che la stessa Commisione Nazionale per l’Accreditazione (CNA), l’organo statale incaricato d’assegnare i permessi di funzionamento alle università, si è trovata implicata in uno scandalo di corruzione secondo il quale il suo direttore riceveva ingenti somme di denaro (100 milioni di pesos cileni, 200,000 US$ nel 2011) dalle università private in cambio delle certificazioni che consentivano agli atenei di funzionare e, fra l’altro, di accedere al sistema di credito con garanzia statale, il meccanismo attraverso il quale più della metà dei giovani cileni si indebita (con l’università, ma lo stato funziona da garante) per poter studiare.

Il rapporto della Commissione rivela che il meccanismo che favoriva il lucro degli atenei era costituito da vari strumenti. In primis, le Università sono proprietarie degli immobili attraverso società immobiliari alle quali “affittano” le infrastrutture. Siccome i canoni non sono regolati, sono le stesse università a definire il costo dell’affitto. Più alto l’affitto, maggiori i benefici che escono “legalmente” dalle casse dell’amministrazione universitaria. Inoltre si è constatato che le università ricorrono alla esternalizzazione dei servizi, spesso con società “specchio” di proprietà della stessa università. Tutto ciò si svolge mentre le università sono esenti dal pagamento delle imposte. Inoltre le tasse universitarie non sono regolate a discapito dell’esistenza di quote referenziali provviste dal Ministerio dell’Educazione. È così come la laurea in odontoiatria in una università privata costa 10,000 dollari all’anno, ossia il 58% più caro del valore di referenza fissato dal governo, con il mercato come unico metro per definire l’equilibrio tra offerta e domanda. Su questo punto, la Commissione d’Inchiesta del Parlamento ha sottolineato inoltre come le università investano costantemente in pubblicità per attirare il maggior numero di studenti “consumatori”. Nel 2009 le spese di marketing hanno toccato la cifra dei 60 milioni di US$ ma allo stesso tempo il settore universitario è anche quello maggiormente soggetto a reclami, circa 3000 nel 2009 secondo il SERNAC, il servizio dei consumatori cileno, principalmente per mancato rispetto dei contratti, pubblicità ingannevole, non rispetto dei programmi di studio o richieste di pagamenti ed aumenti ingiustificati. Si deduce come, in questo modo, il diritto alla libertà d’insegnamento stia logorando il diritto all’educazione.

 

UN MERCATO REDDITIZIO – Secondo il Servicio de Información de la Educación (SIES), una entità del Ministero dell’Educazione, nel 2009  58 delle 62 università cilene hanno presentato utili per 200 milioni di dollari. Il sistema muove 40 miliardi di dollari all’anno, cifre che lo posizionano come il settore più redditizio per “fare affari” in Cile e come il più proficuo in America Latina.

Un vero e proprio mercato dell’educazione i cui “clienti” sono in prevalenza i giovani dei settori medio bassi della popolazione, e rappresentano spesso la prima generazione delle loro famiglie ad accedere a studi universitari. Il sistema di accesso all’università precludeva infatti fino a pochi anni fa l’accesso agli studenti delle scuole secondarie pubbliche. Sono infatti pochi gli studenti dei ceti più bassi a superare la PSU, la prova d’attitudine universitaria, per la quale è spesso necessario passare per corsi di preparazione privati e a pagamento, inaccessibili per i meno abbienti, ed ancora meno quelli che riescono ad ottenere i punteggi necessari per ambire ad una borsa di studio. Solo un giovane su dieci può contare su aiuti finanziari da parte dello Stato e meno della metà di quelli che vi accedono è originario degli strati più poveri. Oggi qualcosa sta cambiando anche se però solo in termini di accesso, nel senso che esiste sempre più offerta educativa e superare la temuta PSU non è più l’unico requisito per studiare, riconosce il Ministro dell’Educazione del governo conservatore di Sebastián Piñera. Ciononostante, bisogna segnalare che il costo dell’educazione  cilena è il più elevato al mondo. D’accordo con dati forniti dalla Banca Mondiale e dall’OCDE, le tasse universitarie in Cile rappresentano quasi la metà del PIL medio pro capite, mentre questo percentuale scende al 40% se si considerano le università tradizionali, quelle alle quali comunque, statisticamente, i ceti più bassi hanno meno accesso.

L’importanza del settore ha fatto sì che i più grandi conglomerati mondiali abbiano messo gli occhi sul Cile, a confermare che si tratta di un settore altamente lucrativo. Nel 2009, Juan Hurtado e Linzor Capital hanno pagato US$ 70 millones per il 60% dell’ Universidad Santo  Tomás. Il gruppo statunitense Apollo ha investito US$  40 millones per la  Uniacc nel 2008 ed il consorzio Laureate ha speso circa US$ 250 milioni per l’acquisizione dell’Università Andrés Bello (2003), Las Américas (2006) e Viña del Mar (2009).

 

Il Presidente del Cile, Sebastián Piñera

DA PINOCHET IN POI – L’origine del nuovo sistema risale al periodo della dittatura militare di Augusto Pinochet che ha dissolto il sistema pubblico d’istruzione, preferendogli l’accesso ai privati senza però prevedere la regolazione o la trasparenza necessaria. Lo Stato provvede attualmente solo al 15% del budget dell’unica università pubblica del paese, l’Universidad de Chile, obbligando l’ateneo a sobbarcare gran parte dei costi sulle famiglie per coprire il restante 85% del bilancio. In questo modo, le strutture pubbliche sono obbligate a competere sul mercato come se fossero private, ma dovendo far fronte ad una rigidità amministrativa superiore. Uno scenario simile colpisce il sistema al livello secondario, dove una recente legge varata dal governo consente alle famiglie di ottenere il rimborso dallo Stato delle spese scolastiche, per cui molti genitori si orientano verso le scuole private. In entrambi i casi le istituzioni private escono favorite da un quadro normativo che, nel corso degli ultimi anni, ha sempre più indebolito il sistema d’insegnamento pubblico in Cile. Un vero e proprio “dumping educativo” quello che si assiste in Cile.

 

NON SOLO CILE… – La privatizzazione dell’educazione superiore è, comunque, un sistema diffuso in tutta America Latina proprio per i suoi margini di profitto. In Colombia, delle dieci personalità più ricche del paese, quattro sono proprietari di università mentre in Perù i proprietari di università rifiutano di retrocedere sul beneficio che esentava questi stabilimenti dal pagamento di imposte, una normativa originariamente introdotta per aumentare l’accesso della popolazione agli studi superiori. In Ecuador, nel 2012,  ha creato scalpore l’azione del presidente Rafael Correa di chiudere 14 università che, secondo il mandatario, non riempivano i requisiti di qualità. Tra il 1992 ed il 2006 sono state create 30 nuove università in questo paese in concomitanza col lancio del processo di liberalizzazione del settore, una cifra considerata eccessiva. L’Ecuador conta attualmente con 71 istituzioni d’educazione superiore. In confronto, la Francia con 65 milioni di abitanti – 5 volte l’Ecuador – possiede 80 università mentre il Belgio, con 11 milioni, ne possiede appena 9.