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La scommessa

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2013 – L’anno nuovo sembra essere una grande scommessa per il futuro dell’Unione Europea. Dalla proposta “shock” di David Cameron di indire un referendum per far decidere ai cittadini se restare o uscire dall’UE, alle sfide verso l’unione bancaria e politica, la ripresa o la disfatta economica del continente dipenderanno grandemente dall’atteggiamento che gli Stati membri decideranno di tenere. Solidarietà e visione di lungo periodo saranno le condizioni sine qua non per la sopravvivenza dell’Unione

 

THE GAMBLER” – Lo “scommettitore”. Così l’ “Economist” ha definito il Primo Ministro britannico David Cameron, autore mercoledì 23 gennaio di un discorso attesissimo nel quale ha annunciato l’intenzione di indire un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. La consultazione dovrebbe avvenire dopo le prossime elezioni politiche del 2015 ed essere convocata entro il 2017. Non proprio dopodomani, insomma. Cosa c’è dunque di concreto nella proposta di Cameron? Quanto è alta la posta in gioco? ALL-IN – Per parlare del futuro dell’Unione Europea è fondamentale partire dalla questione britannica. Le voci in merito a una “Brixit”, un’uscita di Londra dall’UE, si sono fatte sempre più insistenti negli ultimi mesi, dopo che il Governo conservatore di Cameron aveva rifiutato, unico in Europa insieme alla Repubblica Ceca, di aderire al Fiscal Compact, primo grande passo verso una maggiore integrazione macroeconomica ritenuta necessaria per salvare non solo l’Eurozona ma per garantire la sopravvivenza dell’intera Unione. L’insofferenza di Londra verso le proposte di ulteriori rinunce alla sovranità nazionale ha suscitato un dibattito interno, che ha visto i Tories sempre più critici, i Liberaldemocratici più aperti all’Europa, e i Labour decisamente pro-EU. Fino ad arrivare al discorso del Premier che, come un giocatore di poker, sembra aver deciso di puntare tutte le sue fiches. Bluffa? Probabilmente sì, nella speranza di poter ottenere una contropartita da Bruxelles: la possibilità di riottenere e conservare la sovranità su alcuni poteri in cambio della permanenza del Regno Unito in Europa. Londra, tuttavia, non sembra avere il coltello dalla parte del manico: non ha alleati “di peso” (Danimarca e Svezia, parzialmente euroscettici, non sono Paesi così determinanti nell’equilibrio dei poteri) e, cosa ancora più importante, avrebbe molto da perdere e poco da guadagnare da un’uscita dall’Unione. Pensiamo al mercato unico: il commercio della Gran Bretagna con il resto dei Paesi europei è una parte preponderante dei suoi scambi economici complessivi che sarebbero danneggiati da un’uscita di Londra dall’UE, che comporterebbe il ripristino di barriere tariffarie (e non). Inoltre, il possibile futuro completamento del mercato unico anche nella sfera dei servizi consentirebbe a Londra di consolidare ulteriormente il suo primato come capitale, non solo continentale ma mondiale, della finanza.

 

GLI ALTRI NON STANNO A GUARDARE – L’atteggiamento degli altri attori chiave dell’UE non sembra troppo conciliante. Dalla Germania, per esempio, non sembra che ci possa essere disponibilità ad accettare le richieste della Gran Bretagna “ad ogni costo”, mentre l’opinione pubblica francese ha reagito alla “sparata” di Cameron come ad un vero e proprio ricatto. Eppure, le spinte centrifughe in seno all’UE non vanno sottovalutate, e sono sintomatiche di una situazione di difficoltà che è ancora ben lungi dall’essere superata. È vero, nel 2012 sono stati fatti diversi progressi sul cammino dell’integrazione: dopo il Fiscal Compact, la Banca Centrale Europea ha messo a segno un punto decisivo per il salvataggio dell’Euro grazie al lancio degli Outright Monetary Transactions (OTM), disponibilità (potenzialmente illimitata) all’acquisto di buoni del debito pubblico emessi dagli Stati membri, per garantirne la solvibilità. Questa mossa in particolare, voluta fortemente da Mario Draghi, ha permesso per ora di evitare scenari di default in Grecia, Italia e Spagna portando ad un calo degli spread. E adesso?

 

VERSO L’UNIONE BANCARIA? – Il prossimo passo verso il consolidamento dell’Unione Economica, dopo il varo di quella fiscale, sarà quello dell’Unione Bancaria. Tale evoluzione dovrebbe garantire un’uniformità dei regolamenti e aumentare i poteri di supervisione e sorveglianza della Banca Centrale Europea, allo scopo di prevenire le crisi di alcuni grandi gruppi bancari che si sono rivelate di recente in tutta la loro gravità. In questo modo l’European Stability Mechanism, il nuovo strumento approvato per garantire liquidità, potrà andare direttamente in soccorso delle banche in difficoltà. Gli effetti potrebbero essere importanti, restituendo fiducia al sistema del credito e potendo quindi anche rilanciare gli investimenti e l’economia in generale.

 

SUL FILO… DEL DISEQUILIBRIO – Certo è che la tremenda crisi dei debiti sovrani ha messo a nudo la fragilità strutturale dell’Unione Europea: il peccato originale di aver fatto nascere l’unione monetaria senza un’unione economica, nell’illusione che l’Euro sarebbe stato sufficiente per garantire convergenza nei fondamentali macroeconomici tra gli Stati. Invece, le differenze tra i Paesi “formica” (Germania in primis) e quelli “cicala” (i PIIGS, per intenderci) sono venute a galla. Manifestando gli squilibri tra i membri dell’Euro, che non saranno più sostenibili in futuro. Gli Stati in crisi, infatti, ora sono costretti dalle misure di austerity imposte da Bruxelles a tagliare la spesa pubblica e ad aumentare le tasse: tali politiche, restrittive e recessive, dovrebbero essere accompagnate da manovre espansive negli Stati “virtuosi”, che non possono continuare invece ad accumulare surplus di bilancio, o godere, come nel caso della Germania, di tassi di indebitamento addirittura negativi (di poco positivi solo grazie all’effetto dell’inflazione): in pratica, Berlino è considerata talmente sicura che chi investe in titoli tedeschi è disposto a non chiedere interessi alla scadenza.

 

UN’EUROPA SOLIDALE – Quello che serve, dunque, è un’Europa che, al di là dell’austerità fiscale imposta ai governi dei Paesi in crisi, riesca ad elaborare dei meccanismi di solidarietà e redistribuzione interna, al fine di armonizzare le politiche economiche degli Stati membri e favorire finalmente la ripresa della crescita. Per fare ciò è necessaria non solo l’esperienza degli economisti, ma serve una visione strategica di lungo periodo: l’Europa deve decidere cosa vuole diventare e deve farlo capire ai suoi cittadini. Si vuole l’unione politica? Allora bisogna dirlo chiaramente e senza paura: soprattutto, bisogna riuscire a spiegare che se si tornasse indietro sarebbe peggio per tutti. Peggio per la Gran Bretagna, che perderebbe i vantaggi economici di stare nell’UE; peggio per la Grecia, che finirebbe probabilmente preda delle spinte populiste e della violenza degli estremisti di Alba Dorata; peggio per la Germania stessa, che fino ad oggi ha goduto del funzionamento di questa UE. Si impone insomma uno sforzo collettivo, da parte di tutti i 27 (pardon, 28: a luglio entrerà anche la Croazia): o si fa l’Europa, o si muore.

 

Davide Tentori

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In fiamme

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Le immolazioni di giovani tibetani si susseguono ormai da parecchi anni, l’ultima in ordine di tempo il 18 gennaio. Per la Cina la regione è di importanza vitale e mai se ne priverà, la comunità internazionale sembra indifferente. Proviamo a capire le origini di questi gesti disperati, attraverso una ricostruzione temporale, che spiega l’inizio del dominio cinese sul territorio tibetano e i tristi scenari che si prospettano per questo antichissimo popolo

 

UNO SGUARDO D’INSIEME – Venerdì 18 gennaio, un secondo tibetano, in questo inizio 2013, si è tolto la vita, nella provincia sud occidentale dell’ immensa regione cinese del Sichuan. Il macabro rituale è sempre lo stesso, urla e slogan per un Tibet libero e a favore del ritorno in patria del Dalai Lama, prima di appiccarsi il fuoco dopo essersi  cosparsi di benzina. Tsering Phuntsok è la vittima numero 97 dal febbraio 2009. Cosa sta succedendo? Perchè così tante auto immolazioni? Il Tibet si estende su un terzo della repubblica popolare cinese ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5% della popolazione. Questa regione di altipiani e catene montuose è sempre stata al centro di interessi strategici da parte dei suoi grandi vicini, Cina e India, poichè il controllo di quest’area implica, di conseguenza, il controllo di riserve d’acqua vitali per tutto il continente. Mekong, Yangtze, Fiume Giallo, Indo e Brahmaputra nascono qui, dove sono presenti inoltre, grossi giacimenti di Oro e Uranio. Interessi troppo grossi per non attirare l’attenzione.

 

ORIGINE DEL DOMINIO CINESE – Inizialmente, fu la Gran Bretagna, nel 1904, a spedire forze militari indiane nel territorio tibetano, per sanare una questione di confini, e per la prima volta, il ministro degli esteri cinese dichiarò, che era la Cina ad avere la sovranità sul Tibet. Dall’invasione britannica della regione, vide la luce un trattato il cui punto saliente era quello che obbligava il Tibet all’ apertura dei suoi confini all’India britannica senza alcuna imposizione, di tasse doganali ai mercanti indiani o britannici. Il successivo trattato sino-britannico del 1906 impegnava gli inglesi a non annettersi alcun territorio tibetano e a non intromettersi nell’amministrazione di quel governo, ricevendo in cambio il consenso dei cinesi all’istituzione dei rapporti commerciali anglo-tibetani avvenuta nel 1904. Nel 1907 Gran Bretagna e Russia, nell’ambito della spartizione delle rispettive aree di influenza in Asia, si accordarono che, nel rispetto di quanto stipulato con i precedenti trattati del 1904 e 1906, fossero riconosciuti i diritti di controllo sul Tibet dei cinesi, ai quali veniva riconosciuto anche il diritto di intermediazione su tutti gli affari esteri tibetani. Al momento della proclamazione della nascita della Repubblica cinese nel 1912, il Tibet fu annesso come provincia della neonata repubblica. I tibetani risposero espellendo tutte le truppe cinesi di stanza a Lhasa e in altri centri del Tibet e il tredicesimo Dalai Lama dichiarò l’indipendenza del Tibet nel 1913. Le ultime truppe cinesi abbandonarono il Paese l’anno successivo. Lo scoppio della prima guerra mondiale e la successiva guerra civile, accantonarono momentaneamente l’interesse cinese per la regione, che tornò prepotentemente alla ribalta il 7 ottobre 1950, stesso giorno in cui i soldati americani varcavano il 38mo parallelo dando inizio alla guerra di Corea, che catalizzando l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, dava il via libera all’invasione cinese del Tibet, senza alcuna obiezione internazionale. Nel 1959 quando il Dalai Lama in pericolo di vita fuggì in esilio in India, la repressione cinese aveva già fatto 65.000 vittime e oltre 80.000 profughi, in fuga verso India e Nepal.

 

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TIBET OGGI – Ancora oggi il Dalai Lama vive in esilio a Dharamsala nel nord dell’ India, considerato dalle autorità cinesi come pericolo alla stabilità interna. Negli ultimi anni, tra le regioni autonome, il Tibet è quella che riceve più investimenti di tutti, il suo reddito regionale lordo è finanziato per il 75% da Pechino. Sono tuttavia investimenti  mal distribuiti, destinati in gran parte alla costruzione di infrastrutture avveniristiche come la linea ferroviaria che da Pechino raggiunge Lhasa, capitale del Tibet, a circa 4000 metri di quota. Un gioiello ingegneristico che per ironia della sorte solo i cinesi possono permettersi, gli stessi cinesi di etnia “Han” che stanno colonizzando tutta la regione. Proprio questo è un altro tasto dolente dei difficili rapporti tra stato centrale e il paese culla del buddismo. Pechino incoraggia infatti milioni di cinesi a trasferirsi ogni anno a Lhasa e nelle altre principali città Tibetane per accelerare lo sviluppo economico e “annacquare” le tradizioni e l’identità culturale di un popolo dalla tradizione millenaria. Le rivolte dei monaci e della popolazione locale si susseguono dagli anni ’60 e non hanno portato ad alcun risultato tangibile, Il Dalai Lama ha da tempo abbandonato l’obiettivo dell’indipendenza che, oggettivamente, non otterrà mai, e si accontenterebbe di un autonomia che preservi la cultura del suo popolo, ma anche sotto questo punto di vista la Cina pare non voler concedere alcunchè. A questo punto sorge una domanda: dov’è la comunità internazionale? Il comportamento di Stati Uniti ed Unione Europea è molto, forse troppo prudente. Oggi con la Cina non si può scherzare, e bisogna pensarci molto bene prima di interferire negli affari interni del gigante asiatico, da cui, bene o male, tutti ormai dipendono a livello economico, e che considera sdegnoso e ostile  persino il fatto che le rappresentanze occidentali ricevano il Dalai Lama, come rappresentante di uno stato, che formalmente non esiste. Le immolazioni di giovani studenti e monaci, sono l’unico e ultimo tentativo di richiamare l’attenzione su una questione spinosa. A che prezzo lo sviluppo economico cinese è disposto ad arrivare per soddisfare le sue manie di grandezza e la sua leadership in Asia?

 

Filippo Carpen

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Tutto come prima?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Tre anni sono passati dal devastante terremoto che ha colpito Haiti, la nazione più povera di tutto l’emisfero occicidentale. Nonostante gli aiuti umanitari e le ingenti donazioni, la situazione rimane precaria, in particolare per le centinaia di migliaia di persone che vivono ancora negli accampamenti. Come ogni anno il “Caffè” torna a fare visita nella isola caraibica, per non dimenticare

 

TRE ANNI DOPO – Lo scorso 12 gennaio è ricorso il terzo anniversario del terremoto di Haiti che ha causato oltre 200.000 vittime, un milione di rifugiati e danni materiali che superano il 100% del PIB di questo povero paese dei caraibi. Nonostante il tempo trascorso, i progressi registrati nella ricostruzione sono ancora pochi e marginali. 350 mila persone vivono tutt’ora in 400 accampamenti. Cifre sbalorditive se si pensa al flusso di denaro che la cooperazione internazionale ha versato per Haiti all’indomani del terribile sisma (circa 5,300 miliardi di dollari US, secondo l’ONU, ma questa somma dev’essere relativizzata alla luce del denaro effettivamente speso che sarebbe in realtá meno della metá). Inoltre, negli ultimi due anni Haiti é stato colpito da diverse tempeste tropicali ed una epidemia di colera si é diffusa -centinaia di migliaia i contagiati e 7,500 vittime- aggravando le giá precarie condizioni di vita della popolazione.

 

TROPPI RITARDI – Ciononostante questi eventi non giustificano i ritardi nella ricostruzione. Altrimenti difficilmente si spiegherebbe la povertá ed il sottosviluppo che attanagliano questo paese da decenni. La classe politica é lenta e spesso incompetente. Da anni Haiti occupa gli ultimi posti nella classifica stilata da Transparency International, una ONG, sullo stato della corruzione nel mondo. La ricostruzione non é stata esente da questo flagello che colpisce in prevalenza i paesi in via di sviluppo. Il presidente Michel Martelly,  musicista di professione eletto all’indomani del drammatico 2010, non é riuscito nell’impresa, ardua, d’incamminare Haiti sulla strada dello sviluppo, ció a discapito di molte idee e qualche buona intenzione, mentre va sottolineato che la sua campagna improntata al cambio, é stata criticata come populista dagli intellettuali haitiani, essendo lo stesso Martelly un membro dell’elite mulatta che ha per lungo tempo dominato la politica del paese a detrimento della maggioranza nera del paese.

 

LA MACCHINA UMANITARIA INCEPPATA – Le critiche potrebbero essere rivolte alla capacitá del governo di gestionare gli aiuti. Ciononostante, il fallimento dell’impresa umanitaria in Haiti deve cercarsi in primo luogo nell’incosistenza del sistema di cooperazione internazionale, costituito da donanti ed organizzazioni umanitarie, su tutte ONG, agenzie e fondazioni, che nella maggior parte dei casi tendono a lavorare in maniera indipendente. Il denaro ricevuto da queste organizzazioni -siano queste governamentali (ONG) o agenzie della ONU e governamentali- solamente in piccole percentuali é arrivato a beneficiare le popolazioni colpite o ha contribuito a sviluppare i programmi stabiliti dal governo di Port-au-Prince. Nella maggior  parte dei casi i fondi ricevuti venivano orientati a progetti promossi da ciascuna organizzazione in forma indipendente, con una debole connessione con le reali necessitá delle comunitá, i programmi di ricostruzione, e con un impatto praticamente nullo in termini di risultato. Paul Farmer, un accademico statunitense e da oltre trent’anni medico attivista in Haiti, ha denunciato che meno dell’1% dei fondi é stato donato al governo.

 

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LA GESTIONE DEI FONDI – Le ONG sono destinatarie di gran parte della torta che constituiscono gli aiuti umanitari e di ricostruzione, bypassando completamente il governo e le popolazioni locali, come segnala un rapporto della ONU. Nel peggiore dei casi, le organizzazioni e gli stessi governi occidentali che spesso gestiscono in forma autonoma le donazioni attraverso le propie agenzie di cooperazione (come l’US-AID, per esempio), utilizzano i fondi per coprire le propie spese di funzionamento. Un rapporto dell’ufficio di contabilitá degli Stati Uniti sul caso haitano ha rivelato che la maggior parte dei fondi donati sono stati utilizzati per pagare le spese realizzate da  Washington nella risposta al terremoto, in particolare il contingente di 20,000 marines sventagliato all’indomani del sismo (per controllare la situazione di sicurezza) e le spese consolari. Come lo ha segnalato un critico, praticamente il denaro é tornato al mittente, transitando solamente per Haiti. Gli Stati Uniti sono accusati di finanziare con centinaia di milioni dollari di denaro pubblico, imprese statunitensi senza che una licitazione abbia avuto luogo. L’ambasciata americana in Haiti ha giustificato l’accaduto con l’urgenza dettata dalla situazione umanitaria. É questa la sconsolante rivelazione di uno studio condotto dal Disaster Accountability Project, una ONG che si dedica a scrutinare l’utilizzo dei fondi destinati alle crisi nel mondo, che nel caso haitiano ha concluso che solo una minima parte dei fondi é giunta alla popolazione mentre ha puntato l’indice sui cospicui guadagni derivanti dagli interessi maturati dalle donazioni nei conti bancari di alcune organizzazioni nel lasso di tempo che trascorre dal momento del versamento del donante a quello della vera e propia implementazione del progetto, che spesso puó superare anche i dodici mesi. Secondo Antonio Donini, un esperto di affari umanitari, il sistema di assistenza umanitaria ha sperimentato un declino progressivo. Dalla decade dei Novanta ad oggi il sistema é passato da una presenza “volontaristica” ad una gestione sempre piú professionale. Questo si deve in gran parte, all’aumento -esponenziale- del flusso di denaro che i governi e la ONU destinano annualmente alla risposta e gestione delle crisi umanitarie. Nel 2011, la ONU (uno degli attori dell’arena umanitaria, non l’unico) ha destinato un budget di oltre 73 miliardi di dollari per affrontar le crisi umanitarie. Un bilancio record che é destinato a crescere.

 

RIPRESA POSSIBILE? – La ripresa di Haiti sembra affidata agli investimenti stranieri, in particolare l’industria manifatturiera tessile che giá nel passato, all’epoca della dittatura duvalierista, era arrivata ad occupare 100,000 persone, per poi declinare inesorabilmente fino alle poche centinaia di lavoratori attuali. Ciononostante, l’industria sembra ora destinata al rilancio. Nella cittá di Capo Haitiano, nel Nord del paese, é stato costruito un nuovo complesso industriale che nell’arco di cinque anni potrebbe creare fino a 65,000 nuovi posti di lavoro. Planano peró dubbi su questa strategia di sviluppo fortemente voluta dal presidente Martelly e finanziata dagli Stati Unite e dalla Banca Interamericana di Sviluppo per un totale di 250 milioni di dollari. Le imprese straniere sono attratte dal basso costo della manodopera in Haiti e dalla legislazione favorevole, oltre che dal fatto che Washington ha promosso da diversi anni, e rinnovato nel 2010 per dieci anni, un programma commerciale, HOPE II, che apre il mercato statunitense alle importazioni – esenti da tasse- di prodotti haitiani o manufatturati in Haiti. Il programma ha il potenziale di attirare investitori stranieri, in particolare americani sull’isola. Peró non é tutto oro quello che luccica. Secondo Naomi Klein, autora del libro “La Dottrina Shock” che descrive come le potenze straniere approfittano delle crisi per diffondere il sistema neoliberale nei paesi in via di sviluppo, questa strategia si starebbe applicando in Haiti. E´una realtá che per la stragande maggioranza degli haitiani, che per il 70% vivono al disotto della soglia di povertá di 2 dollari al giorno, la prospettiva di guadagnare 5 dollari (l’attuale salario minimo diario) é molto invitante…e lucrativo per le imprese straniere.

 

Da Santiago del Cile – Gilles Cavaletto

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Il pomo della discordia?

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L’isola di Taiwan ha sempre avuto un ruolo controverso ed una storia complicata. Da rappresentante della Cina intera, senza avere alcun territorio se non un pugno di isole, ad entità politica dall’ambiguo riconoscimento, ma tuttavia di importanza chiave per gli equilibri strategici. Col ridisegnarsi degli equilibri post guerra fredda, l’ascesa della Cina ed il ritorno al Pacifico degli Stati Uniti, quest’isola ed il piccolo arcipelago che la circonda si sono ritrovate improvvisamente al centro delle strategie dei giganti mondiali

 

IMPORTANZA ECONOMICA – Un primo aspetto per cui essa è al primo posto delle agende politiche sia di Washington che di Pechino è il suo ruolo economico e commerciale. La Repubblica di Cina possiede infatti un’economia florida ed avanzata, il cui know-how farebbe certamente comodo alla Repubblica Popolare Cinese (PRC), oltre a una posizione geografica privilegiata. Essa si trova infatti al centro delle principali rotte commerciali che dal Medio Oriente attraverso il Mar Cinese del Sud e lo Stretto di Malacca riforniscono gli stati dell’Estremo Oriente di materie prime. Se Pechino dunque riuscisse ad estendere il proprio controllo sino a Taipei, le implicazioni strategiche sarebbero ovvie, essendo in grado di operare una nazionalizzazione di fatto di queste rotte commerciali e delle risorse che su esse transitano, tanto vitali ai paesi dell’area.

 

PROSPETTIVA MILITARE – La propria posizione privilegiata, come immaginabile, non la pone solamente al centro dell’agenda economica, ma anche di quella politica. La PRC si trova infatti ad avere vicini ingombranti come Giappone, Corea del Sud, India e Russia, alcuni veri rivali che ne limitano l’espansione. Un certo controllo su Taiwan fornirebbe invece alla marina militare cinese (PLAN) l’accesso al Pacifico centrale e potrebbe funzionare da base per la costruzione di un rilevante potenziale navale che le permetterebbe di fare il salto di qualità, sia nelle questioni regionali (Mar Cinese del Sud e isole Senkaku), che nel sul più ampio scacchiere pacifico. Possiamo quindi comprendere come per gli Stati Uniti, maggior potenza marittima al mondo, debba essere una priorità mantenere Taiwan libera dall’influenza continentale, in primis per prevenire l’insorgere di un avversario temibile anche sul piano militare e secondariamente perché, come insegna Cuba, tenere una spina nel fianco del proprio avversario può sempre essere utile.

 

IMPORTANZA STRATEGICA – Non solo considerazioni di ordine tattico, ma anche altre più profonde di ordine strategico guidano la linea d’azione di Washington; Taiwan è infatti sempre stata un partner importante, su cui sono state investite molte risorse. Se Taiwan passasse quindi sotto l’influenza comunista questa sconfitta potrebbe aprire una crepa nei rapporti tra gli Stati Uniti ed i suoi partner nell’area, minandone gravemente l’autorevolezza. Il futuro della presenza a stelle e strisce nell’area è infatti legato a doppio filo ad una serie di alleanze regionali, che potrebbero risultare appunto indebolite da un risoluzione della questione taiwanese più favorevole alla Cina continentale, e rafforzando di contro la posizione della PRC. Non dimentichiamoci, inoltre, che poiché Taiwan controlla le rotte commerciali su cui transita il greggio proveniente dal Medio Oriente diretto in Corea del Sud e Giappone, la prospettiva che i due maggiori alleati americani nell’area debbano pagare dazio a Pechino per le risorse vitali alla propria economia costituisce uno scenario preoccupante.

 

SVILUPPI FUTURI – La soluzione ottimale per Washington sarebbe, dunque, congelare la situazione com’è, evitando che Taiwan si sposti troppo verso la Cina continentale, ma cercando anche di fare in modo che non se ne allontani troppo, per evitare una reazione di forza di Pechino. Per la PRC la questione è ancora più delicata: Taiwan è sempre classificata come una questione di primaria importanza, ed una eventuale evoluzione negativa avrebbe ripercussioni non solo sulla politica estera, ma anche su quella interna, caratterizzata da numerose tensioni separatiste. Dall’altro canto gli interessi cinesi si volgono ora sull’intera Asia e oltre, e un conflitto con gli USA per Taiwan metterebbe a rischio l’intera strategia di espansione economica e diplomatica di Pechino. Taiwan, insomma, è il banco di prova su cui la PRC dà gli esami da superpotenza, e l’esito di questa contesa ne influenzerà indubbiamente il futuro sullo scacchiere non solo regionale, ma anche mondiale.

 

Marco Lucchin

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Il 10° Parallelo

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2013 – Nello studio della geopolitica ci si imbatte a volte in coincidenze inaspettate che, a prima vista incomprensibili, ci aiutano poi invece a comprendere meglio la natura dei conflitti e delle dispute tra popoli e nazioni. E’ questo il caso di una linea immaginaria attorno alla quale, pur lontana da Europa e Medio Oriente, si svolgono la maggior parte degli scontri tra Cristiani e Mussulmani: il 10° Parallelo. E 10 sono i punti con i quali ve ne parliamo

‘I have a drone’

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2013 – Come si presenta il 2013 per il ri-eletto Presidente Obama? Un anno in cui, oltre ai trend di lungo termine della strategia americana, come il confronto con la Cina nel Pacifico e con l’Iran in Medio Oriente, si aggiungono dossier bollenti, come le operazioni in Mali e in Somalia, e il possibile intervento in Siria. Un anno in cui i tagli alla Difesa diventano effettivi. Un anno che porterà al ritiro dall’Afghanistan. Un anno in cui l’Amministrazione Obama segnerà il percorso dell’intero mandato

 

DI-FE-SA! – Dopo dodici anni di incremento del budget destinato al Dipartimento di Difesa (dal 1999 al 2011 è passato da 360 a 537 miliardi di dollari, senza contare i 13.000 miliardi spesi in Afghanistan e Iraq), nei prossimi dieci anni ci sarà una riduzione di almeno 490 miliardi di dollari, a partire proprio dal 2013. Quello che è stata la strategia obamiana di supporto agli alleati e preferenza per operazioni mirate, concluse dalle squadre speciali o dai velivoli comandati a distanza (i droni), si rivelerà l’unica realisticamente applicabile in questo contesto economico. La formula che guiderà le scelte della Casa Bianca nel 2013, e per tutto il prossimo mandato, è sintetizzata in quattro caratteri: A2/AD, o meglio, anti-access/area-denial. Sostanzialmente la strategia americana non sarà più rivolta ad occupazioni militari di territori ostili (dal 2014 in Afghanistan dovrebbero rimanere solo addestratori e qualche unità di supporto), ma cercherà di creare un ambiente sicuro per sé e per i propri alleati, da un lato garantendo l’accesso alle risorse e ai mercati, dove l’influenza dei competitor è minacciosa, e dall’altro proteggendo la propria sfera e quella degli alleati, tramite la deterrenza. La Defense strategic guidance del Pentagono individua due regioni a cui si applicano, in maniera calzante, questi criteri: il Pacifico e il Golfo Persiano. In entrambe le aree, gli Stati Uniti non sono interessati alla conquista, ma al libero accesso alle risorse e ai mercati di quelle aree. Inoltre la minaccia di Cina e Iran verso gli Stati Uniti non risiede in un’invasione territoriale a discapito di un alleato americano (almeno nel breve e medio periodo), bensì nella creazione di sfere d’influenza regionali, di cui le due potenze ne controllerebbero esclusivamente l’accesso.

 

TUTTI (O QUASI) GLI UOMINI DEL PRESIDENTE – Le nomine di Obama per i posti chiave nell’Amministrazione stanno suscitando discussioni, come naturale che sia, ma sembrerebbero funzionali al percorso di politica estera che il Presidente ha iniziato già lo scorso mandato. Alla Difesa è stato nominato Chuck Hagel, già Senatore repubblicano del Nebraska. Interessante l’articolo che Hagel ha pubblicato nel luglio 2004 su Foreign Affairs, “A Repubblican foreign policy”, dove parlava di una divisione dei compiti e delle responsabilità con gli alleati nei diversi teatri (tanto cara all’azione estera di Obama), e dove, ad ogni modo, emergevano le radici realiste del suo pensiero. La direzione della CIA è stata affidata a John Brennan, consigliere per l’antiterrorismo del Presidente Obama nel precedente mandato e con una carriera più che ventennale nell’intelligence americana. Brennan è “l’uomo dei droni” e colui che ha pesato molto nello stilare la killing list di Obama; lo scorso anno si spese a favore anche di alcuni raid degli UAV americani per colpire diversi capi estremisti in Mali. È, infine, di questi giorni la notizia che il nuovo Chief of staff sarà Denis McDonough, uomo di Washington, anche lui vicino al pensiero realista come Hagel, non profondo conoscitore del Medio-Oriente ma sostenitore della svolta verso il Pacifico della politica estera americana.

 

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MAL D’AFRICA – Nel 2013 continueranno quindi le azioni, basate sul mix di operazioni delle forze speciali e utilizzo di mezzi altamente tecnologici (droni, attacchi cibernetici), volte a contenere ed eliminare le minacce alla sicurezza americana. Oltre a Pakistan, Afghanistan (fondamentale sarà la gestione del ritiro delle truppe), Yemen e altri focolai mediorientali, che ormai da alcuni anni sono obiettivi delle incursioni americane, entreranno in gioco due aree finora considerate solo marginalmente (ad eccezione della Libia) dall’Amministrazione: l’Africa e il Mediterraneo. Innanzitutto proprio la Libia, la cui stabilizzazione verrà, per così dire, assistita dall’invisibile presenza americana sulla scia di quanto già è accaduto nel 2012. La killing list di Obama, infatti, contiene diversi obiettivi operanti proprio in territorio libico. L’altro teatro su cui gli Stati Uniti hanno garantito il loro appoggio logistico e di fornitura di attrezzature altamente tecnologiche è il Mali. Se è vero che il Segretario alla Difesa uscente Panetta ha dichiarato che non ci sarà un dispiegamento di militari americani in Mali, è altrettanto vero che i francesi si sono rivolti a Washington per ottenere velivoli spia, aerei cisterna per i rifornimenti in volo, strumenti di intelligence e apparecchi satellitari per le intercettazioni radio e telefoniche, e che il nuovo capo della CIA ha dimostrato di essere sensibile agli aspetti della regione. Oltre alla questione del Mali è anche l’evoluzione dello scenario somalo a preoccupare. All’incursione dei giorni passati, per liberare ostaggi francesi in Somalia, hanno partecipato anche gli Stati Uniti e non rimarrà sicuramente un’operazione isolata nel 2013.

 

OCCHIO ALLA SIRIA – Ultimo scenario su cui Obama sarà chiamato a lavorare durante quest’anno sarà la Siria. È chiaro l’intento americano di lasciar agire in prima linea gli alleati dell’area, Turchia e Qatar in testa, ma è innegabile che un intervento in Siria, qualora ci sia il via libera di Mosca e Pechino, comporterà ancora una volta il concreto e altamente qualificato supporto americano. Forse anche in misura maggiore, poiché Francia e Gran Bretagna sono attivamente impegnate in Libia e in Mali.

 

Davide Colombo

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L’incognita Cina

Economia, ambiente e insoddisfazione della popolazione: tre fattori, tre sfide su cui si giocherà il 2013 cinese. Al di là di numeri e dati, occorre considerare la sostenibilità della crescita cinese e l’impatto concreto di questa sulla vita della popolazione, sotto diversi punti di vista (compreso il tema censura) che proviamo ad analizzare insieme, con cinque domande e cinque risposte

 

La Cina ancora una volta viene vista dai mercati come “market mover”, fattore capace di muovere l’andamento delle borse. Un semplice dato in arrivo dalla Cina riesce ormai ad avere delle conseguenze sull’andamento degli indici azionari come la disoccupazione americana. Le case d’affari scommettono sul fatto che la crisi sia ormai alle spalle e che il Pil della Cina tornerà a crescere. Ma a che prezzo? La crescita della Cina è sostenibile? E quali le conseguenze sulla vita della popolazione e sulle condizioni climatiche? Abbiamo provato a dare una risposta a queste domande. Gli sbilanciamenti in corso a danno della popolazione sono la sfida più grande che il nuovo governo dovrà affrontare.

 

Qual è la situazione economica della Cina in questo momento?

 

Tutti gli analisti sono d’accordo nel dire che la Cina ha superato il momento peggiore per la sua economia. Che ha toccato il fondo. Il prodotto interno lordo infatti nell’ultimo trimestre dello scorso anno è cresciuto al di sotto delle attese del mercato. Anche il dato sulle vendite al dettaglio e quello sulla produzione industriale hanno fatto meglio di quanto ci si aspettava. Era stato proprio il governo cinese a volere un rallentamento della propria economia, normalizzandone la crescita, perché questa diventasse sostenibile nel tempo. L’obiettivo è stato centrato. Gli esperti finanziari sostengono che le autorità del paese non interverranno più né a livello fiscale né a livello monetario. Ma su Pechino non bisogna mai scommettere troppo: il governo centrale è riuscito spesso a spiazzare le aspettative dei più accorti studiosi del paese. La vera sfida però è sui consumi. I cinesi spenderanno i loro soldi risparmiando meno? Se la Cina sarà capace di sostenere la propria economia dall’interno – basandosi meno sulle esportazioni – vincerà una grande sfida.

 

E le conseguenze nei confronti dell’ambiente?

 

L’espansione economica cinese e la forte industrializzazione del paese hanno avuto conseguenze disastrose sull’ambiente. Chi in questi giorni si trova a Pechino lo sa bene. “Sembra di essere tornati ai tempi della Sars – ci racconta un imprenditore – giriamo con le mascherine e il livello dell’inquinamento è insopportabile”. Pechino svelerà a breve nuove regolamentazioni senza precedenti che hanno lo scopo di gestire al meglio l’inquinamento della capitale. Misure ad hoc che comprenderanno la chiusura di alcuni stabilimenti, un utilizzo inferiore del carbone e una soluzione spesso adottata anche in Europa, il divieto di circolazione di alcune autovetture quando l’inquinamento raggiunge livelli inaccettabili. La qualità dell’aria a Pechino è di molti gradi al di sotto degli standard minimi internazionali per la respirabilità ed è un fattore di preoccupazione per il governo perché gioca a favore del risentimento della popolazione sui privilegi politici e sulla crescente diseguaglianza tra ricchi e poveri nella seconda economia mondiale.

 

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La popolazione come vede la situazione?

 

È infastidita da quanto accade sul fronte ambientale, ma la verità è che più che altro è stanca delle disparità tra le classi sociali. I più poveri vorrebbero anche loro godere di quella torta rappresentata dall’espansione economica. Vorrebbero un posto di lavoro che permetta loro quella svolta tanto agognata. Appena trenta anni fa un cinese su cinque viveva in città. Ora le cose sono cambiate: la popolazione urbana nel 2012 ha superato quella rurale e anche questo testimonia l’inseguimento di un sogno e la voglia di un miglioramento del proprio tenore di vita. I cinesi infine grazie ad internet nel corso degli anni sono diventati sempre più consapevoli e vogliono un cambiamento, a partire dalla corruzione delle autorità locali, che proprio non digeriscono. Non è un caso che su internet fiocchino le proteste contro le notizie di appropriazione di fondi pubblici da parte di funzionari locali, comunali e provinciali.

 

Ci sono dei segnali di protesta?

 

Recentemente è accaduto un fatto che testimonia come molto stia cambiando in Cina sul fronte della libertà d’espressione. Pochi giorni fa, per un articolo critico nei confronti del nuovo governo, il Southern Weekly (“Nanfang Zhoumo“, “Settimanale del Sud”) ha rischiato la chiusura. Subito è partita la censura e l’editoriale è stato totalmente stravolto per potere andare in stampa. Ma i 35 giornalisti e i 50 stagisti non hanno gradito, chiedendo – aiutati da una comunità internet cinese sempre più consapevole e dalla comunità locale – le immediate dimissioni del responsabile provinciale del partito. Questo episodio è importante non tanto per il confronto tra media e governo, che c’è sempre stato, quanto perché per la prima volta questo dissidio è arrivato alle orecchie dei cittadini. Sui cartelli che svettavano di fronte alla redazione del settimane di Guangzhou, meglio nota come Canton, metropoli capoluogo del Guandong, regione più industrializzata della Cina, si leggevano scritte quali: “Liberateci dalla censura, il popolo cinese vuole la libertà“. Solo questo è un grande passo avanti e dimostra come i cinesi siano stufi di certi meccanismi e pronti a protestare a viso aperto contro il governo partendo dagli ufficiali di Polizia locale.

 

La comunità internazionale che fa?

 

Non può fare molto. Pechino ha da sempre i suoi tempi, dalla rivalutazione dello yuan alla strategia geopolitica. I primi a bacchettare la Cina sono di solito gli Usa, ma di fatto la Cina possiede il loro debito, avendo acquistato miliardi di t-bonds, per cui non possono lamentarsi più di tanto nè tantomeno dettare legge in Cina. Sul fronte dei media, nello specifico a Washington il Dipartimento di Stato ha dichiarato che la censura dei media è incompatibile con le aspirazioni cinesi di costruire una società e una economia moderna basata sull’informazione.

 

Di crisi in crisi

Impossibile contare quante volte abbiamo ascoltato la parola crisi ripetuta dai mezzi d’informazione negli ultimi 5 anni, nella maggior parte delle occasioni legata ovviamente alle sorti dell’economia e della finanza internazionale. Tuttavia da quando il mondo è entrato nel dopo Guerra Fredda anche gli osservatori più attenti stentano a seguire le linee generali del quadro delle relazioni internazionali e si arrendono ad analizzare la geopolitica avanzando…di crisi in crisi

 

EUROPA

Lunedì 21 – Grande attesa in Germania per le elezioni “regionali” nel lander della Sassonia Inferiore dove i cristiano-democratici di Angela Merkel tenteranno di rompere la serie di risultati mediocri che li ha contraddistinti negli ultimi mesi. Il tempo per la competizione presidenziale stringe e i prossimi appuntamenti con le urne detteranno il futuro di una Germania che aspira a rimanere nell’Olimpo delle stanze dei bottoni di Bruxelles, in qualità di traino di una possibile ripresa dell’eurozona e di decisore di ultima istanza. Tuttavia per ottenere tale bottino di guerra, Angela, la palladina dell’austerity dovrà giocarsi tutti gli assi a disposizione: solo un consenso dall’ampia base elettorale le potrà garantire i giusti appigli per restare sul podio dell’UE.

 

REGNO UNITO – E’ il nodo cruciale che da anni incita il dibattito in Gran Bretagna, l’isola europea per definizione, che per definizione non vuole esserne considerata parte integrante, ma invitato con diritto di rinuncia. Proprio nel corso di questa settimana, il premier britannico David Cameron sarà chiamato a pronunciarsi sulle sorti delle relazioni altalenanti tra Londra e Bruxelles. Secondo indiscrezioni trapelate nella ressa susseguitasi all’attentato del campo petrolifero di In Amenas in cui hanno perso la vita 6 cittadini d’oltremanica, Londra sarebbe indirizzata per un opt-out su tutti i fronti qualora alcuni aspetti della vita democratica di Bruxelles non venissero riformati pesantemente.

 

AMERICHE

STATI UNITI – Dopo anni di onorato servizio alle istituzioni politico militari a stelle e strisce, Leon Panetta, l’attuale Segretario alla Difesa USA, ha scelto le capitali del vecchio continente queli cartoline d’addio per la sua esperienza in qualità di Direttore del Pentagono. Mercoledì scorso ha vissuto in diretta da Roma la crisi degli ostaggi in Algeria, per poi trattare l’emergenza a Londra sotto la neve in compagnia di Cameron e congedarsi dall’ultimo tour ufficiale di fronte agli studenti inglesi della London School of Economics con un laconico “guys, it’s really time for me to get back home”. Panetta lascia la Difesa con alle spalle una serie di soddisfazioni personali da condividere con Barack Obama, dal targeted killing di Osama Bin Laden al ritiro dall’Iraq prima che la presenza avanzata si trasformasse in un altro pantano afghano.

 

VENEZUELA – Il regno incantato del bolivarismo moderno rimane dall’11 dicembre in uno stallo politico-mediatico che ruota intorno alle sorti del paziente illustre Hugo Chávez, condannato alla permanenza negli ospedali cubani che da anni si prendono cura dei suoi mali incurabili. A Caracas il vice-presidente Maduro detiene il duro compito di gestire il consenso derivante da una competizione elettorale vinta sull’onda emotivo-compassionevole per il Presidente che non si arrende alla malattia e l’attenzione internazionale che preme sul cavillo del mancato giuramento di quest’ultimo. Mentre il mondo si concentra sul capezzale presidenziale l’intero Venezuela si aspetta misure di riforma per la redistribuzione della ricchezza e lo sviluppo delle regioni disagiate e dimenticate dalla capitale, mentre la politica interna sembra vittima di un incantesimo che solo la triste ma inevitabile notizia potrà spezzare.

 

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ASIA

DIAOYU-SENKAKU – Dai mari ai cieli, così si potrebbe titolare l’ultima evoluzione della disputa marittima più nota al mondo che impegna navi e velivoli di Cina e Giappone attorno ad un gruppo sparuto di isole dal potenziale energetico che pale valere tanto rumore mediatico. Proprio in una dichiarazione ufficiale del Ministero della Difesa di Tokyo il governo di Shinzo Abe si è detto pronto ad aprire il fuoco su qualsiasi apparecchio dell’aeronautica cinese che osi violare il sacro suolo acquistato con moneta sonante. La risposta altrettanto “corazzata” di Pechino non si farà di certo attendere visto che mai come ora mollare la presa sull’osso significherebbe arrendersi ad un destino di subordinazione al concerto dell’ASEAN anche nel Mar Cinese meridionale. Il patto d’acciaio stretto la scorsa settimana dallo stesso Abe col Vietnam in funzione anti-cinese sprona il regno di mezzo a rispolverare gli antichi insegnamenti di Sun-Tzu per una battaglia che si gioca ancora sul terreno delle provocazioni non-violente.

 

BANGLADESH – Quale mercato migliore per i due produttori di armi più in vista del panorama asiatico che un paese costantemente sull’orlo di una crisi di governo in cui le pressioni sociali sono controllate grazie ad uno stretto controllo militare sull’informazione e sulla popolazione? E’ così che Cina e Russia si starebbero giocando a dadi la vendita di forniture militari al governo instabile di Sheikh Hasina, che in un meeting ufficiale ha accettato un prestito di un miliardo di dollari da spendere comodamente nelle ultime novità della produzione armaiola della Federatsiya. Elicotteri corazzati come il Mil Mi-17, sistemi missilistici come il Buk, i maneggevoli S125 o i MANPAD, i razzi preferiti da Hezbollah, i giocattoli che il governo di Dacca sogna di accaparrarsi svariando sul tema principale della stradominanza cinese negli arsenali locali. Ma in arrivo da Mosca ci sarebbero inoltre tecnologie e fondi per il lancio della prima centrale nucleare bengalese, in un paese in cui l’accesso all’energia e alle materie prime determinerà il destino della produzione a basso costo giunta in loco anni orsono.

 

MEDIO ORIENTE

SIRIA – A proposito di crisi, difficile ormai prevedere un esito non-violento per la transizione di potere in quel di Damasco, dove l’arroccato regime di Bashar al-Assad programma attacchi aerei sulla sua stessa capitale in cui imperversano le scorribande delle varie milizie armate. Intanto in Turchia si levano voci di un possibile appoggio del governo di Erdogan a gruppi armati islamici e salafiti nel tentativo di arginare la presenza curda nei futuri assetti del potere a Damasco. Per le Nazioni Unite e l’UNCHR il controllo dei fiumi di profughi che dai centri tartassati dalla guerriglia si dirige verso le frontiere ormai labili del paese. Purtroppo dopo l’esito fallimentare della mediazione di Kofi Annan, non si può dire che il mediatore mediorientale per eccellenza Lakhdar Brahimi abbia ottenuto risultati migliori.

 

Martedì 22 – Israele è in fermento per l’approssimarsi della data delle elezioni generali di martedì, nonostante la compattezza della coalizione di destra Likud-Yisrael Beitenu, il premier Benjamin Netanyahu sembra dirigersi verso un lieve calo di seggi passando dai 42 attuali ai 32-35 assegnatigli dagli ultimi exit-poll. Preoccupante, dal punto di vista delle tensioni interetniche, il consenso concentratosi attorno al Jewish Home party, formazione ultraconservatrice che mira alla difesa ad ogni costo degli insediamenti contrari alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU. Così il candidato premier Netanyahu:“Il tempo in cui i bulldozer cacciavano gli israeliani dalle loro case è ormai lontano, tali scene non si ripeteranno mai più”. Di sicuro c’è che la lotta per la terra promessa ai confini di Gerusalemme non si esaurirà con una semplice competizione elettorale.

 

Fabio Stella

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Il fronte del Mali

La guerra in Mali prosegue ormai da una settimana e la coalizione contro gli islamisti comincia a prendere una forma sempre più definita. Nel contempo, però, in Algeria si è verificato il grave episodio dell’assalto all’impianto estrattivo di In Amenas: con 5 domande e 5 risposte, vi proponiamo la situazione del conflitto, il ruolo dell’Italia e le implicazioni nel breve periodo.

 

Quali sono attualmente le forze in campo in Mali?

 

L’Opération Serval conta circa 1.400 soldati francesi e tra i 15 e i 20 velivoli, ma il progetto francese prevede la mobilitazione di 2.500 militari. A queste forze deve essere aggiunta una decina di aerei da trasporto forniti da Belgio, Canada, Danimarca, Germania, Regno Unito e Spagna. L’ECOWAS invierà complessivamente circa 3.500 uomini: in Mali sono già arrivate alcune truppe da Niger, Nigeria, Senegal e Togo. Il contingente straniero è affiancato dalle Forze Armate del Mali, riguardo alle quali, però, non ci sono dati precisi. Allo stesso modo, non è possibile definire quanti siano i combattenti del fronte opposto: secondo le stime, comunque, il numero degli islamisti è senz’altro superiore a 1.000. In merito è necessario tener presente che il reclutamento dei jihadisti sia continuo in tutta l’Africa settentrionale.

 

Come sta procedendo la guerra?

 

Contrariamente a quanto era emerso anche dalla voce del presidente maliano, Dioncounda Touré, la città di Konna non è stata riconquistata, ma la battaglia continua con intensità, nonostante i rinforzi francesi abbiano condotto all’arresto dell’avanzata islamista verso sud. Il 13 gennaio l’aeronautica transalpina ha concentrato la propria azione sulla città di Gao, distruggendo alcune postazioni delle forze nemiche, mentre tre giorni dopo l’esercito ha lanciato la prima offensiva via terra nell’Azawad. Le frontiere con Niger, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea e Senegal sono relativamente sicure, al contrario di quelle con Mauritania e Algeria. Quanto al bilancio umano, la Francia ha perso un pilota e un elicottero. Gli islamisti, invece, contano tra i 100 e i 150 caduti. Purtroppo, ai combattenti morti devono essere aggiunti almeno 10 civili uccisi.

 

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Quali sono le prospettive nel breve periodo?

 

Il contesto sta mostrando che verosimilmente il breve periodo non sarà la cornice temporale di questo intervento. L’area formalmente contesa è estesa per 800mila chilometri quadrati, tutti in pieno deserto. Non bisogna però dimenticare che il raggio d’azione degli islamisti è molto più ampio: gruppi jihadisti sono attivi in tutto il Sahel e la permeabilità delle frontiere con la Mauritania e l’Algeria estende potenzialmente la missione internazionale. In questo senso la sicurezza dei confini è una delle assolute priorità, poiché il rischio è che si verifichi quanto accaduto in Afghanistan con l’arrivo di miliziani dal resto del mondo. Oltretutto, i combattenti sono ben armati e possono contare sul flusso pressoché ininterrotto di equipaggiamenti provenienti dagli arsenali libici. La conformazione geomorfologica della regione contesa, infine, garantisce costanti vie di fuga e rifugi sicuri per gli islamisti, cosicché si prospetta un conflitto molto duro, con la capacità di estendersi rapidamente ai Paesi circostanti, divenendo una nuova Grande Guerra africana. Tutto ciò considerando che non si è in grado di escludere la minaccia terroristica in Europa.

 

Quale sarà il ruolo dell’Italia?

 

Sulla base di quanto affermato dal ministro Terzi, l’Italia «non ha previsto al momento alcun dispiegamento di forze militari nel contesto operativo», pur non escludendo la possibilità di un supporto logistico alla Francia. Sicuramente il nostro Paese invierà 24 uomini nell’àmbito della missione europea di addestramento delle forze del Mali, provvedimento già approvato dal Parlamento.

 

Come interpretare quanto accaduto nell’impianto estrattivo di In Amenas, in Algeria?

 

L’assalto di un gruppo islamista a un impianto estrattivo di gas in Algeria, non ancora conclusosi nonostante il blitz delle forze speciali che ha provocato la morte di almeno 42 persone tra ostaggi e sequestratori, probabilmente era già stato pianificato prima dell’attacco francese in Mali. Tuttavia, è necessario non sottovalutare l’avvenimento, poiché il messaggio che ne deriva è duplice. In primo luogo l’azione pone in risalto la vulnerabilità del sistema di sicurezza in Algeria, quindi – ed ecco il secondo punto – essa mira a colpire un settore strategico per gli attori impegnati in Mali, ossia l’approvvigionamento energetico, mostrando la potenziale capacità degli islamisti di ledere in profondità gli interessi europei.

 

Beniamino Franceschini

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Un ponte sull’Oceano Atlantico

Un accordo di libero commercio tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti? Da alcuni mesi se ne parla in maniera sempre più insistente da entrambe le sponde dell’Atlantico. Un deal non sembra facile da ottenere, perchè gli interessi in gioco da proteggere sono gli stessi da entrambe le parti. Eppure i vantaggi sarebbero notevoli: la crescita sarebbe stimolata ed Europa e USA potrebbero mantenere la propria supremazia in campo economico

 

COS’E’ UN’AREA DI LIBERO SCAMBIO? – Un’area di libero scambio è costituita da un gruppo di paesi tra i quali sono soppressi i dazi doganali ed ogni regolamentazione commerciale restrittiva riguardante gli scambi di prodotti originari della zona stessa.  Così, ad esempio, lo scopo di una area di libero scambio è quello di allargare l’accesso delle aziende europee ai mercati dei paesi terzi favorendo la crescita del commercio, riducendo le barriere alle esportazioni e creando un ambiente più stabile e trasparente. La situazione di stallo dell’economia degli ultimi anni ha portato alla proliferazione di questi accordi (Free Trade Agreements – FTAs) coinvolgendo tutte le aree del globo, e in particolare Asia Orientale e America Latina. E anche l’Unione Europea in questo settore è molto attiva. Infatti, già dal 2006, con la comunicazione “Global Europe: competing in the world” la Commissione ha stabilito la sua strategia, considerando l’apertura dei mercati uno strumento fondamentale per la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro. Così, negli ultimi anni, l’UE per perseguire questi obiettivi ha già realizzato o sta cercando di concludere  FTAs con diverse regioni tra cui: Corea del Sud, Cile, Messico, Sudafrica,India, MERCOSUR, Canada, Ucraina, paesi ASEAN (soprattutto Singapore, ma anche Malesia e Vietnam), Giappone e USA.

 

PERCHE’ LO ZIO SAM? – Quello con gli USA costituisce l’accordo tra le due più importanti aree commerciali del mondo in quanto UE e USA rappresentano, insieme, metà del Pil mondiale e quasi un terzo dei flussi commerciali globali. E’ proprio necessario? Le relazioni economiche tra le due regioni sono le più ricche in assoluto (con oltre 1,8 miliardi di euro di beni e servizi scambiati ogni giorno). Inoltre,le cifre dell’interscambio tra USA e UE sono le più importanti al mondo (con 485 miliardi di dollari nei primi nove mesi del 2012) e competono con quelle tra USA e Cina (con 390 miliardi); gli investimenti esteri degli Usa in Europa sono pari a tre volte quelli effettuati in Asia; mentre l’Europa ha investito negli Stati Uniti otto volte le somme impegnate in Cina e in India. Nonostante tutto però, sono quattro anni che si parla di un UE – USA Fta e poco più di un anno fa Bruxelles e Washington hanno chiesto ai loro rispettivi team di iniziare i lavori per vedere in concreto i potenziali benefici e ostacoli di questo accordo. La pubblicazione di questa relazione e delle sue raccomandazioni è prevista per i prossimi mesi.

 

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PRO…  –  Gli esperti, infatti, ammettono che i rapporti tra UE e USA siano già abbastanza buoni: con barriere tariffarie molto basse rispetto agli standard globali per la maggior parte dei prodotti (in media sotto al 3%). Ma è proprio l’ampliamento di questi rapporti già esistenti che rende la liberalizzazione una meta ancora più attraente per le due parti. Addirittura, David Cameron ha posto la conclusione di questo accordo come la priorità principale della leadership della Gran Bretagna nel G8 di quest’anno. E anche secondo il Segretario di Stato (uscente) Usa, Hillary Clinton,questo FTA è molto importante perché non solo spingerebbe ad una crescita economica (si calcola che il tasso di crescita del Pil su ambo i lati dell’Atlantico potrebbe aumentare dell’1,5%) ma anche all’aumento di posti di lavoro (è stimato che un terzo dell’intero accordo bilaterale consista in trasferimenti interni di compagnie che operano in entrambi i mercati). A ciò conseguirà anche una maggiore compatibilità tra le norme legali delle due parti in questione. Lo FTA avrà, inoltre, un importante messaggio politico mostrando UE e USA come ancora capaci di affrontare insieme quelle che saranno le nuove sfide, soprattutto nei confronti delle nuove potenze economiche emergenti (come la Cina).

 

E CONTRO – Ma se da un lato, a livello macroeconomico, vi è consenso sugli effetti favorevoli alla crescita, dall’altro vi sono dei gruppi d’interesse che temono di essere danneggiati nel negoziato: ad esempio, agricoltori e allevatori americani contrari alla politica agricola comune o alle regole europee sui prodotti geneticamente modificati. Non sarà facile, infatti, superare le resistenze dell’Europa, che ha la legislazione più restrittiva al mondo sugli Ogm, riflesso della sfiducia diffusa nell’opinione pubblica nei confronti di queste tecnologie. Lo stesso commissario Ue al Commercio, Karel De Gucht, grande sponsor dell’operazione, ha più volte avvisato le sue controparti che su questo fronte sarebbe meglio non coltivare troppe aspettative. Altrettanto complesso sarebbe poi allentare le restrizioni sulla commercializzazione in Europa della carne prodotta negli Stati Uniti in allevamenti che utilizzano gli ormoni della crescita. Altro problema sarebbe la mancanza nell’ordinamento federale degli Stati Uniti di una norma simile a quella che nei Trattati dell’Unione Europea proibisce gli aiuti di Stato. Anzi, è prassi corrente negli States che uno stato federato, una contea o una città cerchi con pubblico denaro di attrarre un’impresa nel proprio territorio o di evitare che la medesima si trasferisca in altra giurisdizione; secondo un’indagine del New York Times, il totale degli incentivi concessi dai governi locali è di oltre 80 miliardi di dollari l’anno. Da parte sua, una delle principali sfide per Bruxelles sarà superare le restrizioni all’acquisto di beni e servizi europei. E neanche questa partita sembra semplice. Perché in gran parte si tratta di decisioni prese non dal Governo federale a Washington, ma dai singoli Stati, che in alcuni casi hanno leggi che incentivano l’acquisto di prodotti made in America. Tuttavia, secondo la Commissione UE, l’accordo potrebbe far crescere il Pil dell’Unione dello 0,5% nel lungo termine, aggiungendo circa 120 miliardi di euro alla ricchezza prodotta dalla regione. Ogni tariffa rimossa, ha ricordato qualche settimana fa De Gucht, «si traduce in milioni di euro di risparmi per le imprese che potrebbero reinvestirli in nuove opportunità».

 

Jane N. Alibali

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Anno nuovo… Presidenti vecchi

C’è stato un periodo in cui dittature e regimi autoritari di vario genere (dal modello di stampo militare argentino fino a quello delle “repubbliche delle banane” centroamericane) erano la norma in America Latina. Fortunatamente, quell’epoca è finita: i progressi compiuti dalla regione nell’ultimo ventennio sulla strada della democrazia sono innegabili ed oggi tutti i Paesi latinoamericani sono ufficialmente delle democrazie parlamentari, con l’eccezione di Cuba che ha ancora un regime socialista a partito unico. Siamo però sicuri che a questo processo corrisponda una parallela diffusione delle pratiche democratiche anche a livello sostanziale?

 

COMPIACERE IL POPOLO – Il populismo, patologia della quale l’America Latina ha sofferto e continua a soffrire, è uno degli elementi fondamentali che hanno impedito alle istituzioni democratiche di raggiungere una completa efficacia. La strategia di “blandire” le masse popolari, caratterizzate generalmente nella regione ancora da un livello di reddito medio-basso, con politiche sociali redistributive che “strizzano l’occhio” agli interessi di breve periodo, ha consentito in diversi casi ai Presidenti di turno di perpetuare la propria permanenza al potere, senza che questo causasse però delle violazioni costituzionali.

 

VENT’ANNI AL POTERE? – Il caso più eclatante è senza dubbio quello del Venezuela, dove Hugo Chávez ha da poco vinto per la terza volta consecutiva le elezioni presidenziali, guadagnandosi il diritto di governare il Paese fino al 2018. Ciò significa che, alla fine del terzo mandato (condizioni di salute permettendo, che al momento appaiono molto critiche), sarà rimasto ininterrottamente per vent’anni alla guida del Venezuela. Le critiche all’operato di Chávez, specialmente per quanto riguarda la politica economica e la scarsa tolleranza degli oppositori, si sono tuttavia sempre scontrate con il rispetto assoluto delle prassi democratiche formali: è infatti universalmente riconosciuto come le elezioni venezuelane siano tra le più trasparenti al mondo, in virtù di un sistema informatizzato che non consente la realizzazione di brogli.

 

LA DINASTIA “K” – Il paradosso tra democrazia formale e sostanziale è ancor più evidente per certi versi in Argentina. L’alternanza al potere negli ultimi anni c’è stata, anche se puramente di facciata: Néstor Kirchner governò dal 2003 al 2007 e passò lo “scettro” alla moglie Cristina Fernández. Nel 2011 il piano sarebbe stato quello di candidare nuovamente Néstor, ma l’improvvisa morte di quest’ultimo ha cambiato i piani, portando alla seconda elezione della “Presidenta”, che non potrà però ripresentarsi per un terzo mandato consecutivo, considerati i limiti imposti dalla costituzione argentina. Cristina ha però la soluzione a portata di mano: sembra infatti probabile la candidatura del figlio Máximo, già influente personaggio della politica nazionale in quanto coordinatore del movimento “La Cámpora”, sezione giovanile del Partido Justicialista. Una “dinastia Kirchner”, dunque, però nel pieno rispetto dei dettami della carta costituzionale.

 

GLI ALTRI – E si potrebbe continuare con la Bolivia, dove Evo Morales è al suo secondo mandato e non sembra intenzionato a rinunciare al proprio incarico, o con l’Ecuador, dove il favorito per la vittoria alle elezioni presidenziali di febbraio sembra essere il leader uscente Rafael Correa. Anche il Messico è un caso decisamente interessante. Nello Stato latinoamericano più settentrionale la costituzione prevede che il Presidente (e tutte le cariche di governo, giù fino ai più bassi livelli amministrativi) possano rimanere in carica per un solo mandato. L’obiettivo è proprio quello di evitare derive autoritarie, ma il risultato raggiunto è forse ugualmente negativo di ciò che si vuole evitare: il breve orizzonte temporale, svincolato dalla necessità di ripresentarsi al vaglio delle elezioni, ha spesso indotto sindaci e amministratori a massimizzare, in modi più o meno leciti, le “rendite” ottenute dalla politica. Ecco dunque un’altra delle ragioni per cui in Messico corruzione e criminalità organizzata sono ancora così diffuse.

 

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INDIETRO… E AVANTI – Un aspetto interessante di questa situazione paradossale risiede anche nel contrasto tra la scarsa alternanza tra maggioranza e opposizione e i progressi in campo dei diritti civili e sociali. L’Argentina, ad esempio, è diventata il primo Stato in America Latina a legalizzare i matrimoni tra coppie omosessuali, mentre la Bolivia e l’Ecuador hanno varato due costituzioni particolarmente innovative, inserendo la tutela rispettivamente dei diritti delle minoranze indigene e dell’ambiente. Il cammino verso una democrazia piena in America Latina è insomma irto ma affascinante: caratterizzato da frenate in ambito istituzionale, ma anche da brusche accelerate in campo sociale. Gli ostacoli del populismo sono sempre in agguato e pongono degli ostacoli su questo percorso. Un percorso che sembra invece più lineare e semplice in un Paese come il Cile, dove l’alternanza al potere è ormai un dato di fatto: la costituzione impedisce allo stesso Presidente di presentarsi per più di un mandato consecutivo, e l’uscente Sebastián Piñera (primo leader di centrodestra dopo la fine della dittatura Pinochet) potrebbe essere sostituito dalla rappresentante del centrosinistra, Michelle Bachelet, di ritorno al potere dopo un “turno” di riposo. Prima o poi qualcuno comincerà a parlare di “rottamazione” dei politici anche in America Latina?

 

Davide Tentori

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E’ iniziata la ricostruzione

Malgoverno, terrorismo, corruzione, pirateria: fino a un paio di anni fa lo stato somalo sembrava destinato a implodere, vittima di una perenne ingovernabilità. Nel corso del 2012 però sono arrivati numerosi segnali positivi per una possibile ripresa. Ecco la Somalia d’oggi, tra conquiste e sfide da compiere

 

FAILED STATE? – Il fallimento del raid francese per la liberazione di Denis Allex, ostaggio degli Shabaab dal 2009, ha riportato la Somalia al centro dell’attenzione internazionale. La drammatica fine dell’agente dei servizi segreti francesi e dei due soldati morti nel corso del blitz non deve oscurare i progressi che sta compiendo lo stato somalo. Da anni in cima al famigerato indice dei Failed States pubblicato da Foreign Policy, la Somalia ha fatto numerosi passi avanti nel corso del 2012.

 

RAGIONI PER SPERARE – Con la liberazione di Mogadiscio (maggio 2012) e di Chisimaio (ottobre 2012), i miliziani islamici di Al-Shabaab hanno visto drasticamente ridimensionata la loro forza. L’azione combinata dell’esercito nazionale somalo, del contingente dell’AMISOM (Missione dell’Unione africana in Somalia), degli eserciti del Kenya e dell’Etiopia e delle milizie locali hanno restituito al controllo statale quelli che erano diventati i principali centri di approvvigionamento e reclutamento dei miliziani. Nonostante la residua presenza di atti di terrorismo e la diffusa criminalità, le due città sono tutt’oggi in mano al governo centrale. La lotta alla pirateria nel Puntland e nel Golfo di Aden sta dando ottimi frutti. Il forte impegno della Comunità internazionale nell’area ha causato nel 2012 un dimezzamento degli attacchi alle imbarcazioni che transitano in una delle rotte più importanti al mondo. Dalle 47 navi sequestrate dai pirati nel 2010 si è passati alle sole 5 nel 2012. Ulteriore successo del 2012 appena trascorso è l’instaurazione di un governo eletto democraticamente, il primo dal 1991. Il Primo ministro Hassan Sheikh Mohamud ha l’opportunità di costruire istituzioni nuove e poter tornare a sfruttare l’abbondanza di risorse di cui il paese dispone, costruendo nuove infrastrutture e cercando di attirare l’investimento estero. Tornano intanto ad aprire numerose ambasciate chiuse dai tempi della guerra civile.

 

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COSA RESTA DA FARE – Nonostante i numerosi passi avanti, la strada da compiere è ancora molta. Seppur indebolito, Al-Shabaab è ancora molto forte nelle aree rurali e controlla parte del territorio nazionale nel Sud-Ovest. L’allontanamento del movimento dai centri principali ha causato una ristrutturazione degli attacchi del gruppo: gli Shabaab sono oggi meno propensi al combattimento in campo aperto e più ad azioni di guerriglia. Nonostante gli ottimi risultati nella lotta alla pirateria gli attacchi alle navi rimangono troppo frequenti e sono ancora molti gli ostaggi nelle mani dei pirati (a dispetto del forte calo, si contano ancora 141 ostaggi). Per sconfiggere definitivamente la piaga non sarà sufficiente la lotta diretta, ma bisognerà anche eliminare la povertà estrema in alcune delle aree costiere da cui arriva il maggior numero di pirati. Infine, la presenza di un governo stabile non è sufficiente a porre un freno ai troppi problemi delle istituzioni nazionali somale: la corruzione è ancora fortemente diffusa nel paese e la fragilità delle varie amministrazioni crea un’eccessiva segmentazione del potere. L’influenza dei rappresentanti tribali e clanici e la presenza di piccoli leader locali rende la vita difficile ai rappresentanti del governo centrale. La permanenza delle truppe kenyote ed etiopi in territorio somalo causa inoltre comportamenti ambigui e tentativi d’ingerenza straniera sull’azione governativa.

 

Andrea Ranelletti

[email protected]