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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Tra Rangzen e Rangwang

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Ovvero, indipendenza e libertà. Focus sul Tibet: può sembrare paradossale che nell’era digitale in cui i tweets viaggiano alla velocità della luce in giro per il mondo e alla guerra in campo si accompagna la cyber guerra (ultimo caso quello della Siria) ben 99 giovani, per la maggior parte adolescenti, decidano di darsi fuoco “per i sei milioni di Tibetani privi della libertà e per il ritorno in Tibet del Dalai Lama”. E’ chiaro che i Tibetani, nonostante la profonda democratizzazione delle forme di protesta avvenuta nei secoli, vedono ancora nelle auto-immolazioni l’unica via per esprimere la propria indignazione. Perché?

I video di lancio del nuovo sito, su YouTube

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Sul nostro canale Youtube potete visualizzare la nostra serie di video promo per il lancio del nuovo sito! Buona visione.

Cosa vuol dire diplomazia digitale?

I twitter in tempo reale dell’ambasciatore Claudio Bisogniero ai suoi follower americani, le foto su Flickr del reading di poesie in ambasciata, i video Youtube dell’anno della cultura italiana negli Usa, l’Italia spiegata ai bambini americani, gli indirizzi Facebook dei consolati: tutto questo in una sola schermata. Da fine ottobre 2012 tutti possono accedere alla nuova piattaforma social media dell’Ambasciata italiana a Washington, prima tappa della nuova strategia digitale della Farnesina.

 

CONTINUITÀ DIGITALE – Il volto sorridente a sinistra è quello di Claudio Bisogniero, nominato ambasciatore il 6 febbraio 2012 dopo gli ultimi anni spesi al comando centrale della Nato. L’uomo è figlio di Riccardo Bisogniero, protagonista della crisi di Sigonella durante il 1985 tra Italia e Usa. Una coincidenza che qualcuno ha interpretato come “scherzo del destino”, ma che in realtà si inserisce in una linea di continuità tra diplomatici innovatori. Bisogniero è infatti il successore a Washington di Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Esteri del governo Monti, e come lui condivide la necessità per l’Italia di aprirsi alla nuova diplomazia digitale.

 

PUBLIC DIPLOMACY  2.0. Hacker in doppiopetto? Spammer multipli sulle poste elettroniche dei presidenti stranieri? Niente di tutto questo. “La public diplomacy consiste – scrive Antonio Deruda, nel suo libro “Diplomazia digitale” – in una comunicazione diretta con i cittadini stranieri, nell’intento di influenzare il loro giudizio e, in maniera indiretta, quello dei loro governi”. Una strategia che un tempo si limitava ad articoli di giornale, scambi di cittadini e iniziative culturali. E che oggi arriva direttamente sulle schermate digitali dei cittadini stranieri. E che si basa su una parolina magica: “interazione” con gli utenti.

 

IL CAMBIO DI PASSO – Si è verificato con il passaggio di consegne tra Franco Frattini e Giulio Terzi di Sant’Agata nel 2011. Il ministro degli esteri del governo Monti, infatti, ha ricoperto la carica di ambasciatore a Washington dal 2009 al 2011, prima di entrare alla Farnesina. Da un ministro che twittava prevalentemente in italiano comunicati ufficiali e rassegne stampa, si è passati a un “tecnico” cresciuto nella patria della nuova diplomazia digitale. Che celebra i caduti della strage di Nasiriyya su Second Life, dialoga con i suoi fan direttamente su Facebook, e invita a prendere il thè in Farnesina i suoi “top commenter”.

 

In un’intervista a Wired, il ministro ha dichiarato infatti che “sin dal mio arrivo in Farnesina, ho voluto dare un forte impulso sia a livello centrale, che a livello di Rete diplomatica e consolare nel mondo, affinché siano aperti, e utilizzati con regolarità, profili istituzionali sui principali social media, fra cui Facebook, Twitter e Youtube”.

Se l’incarico di Terzi finisce con il governo Monti, a Washington si continua a sperimentare. Abbiamo intervistato per voi, via mail, l’ambasciatore Claudio Bisogniero. Nelle sue risposte, c’è una piccola anticipazione di quello che diventerà la public diplomacy italiana nel prossimo futuro. A meno che qualcuno, in patria, non decida di fare marcia indietro e di tornare a comunicare per mezzo di comunicati stampa in pdf…

 

A quando risale l’apertura del suo account Twitter? Per quale scopo è stato aperto? Lo gestisce personalmente?

 

Claudio Bisogniero: Sono su Twitter con il mio profilo @CBisogniero dal mio arrivo a Washington come ambasciatore d’Italia nel febbraio 2012. Ovviamente, sin dall’inizio, lo gestisco in prima persona. L’ottica è quella di migliorare ed ampliare l’interazione con il mondo esterno ed aprire le porte dell’Ambasciata ai milioni di cittadini italiani e di origine italiana negli Usa, ma anche a tutti gli americani e stranieri interessati al nostro meraviglioso Paese.

 

“We have to listen and engage more”, ha detto durante una conferenza del ciclo Twiplomacy. Secondo quale criterio risponde ai tweet dei suoi followers?

 

C.B.: L’obiettivo è quello di rispondere al numero maggiore possibile di persone che mi contattano con domande sul nostro Paese, sulle relazioni tra Italia e Stati Uniti, sulle nostre attività culturali e consolari. Nel caso di richieste specifiche consiglio di inviare le proprie richieste anche via mail in modo che i miei collaboratori possano dare una risposta completa.

Saper ascoltare vuole dire quindi facilitare il dialogo tra l’Ambasciata e l’utente. In quest’ottica abbiamo dato grande importanza ai social media, ad esempio, per veicolare tutte le informazioni relative all’Uragano Sandy l’autunno scorso, in modo da rendere disponibili gli aggiornamenti sulla situazione e tutti i numeri di emergenza della rete diplomatica per gli italiani in visita negli Usa e per tutti i connazionali che avessero bisogno di assistenza. Questo dialogo lo stiamo continuando ad alimentare anche con il profilo Twitter dell’Ambasciata @ITALYinUS.

 

Twitter o Facebook, qual è il social network più utile per il lavoro di un diplomatico?

 

C.B.: Non sta a me esprimere preferenze di tipo generale sull’utilità di Twitter e Facebook. Tutti i social media, nelle loro diverse funzionalità e applicativi, possono rispondere alle esigenze del nostro lavoro. Sta al singolo sfruttarne le qualità che più rispondono ai nostri obiettivi. Nel mio caso, Twitter si adatta perfettamente al mio lavoro e mi permette un approccio più personale e quasi quotidiano.

Per quanto riguarda invece l’Ambasciata e l’intera rete diplomatico-consolare negli Usa stiamo cercando di puntare ad una presenza articolata sui social media e contiamo ormai oltre dieci profili Twitter, sette utenze su Facebook e svariati canali YouTube e Flickr.

 

Il Center For Strategic & International Studies ha definito (2007) il diplomatico del futuro come “decentralizzato, flessibile e tecnologicamente mobile”. Lei ha un aggettivo da aggiungere a questa descrizione?

 

C.B.: Innovativo. Credo che il futuro della diplomazia, nelle sue molteplici sfaccettature, dalla diplomazia per la crescita alla public diplomacy, sia sempre più legato all’innovazione e alla capacità da parte del corpo diplomatico e del mondo politico di investire in nuove idee, riadattando la nostra attività di politica estera per meglio rispondere alle nuove sfide.

 

Qual è il ruolo di Facebook, Twitter, Youtube nella public diplomacy italiana in America?

 

C.B.: Prima di tutto è bene ricordare che i social media – ovvero la cosiddetta diplomazia  digitale o Twiplomacy – non hanno rimpiazzato la nostra attività diplomatica tradizionale, sia in termini di rapporti tra governi che di public diplomacy. È vero però che tali strumenti ci hanno avvicinato all’utenza finale, permettendo un approccio più personale. Il modo in cui stiamo “comunicando” il programma del “2013, Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti”, ne è un esempio concreto. Non solo infatti possiamo complementare meglio la nostra attività istituzionale, anche attraverso immagini e video sull’evento che diffondiamo sui social network oltre che sul sito Internet, ma il pubblico con cui interagiamo continua ad aumentare, generando un interesse crescente per l’iniziativa.

 

Come è nata l’idea del nuovo Social Media Hub dell’ambasciata di Washington? Quanti visitatori unici avete registrato nel primo mese? Qual è il pubblico di riferimento (Americani, Italo-Americani, pubblico giovanile/adulto, giornalisti..)?

 

C.B.: l’idea del Social Media Hub (www.twiplomacy.it/usa) è tanto semplice quanto innovativa. Ci consente infatti di concentrare in un’unica pagina la nostra attività multimediale e dei vari social media con cui operiamo. È nata come un esperimento di public diplomacy – indirizzato quindi al pubblico americano e alla comunità italiana e italoamericana negli Usa – che per ora attrae circa 400 visitatori unici al mese. Ma il fattore più interessante è come la pagina continui a circolare sui social networks, con circa 300 “share” ad oggi, attirando un numero sempre crescente di visitatori virtuali. Ad esempio quasi 1.000 persone hanno visto il nostro video di presentazione del 2013. Senza ombra di dubbio, visti anche i commenti sia su Twitter che off-line, l’Hub continua a piacere e ad attrarre pubblico, come anche il mini portale Italy4Kids per bambini e studenti, e il sito ad hoc per il 2013 (www.italyinus2013.org). Per ora si tratta tuttavia di un esperimento e come tale puntiamo a migliorarlo nel tempo, per rispondere sia alle esigenze del pubblico che alle nostre priorità.

 

In che misura il lavoro di Alec Ross ha influito sulla nuova strategia digitale delle rappresentanze in America?

 

C.B.: Alec è prima di tutto un amico ed un grande conoscitore dell’Italia, dove ha vissuto e studiato ai tempi dell’università. La sua attività come Consigliere per l’Innovazione del Segretario di Stato Hillary Clinton ha certamente contribuito a cambiare il modo in cui gli Stati Uniti si relazionano al mondo dei social media. La vera rivoluzione sta soprattutto nell’aver instaurato un dialogo con interlocutori meno tradizionali rispetto a quelli della diplomazia classica. A tale riguardo, il Dipartimento di Stato, grazie proprio alla Clinton e alla carismatica figura di Alec Ross sta facendo da apripista a molti altri governi, non solo quello italiano. Sta a noi ora investire in questa esperienza e creare una sempre più salda realtà di diplomazia digitale per il nostro Paese.

 

Le ambasciate e gli istituti italiani di cultura negli Usa stanno sperimentando nuove forme di diplomazia digitale. Potranno essere d’esempio anche per le sedi diplomatiche negli altri Paesi?

 

C.B.: Come ho ricordato in precedenza, la diplomazia digitale è in continua evoluzione e rappresenta un importante punto di riferimento per tutta la rete diplomatica italiana nel mondo. L’impulso dato dal ministro Giulio Terzi in questo settore ha senz’altro contribuito all’apertura di nuovi canali di comunicazione sui social media per tanti dei nostri ambasciatori, Ambasciate, ma anche Consoli e Consolati.

 

Twiplomacy, l’intervento di Alec Ross.

Foto di copertina: ©ItalianEmbassy/flickr

Quale futuro per il kirchnerismo?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2013 – Quest’anno in Argentina si terranno le elezioni legislative che ridefiniranno la formazione parlamentare. L’esito del voto sarà una tappa cruciale per il kirchnerismo, in bilico tra la ricerca di nuove strategie e la tentazione di una riforma costituzionale. Mentre negli ultimi mesi del 2012 le strade tornavano ad ascoltare il rimbombo del cacerolazo (protesta pacifica e rumorosa dove i manifestanti sbattono pentole, mestoli e altri utensili)

 

RIFORMARE LA COSTITUZIONE – Una tensione democratica può innescarsi nel momento in cui l’esito di elezioni libere non permette l’alternanza parlamentare. Il chavismo rappresenta senza dubbio il caso emblematico di tale frizione, esempio di un autoritarismo scelto democraticamente dal popolo venezuelano grazie alla rielezione dello stesso Presidente e alla modifica della costituzione per consentirlo oltre i termini precedentemente previsti. La riforma costituzionale rappresentò un motivo programmatico nella campagna elettorale di Chávez, così come anche in quella di Morales e Correa, il blocco “bolivariano” formatosi nel nuovo millennio contrapposto alle riforme neoliberali degli anni Novanta in Argentina, Brasile e Perù. Tutto ciò è avvenuto nonostante, almeno teoricamente, fossero tutti in linea con il principio anti-rielezione proclamato dallo stesso Bolívar al Congresso di Angostura del 1819 (http://www.analitica.com/bitblioteca/bolivar/angostura.asp). Proprio il Venezuela di Chavez è infatti risultato l’unico paese oltre a Cuba a non porre limiti di rieleggibilità. Appare paradossale, ma prima di lanciarsi in un’invettiva anti-chavista, per un’analisi coerente è d’obbligo ricordare che il paese era reduce da tre default in poco più di dieci anni (1983, 1990, 1995), così come sottolineato da un working paper emesso nell’ottobre 2008 dal FMI (http://www.gragusa.org/blog/il-default-nella-storia/). E’ altrettanto vero però che il peso così accumulato lungo un’ininterrotta serie di mandati presidenziali rischierebbe di soffocare la pazienza democratica dell’opposizione con effetti imprevedibili. Le grandi proteste che hanno infiammato l’Argentina negli ultimi mesi del 2012 ne sono la prova evidente.

 

LE PAROLE SONO IMPORTANTI – Il conflitto sociale è stato innescato dallo stretto giro di vite dato dalla Presidenta Fernández alla propria strategia anti-corporativa. Il mancato accordo partitico per una sindacalizzazione del Partido Justicialista (PJ) con Hugo Moyano, dirigente del principale gruppo sindacale argentino, ha generato una frattura profonda sulla quale si sono condensate le forze dell’opposizione. Assimilare dunque acriticamente le mobilitazioni del 13 settembre e del 14 novembre scorso ai drammatici cacerolazos che si susseguirono nell’epoca della crisi finanziaria, risulta essere fuorviante per almeno due motivi fondamentali. Il problema principale è un tasso d’inflazione che rischia di compromettere i successi delle politiche redistributive promosse sin dal 2003, e non l’eventualità di un secondo default. In secondo luogo perché la composizione sociale delle folle che hanno occupato le strade non riflette il carattere massivo e trasversale che aveva contraddistinto l’acefalia di quelle proteste. Certo, i cittadini brandivano pentole e mestoli, ma se paragone deve essere, sarebbe più facile trovare delle analogie con le mobilitazioni scoppiate nel 2008 in occasione del Paro Agropecuario. Lo sciopero fu indetto dai grandi gruppi dell’imprenditoria agricola per protestare contro l’aumento delle imposte sull’esportazione della soia, con il coinvolgimento di alcuni gruppi sindacali, l’appoggio della classe medio-alta del paese e l’alleanza mediatica con il Gruppo Clarín. Sebbene i cacerolazos del 13/9 e del 14/11 non rappresentino una protesta esplicitamente politicizzata, non è un segreto che Mauricio Macri, Governatore di Buenos Aires e esponente del principale partito all’opposizione, abbia salutato con favore le manifestazioni. Senza dimenticare l’ormai scontro frontale con lo stesso Gruppo Clarín per la Ley de Medios e il fatto che tra il dicembre 2011 e il dicembre 2012 la Cina abbia incrementato di circa l’82,6% l’esportazione di soia argentina (http://www.americaeconomia.com/negocios-industrias/china-aumenta-en-701-importaciones-aceite-de-soja-desde-argentina-en-2012). Inoltre non è un caso che tra le città in testa alla rivolta, oltre alla Capitale figurino metropoli come Córdoba e Mendoza, con un’esigua partecipazione delle città più povere, in particolar modo quelle del Nord, prive di un rilevante potere d’investimento. Ricorrere a un simbolismo storico che ha segnato profondamente la storia moderna del paese può risultare una pericolosa strumentalizzazione.

 

IL MODELLO K – Nodo cruciale della questione, oltre all’esacerbata insofferenza dovuta ad una forse eccessiva “pesizzazione” dell’economia con la conseguente messa al bando del dollaro dal mercato argentino, sembra essere l’ipotetica volontà della Presidenta Fernández di riformare la Costituzione, creando quindi i presupposti futuri per una terza rielezione dopo la scadenza del secondo mandato nel 2015, ottenuto con la quarta maggioranza assoluta nella storia elettorale del paese. Per mettere in atto un cambiamento così profondo è necessario però  raggiungere maggioranza speciale al Parlamento, la cui composizione muterà con le prossime elezioni legislative di quest’anno che rinnoverà la metà dei Deputati e un terzo dei Senatori. Ed è proprio la prospettiva di un kirchnerismo bolivariano che preoccupa maggiormente l’opposizione. Ma l’Argentina non è né il Venezuela, né l’Ecuador o la Bolivia. Mettere da parte i sindacati e la classe media radicalizzerebbe la tendenza ad una forma di “populismo izquierdista”, sottovalutando indebitamente alcune richieste anche legittime reclamate durante le manifestazioni. Altra possibilità sarebbe quella di costituire una coalizione di “ricchi e poveri”, facendo leva sulle élite economiche del paese. Un “populismo menemista”, così come definito da Arroyo tra le colonne de Le Monde Diplomatique Edición Cono Sur. Una possibilità che in realtà non esiste, poiché oltre a rappresentare una clamorosa contraddizione, sarebbe la più grave offesa alla memoria di Nestor. Come suggerisce ancora il sociologo argentino, l’unica possibilità per il kirchnerismo sembrerebbe quindi il ricorso al kirchnerismo stesso. Ricomporre la frattura con il sindacalismo e una maggiore flessibilità sul tema del dollaro potrebbero senz’altro far rientrare la protesta, sedando in parte il malcontento di una classe media particolarmente influenzabile, il cui umore sale e scende seguendo il tasso d’inflazione. In fin dei conti si tratterebbe di ricompattare lo storico blocco socialdemocratico alla base del successo progressista.

 

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IL PERICOLO AUTORITARIO – Potrebbe sembrare facile sostenere che le politiche adottate a partire dal 2003 siano state buone solo per il fatto che dopo un default non si poteva fare di peggio. In effetti è così, ma fa notare José Natanson che il neoliberalismo degli anni Novanta non fu imposto dalle alte sfere del FMI. Fu piuttosto la conseguenza diretta di un doppio voto democratico a favore di Menem. Sin dai suoi inizi il kirchnerismo si configurò pertanto non come un fenomeno di cambio, ma come un costruttore di ordine per rimediare alle brecce storiche inflitte dalla dittatura e dal menemismo. Nel corso di dieci anni l’Argentina ha saputo riprendersi grazie soprattutto a politiche redistributive che hanno di fatto ridotto la differenza tra il 10% più ricco e il 10% più povero di tre volte rispetto al 1975. Dal 1997 al 2010, la spesa pubblica è aumentata dal 30,3% al 45,5%, con grosse inversioni nei settori dell’educazione e della salute. Senza dimenticare lo sforzo profuso attraverso imponenti programmi di recupero socio-economico per garantire una maggiore equità sociale, quali la creazione negli ultimi 8 anni di nuove unità abitazionali e la riforma dell’Asignación Universal por Hijo (AUH) dal 2010. Nonostante questi progressi però è indubbio il grosso limite per le prospettive di sviluppo del paese rappresentato dall’inflazione, balzata oltre il 20% nonostante le cifre ufficiali la valutino intorno al 10%. E’ in corso una fase di transizione cruciale per il paese, in cui si ridisporranno energie sociali e politiche che determineranno il futuro dell’Argentina. Sebbene il secondo e ultimo mandato terminerà nel 2015, la Presidenta Fernández dovrà stare attenta a non scadere in derive autoritarie trasformando il kirchnerismo in un vero e proprio “cristinismo”, con l’evidente rischio di vanificare la credibilità e le conquiste ottenute negli ultimi anni. Le elezioni legislative del 2013 rappresentano un crocevia capace di segnare il prosieguo o la fine di un’intera epoca della vita politica argentina.

 

Eventi: “La Speranza e il Conflitto”

Ogni giorno TV e giornali ci bombardano di notizie relative a guerre, conflitti, persecuzioni religiose e crisi internazionali in paesi lontani, alcuni ormai famosi, altri di cui a malapena ricordiamo l’esistenza. Con questo ciclo di incontri vogliamo spiegare e capire insieme cosa avvenga davvero in alcune aree del mondo, in maniera semplice ma rigorosa perché sia accessibile a tutti, anche i non esperti.

 

 

Il nuovo Caffè Geopolitico non è solo un fatto di estetica, ma anche di iniziative! Il Caffè vi invita a quattro chiacchierate serali, non mancate!

 

Il nostro Lorenzo Nannetti presenta infatti quattro incontri a Bologna:

 

 

 

 

Iran

I Persiani non sono Arabi; un Islam “diverso”; il programma nucleare; si rischia la guerra?

Lunedì 25 febbraio 2013, ore 20.30

 

I Cristiani in Medio Oriente e Nord Africa

tante fedi, una sola Croce; perseguitati da tutti; equilibri post-rivoluzioni; stiamo scomparendo? Perché serve restare e andare in pellegrinaggio.

Lunedì 18 marzo 2013, ore 20.30

 

Afghanistan

un paese martoriato; i talebani; conflitto e ricostruzione; quale futuro?

Lunedì 22 aprile 2013, ore 20.30

 

Il 10° Parallelo – ATTENZIONE! VARIAZIONE DATA!

la poco conosciuta linea di confine (e di scontro) tra cristiani e islamici; non ci sono solo Medio Oriente e Europa; conflitti e miseria; questione di religione o geopolitica?

Mercoledì 29 maggio 2013, ore 20.30

 

Per informazioni[email protected]

Facebook: collegamento a evento per il quarto incontro

Locandina ultimo incontro:  volantino 4° incontro (Il 10° Parallelo) (201 kb)

 

Il video di lancio del quarto incontro:

 

Il video di lancio del terzo incontro:

 

Il video di lancio del secondo incontro:

 

Il video di lancio del primo incontro:

Countdown

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Un profumo, un rumore, un gesto… ci siamo, siamo pronti, è ora di servire un nuovo Caffè.

 

Ci siamo. Siamo nella fase, da tempo attesa, in cui il caffè è già uscito da un po’, il profumo si sente deciso nell’aria, e inizia a sentirsi quell’inconfondibile rumore che ci segnala quando la caffettiera è ormai piena. Spieghiamo l’immagine: dopo alcuni mesi di lavoro e qualche notte insonne, siamo finalmente pronti per il lancio del nuovo sito del Caffè. Un sito completamente rinnovato in grafica, contenuti e accessibilità, che vuole essere un vero e proprio balzo in avanti per l’Associazione, la rivista e soprattutto per voi lettori.

 

Qualche giorno ancora di attesa, e poi finalmente si parte. Nei prossimi giorni il sito rimarrà online, ma non verrà aggiornato. Ci scusiamo ovviamente per questo piccolo disagio, convinti che quello che ci attende ripagherà eccome l’attesa. Sarà un Caffè più intenso e più corposo, pieno di nuovi aromi e miscele, ma, fuor di metafora, con la voglia di sempre, anzi ancora più grande, di raccontarvi e spiegarvi quanto accade nel mondo con uno stile che sia semplice, accessibile e interessante per tutti. Nel frattempo, per ingannare l’attesa, vi riproponiamo qui gli articoli finora usciti della nostra rubrica di inizio anno “Il Giro del Mondo in 30 Caffè”. Ma non temete, manca davvero poco, per il nuovo Caffè. Speriamo di aver solleticato in voi almeno un po’ di curiosità… ma ora scappiamo, la caffettiera manda chiari segnali, pochi secondi e bisogna andare in cucina a spegnere. Il caffè è pronto, ed è quasi ora di servirlo… e allora, a prestissimo!

 

Cominciamo bene…

Mentre anche l’anno lunare si avvia alla sua naturale conclusione e entriamo nel mese di Febbraio, il pianeta torna a ruotare attorno ai fuochi che hanno contraddistinto le nostre puntate precedenti nei vari focolai di conflitto combattuto o abbozzato. Israele si assume le responsabilità dell’ennesima invasione dello spazio aereo e della sovranità siriana mentre l’Iran torna a sventolare la bandiera delle trattative. Sul fronte orientale la Corea del Nord sembra pronta a festeggiare il nuovo anno lunare col più grosso fuoco d’artificio visto a Pyongyang mentre Pechino torna sorniona sul capitolo Myanmar

 

EUROPA

REGNO UNITO – La Corona britannica torna ad organizzare le basi del ritiro dell’Impero, questa volta limitato all’Afghanistan, dove 9000 soldati della Union Jack sono ancora di stanza a tentar di puntellare la transizione politico-militare. Incontrandosi Domenica con il Presidente Pakistano Asif Ali Zardari e il corrispettivo di Kabul Hamid Karzai con i quali ha intavolato l’arduo percorso della cooperazion verso il passaggio di potere nella terra mai conquistata verso l’Afghan National Army. L’incontro è stato inoltre “la prima occasione in cui l’establishment politico-militare, i capi di stato maggiore, l’intelligence e i membri del Consiglio per la Pace di Pakistan e Afganistan vengono coinvolti allo stesso tempo”, nelle parole di un poortavoce di Downing Street. Il tutto a pochi mesi dal dimezzamento delle truppe di sua Maestà alla Missione ISAF in un Afganistan ben lontano dalla stabilità tanto agognata.

 

TURCHIA – La NATO e gli Stati Uniti hanno ufficialmente condannato l’attacco suicida al Consolato americano di Ankara considerandolo come un vero e proprio attacco terroristico. Il premier turco Recep Tayyip Erdogan non avrebbe alcun dubbio nell’indicare quale responsabile del gesto spettacolare il gruppo di sinistra radicale “Fronte rivoluzionario di liberazione popolare”, da sempre tra gli accusati dei vari attentati che hanno sconvolto la Turchia dagli anni ’70. Proprio due settimane fa la polizia e l’esercito avevano messo a segno un duro colpo alla base del gruppo arrestando circa 85 operativi. Tuttavia i sospetti circolano attorno al quadrato costituito dai seguaci della formazione dell’estrema sinistra, profondamente anti-americana, dagli estremisti islamici legati ad Al-Qaeda, dal braccio armato del PKK curdo fino all’ipotesi di un coinvolgimento dei servizi segreti siriani pronti ad esportare il terrore e il sangue di Damasco.

 

AMERICHE

CUBA – Chiamata alle urne per la popolazione cubana, si sono infatti aperte domenica le elezioni per stabilire i nuovi nomi dell’Assemblea Nazionale costituita da 612 seggi da assegnare tra i vari candidati. Il particolare più imbarazzante delle elezioni è però il fatto che per quei 612 seggi si sono presentati esattamente 612 candidati, una delle poche occasioni in cui il motto di decoubertiniana memoria “l’importante è partecipare” tiene banco. L’opposizione, o quello che ne rimane, lamenta l’organizzazione farsesca dell’appuntamento elettorale, anche se i 2/3 dei candidati sono in realtà al battesimo del voto. In gioco anche 1269 cariche distribuiti in 15 consigli provinciali. Indubbiamente la nuova stella della politica cubana sarà Mariela Castro, figli del presidente ad interim Raùl, che sembra aver preso sul serio la possibilità di instaurare una dinastia dipendente dal proprio ramo famigliare.

 

ARGENTINA – Di nuovo rinnegata dal suo padre naturale, è successo ancora all’Argentina della Presidenta Kirchner di finire nelle trame dell’FMI per non aver fornito dati accurati sul debito pubblico e l’andamento dell’economia nazionale. L’economia argentina, allevata a modello delle direttive del Fondo fin dagli anni ’80 è stata protagonista di ascese e crolli altrettanto spettacolari. Spettacolare è anche il fatto che in 69 di esistenza dell’Istituzione coniata nel 1944 a Bretton Woods, nessuno dei paesi membri era mai stato formalmente censurato dai 24 membri del direttivo per inadempienze informativo-documentali. Relegata allo status di paria finanziario dai mercati globali dopo la “presa per le corna” del 2001, l’Argentina si è rivolta alle pratiche meno ortodosse per riaggiustare il corso della propria risalita economica, senza raggiungere alcun risultato soddisfacente, esclusa l’attenzione soffocante dei media.

 

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ASIA

Lunedì 4 – Come le celeberrime scatole cinesi, anche l’appuntamento della settimana in Asia si rivela contenere nient’altro che l’ennesimo capitolo dell’eterna sfida con gli Stati Uniti per il controllo delle sorti del Myanmar. Così le trattative di pace in corso tra la capitale Naypidaw e l’etnia ribelle dei Kachin da questo lunedì nella città cinese di Ruili, al confine con l’ex Birmania, rappresentano un recupero formale di credibilità per Pechino in qualità di mediatore dell’eterno conflitto interetnico del regno sigillato. A presiedere le trattative sarà il Presidente Birmano Thein Sein in persona, che si è guadagnato il sostegno dell’elite politica globale vendendo al mondo l’immagine di un governo attento alle esigenze di apertura e libertà, nonostante nasconda abilmente sotto mentite spoglie la dittatura che da anni controlla le sorti del paese.

 

COREA DEL NORD – Il giovane Kim ci mette il “faccione”, così si potrebbe titolare il resoconto dell’ultimo meeting della Commissione Centrale per gli Affari Militari di Pyongyang che nella giornata di domenica ha tracciato le linee fondamentali della traiettoria futura di una delle ultime mine vaganti della Comunità Internazionale. Il leader del paese più chiuso al mondo ha annunciato un “cambiamento epocale” nella storia militare della Corea del Nord, spargendo il terrore tra gli avversari dell’imminenza di un test nucleare da tenersi nella prima metà del 2013. osservatori ed esperti dalla Corea del Sud si spingono fino ad individuare nel nuovo anno lunare previsto per il 10 febbraio, la possibile data per l’ennesimo armageddon in terra d’Asia. Mentre Seoul e Tokyo si preparano all’impensabile non resta che annotare un nuovo fallimento delle Nazioni Unite nel riportare al recinto la pecora nera del gregge internazionale.

 

MEDIO ORIENTE

IRAN – Ci risiamo, un’altra puntata di un caffè così lungo che sembra aver ormai perso l’aroma intenso della miscela arabica che lo contraddistingue, Iran e Stati Uniti sono di nuovo pronti a sedersi al tavolo delle trattative “solo se pienamente intenzionati a risolvere diplomaticamente la questione”. Con le stesse parole, prima Joe Biden, poi il ministro deglki esteri iraniano Salehi hanno comunicato alla platea del Vertice sulla Sicurezza a Monaco di Baviera l’offerta reciproca per quella che potrebbe essere l’ultima occasione prima dell’attacco alle strutture nucleari made in Tehran. Appuntamento dunque alla settimana del 25 di Febbraio ad Astana, capitale del Kazakistan, designata ad ospitare un altro round di negoziati alquanto ostici, per usare un eufemismo.

 

ISRAELE – “Non posso aggiungere nulla a quanto avete letto sui giornali nell’ultima settimana su quanto è avvenuto in Siria, è un’altra prova del fatto che quando dichiariamo qualcosa, lo facciamo seriamente”. Dopo tanta e tale dichiarazione, non può che passare per vero e proprio avvertimento destinato a Tehran lo strike chirurgico che ha polverizzato il tentativo di contrabbandare sistemi anti-aerei dalla Siria al Libano meridionale controllato da Hezbollah. Alle parole di Barak, ha subito risposto Bashar al-Assad dalla sua cittadella nel cuore di Damasco in compagnia del Rappresentante iraniano per il Consiglio di sicurezza Nazionale Saed Jalili, a confermare la fratellanza tra i due regimi ormai stretti da una cintura di nemici e dall’attenzione dei media internazionali.

 

Una decade…in decadenza

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2013 – Sfide colossali di carattere economico, sociale e geopolitico interesseranno la Russia del neoeletto Presidente Vladimir Putin in questo 2013. Sfide che lo Zar del nostro tempo sembra voler affrontare attuando una svolta autoritaria e conservatrice, sia a livello interno che sul piano internazionale. Sarà sacrificata, nel nome dei secolari valori della Madre Patria, quella borghesia urbana minoritaria e riformista che tanto ha sfilato in questi mesi per le vie di Mosca e San Pietroburgo, chiedendo più giustizia e libertà. Questa è la strada ormai intrapresa, che però necessita di ingenti risorse economiche per tenere i russi al caldo e con la pancia piena, risorse che potrebbero presto venire a mancare con il previsto calo dei prezzi di gas e petrolio, dei quali la Russia è tra i maggiori esportatori mondiali

 

CRISI PROFONDA – In un mondo tormentato dagli scandali finanziari, dalla recessione economica e da grandi cambiamenti geopolitici, la Russia è investita in pieno, a sua volta, dalla profonda crisi dei suoi elementi fondanti: il sistema politico corrotto, clientelare e personalistico consolidato da Vladimir Putin, il modello socio-economico basato su protezionismo e rendita energetica e l’ambizione di costruire un moderno e dinamico stato di diritto tanto cara a Dimitri Medvedev. Quella russa è una società insicura, ostaggio di una storia ingombrante e poco fiduciosa nel futuro, in preda ad un totalizzante declino, alimentato dalla comparsa di nuove sfide economiche e tecnologiche a cui la Russia non è pronta, che riflette la necessità di trovare nuovi equilibri sociali e, conseguentemente, nuovi assetti di potere politico. Da quando si è manifestata sul finire del 2011, la crisi, non sempre evidente ma comunque strisciante, si è aggravata fino a divenire patologia, ed è stata “curata” con metodi sempre più brutali, fatti di arresti sommari, informazione manipolata e norme sempre più repressive. L’accattivante ed autoritario regime politico sviluppatosi nel decennio passato si trova oggi di fronte a sfide mai viste prima. Con le discusse elezioni dell’inverno 2011-12 ha perso legittimità agli occhi dei segmenti più dinamici e riformisti della classe media urbana e, conseguentemente, la sua pretesa di rappresentare pienamente tutti i russi eccetto pochi dissidenti da stigmatizzare ed emarginare.

 

Lottando per autoconservarsi, ed avendo adottato una strategia difensiva per proteggere lo status quo, l’autoritarismo russo 2.0 sta perdendo la sua spinta modernizzatrice per ripiegarsi su sè stesso, così finendo per lacerare gravemente un già sfilacciato tessuto sociale. Per contenere le spinte più innovatrici sono stati mobilitati gli strati più conservatori della società, in particolare nazionalisti, nostalgici dello zarismo e fondamentalisti ortodossi, gruppi che, in cambio di connivenze e privilegi, avallano ed appoggiano una concezione di potere statale forte, autoreferenziale e autoritario. Così, dissociandosi dalla classe media ribelle da esso stesso creata, il putinismo tenta ora di legittimarsi come promotore di una “russianità” che andrebbe difesa dagli attacchi della decadente e filo-occidentale borghesia cittadina.

 

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DILEMMA ECONOMICO – Crepe molto vistose vanno allargandosi nei pilastri economici del paese più vasto del mondo. Sebbene il PIL aumenti ancora del 4% l’anno, recessione globale ed inconsistenza/inefficienza dell’economia interna stanno determinando un costante rallentamento della crescita e, se il trend sarà confermato, a breve i BRICS diventeranno BICS. I capitali (330 miliardi di dollari negli ultimi quattro anni) stanno letteralmente fuggendo dalla Russia e, sebbene questa abbia un debito pubblico molto controllabile (10% del PIL) e sia, per ora, in avanzo primario, fa paura il fatto che le politiche economiche di Mosca abbiano un solo protagonista incontrastato, l’export di materie prime, i cui prezzi possono, particolarmente in fasi di instabilità economica, variare repentinamente nel giro di poco tempo. Se, nel 2000, la Russia poteva raggiungere il pareggio di bilancio esportando petrolio al prezzo di 20 dollari al barile, oggi, dati l’impressionante aumento della spesa pubblica e la bassissima pressione fiscale (13% flat), è necessario un prezzo almeno sei volte superiore per tenere i conti in ordine. Lo zoccolo duro del putinismo è rappresentato, da un lato, da burocrati statali e pensionati e, dall’altro, da militari e lavoratori dell’industria bellica. Per non scontentare nessuno, recentemente, il Presidente, infischiandosene della fragilità delle finanze pubbliche, ha promesso più posti di lavoro, pensioni più sostanziose (a partire dai 55 anni per le donne e dai 60 per gli uomini) ed un consistente aumento della spesa militare. Alexei Kudrin, ministro delle finanze ai tempi della presidenza Medvedev, conscio dei dati che prefigurano una lunga stagnazione economica in Europa con conseguente calo costante dei prezzi di gas e petrolio, ha parlato apertamente di pura follia e concreto rischio di dissesto economico.

 

RISCHIO DI ISOLAMENTO – Dopo un quindicennio di capitalismo selvaggio e nefasto, intorno al 2008, con l’inizio del mandato presidenziale del moderato Dimitri Medvedev, la Russia sembrava aver raggiunto un certo grado di equilibrio economico e politico. Erano tempi in cui gli stranieri sgomitavano per investire all’ombra del Cremlino, in cui si fantasticava sul possibile ingresso di Mosca nell’Unione Europea e persino nella NATO, in cui, per buona parte dei giuristi, andava completandosi il passaggio dalla rule by law (Stato che usa il diritto in quanto strumento di potere) alla rule of law (Stato che, come tutti i cittadini, è sottoposto alle regole). L’avventura si è già conclusa, almeno per quanto riguarda i valori. Oggi, per la prima volta dal crollo dell’Unione Sovietica, nell’immaginario russo, i modelli provenienti dall’Occidente in crisi stanno venendo rimpiazzati, anche a livello governativo, dalla seducente “soluzione russa”, incentrata sul ritorno ai sani valori del passato: orgoglio etnico, ortodossia religiosa, convivialità contadina, autoritarismo politico. Così, tra le altre cose, vanno moltiplicandosi le scaramucce militari ed energetiche con Bruxelles e Washington e, dal caso Magnitsky, si è rapidamente passati al divieto di dare in adozione orfani russi negli Stati Uniti. Meglio non va nel mondo arabo, dove rischia di perdere il potere l’ultimo alleato del Cremlino, Bashar al-Assad, né ad oriente, dove la decennale questione delle isole Curili ostacola l’istituzione di cordiali rapporti col Giappone e dove la Cina, gigante affamato di risorse a basso prezzo e spazi da colonizzare economicamente, suscita ormai diffidenza e timore. Infine, degli ex-alleati, solo Armenia, Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan e Kirghizstan, peraltro spesso per via di ricatti energetici, restano nella sfera di influenza di Mosca, che invece deve prendere atto dello scivolamento di Uzbekistan e Tajikistan verso la Cina e di quello di Turkmenistan e Azerbaijan verso la Turchia. Il rischio di isolamento è concreto, ed alla luce di ciò va interpretata l’accelerazione che ha portato un anno fa all’ingresso della Russia nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La globalizzazione, però, è un gioco pericoloso, dove vince solo chi è abbastanza forte da poter competere con tutti gli altri senza barare (ad esempio, ricevendo sussidi o beneficiando di dazi doganali o restrizioni all’import). Questo non è il caso della Russia, il cui debole, vetusto ed iperprotetto apparato produttivo rischia di essere spazzato via dalla libera concorrenza internazionale. In molti, pertanto, si chiedono se una maggiore integrazione commerciale e produttiva sia una soluzione valida per trovare nuovi alleati. Al momento, secondo gli esperti, la risposta più corretta è no.

 

COME FINIRÀ? – La Russia che descriviamo agli inizi di questo 2013 è un paese fragile economicamente e socialmente, fortemente tentato di ripiegare su autoritarismo e conservatorismo e ad abdicare alle sfide della legalità e della modernità. Si sta scivolando a piccoli passi, e senza che la parte maggioritaria della popolazione prenda posizione, verso un’autocrazia pronta ad emarginare le frange sociali maggiormente progressiste le quali, in questi mesi di proteste d’élite a corrente alternata, hanno avuto la colpa di mischiare il dissenso al glamour, al gossip, senza riuscire a coinvolgere la stragrande maggioranza dei russi, quelli che non vanno a fare shopping col SUV e non hanno un iPhone in tasca. Vladimir Putin, abilissimo ad interpretare gli umori e soddisfare gli istinti della pancia della nazione, è il principale artefice di questo disegno e, verosimilmente, sarà presidente fino al 2024. Una vera e propria decade di decadenza.

 

Voto senza storia?

Il gigante Rafael Correa contro tutti. Si potrebbe riassumere così il confronto elettorale che il prossimo 17 febbraio vedrà contro l’attuale mandatario ecuadoriano agli altri sette candidati alla presidenza dell’Ecuador. Correa, al potere dal 2006, sta per terminare il suo secondo mandato e con grande probabilità sarà riconfermato vista la voragine di consensi che lo separa da un’opposizione frammentata e priva di veri leader

 

UN BILANCIO – La Revoluciòn ciudadana, ovvero la politica di stampo socialista e antiamericana condivisa anche da altri paesi come Venezuela e Bolivia, è proseguita negli ultimi anni senza troppi intoppi. L’aiuto alle fasce più povere della popolazione è uno degli aspetti che avvicina di più la gestione Correa a quella del suo amico Hugo Chávez. Il cosiddetto Bono de desarrollo humano, un ticket statale a favore dei più disagiati, è stato incrementato dal presidente ecuadoriano prima nel 2007 e poi nel 2009 con un aumento fino a 35 dollari per ciascuno dei 1.5 milioni di beneficiari. In campo educativo, gli investimenti del governo sono passati dal 2,5% del Pil nel 2006 al 5,5% nel 2011, rispettando quasi in pieno il dettato costituzionale che prevede che il 6% del Pil venga destinato a questo settore. Tra le iniziative istituzionali più importanti del governo ecuadoriano c’è la riforma del 2008 che, dopo un referendum popolare, ha modificato la Costituzione in vigore dal 1998. Correa ha cercato di limitare il debito pubblico al 3% del Pil e di rinegoziarlo con gli organi internazionali. L’Ecuador è così riuscito a ridurre il debito di circa 7.000 milioni di dollari e, attraverso progetti come Iniciativa Yasuní – ITT, il paese aspira ad ottenere 3.600 milioni dalla comunità internazionale. Altro obiettivo della gestione Correa era quello di costituire un fondo di 300 milioni di dollari da erogare in cinque anni a basso interesse per incentivare il microcredito a beneficio di 60.000 persone. Anche in questo caso, secondo il Banco nacional de fomento, i risultati sarebbero incoraggianti: dal 2007 ad oggi, sono stati erogati 268 milioni a favore di piccole e medie imprese. Evidente è anche la virata ‘autarchica’ imposta dal governo alla politica petrolifera nazionale.

 

Nell’aprile del 2010, il presidente ecuadoriano ha trasformato Petroamazonas e Petroecuador in soggetti di diritto pubblico, nazionalizzando di fatto le due imprese più forti del settore. Lo scopo era quello di rendere i due colossi petroliferi capaci di competere con gli investitori privati e, a tal fine, il governo è intervenuto con una ricapitalizzazione di circa 1.700 milioni di dollari. La successiva Ley de hidrocarburos ha portato alla rinegoziazione dei contratti petroliferi tra lo Stato e ben 17 imprese, ma ha anche provocato l’uscita di sette di queste dal paese. Novità radicali sono state introdotte anche in materia commerciale. Correa si era ripromesso di non stipulare nessun Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti. Durante il suo mandato, l’Ecuador non ha effettivamente stipulato trattati né con il gigante americano né con la UE, a parte accordi commerciali specifici. Altro obiettivo ambizioso è l’integrazione dei paesi dell’America Latina attraverso la creazione di una moneta unica regionale: il Sucre. Nato nel novembre del 2008 su iniziativa degli Stati membri dell’Alba, il Sucre è usato per il momento come unità valutaria comune in alcune transazioni commerciali. Correa non esclude però che possa trasformasi in futuro in un sistema monetario che rimpiazzi il dollaro americano negli scambi interregionali.

 

CHI SFIDERA’ CORREA? – L’opposizione, come accennato, arriva piuttosto malconcia a questa tornata elettorale. A destra dello schieramento politico si collocano i partiti Creando oportunidades (Creo) e Social cristiano (Psc). La sinistra ‘più a sinistra’ di Correa è invece rappresentata dal Movimiento popular democratico (Mpd), Pachakutik (Pk), Montecristi Vive, Participaciòn Red e Poder popular. Movimenti che durante i primi anni di governo avevano garantito appoggio a Correa, ma che ora sono rivali politici del suo partito Alianza paìs.Tra i loro leader spiccano ex alleati come Alberto Acosta e Gustavo Larrea. Poi ci sono i due partiti tradizionali sempre presenti agli appuntamenti elettorali: la Sociedad Patriotica (Sp) guidata da Lucio Gutierrez, uno degli sfidanti più quotati di Correa, e il Prian di Alvaro Noboa. Gutierrez, ex militare e già presidente ecuadoriano dal 2003 al 2005, ha proposto un confronto pubblico al presidente dopo averlo definito “una frode elettorale e il principale nemico de sconfiggere”. Il leader di Sp ha precisato che durante il suo governo rifiutò per ben due volte la candidatura di Correa al ministero dell’economia. “Mi resi conto della sua prepotenza e mediocrità e da quel rifiuto Correa iniziò ad avvicinarsi a Chávez e a pianificare il colpo di Stato” ha dichiarato ad una recente intervista, ricordando la turbolenta protesta del 2005 in seguito alla quale perse il potere. L’altro contendente alla presidenza è il candidato della destra, Guillermo Lasso. L’ex banchiere ha ricoperto incarichi importanti durante i governi di Jamil Mahuad e Lucio Gutierrez ed è alla sua prima candidatura alla presidenza con il partito Creo. Lasso propone di eliminare alcune tasse, tra cui quella sulle divise che aumenta il costo dei beni importati dall’estero. Una proposta che ha scatenato l’immediata reazione dello stesso Correa, perché avvantaggerebbe solo banche e grandi gruppi economici che devono pagare questo tributo. “Il 91% lo pagano le imprese e solo il 9% le persone fisiche. Non ingannino i poveri e la classe media. Non c’è paese che sia riuscito a svilupparsi senza far pagare di più ai ricchi” ha tagliato corto il presidente. Alberto Acosta si presenta invece come candidato unico di una coalizione di forze di sinistra. Ex membro di Alianza país e ministro del governo Correa, Acosta sta impostando la sua campagna elettorale contro la politica petrolifera e mineraria promossa dal presidente e sulla difesa dei diritti delle comunità indigene nei territori in cui devono essere realizzati progetti estrattivi. Acosta ha attaccato più volte Correa per aver interpretato a suo modo la Costituzione ecuadoriana e svilito il diritto alla consultazione dei popoli indigeni rendendolo non vincolante ai fini delle decisioni del governo.

 

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POCHI CAMBIAMENTI IN VISTA – Rafael Correa è al momento in testa nei sondaggi con un’intenzione di voto del 49% e ben 31 punti di vantaggio su Guillermo Lasso, al 18%, seguito da Lucio Gutierrez al 12% e Alberto Acosta al 6%. Il presidente in carica dovrebbe vincere agevolmente al primo turno e per non arrivare alla seconda tornata avrebbe bisogno della metà dei voti validi più uno, senza includere i nulli e le schede bianche, o il 40% con una differenza di almeno dieci punti percentuali rispetto al secondo candidato. I dati positivi si sono riflessi nella sicurezza ostentata da Correa in campagna elettorale. Il presidente ecuadoriano ha definito ridicole le proposte dei rivali che affronterà il 17 gennaio e ordinato la sospensione di pubblicità elettorali sui media privati che in passato lo hanno accusato di violare la libertà di espressione. Altri partiti e movimenti politici socialisti e comunisti latinoamericani hanno espresso il loro appoggio a Correa. Ventidue forze politiche, tra le quali il Partido de los trabajadores del Brasile, il Partido de la revoluciòn democratica del Messico e il Frente amplio dell’Uruguay, hanno sottoscritto un documento a sostegno del presidente ecuadoriano. La cosa non sorprende se si pensa che Alianza paìs è membro del foro di San Paolo, un consesso di partiti izquierdisti sudamericani. Del foro fanno parte anche due ex alleati, ora contendenti alle presidenziali: il Movimiento popular democratico e il partito indigeno Pachakutik. Se Correa dovesse vincere nuovamente non ci dovrebbero essere grossi cambiamenti nella politica ecuadoriana. A partire dall’asilo politico concesso al fondatore di WikiLeaks, Juliàn Assange, pochi mesi fa. “Le circostanze internazionali per la concessione del provvedimento non sono cambiate, quindi perché dovrei togliere l’asilo?” ha detto il presidente in una recente intervista. Un punto di vista condiviso anche dal suo principale rivale alle elezioni, Guillermo Lasso. Tra le tante promesse di Correa c’è anche quella di continuare a combattere i media privati accusati di manipolare l’informazione contro l’operato del governo in favore dei grandi gruppi economici. “Se sarò rieletto continuerò a difendere la verità e il popolo da questa informazione manipolata” ha dichiarato il presidente che dal 2007 ha iniziato una vera e propria battaglia personale contro i giornalisti. E che con tutta probabilità proseguirà nei prossimi tre anni.

 

Il deserto della paura

La fascia sahariana è sempre più preda del terrore e dell’instabilità. Dopo quattro giorni di terrore è tragicamente terminata la crisi in Algeria con la morte di 23 ostaggi e 32 terroristi. Sono ancora molti i dispersi e le domande che la comunità internazionale si pone. Rivediamo assieme i fatti e le reazioni

 

ORIGINI – la crisi è iniziata mercoledì quando un gruppo di estremisti islamici conosciuti come coloro che “firmano con il sangue”, guidati dall’algerino ex membro di Al-Qaeda Mokhtar Belmokhtar, ha preso d’assalto un autobus con 19 impiegati stranieri mentre si recavano a lavoro presso un impianto per la produzione di gas di Amenas gestito dalla britannica BP, l’algerina Sonatrach e dal gruppo giapponese Jgc. Tra i rapitori vi erano oltre che algerini anche ex-combattenti libici, tunisini, nigeriani e alcuni non africani.

 

CAUSE – Le cause del sequestro sono alquanto ambigue. Sebbene l’attacco sia stato rivendicato come vendetta per il supporto dell’Algeria dato alla Francia nelle operazioni contro i ribelli islamici in Mali– le forze aree francesi avrebbero infatti richiesto l’accesso allo spazio areo algerino durante l’operazione di bombardamento contro gli estremisti in Mali degli ultimi giorni- un sito di informazione della Mauritania ha dichiarato che il sequestro sarebbe stato pianificato da due mesi, rendendo in questo modo la rivendicazione dei terroristi improbabile. Tuttavia, alcuni membri del gruppo fanno sapere che si avevano già sospetti che l’Algeria avrebbe sostenuto le forze internazionali contro gli estremisti in Mali.

 

L’INTERVENTO – Il governo algerino ha risposto prontamente con un intervento armato da parte dell’esercito. Senza alcun tipo di negoziazione l’esercito ha adoperato fin da subito la forza, tuttavia durante il blitz hanno perso la vita 7 ostaggi. L’ APS, agenzia di stampa algerina, ha riportato le dichiarazioni di un alto ufficiale il quale sostiene che i rapitori erano pesantemente armati. Infatti l’esercito ha recuperato un arsenale composto da sei mitragliatori, 21 fucili d’assalto, due mortai calibro 66, due lanciagranate RPG-21 cinture esplosive e alcuni razzi.

 

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OSTAGGI – Tra gli ostaggi vi erano molti impiegati stranieri di nazionalità inglese, americana, giapponese, svedese e malesiana. Sebbene l’esercito sia riuscito a liberare 685 algerini e 107 impiegati stranieri e alcuni degli ostaggi siano riusciti a scappare durante i primi giorni dell’assedio, sono ancora molti gli impiegati di cui si sono persi le tracce tra cui 17 giapponesi e7 inglesi. Nelle ultime ore, inoltre, sono stati ritrovati ulteriori 25 cadaveri ancora da identificare.

 

Alcuni ostaggi liberati hanno dichiarano che il vero obiettivo erano gli impiegati stranieri, sopratutto statunitensi. Come ha spiegato un ostaggio algerino al giornale francese Le Monde «L’obiettivo erano gli occidentali. Gli islamisti cercavano gli stranieri, volevano loro e solo loro. Ci hanno detto: “Fratelli algerini, non abbiate paura, uscite in pace, tornate a casa, siamo dei fratelli, siamo tutti dei musulmani».

 

RISPOSTA INTERNAZIONALE – Il presidente Hollande ha dichiarato di approvare le misure prese dal governo algerino poiché in un sequestro di tale portata e con terroristi “freddamente determinati,pronti ad uccidere, come hanno fatto i loro ostaggi, un Paese come l’Algeria ha dato risposte che mi sembrano più adatte perché non ci potevano essere negoziati”. Il presidente Obama ha dichiarato che gli Stati Uniti sono pronti a fornire all’Algeria qualsiasi assistenza necessaria e che nei prossimi giorni resteranno a stretto contatto il governo del Paese per comprendere quello che è successo, in modo da evitare che queste tragedie si ripetano in futuro. Questa crisi ha inoltre ulteriormente amplificato la divisione all’interno dell’amministrazione Obama riguardo il possibile intervento degli Stati Uniti in Mali. Alcuni ufficiali del Pentagono ritengono un intervento statunitense necessario per evitare che Mali diventi una rifugio per gli estremisti, come successe in Afghanistan, mentre altri consiglieri non vedono negli insorti in Mali alcuna minaccia per gli Stati Uniti tale da richiedere un intervento.

 

Fuochi d’artificio a Pyongyang

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2013 – Ci hanno provato un po’ tutti ad entrare nel fitto groviglio delle logiche di Pyongyang, dove il silenzio si associa spesso al terrore e il rumore assordante di un razzo racconta l’ennesimo capitolo di un paese che resta cocciutamente al di fuori degli schemi razionali della geopolitica.Il secondo cambio al timone della “nazione potente e prospera” ha inizialmente spinto gli osservatori a grida di giubilo, per poì confermare, che nonostante una faccia simpatica, Kim Jong Un rimarrà sulla “cattiva” strada degli antenati

 

“I’VE GOT A ROCKET!” – Tutta l’Asia orientale ha trascorso il mese di dicembre in attesa del gesto memorabile di Pyongyang per commemorare degnamente il leader Kim Jong Il ad un anno dalla sua scomparsa. Ebbene lo spettacolo non si è fatto attendere, dato che allo scoccare della metà del mese scorso, l’ennesimo fuoco d’artificio made in North Korea ha attraversato i cieli del pacifico orientale. Stavolta la minaccia è stata quantomai reale, un missile balistico intercontinentale in gardo di trasportare testate non-convenzionali e di raggiungere in decine di minuti le inviolabili coste americane. Ovviamente non è un caso che la violazione di ben tre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU sia arrivata in parallelo con il cambio della guardia in Giappone e Corea del Sud, le due nazioni più prossime e sensibili alle minacce del paese inaccessibile.

 

DUE SEDIE E UN TAVOLO – Come nel più classico degli enigmi è arrivata poi la sorpresa di fine anno, con un raggiante Kim Jong Un a prendere la parola sugli schermi per il discorso di conclusione del 2012 in cui ha tracciato le direttive di un futuro senza tensioni e provocazioni verso l’inizio delle trattative per la riunificazione. Ovviamente gli scettici, a cui va tutta la nostra comprensione, hanno visto dietro tale gesto inatteso una semplice carezza sarcastica alle Nazioni Unite stremate da quasi sessant’anni di moniti inutili. In realtà il ritorno al potere della famiglia Park a Seoul e di Shinzo Abe a Tokyo aggiungono caratteri indecifrabili ad una ferita geopolitica aperta da tempo. Se da una parte l’appartenenza a partiti di destra garantisce ai leader di Corea del Sud e Giappone credibilità qualora si dovesse veramente trattare, il sostegno ricevuto da quest’ultimi da fazioni estremiste rende qualsiasi inevitabile concessione a Pyongyang un fattore di alto rischio per la tenuta dell’esecutivo.

 

PECHINO: CI VUOLE PAZIENZA – Se a Seoul e Tokyo sicercano nuove soluzioni per un problema vecchio e ben conosciuto, la strategia di Pechino rimane la stessa da anni, come un genitore fin troppo indulgente nei confronti dei capricci dell’unico pargolo che non cresce mai. In realtà la pazienza cinese è giustificata dal fatto che fin quando le ambizioni nucleari nordcoreane saranno in grado di distrarre Washington e dal Mar Cinese merdidionale, tutte le dispute marittime in corso potranno essere giocate con un rapporto di forza nettamente in favore della Cina. Non è certamente un caso che il premier giapponese Shinzo Abe abbia ritenuto necessario un patto in chiave anti-cinese con il governo vietnamita, lontanissimo in quanto a ideologia politica, molto vicino se si considera l’avversione per l’espansionismo navale made in China.

 

IL REGNO DEI CONTRASTI – Tentare di prevedere le sorti di un paese così chiuso agli occhi degli osservatori esterni come la Corea del Nord rischia di essere non solo inutile ma anche estremamente pericoloso, le notizie discordanti sul lancio di diecembre sono la prova che anche i migliori possono cascare sul granchio da regime. Chi ci è stato, la città cinese di Dandong offre pacchetti all inclusive di guida e “agenti del governo locale” a 5000 RMB, racconta di città al passo degli anni ’80 senza un briciolo di popolazione in cui le uniche automobili in circolazione portano l’inconfondibile effigie del governo. Il grosso della popolazione resta ancorata alle campagne, nelle comuni produttive, dove si lotta contro la fame e malattie scomparse dal resto della terra decenni fa. Straordinariamente, trovare merci di lusso occidentali non è un problema, nel paese in cui la vera sfida è portare un piatto di riso a tavola, i vizi per i figli del regime non mancano di certo grazie alle connessioni con i porti cinesi. Anche l’industria più sviluppata, per quel poco di cui si possa prendere nota, sembra avere a che fare col dilettevole più che col necessario, visto il numero impressionante di distillerie e raffinerie di tabacchi.

 

IL SENTIERO DEL GIOVANE RAMPOLLO – Nonostante i suoi 29 (o 30?) anni appena compiuti (l’8 gennaio scorso) Kim Jong Un ha saputo impersonare la tragicommedia del passaggio di potere a Pyongyang con personalità e attenzione ai dettagli, ovvero ai mal di pancia dell’esercito. Il sorriso che sempre lo contraddistingue nelle apparizioni pubbliche, nelle ispezioni dei ranghi delle armate e nelle visiti alle fattorie nelle contee più sperdute non possono far dimenticare al pubblico che il solo fatto di essere sopravvissuto più di un anno alle trame di palazzo fa di Kim il giovane, un leader da non sottovalutare.

 

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DITTATURA 3.0 – Se si prende in considerazione invece il lato sociologico dell’avvento di un trentenne al governo di un paese chiuso ed arretrato, gli scenari si aprono a considerazioni meno preoccupanti. La passione mai nascosta di Kim per l’american way of living e la visita di qualche giorno fa del C.E.O. di Google Richard Schmidt accompagnato a Pyongyang dall’ex rappresentante USA all’ONU Billy Richardson potrebbero gettare le basi per una rivoluzione tecnologica, seppur strettamente censurata e controllata, dell’ultimo paradiso del terrore. In fin dei conti internet per la Cina è stato, è e sarà una miniera d’oro visti i ritmi inimmaginabili della crescita dell’e-commerce mandarino. La perdita definitiva dell’opportunità di sponsorizzare l’apertura all’economia internazionale in Myanmar potrebbe spingere proprio Pechino a giocare su Pyongyang la prossima partita dell’apertura alla tecnologia, una volta esaurita la spinta del “Go West!” interno.

 

“CONNESSIONI” DI REGIME – Seppur ridotti alla fame e all’adorazione della stirpe Kim, i sudditi dell’ “Hermitage Kingdom” si spartiscono 1 milione di telefoni cellulari tutti collegati al sistema Koryolink, incaricato di intercettare e controllare ogni comunicazione sul suolo nazionale. Per la fetta più istruita ed altolocata della popolazione esiste inoltre un servizio di intranet, sponsorizzato nelle università e negli uffici di regime, si chiama Kwangmyong ed offre servizi di instant chat, email e un intero set di media controllati dal governo. Un gruppo ristretto di qualche dozzina di figure chiave del regime sembrerebbe godere invece di libero accesso alla rete, con la possibilità di uno sguardo ampio sugli avvenimenti del resto del pianeta. L’INERZIA DELLO STATUS QUO – Come già ribadito, la Corea del Nord rimane uno dei luoghi di più difficile “lettura” al mondo, in più di 10 anni di trattative sullo status nucleare del paese, nessun risultato soddisfacente è stato mai raggiunto o mantenuto. Le minacce rivolte agli Stati Uniti negli ultimi giorni in seguito alle esternazioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU non fanno che riportare in auge l’immagine di Pyongyang quale scheggia impazzita della Comunità Internazionale. D’altra parte bisogna anche riconoscere che la totale assenza di rappresentanti nordcoreani all’interno delle Nazioni Unite (la Corea del Nord non ne fa infatti parte) determina la totale estraneità della leadership comunista ai richiami dell’Istituzione. Inutile a più di 60 anni di distanza dalla fine delle ostilità tra nord e sud che quello attuale sia infatti il confine definitivo della penisola coreana, anche nella geopolitica dell’estremo oriente infatti, “niente è più definitivo del provvisorio”.

 

Fabio Stella

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Il Mondo di domani

Il calendario si porta via un’altra settimana spesa all’insegna della ri-salita al trono degli Stati Uniti da parte di Barack Obama e Joe Biden e del discorso sul futuro di Londra nel contesto dell’Unione Europea tenuto dell’euroscetticissimo David Cameron, dopo settimane di attesa. Nonostante i media siano ancora distratti dai luccichii provenienti da Occidente, il vero eldorado per gli sviluppi delle relazioni internazionali rimane l’Oriente in cui tutto sembra in perenne movimento

 

EUROPA

Martedì 29-Mercoledì 30 – Un argomento di cui si parla poco, nonostante la sua importanza strategica per il futuro delle relazioni internazionali, lo spazio sarà finalmente al centro dell’attenzione di Bruxelles grazie all’apertura della 5^ Conferenza Annuale sulla Politica Spaziale Europea . Oltre ad analizzare lo sviluppo dei progetti già lanciati come l’implementazione dei sistemi di lancio orbitale VEGA e il telerilevamento satellitare GALILEO, il meeting seguirà le direttrici fondamentali del miglioramento dell’industria aero-spaziale e il sostegno alla ricerca accademico-specialistica in tutti i campi collegati alla conquista dello spazio.

 

Giovedì 31 – Tempo di buttarsi sugli affari internazionali a capofitto per l’Unione Europea grazie all’abituale Consiglio in Formazione Esteri, coinvolta in prima linea nella crisi in Mali e ormai anche nella disastrosa situazione in Siria dove una linea di postazioni missilistiche inviate in Turchia dalla NATO tenta di arginare una tempesta inarrestabile. Spazio anche per il riaccendersi dei fuochi di Piazza Tahrir in Egitto, tema che sarà al centro dell’ormai prossimo Summit Europeo sulla Primavera Araba. Gli ultimi aggiornamenti dall’area del Nord-Africa e del Medio Oriente non fanno altro che premere sul tallone d’Achille della costruzione dell’UE, ovvero la diversa sensibilità e le diverse reazioni agli avvenimenti ai suoi confini da parte dei suoi membri.

 

AMERICHE

STATI UNITI – Si alzano i riflettori sul tappeto americano che copre più rivoli di polvere in assoluto, negli ultimi in giorni infatti, la CIA è tornata alla ribalta delle cronache internazionali dopo che l’ex agente speciale John Kiriakou è stato condannato a 30 anni di carcere da un tribunale della Virginia (sede del quartiere generale di Langley). Kiriakou avrebbe parlato liberamente in diretta tv delle tecniche di interrogatorio usate dall’Agenzia, in particolare del waterboarding, menzionando in una e-mail ad un giornalista persino il nome di un collega ancora sotto copertura. A favore di Kiriakou si è però mosso un vero e proprio esercito di veterani e di accademici, mettendo letteralmente la mano sul fuoco sulla sua fedeltà e innocenza. Lo stesso Bruce Riedel, Direttore del Brookings Institute ed ideatore della strategia di Obama per l’Afghanistan si è pronunciato a favore di una grazia presidenziale.

 

ARGENTINA – Tra i vari poteri della nuova Evita Peron, c’è anche quello di ricondurre al tavolo i soggetti più reluttanti, visto che la Presidenta Kirchner ha recentemente annunciato la firma di un accordo con l’Iran per la soluzione dello stand-off riguardante un attentato anti-semita risalente al 1994. Ben 85 furono le vittime dell’esplosione della sede di Buenos Aires dell’AMIA, Associazione di Assistenza Israelita in Argentina, che resta un vero e proprio mistero nonostante i sospetti e le insinuazioni sulla complicità del governo degli Ayatollah. Sembra che ora le autorità giudiziare iraniane siano invece pronte a collabrorare, quello che non ci è dato sapere è quale sia la ragione o il compenso per tanta e improvvisa cooperazione.

 

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ASIA

CINA-GIAPPONE – Potrà mai la più scottante disputa del Mar Cinese risolversi tramite delle civili e diplomatiche trattative attorno ad una tavola rotonda tra il neo-appuntato Xi Jinping e il neo-eletto premier giapponese Shinzo Abe? E’ questa la domanda che attanaglia la Comunità Internazionale a qualche ora di distanza dall’annuncio di Pechino, la risposta di Tokyo non si è fatta attendere, infatti, con l’entourage di Abe ad accogliere favorevolmente la proposta di trattative amichevoli. Il tutto mentre gli Stati Uniti, si turano il naso per non sentire il sapore di sconfitta derivante dal fatto che dopo aver subito la più umiliante sconfitta degli ultimi 300 anni di storia americana, all’alba del 2013 siano tornati a flirtare col governo vietnamita in funzione anti-cinese. Come sempre nella storia della diplomazia, il realismo torna di moda negli scenari più strategici per gli attori dominanti.

 

COREA DEL NORD – Tutto sembra essere ormai pronto per l’avvenimento più pericoloso per gli equilibri dell’Asia Orientale e del mondo intero, secondo diverse fonti interne ed esterne infatti, Pyongyang sarebbe finalmente pronta a far brillare un nuovo gioiello della fisica termonucleare locale. Dopo i test del 2006 e del 2009, toccherebbe dunque al 2013 assistere all’alba del giorno dopo, una volta che l’ennesimo lancio made in Korea faccia tremare gli equilibri globali, soprattutto ora che le minacce agli Stati Uniti sono diventate propaganda di ordinaria amministrazione. Gli osservatori parlano di silos nucleari tenuti in condizione di massima allerta, al riparo da gelo e neve che abitualmente ricoprono anche le basi nucleari dell Hermitage Kingdom. Mentre si attendono nuove dall’estremo nord della penisola, l’unico commento deducibile è che per il futuro della regione, comunque vada non sarà un successo.

 

MEDIO ORIENTE

EGITTO – 3 morti e circa 500 feriti e il governo costretto ad applicare lo stato d’emergenza, questo il bilancio dell’ennesimo weekend di sangue nell’Egitto del dopo-Mubarak, dove il governo della Fratellanza di Morsi stenta a tenere le redini di un popolo che sembra aver abbandonato per sempre l’obbedienza all’autorità. Da sempre al centro degli sviluppi di Nord Africa e settore mediorientale, anche ora l’Egitto rappresenta il centro di una sterminata fascia di focolai che si estende dal Mali diviso tra intervento armato ed estremismo, all’Algeria del nuovo predone Belmokhtar, alla Libia dell’incertezza del dopo-Gheddafi per passare poi alle consuete crisi in corso in Palestina, Libano e infine la Siria. Estremamente complesso cogliere il bandolo della matassa per sciogliere il nodo del futuro dell’intera regione, ci auguriamo tutti che il destino non sia un altro “Afrighanistan” come ben intuito dai graphic designer dell’Economist.

 

SIRIA – Valerie Amos, l’ufficiale di grado maggiore nelle fila del ramo umanitario delle Nazioni Unite è giunta Domenica in Siria mentre le violenze raggiungono un’intensità inaudita attorno alla capitale e a lle roccaforti dei ribelli. La Amos aveva indirizzato in settimana commenti piccati all’indifferenza della Comunità Internazionale nei confronti del dramma della popolazione soggetta alle violenze del regime di Bashar al-Assad e alle scorribande delle milizie islamiche accorpatesi all’Esercito Libero Siriano. Mentre il governo offre l‘immunità e la grazia presidenziale a tutti gli esiliati che si offrano di trattare col governo in carica, Mercoledì si terrà in Kuwait una conferenza per raccogliere fondi da destinare ai rifugiati e ai civili coinvolti nella guerra intestina.

 

Fabio Stella

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