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La nuova corsa alle armi

Mentre l’Europa declina l’Asia sta diventando sempre più il centro del mercato bellico globale. La crescita economica, consentendo un ampliamento della capacità di spesa pubblica, comporta dunque anche il ritorno ad una “corsa agli armamenti” che vede, manco a dirlo, la Cina in prima linea. Dall'altra parte, invece, Stati Uniti e Europa stanno riducendo sensibilmente le proprie spese nel settore della Difesa. Anche in questo ambito possiamo dunque vedere una progressiva ridefinizione degli equilibri globali

DUE ELEMENTI DA RICORDARE – La crisi mondiale ha colpito duramente molti settori della nostra società. I disoccupati sono aumentati, i salari sono diminuiti, i deficit hanno preso il volo. Ma le cose non vanno male per tutti. Se, per esempio, si tratta del settore bellico, non c’è da preoccuparsi: il commercio d’armi fiorisce a dispetto di tutto. E, benché i paesi occidentali ne siano ancora il cuore, la loro supremazia sta declinando velocemente. I DATI – Il primo dato da considerare è quello che riguarda i flussi di armi. Secondo una ricerca del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) intitolata “Trends in international arms transfers”, il commercio di armi fra il 2007 e il 2011 è cresciuto del 24 per cento rispetto al periodo 2002-2006. E in quale direzione sono si sono diretti questi flussi? A quanto pare hanno seguito le orme di Marco Polo, perché nel periodo menzionato tutti i maggiori importatori sono stati asiatici. A condurre è l’India, che conta per il 10 per cento delle importazioni mondiali, seguita da Corea del Sud (6 per cento), Pakistan e Cina (5 per cento) e Singapore (4 per cento). Nel complesso, l’Asia attira il 44% delle importazioni, l’Europa il 19%, il Medio Oriente il 17%, le Americhe l’11% e l’Africa chiude la lista con il 9%. Gli exporters, invece, sono ancora tutti occidentali. Gli Stati Uniti aprono la lista con poco meno di un terzo del totale (30 per cento) delle esportazioni, seguiti dalla Russia con il 24 per cento e –a distanza- da Germania (9 per cento), Francia (8 per cento) e Regno Unito (4 per cento). COME CAMBIA LA SCENA MONDIALE – Molto interessante è anche un'altra ricerca, pubblicata il 7 marzo dall’International institute for strategic studies, un think-tank con sede a Londra. Il “Military Balance 2012” mette nero su bianco la storia di un Occidente oberato dal debito che cede terreno a un’Asia in forte crescita. Infatti, mentre il continente asiatico ha incrementato del 3 per cento le sue spese militari, “fra il 2008 e il 2010 si sono verificate delle riduzioni nel budget destinato alla difesa in ben sedici membri europei della NATO. In un buon numero di casi, tale riduzione è stata di oltre il 10 per cento in termini reali”. Come osserva il direttore generale dell’IISS John Chapmanmentre l’Occidente taglia le spese in armamenti, l’Asia diventa più militarizzata per via della crescita economica e delle incertezze strategiche”. E, nonostante l’India occupi un posto speciale nel panorama strategico asiatico, è la Cina che, come al solito, attira l’attenzione di tutti. Innanzitutto per le cifre che mette in mostra. Secondo quanto riportato dal Guardian, la Repubblica popolare l’anno scorso ha speso 90 milioni di dollari per la difesa, due volte e mezza la cifra del 2001. E si parla di cifre ufficiali, la spesa reale potrebbe essere molto più alta. Pechino si sta inoltre trasformando da importatore a esportatore di armi. Nel periodo compreso fra il 2002 e il 2011 il paese è scivolato dal primo al quarto posto nella lista degli importatori, mentre le sue esportazioni sono cresciute del 95%, rendendola il sesto maggior esportatore al mondo. Certo, quando si parla di Cina c’è spesso la tendenza a puntare il dito. Forse con troppa facilità. Occorre ricordare, infatti, che la crescita dell’export cinese è dovuta soprattutto all’aumento delle importazione da parte del Pakistan, che sono cresciute del 69 per cento nel periodo considerato. La Cina, poi, riserva una frazione relativamente ridotta del suo PIL al settore militare: secondo l’Economist, nel 2010, poco più del 2%, contro il 4.8 degli Stati Uniti.  E, per di più, le forze armate cinesi sono dipendenti dall’importazione di componenti essenziali da altri Paesi, inclusi alcuni membri della NATO (la Francia è il secondo fornitore del Dragone). Ma questo non toglie che Pechino stia velocemente percorrendo la strada verso una posizione di assoluto rispetto nel panorama militare mondiale e di primazia in Asia. Il tutto mentre la scure dei tagli di Washington si abbatte sul Pentagono.

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INTERPRETAZIONE – Nel complesso, questi dati evidenziano in modo abbastanza chiaro due fenomeni. Il primo è l’aumento delle armi a disposizione dei vari stati, che si concretizza soprattutto nell’area asiatica, dove si sta svolgendo una corsa agli armamenti (per quanto in versione soft). Conosciamo la dinamica: aumentano i fondi a disposizione degli stati e questi, nel processo di modernizzazione, non vogliono rimanere esposti a potenziali nemici. Il che crea un incentivo al rialzo generalizzato. In tutto questo, ovviamente, il persistere di situazioni di tensione non aiuta. Le diatribe sulla sovranità del Mar Cinese Meridionale, le dispute territoriali tra Cina e India, le forti tensioni interne in Pakistan. Sono tutti focolai che rendono più tangibile il bisogno d’armarsi. Il GlobalTimes (quotidiano vicino all’ala radicale del Partito comunista cinese) minimizza la situazione come una “modesta” corsa agli armamenti. Forse non ha tutti i torti, ma è difficile capire fino a dove arriverà. Né si può prevedere se e quando eventuali crisi potrebbero accelerarla. Il secondo elemento che emerge da questi dati è il declino del peso strategico del Vecchio Continente. Si tratta ormai di un clichè, ma l’Europa sta lentamente abbandonando il centro della scena per far posto ad altri attori. Finora il trend era evidente soprattutto in campo economico, ma questi dati mostrano come il fenomeno sia presente anche nell’ambito militare. Nel 2012, infatti, l’Asia arriverà probabilmente a investire in armi più dell’Europa. Sarà la prima volta in secoli, e sembra che dovremo farci l’abitudine. Basti pensare che, secondo la rivista sepcializzata IHS Jane’s, entro il 2015 la Cina da sola spenderà in armamenti più di Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Turchia, Canada, Spagna e Polonia combinati insieme. Michele Penna [email protected]

 

Una poltrona per tre

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La campagna elettorale messicana è cominciata ufficialmente da una decina di giorni dopo mesi di schermaglie, comizi mascherati da conferenze e spot vietati dall'Instituto Federal Electoral, l’organo garante della par condicio messicana. Sulla linea di partenza i tre istituzionali candidati del Partido de Acción Nacional (PAN), del Partido Revolucionario Institucional (PRI) e del Partido de la Revolución Democrata (PRD), più un outsider ambientalista con il partito della Nueva Alianza. Ecco in quale clima 108 milioni di messicani si apprestano ad eleggere il loro prossimo presidente

JOSEFINA VÁZQUEZ MOTA (PAN) – Candidata investita da Calderón in persona, si presenta dopo 12 anni di governi panisti con lo slogan “Diversi”, a sottolineare un orgoglio partitocratico che riflette quella parte importante della società messicana che si autodefinisce cattolica, imprenditoriale e conservatrice, ma anche per smarcarsi dal deficitario governo calderonista che è stato ampiamente criticato da un po’ tutti i settori. Non presenta proposte concrete per i diversi problemi dell’attualità messicana ma spera che la sua condizione di prima donna candidata presidente possa fargli conquistare la simpatia della maggior parte degli elettori; per questo rilancia e sottolinea la centralità dell’educazione nel suo discorso, anche quando lo stesso argomento era stato portato avanti dall’attuale presidente sei anni fa con la firma del famoso accordo con Esther Gordillo, Segretaria del sindacato degli insegnanti, potente baronia che, si dice, abbia forte voce in capitolo nel decidere i presidenti messicani. Si sta dedicando ad una campagna elettorale a contatto con la popolazione: dai caselli dell’autostrada per volantinare alla visita alla sua prima casa dove è cresciuta con gli attuali poveri proprietari. ENRIQUE PEÑA NIETO (PRI)– Candidato di Televisa, la televisione commerciale messicana, designato da quasi sei anni, è il papabile vincitore grazie all’appoggio dell’intero PRI che attorno lui si è unito di nuovo nella speranza di riconquistare quella sedia presidenziale che per quasi 70 anni non avevano mai lasciato. Memorabile la sua formale designazione, quando l’altro candidato del PRI, Manlio Beltrones, citato in alcuni report della DEA degli anni ‘90 come in contatto con diversi gruppi narcotrafficanti messicani e colombiani, si è gentilmente fatto da parte di fronte alla capacità mediatica di Peña Nieto, nel nome dell’unità del PRI. Si dice che la sua candidatura sia stata promossa e manovrata da Carlos Salinas de Gortari, ex presidente del Messico e importante imprenditore, fratello di due corrieri della mafia, uno ucciso anni fa, indagati per aver portato denaro sporco in Svizzera. Di certo non sta proponendo un nuovo modello di sviluppo, ma si limita a firmare compromessi davanti al notaio assicurando che li rispetterà senza raccontare come, sperando che la sua esperienza di governo nel Estado de México, criticata da diverse organizzazioni dei diritti umani, e la sua immagine pubblica faccia da traino per la sua avventura presidenziale. ANDRÉS MANUEL LÓPEZ OBRADOR (PRD) – Candidato alla presidenza per la seconda volta dopo aver vinto le elezioni del 2006 senza riuscire a raggiungere l’incarico, ha fatto una campagna elettorale lunga sei anni, girando il Messico e gli Stati alleati per ripulirsi l’immagine dall’anarchico socialista chavista affibbiata dai diversi mezzi di comunicazione messicani e internazionali. Anche se sembra aver perso la spinta popolare che l’aveva portato ad un passo dalla poltrona più ambita, propone un piano di rinascita messicana  basato su credito e incentivi per i settori più deboli della popolazione e alle imprese, aprire il mercato delle telecomunicazioni, sottoporre la continuazione del mandato presidenziale a un voto di metà termine, costruzione di case e opere pubbliche per generare lavoro.

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GABRIEL QUADRI (NUEVA ALIANZA) – Ingegnere, con passato ambientalista (foto a destra), in cerca di visibilità si è candidato all’ultimo con il partito Nueva Alianza, quando quest’ultimo ha rotto l’alleanza con il PRI. Non sembra avere molte speranze, ma sta provando a promuovere temi diversi come la sostenibilità ambientale e il conservatorismo dell’etica. Spettatori interessati di queste interminabili elezioni sono i gruppi di narcotrafficanti che comandano nel paese, gli Stati Uniti e la Chiesa Cattolica, i quali, in diverse occasioni hanno dato il loro beneplacito ai differenti candidati. Paradigmatica, la visita a Washington dei tre principali candidati per riunirsi nello stesso giorno con Joe Biden, vicepresidente statunitense. Il popolo messicano pare invece molto disinteressato, al vedere la campagna elettorale come una telenovela in cui sembra più importante sapere quanti libri ha letto Peña Nieto che le sue proposte concrete per migliorare le gravi situazioni di povertà e violenza persistenti nel paese. Vincerà di nuovo l’astensionismo? Andrea Cerami (da Città del Messico) [email protected]

Dal ramoscello d’ulivo al kalashnikov

Dopo la quiete della Pasqua rotta dall'attentato in Nigeria della setta islamica Boko Haram, i venti di guerra tornano a sferzare in quasi tutti i continenti, senza che l'onnipresente Iran sia particolarmente coinvolto. Spetta invece ad un altro componente dello scomparso asse del male il palcoscenico della crisi internazionale della settimana, ovvero la Corea del Nord. In Africa il Mali si conferma al centro delle attenzioni dell'ECOWAS, mentre l'Unione Africana tenta l'ennesima mediazione tra Giuba e Khartoum. E poi ancora Siria, India e Colombia. Buona lettura

EUROPA

Martedì 10 – Il capo della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina Bakir Izetbegovic sarà martedì a Mons per visitare il Quartiere Generale della NATO, dove terrà una conferenza stampa con il Segretario Generale Anders Fogh Rasmussen. La Bosnia è il più giovane membro dell'iniziativa strategica Partnership for Peace, e grazie al Dialogo Intensificato con i membri dell'alleanza atlantica è stata integrata nel MAP, il Membership Action Plan. La questione dell'adesione alla NATO resta vincolata alla controversia sulla proprietà immobiliare delle basi militari, ancora sotto il controllo delle due entità federali principalmente a causa delle resistenze della Republika Srpska. In attesa di una soluzione pacifica dell'eterno conflitto simbolico, un contingente bosniaco partecipa dal 2009 alla missione ISAF in Afghanistan dando un segno tangibile nella gestione delle crisi internazionali.

Martedì 10-Mercoledì 11 – Il premier inglese David Cameron sarà a Tokyo per una visita ufficiale in cui sarà ricevuto dall'Imperatore Akihito e dal suo pari, il premier Yoshihiko Noda, nel mezzo di una crisi internazionale che coinvolge Giappone e Coree. I due hanno in agenda un accordo per un programma congiunto di sviluppo d'armamenti in seguito alla liberalizzazione giapponese delle leggi sull'export di sistemi difensivi. Le trattative seguiranno di poco il Summit Trilaterale tra Giappone, Cina e Corea del Sud tenutosi nel week-end nella città cinese di Ningbo. Mentre le fregate della Marina nipponica solcheranno il Mar Cinese in vista di un'escalation di tensioni e i ciliegi si mostreranno all'ospite nella capitale, stavolta tè e gentili inchini davanti ai fotografi potrebbero non essere al centro dell'importante incontro tra i due leader. Terminati i dialoghi in Giappone, Cameron farà tappa in Malaysia, ex colonia britannica, legata all'antica madrepatria da vincoli strategico-militari nel mantenimento dell'influenza nel Pacifico.

Lunedì 9-Venerdì 13 – Sarà una settimana di tour de force diplomatico per il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, per assicurare alla Turchia il posto che le spetta nell'attuale scenario internazionale. Prosegue così la visita di 5 giorni in Cina iniziata venerdì scorso, all'insegna di promesse di partnership strategica tra le due promettenti economie agli antipodi del continente eurasiatico. Proprio nel corso del viaggio di Erdogan, Zhou Tienong, vice presidente dello Standing Committee dell'Assemblea Nazionale del Popolo, sarà in Turchia per ricambiare l'impegno ufficiale del governo di Ankara. Come se non bastasse entro venerdì Erdogan sarà nuovamente in patria per accogliere il Primo Ministro del Bangladesh Sheikh Hasina e il Presidente di Cipro del Nord, Dervis Eroglu, di ritorno da un viaggio in Arabia Saudita. Nel corso della scorsa settimana gli incaricati del governo ai negoziati per l'adesione all'Unione Europea si sono detti ormai fortemente scettici di una prossima conclusione delle trattative. L'esternazione lascia intendere un sensibile calo di attrazione verso Bruxelles dopo la crisi dell'Eurozona e il balzo in avanti dell'economia di Ankara.

AMERICHE

Lunedì 9-Martedì 10 – Dilma Rousseff, Presidente del Brasile, sarà negli Stati Uniti per una visita di due giorni in cui incontrerà Barack Obama, Joe Biden e le alte cariche istituzionali di Washington, per una revisione dei rapporti bilaterali tra i due paesi. L'incontro servirà inoltre a coordinare le posizioni reciproche in vista del Summit of Americas, al quale entrambi i capi di governo presenzieranno quali grande potenze della regione. Ufficialmente assente dall'agenda dei lavori, lo tsunami monetario in corso in sud america rischia di diventare lo spettro del colloquio così come sottolineato da Tovar Nunes portavoce del Ministero degli Esteri di Brasilia. "Nel quadro della crisi generale, sarà analizzato l'eccesso di liquidità, così come la necessità di lavorare insieme, Stati Uniti e Brasile, ad una soluzione"

Mercoledì 11-Giovedì 12 – Due progetti estrazione mineraria rischiano di paralizzare il Perù, mentre lo scontro si fa sempre più duro nei distretti limitrofi alla città di Chumbivilcas, futura sede dell'enorme miniera ANABI. Sull'altro fronte caldo il Fronte Regionale per lo Sviluppo La Libertad terrà invece una marcia di solidarietà presso Trujillo a sostegno delle proteste contro il progetto CONGA della compagnia americana Newmont. CONGA è stato ideato per sfruttare in maniera intensiva una venatura porfidica di rame e oro di 24 km nella regione di Cajamarcas, tuttavia le esplosioni pilotate hanno causato danni alle abitazioni nelle aree limitrofe e all'ambiente, intaccando pesantemente l'ecosistema naturale. Il Ministro dell'Energia Jorge Merino Tarfur sarà perciò a Chumbivilcas per tentare una mediazione con le autorità locali ed evitare che ulteriori proteste mettano in imbarazzo il già traballante Presidente Ollanta Humala.

Sabato 14-Domenica 15 – Cartagena e la Colombia ospiteranno nel fine settimana l'attesissimo Summit of Americas, il vero forum intercontinentale di discussione per le tematiche dell'emisfero occidentale del pianeta. Sotto l'insegna “Connecting the Americas: Partners for Prosperity” i 33 capi di stato avranno il duro compito di gestire le assenze di Cuba ed Ecuador in modo da non compromettere la riuscita dell'incontro. Non mancheranno momenti di tensione e di scontro nell'avvicinare tematiche sensibili quali la condizione delle Isole Falklands e la presenza ingombrante di Hugo Chávez. A margine dell'importante evento avrà luogo la solita girandola d'incontri bilaterali tra i quali spicca il meeting tra il Presidente USA Barack Obama e il collega guatelmateco Otto Perez Molina che ha recentemente accusato Washington di aver abbandonato la lotta al narcotraffico.

AFRICA

Lunedì 9 – E' ormai data per certa la transizione di potere dal Capitano Amadou Sanogo allo speaker del Parlamento Diouncounda Traore, rifugiatosi in Burkina Faso dopo il coup del 22 Marzo. L'annuncio dell'accordo tra Unione Africana, ECOWAS e giunta militare provvisoria è arrivato dopo una settimana di sanzioni economiche che hanno messo a dura prova la già deblitata economia maliana. Proprio nella giornata di venerdì la leadership del MNLA, i ribelli tuareg del Nord, ha annunciato l'indipendenza da Bamako del territorio dell'Azawad, la parte settentrionale del paese diviso geograficamente in due da una strozzatura centrale delle frontiere. L'accordo politico prevede già un cessate il fuoco tra governo e ribelli con relativa interposizione tra le parti di una forza di peace-keeping ECOWAS, che potrebbe lottare al fianco dell'esercito qualora i ribelli rifiutassero una tregua. Nonostante le dimissioni dello spodestato Toure, un atto dovuto in un momento di crisi, tutti gli scenari restano sul tavolo del Presidente ivoriano Ouattara, a capo dell'organo decisionale dell'ECOWAS.

Martedì 10-Giovedì 12 – L'ex presidente sudafricano e attuale mediatore dell'Unione Africana per la crisi tra Sudan e Sudan del Sud Thabo Mbeki farà la spola tra Giuba e Khartoum per tentare l'ennesima ricomposizione sulla frattura per le dispute di confine. Dopo il fallimento del colloquio della scorsa settimana ad Addis Abeba, che Omar Bashir e Salva Kir hanno disertato a causa dei recenti scontri di frontiera, il ping pong tra le due capitali resta l'unica soluzione possibile. La controversia oltre a continuare a mietere vittime tra il Kordofan e l'Unity, si lega a doppio filo alla suddivisione delle risorse petrolifere tra i due paesi, con Giuba a controllare i giacimenti e Khartoum a gestire gli oleodotti e le raffinerie

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ASIA

Mercoledì 11 – Sarà una settimana tutt'altro che piacevole per il Presidente sud-coreano Lee Myung Bak letteralmente stretto all'angolo tra l'ascesa dell'opposizione e la promessa di lancio missilistico made in Pyongyang. Mercoledì il Partito della Nuova Frontiera, attualmente al governo, si giocherà con il Partito Democratico Unito la maggioranza del Parlamento nelle elezioni legislative che anticipano le Presidenziali di Dicembre. La Nuova Frontiera del Partito di Lee sembra in realtà quella degli scandali politico-giudiziari dopo che lo speaker del Parlamento si è dimesso in Febbraio dopo le accuse di voto di scambio. Già in Dicembre tuttavia l'NFP era rimasto decapitato in seguito alle dimissioni del segretario a causa del coinvolgimento del suo consigliere in un attacco cibernetico ai server della Commissione Elettorale Indipendente. Gli elettori coreani devono aver pensato al solito pesce d'aprile quando il primo giorno del mese la magistratura ha annunciato l'apertura di un'inchiesta su una serie di intercettazioni illegittime messe in atto dal governo contro cittadini e mebri del Parlamento. In realtà con i sondaggi effettuati prima dell'ennesimo scandalo che davano al 9% la distanza tra NFP e DUP, l'unico scherzo sembra essere la possibile elezione di un Presidente NFP a Dicembre.

Giovedì 12-Domenica 15 – Il popolo ridotto alla fame della Corea del Nord sarà chiamato a riempire le piazze durante i festeggiamenti per il centenario della nascita del fondatore della patria Kim Il Sung, il patriarca della dinastia schizofrenica al potere da più di 50 anni. Intanto è prevista per Martedì la riunione dell'Assemblea Suprema del Popolo che dovrebbe portare ufficialmente al potere il giovane Kim Jong Un. Gli analisti di Seul scommettono sulla nomina a Capo della Commissione per la Difesa Nazionale, che fu del padre Kim Jong Il, o su una riforma costituzionale che lasci quel posto vacante in eterno in onore del predecessore recentemente scomparso. La nomina potrebbe così coincidere con il lancio di un missile intercontinentale per l'osservazione terrestre verso l'Oceano Pacifico, il cui secondo stadio potrebbe sorvolare le regioni giapponesi di Okinawa. I missili intercettori giapponesi sono pronti ad entrare in azione su ordine del Ministro della Difesa Naoki Tanaka, per evitare il rischio di caduta sul territorio, mentre Seul si dice pronta a rovinare la festa di Pyongyang qualora l'ICBM ne sorvoli lo spazio aereo. Il 12 Aprile si apriranno inoltre i lavori del settimo meeting ministeriale della Shanghai Cooperation Organization a Pechino, la questione nord-coreana sarà sicuramente tra i temi sul tavolo del gruppo regionale eurasiatico.

Martedì 10 Giunge al termine la visita ufficiale dell'onnipresente emiro del Qatar Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani, fresco plenipotenziario della Costa Smeralda, in India svoltasi in un clima surreale a causa dei vari fronti diplomatici aperti nel paese. Al-Thani ha confermato l'impegno del Qatar a rifornire New Delhi di gas liquido naturale e greggio in cambio del diritto del Presidente indiano Pratibha Patil e del premier Manmohan Singh di lagnarsi dell'apertura a Doha di una sede ufficiale dei talebani. Ma martedì non passerà alla storia per tale accordo tacito bensì per la sorte dell'italiano Paolo Bosusco e del deputato tribale Jhina Hikaka, da giorni nelle mani dei guerriglieri naxaliti dell'Orissa. Il leader maoista Sabyasachi Panda si è detto deluso della gestione della crisi da parte del Chief Minister federale Naveen Patnaik, accusato di scarsa credibilità e affidabilità. La leadership dei guerriglieri ha promesso l'eliminazione dei due ostaggi in caso di mancata consegna dei 30 prigionieri naxaliti, tra cui è compresa anche la moglie di Panda, mentre le autorità indiane si dicono incerte sul profilo giudiziario dell'accordo.

MEDIO-ORIENTE

Lunedì 9-Martedì 10 – Qualunque sia il destino dell'attuale governo tecnico-breve italiano, il suo impegno sugli scenari internazionali e nella ridefinizione della politica estera ha dell'incredibile, come testimoniano gli incessanti tour del Presidente del Consiglio Mario Monti. Dopo aver visitato il Libano e il contingente italiano stanziato nel sud del paese nella missione di peace-keeping UNIFIL, l'Italia è tornata a trattare da vicino la questione palestinese e quella iraniana stavolta senza atteggiamenti faziosi o personalistici. La domenica pasquale ha visto infatti Mario Monti a colloquio con le teste coronate di Gerusalemme: Peres, Netanyahu ma anche i titolari di Esteri e Finanze Lieberman e Steinitz. Nel tardo pomeriggio tappa a Ramallah, quartiere generale dell'ANP per l'incontro con il Presidente Abu Mazen. Il tour mediorientale si sposta ora in Egitto dove lo scontro di piazza tra salafiti e laici ha ormai raggiunto il culmine mentre la giunta Tantawi si appresta a ricevere l'uomo nuovo di Roma.

Martedì 10-Giovedì 12 – Dopo più di un anno di proteste, violenze, defezioni e guerra, il futuro della situazione in Siria sarà determinato da due scadenze congiunte, rispettivamente Martedì e Giovedì. Come comunicato alla stampa dall'inviato speciale ONU-Lega Araba Kofi Annan, le forze di sicurezza di Damasco dovranno ritirarsi da città e villaggi entro martedì. Qualora tale punto del piano venisse rispettato, governo e ribelli avranno altre 48 ore, fino alle 6 di giovedì per cessare definitivamente il fuoco e dare spazio alla tregua e alle trattative. Nel week-end il governo di Bashar al-Assad ha messo in campo tutto il suo arsenale offensivo per giungere all'ultimatum con un vantaggio decisivo sull'Esercito Libero Siriano, fino all'eliminazione fisica di circa duecento tra attivisti e civili. Secondo indiscrezioni le forze di sicurezza sarebbero pronte a ritirarsi effettivamente entro martedì per poi riguadagnarsi le posizioni sgomeberate durante tregua, in attesa dell'incerta posizione del Consiglio di Sicurezza.

Venerdì 13 – Probabilmente il venerdì di questa settimana sarà una delle date più attese dell'anno, visto che solo allora la leadership politica di Teheran e il negoziatore ufficiale in materia nucleare, comnicheranno le modalità di svolgimento dei P-5+1 nuclear talks. Il tutto giunge in seguito alle recenti vicissitudini che hanno visto il Ministro dell'Interno israeliano dichiarare Gunter Grass persona non grata per aver pubblicato una poesia sulla crisi tra Gerusalemme e Teheran. Da parte sua Washington inizia a preparare il tavolo delle trattative comunicando ufficialmente all'Ayatollah Khamenei la disponibilità a far da garante ad un programma nucleare esclusivamente civile made in Iran. Nelle ultime settimane la CIA e le altre agenzie d'intelligence americane hanno potenziato le proprie capacità di raccolta d'informazioni satellitari sui siti sospetti nell'altopiano iranico, gettando le basi per un sistema di controllo integrato a gestione della questione iraniana.

Fabio Stella [email protected]

Da Ataturk a Hitler: shampoo e geopolitica

Può la pubblicità di uno shampoo innescare una grande quantità di polemiche politiche e sociali? Sì, se il testimonial scelto è Adolf Hitler. È accaduto in Turchia, dove un’azienda cosmetica ha scelto il dittatore nazista come simbolo di virilità. Le proteste, innescate dallla comunità ebraica turca, hanno costretto l’azienda a ritirare lo spot dopo pochi giorni. L’evento offre lo spunto per fare una riflessione sul rispetto delle minoranze etniche in Turchia: se Ankara vuole diventare a pieno titolo una democrazia “occidentale”, c’è ancora molta strada da fare

 

HITLER E LO SHAMPOO – “Se sei un uomo devi usare questo shampoo: i veri uomini lo usano”. Questo lo slogan utilizzato dall’agenzia pubblicitaria turca M.A.R.K.A. per sponsorizzare la produzione dello shampoo Biomen. Nel sottotitolo dello spot, nel quale appare Adolf Hitler, appare la frase: “Se non indossate un abito da donna, allora non dovreste nemmeno usare uno shampoo da donna”. Una réclame apparsa alle fine di marzo e che ha causato una certa indignazione nella comunità ebraica turca, tanto da richiedere il ritiro della campagna pubblicitaria. Diverse le reazioni: il principale rabbino in Turchia, ad esempio, in un suo comunicato ha definito Hitler come “il più forte esempio di crudeltà e ferocia”, uno schiaffo per l’intero popolo israelita. “E’ inaccettabile – ha continuato – che un personaggio conosciuto per aver perpetrato lo sterminio nazista sia stato scelto per veicolare un messaggio pubblicitario”. Non solo: chieste anche le scuse pubbliche, per l’impatto e il danno psicologico causato all’intera comunità e per il disagio che ne è scaturito, oltre alla profonda ferita nella coscienza pubblica. Il proprietario della Biomen, Hulusi Derici, avrebbe quindi deciso di ritirare, pochi giorni dopo, il messaggio con testimonial annesso. Derici si è tuttavia difeso, affermando al un quotidiano Daily News: “se per lo slogan fosse stata usata la figura di Mustafa Kemal Ataturk probabilmente nessuno avrebbe reagito così. Tutti avrebbero pensato che il fondatore della patria si stesse prendendo gioco di loro. Usare Hitler è stato invece inteso come un modo per promuoverne il personaggio”. Derici ha poi rimarcato come in realtà la sua azienda avesse usato Hitler solo per puro “divertimento”, ma che dopo l’invio da parte di diversi cittadini ebrei di email di rimostranze, non si poteva far altro se non ritirare lo spot. In tutta la bagarre, ciò che non è stato affatto smentito è il successo della campagna pubblicitaria, dimostrato dall’elevato interesse di pubblico e media. Anche la comunità scientifica non si è fatta attendere: Yeºim Ulusu, professore della Bahçeºehir Universitesi di Istanbul, ha suggerito che la questione sia valutata da una commissione etica. “È un messaggio commerciale sessista ed offensivo, tipico di una società maschilista. Non esiste nessuna connessione tra Hitler e la virilità. Non è un gioco: è il male”. Oltre alla questione ebraica, dunque, Ulusu ha messo nel piatto anche l’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne. Protestano, dall’altra parte dell’oceano, anche gli Stati Uniti, che condannano non solo la compagnia ma anche lo spot.

 

UNA DEMOCRAZIA ETNICA – Sebbene la democrazia turca sia in una fase avanzata, per consolidamento, rispetto a tanti altri paesi che presentano un passato simile al suo, fatto di nazionalismi e modernismi, non si può certo affermare che Ankara sia la capitale di una democrazia matura. Le minoranze etniche, in particolare, sono state per lungo tempo emarginate e relegate alle periferie, spesso causando con questo atteggiamento governativo dei focali di revanchismo particolare. Ricordare le questioni armena e curda sarebbe come risvegliare non solo antichi dissapori, per usare un eufemismo, ma si tratterebbe piuttosto di riaprire una ferita storica, ancora viva, in quello che è stato il processo di formazione della nazione, da Ataturk in poi. Ecco perché la Turchia può essere più vicina per costituzione ad una democrazia etnica, dove una forte maggioranza, i turchi appunto, detengono il potere, non solo da un punto di vista governativo, bensì in maniera capillare su tutto il sostrato sociale. Ecco che la rappresentanza ne viene lesa definitivamente, e con essa la cosiddetta accountability, per usare un termine caro agli scienziati politici.

 

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LA QUESTIONE EUROPEA – Soddisfare i parametri di democraticità richiesti dall’Unione Europea è stato per lungo tempo uno dei chiodi fissi della politica estera di Ankara, ma la sua marcata instabilità politica, oltre al difficile percorso che, attraverso una sorta di ancoraggio democratico, la società civile turca dovrebbe affrontare per consolidarsi, fa dello “spicchio europeo” una meta sempre più lontana. C’è poi l’altro lato della medaglia, che chiama in causa ancora una volta la geopolitica: la Turchia, infatti, forte della sua posizione geografica e del suo ruolo interregionale, sta orientando il proprio interesse verso altre direttrici, come il Medio Oriente, per riuscire a diventarne un modello attrattivo, un paese pacificatore, un alleato fidato. Con un percorso iniziato già dal 2003, da quando rinunciò a concedere le basi militari agli Stati Uniti per la guerra in Iraq, Ankara tenta di diventare una sorta di catch-all state (“pigliatutto”), dove per scelta cerca di rimanere in entrambe le sfere d’azione, quella europea e quella mediorientale.

Una Cina con molti se e un Bo in meno

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Mentre la vicenda di Bo Xilai assume sempre più i contorni di un giallo degno della miglior Agatha Christie e la dirigenza cinese è impegnata in una fase di ricambio generazionale, tutto il mondo si interroga su quale futuro attenda il Celeste Impero. Tra voci di coup militare, spostamenti di truppe e forze di sicurezza e il continuo stillicidio di immolazioni in Sichuan e Tibet, la nuova leadership sarà chiamata ad affrontare sfide vecchie e nuove.

IL DUBBIO SUI FATTI – Era una fredda sera di inizio febbraio. Wang Lijun, capo della polizia di Chongqing e vice sindaco della città, viene visto entrare nel consolato americano di Chengdu dove rimane per un giorno intero, fino alla sua consegna alle autorità cinesi. La vicenda ha suscitato molto clamore, innestando una reazione a catena che si è compiuta con la defenestrazione del carismatico leader neo-maoista Bo Xilai, recentemente sospeso dalla carica di Segretario del Partito Comunista di Chongqing. Poche certezze, tante le voci non confermate. Bo è stato forse accusato da Wang di aver minacciato e di aver sfruttato a proprio vantaggio la “campagna rossa” contro la corruzione per eliminare i propri avversari politici e per arricchire il proprio patrimonio personale? E ancora, si moltiplicano le voci sui tentativi di insabbiamento di un’indagine sulla corruzione che coinvolgerebbe la stessa consorte di Bo e su un progetto di golpe orchestrato dall’ex Segretario del PCC di Chongqing in combutta con Zhou Yongkang, l’attuale Ministro della Pubblica Sicurezza.

BO CHI? – Ancora oggi uno dei 25 membri del Politburo e fino a poche settimane fa candidato per una delle nove poltrone del Comitato Permanente, il supremo organo decisionale della Cina, l’uomo del momento appartiene alla fazione dei taizidang, i cosiddetti “principini rossi”, discendenti degli alti funzionari del Partito. Bo Xilai è infatti figlio di Bo Yibo, veterano della Lunga Marcia e uno degli “Otto immortali”, illustri dirigenti del PCC che negli anni Ottanta e Novanta si resero protagonisti dell'apertura cinese al libero mercato. Durante la Rivoluzione Culturale, dopo l’imprigionamento del padre e la morte della madre, Bo rimase in carcere per cinque anni. Forte di una formazione umanistica alla spalle, negli anni Ottanta ebbe inizio la sua lunga carriera politica: dapprima sindaco di Dalian e governatore della provincia di Liaoning, poi Ministro del Commercio e dal 2007 segretario del Partito di Chongqing. All’interno della megalopoli situata nel cuore della Cina, il funzionario ha promosso negli ultimi anni una dura campagna contro la mafia e la corruzione, raggiungendo l’apice della popolarità attraverso l’arresto di oltre 200 funzionari e ufficiali di sicurezza pubblica.

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MODELLI A CONFRONTO – Con l’avvio delle riforme, Deng Xiaoping si trovò a dover spronare la popolazione cinese, ormai abituata da trent’anni all’economia pianificata, a “lasciare che qualcuno si arricchisse per primo”. Ora nella stanza dei bottoni dell’Impero di Mezzo ci si chiede quale sia la strada più adeguata per appianare il divario tra ricchi e poveri che gli ultimi trent’anni di forte crescita economica hanno generato. Una possibile strada è quella tracciata da Bo Xilai che, all’interno della propria municipalità, ha tentato di distribuire più equamente la ricchezza, generando un vero e proprio modello di sviluppo politico ed economico, chiamato appunto “modello Chongqing”. Tale modello, basato sulla costruzione di un sistema di sicurezza sociale per i cittadini e accompagnato da una vera e propria riscoperta del mito maoista, viene in genere contrapposto al “modello Guangdong” il modello ideato dal suo diretto rivale, Wang Yang, segretario del Partito della provincia del Guangdong. Wang più che sul ridistribuire il frutto della crescita, attraverso un sempre più serrato ritmo di esportazioni ed investimenti, si concentra sull’aumentare la ricchezza così che essa sia sufficiente a garantire il benessere di tutti i cittadini.

LA CINA RESTA VICINA? – Con l’epurazione di Bo Xilai e le elezioni del 18° Congresso del Partito Comunista Cinese ormai alle porte, durante le quali dovranno essere sostituiti 7 dei 9 membri del Comitato Permanente del Politburo, ci si chiede quale futuro attenda la Cina. Sebbene la capitolazione di Bo abbia frenato il dibattito tra il modello neomaoista, incentrato sullo sviluppo di un mercato interno e una politica estera più nazionalista, e il modello riformista di Wang, che auspica riforme più liberiste e più integrazione nel sistema internazionale, la questione resta irrisolta e dipende soprattutto da quale ruolo i vertici del Partito vogliono che il Paese ricopra nel prossimo futuro. Lo stesso Premier Wen Jiabao, ha recentemente sottolineato la necessità di urgenti riforme politiche, senza le quali anche il benessere economico attuale potrebbe essere intaccato correndo il rischio di una seconda Rivoluzione Culturale. Maggior democrazia e minor nostalgia verso passato. Più Pechino si spinge oltre la Grande Muraglia, più difficile diventa tornare indietro e quasi impossibile evitare di assumersi maggiori responsabilità nella governance economica e politica mondiale. Verso qualsiasi orizzonte porterà l'evoluzione dell’attuale modello di sviluppo del Paese, una cosa è certa, tale transizione avverrà comunque “con caratteristiche cinesi”.

Martina Dominici [email protected]

Lo snodo energetico israeliano

Lo scorso 5 marzo si è registrato l’ennesimo attentato contro l'Arab Gas Pipeline (AGP) – il 13esimo dal 5 febbraio 2011 – il gasdotto che, attraverso il Sinai, trasporta gas ad Israele e Giordania. L’ atto di sabotaggio ha prodotto un clima di incertezza e preoccupazione nelle politiche di approvvigionamento e sicurezza energetica di Israele. Dal canto suo, lo Stato ebraico per ridurre la propria dipendenza dal gas egiziano sta accelerando i suoi programmi legati alle politiche energetico-infrastrutturali. Infatti, lo scorso 5 febbraio, Israele ha approvato la costruzione di una linea ferroviaria che, unendo le due coste del Paese, costituirà un'alternativa terrestre ai traffici del Canale di Suez aprendo, dunque, un nuovo ponte commerciale tra i mercati asiatici e quelli europei. 

LA DIPENDENZA ENERGETICA DI ISRAELE – Fin dalla sua fondazione nel 1948, l’autosufficienza energetica è sempre stato ritenuto un tema di rilevanza strategica per lo Stato di Israele. Per ovviare a tale problema, Israele ha sempre importato petrolio e gas dai Paesi vicini ma, dal 2008, ha stretto una joint venture energetica con l'Egitto per il suo gasdotto nel Sinai. L'AGP costituisce per Israele una risorsa di approvvigionamento energetico fondamentale: la capitale economica Tel Aviv dipende da questo gasdotto per il 40% del suo consumo totale, rifornendosi ogni anno di 1,7 miliardi di metri cubi di gas naturale. L'AGP è tanto più fondamentale in quanto Israele non dispone di vere alternative e non intrattiene buone relazioni diplomatiche con gli altri produttori nel mondo arabo. La fornitura di gas allo Stato ebraico è oggetto di numerose proteste in Egitto da parte di islamisti, secolaristi e anti-governativi che hanno accusato l'allora Presidente Hosni Mubarak di aver venduto gas ad un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato.

RISCHIO SABOTAGGI – Tuttavia gli attentati al gasdotto egiziano hanno prodotto un'interruzione della fornitura regolare di gas sia ad Israele, sia alla Giordania. Secondo fonti governative israeliane, il costo dei sabotaggi è stato valutato in circa quattro miliardi di dollari. Tuttavia, pur avendo creato degli intoppi alle forniture di Tel Aviv, la situazione non sembrerebbe essere particolarmente critica a causa della scoperta di ricchi giacimenti di gas al largo delle coste israeliane. Il Levantine Basin, secondo le stime 2010 dello U.S. Geological Survey, vanta riserve pari a 3.453 miliardi di metri cubi di gas naturale, ma i due siti più grandi, “Tamar” e “Leviathan”, detengono riserve pari rispettivamente a 238 miliardi di metri cubi e a 450 miliardi di metri cubi. I due siti – che dovrebbero essere operativi da metà 2013 e fornire alla compagnia statale Israel Electric Corporation (IEC) circa 3 miliardi di metri cubi all’anno per almeno quindici anni – potrebbero dare la possibilità ad Israele di divenire un importante esportatore di gas a livello regionale

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LA FERROVIA NEL DESERTO – Considerato l'alto potenziale strategico e la decisione del governo di voler ridurre la propria dipendenza dal gas egiziano, Tel Aviv ha avviato un fitto programma di infrastrutture volto a favorire l'esportazione di gas nell'intera regione. Tra queste, l'infrastruttura più rilevante sembra essere la ferrovia “Red-Med”, che dovrebbe trasportare gas dal porto di Ashdod sul Mediterraneo verso quello di Eilat sul Mar Rosso, per poi esportarlo come gnl (gas naturale liquido) verso i mercati asiatici. La linea ferroviaria Eilat-Ashdod – che dovrebbe costare circa 2,3 miliardi di dollari e vedrà il coinvolgimento sia di investitori locali, sia di partner cinesi e indiani – sarà lunga 350 Km e diverrà pienamente operativa entro la fine del 2017. Come ha sottolineato il governo israeliano, la “Red-Med” sarà un'importante infrastruttura strategica complementare al congestionato Canale di Suez – da cui transita l'8% del traffico marittimo globale – che consentirà un trasporto alternativo di merci e idrocarburi dall'Europa all'Asia.

DIVERSIFICARE FONTI E VIE – Oltre alla “Red-Med”, il governo Netanyahu sta finanziando tutta una serie di infrastrutture strategiche volte a rendere il Paese “un rilevante vettore terrestre […] in grado di permettere un avanzamento delle aspirazioni energetiche, industriali ed economiche dello Stato ebraico”. A questo progetto si aggiungono, inoltre, i piani relativi alla realizzazione di nuove tratte stradali e ferroviarie, come la Ashkelon-Ofakim o la Ashdod-Tel Aviv-Haifa, prolungamenti del braccio principale Eilat-Ashdod. Altra opzione strategica sarà il collegamento della “Red-Med” alla linea esistente che va da Be'er Sheba a Dimona e comprenderà otto nuove stazioni lungo il percorso, tra cui quella che congiungerà il futuro aeroporto internazionale della Timna Valley con il Golfo di Aqaba e il porto di Eilat. La rilevanza dell'infrastruttura risiede, dunque, nella sua duplice capacità di aumentare i contatti di Israele con i mercati asiatici riducendo, al contempo, la sua dipendenza dalle economie di Europa e Stati Uniti – che costituiscono più del 70% delle destinazioni finali dell'export israeliano – e, al contempo, di rendere il Paese uno strategico hub energetico regionale. Nonostante gli investimenti e le strategie di diversificazione, le strategie energetiche di Israele nel breve periodo saranno comunque fortemente dipendenti sia dal gas egiziano, sia dalle sue pipeline, almeno fino a quando non entreranno in produzione i siti gasiferi nel Bacino del Levante e le relative infrastrutture di espansione dell'export israeliano.

Giuseppe Dentice [email protected]

Un’Unione senza accordo

Non è stato ancora trovato l’accordo per il nuovo presidente della commissione dell’Unione Africana: in un complicato intreccio diplomatico, la nomina potrebbe passare dal rapporto tra Nigeria e Sudafrica. In Kenya è stato scoperto il petrolio, e l’Uganda comincia a temere per i propri piani estrattivi. La candidata nigeriana alla Banca mondiale, Okonjo-Iweala, riceve il sostegno di “The Economist”, mentre in Ruanda si ricorda il genocidio del 1994. Al-Shabaab mostra segni di contrasto al proprio interno, ma, nel frattempo, lancia un attentato a Mombasa. In chiusura, una nota sull’Unione Africana

 

IMPASSE AI VERTICI DELL’UNIONE AFRICANA – La commissione dell’Unione Africana, ossia il segretariato dell’organizzazione, si trova in una fase di stallo. Da un lato, infatti, il Sudafrica preme affinché alla sua guida sia nominato il proprio ministro degli Interni, Nkosazana Dlamini-Zuma, ma non ha i voti per sostenerlo; dall’altro lato l’attuale presidente, il gabonese Jean Ping, non ha la maggioranza dei due terzi richiesta per assicurarsi la fiducia. La questione, tuttavia, è piuttosto complessa, poiché la candidata sudafricana rappresenta la Comunità di sviluppo per l’Africa meridionale, un’organizzazione regionale subsahariana che non ha mai espresso alcun presidente della commissione. Altri nomi sono stati presi in analisi, dal Mozambico, allo Swaziland, mentre lo Zimbabwe ha cercato di muoversi per far vacillare la convergenza su Dlamini-Zuma. Un accordo potrebbe emergere dal dialogo tra Sudafrica e Nigeria: dopo gli incidenti diplomatici di marzo (riportati dal “Caffè”), i due Paesi hanno avuto un improvviso riavvicinamento. Il presidente Zuma ha sostenuto la candidatura di Ngozi Okonjo-Iweala alla Banca mondiale in varie sedi e nel gruppo BRICS, cosicché Abuja si è mostrata favorevole ad appoggiare Nkosazana Dlamini-Zuma alla commissione dell’Unione Africana.

 

SCOPERTO IL PETROLIO IN KENYA – Sebbene ancora non ci sia conferma circa la sua possibilità d’impiego, il petrolio scoperto in Kenya (foto in basso a destra) dalla Tullow Oil apre già scenari di ampio respiro. La stessa compagnia, infatti, ha individuato l’oro nero anche in Uganda, cosicché il progetto per la costruzione di una raffineria nel Paese si scontra inevitabilmente con i piani analoghi in Kenya. Secondo molti analisti, però, sarebbe proprio Nairobi a godere di maggiori vantaggi economici, primo fra tutti la presenza di uno stabilimento, seppur vecchio, e di infrastrutture atte al trasporto del petrolio, senza contare il porto di Mombasa, scalo internazionale che permetterebbe di evitare il transito dalla Somalia. Tuttavia, l’Uganda, sta cercando di convincere le compagnie petrolifere puntando sia sul proprio ruolo militare nella pacificazione del Corno d’Africa, sia sulla già provata commerciabilità del suo petrolio, pur sapendo che la costruzione di una raffineria ex novo comporterebbe costi che, rispetto alle dimensioni delle riserve (stimate in massimo trenta anni di estrazioni), potrebbero non valere l’investimento. Al momento, comunque, l’attesa è per maggio, quando si avranno i risultati dei sondaggi sul petrolio keniota.

 

THE ECONOMIST” SOSTIENE NGOZI ALLA BANCA MONDIALE – Nel corso della settimana, la candidatura di Ngozi Okonjo-Iweala alla presidenza della Banca mondiale ha raccolto adesioni inaspettate anche al di fuori dell’Africa, come quella di “The Economist”, fino all’anno scorso tendenzialmente scettico riguardo alle capacità del continente nero di sostenere progetti di lungo periodo. Secondo la testata britannica, Okonjo-Iweala, attuale ministro delle Finanze nigeriano, è una candidata ideale, poiché, sebbene non abbia agito col dovuto vigore per affrontare il problema della corruzione nel proprio Paese, può vantare un ottimo operato nella lotta alla povertà e nel tentativo di rendere trasparente la pubblica amministrazione.

 

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IL RUANDA RICORDA IL GENOCIDIO – Sabato 7 aprile, il Ruanda si fermerà in ricordo dell’anniversario del genocidio del 1994, inaugurando una settimana di riflessione all’insegna del motto: «Impariamo dalla nostra storia per costruire un futuro splendente». Diciotto anni fa, in cento giorni tra l’aprile e il giugno, il Paese sprofondò nella cieca brutalità di un bagno di sangue che costò la vita ad almeno un milione di persone di etnia Tutsi, mentre la comunità internazionale restava in silenzio. In questi giorni, inoltre, giungono due notizie in merito alla ricerca dei responsabili del genocidio. La Francia, infatti, ha concesso l’estradizione in Ruanda di Claude Muhayimana, mentre negli Stati Uniti è stato disposto un nuovo processo per Beatrice Munyenyezi, accusata della falsificazione dei documenti di ingresso nel Paese, avendo giurato di essere estranea ai fatti del 1994, nonostante il marito e la suocera siano stati condannati all’ergastolo dalla Corte penale internazionale per la loro partecipazione al massacro dei Tutsi.

 

DISSIDI INTERNI AD AL-SHABAAB – Già da qualche mese, il fronte al-Shabaab sembra sempre più diviso al proprio interno. Dopo i contrasti seguiti all’unione con al-Qaeda, fonti di agenzia riportano di nuovi malumori tra i vertici del gruppo islamista somalo. Secondo “Radio Garowe”, emittente dell’omonima città del Corno d’Africa, Sheikh Hassan Dahir Aweys, ritenuto la guida spirituale di un’importante fazione, avrebbe criticato il capo carismatico delle milizie, Mukhtar Abu Zubeyr, accusandolo di voler escludere molti combattenti musulmani stranieri dal jihad in Somalia. Aweys si sarebbe scagliato anche contro la continua uccisione di civili, pratica contraria all’Islam e che mostrerebbe la deviazione di molti miliziani verso leggi proprie e non più utili alla causa.

 

MUGABE VUOLE LE ELEZIONI ANTICIPATERobert Mugabe, presidente dello Zimbabwe, è deciso a mantenere il proprio obiettivo, ossia la convocazione, entro quest’anno, delle elezioni anticipate, da svolgersi dopo l’approvazione, a maggio, di una nuova Costituzione. La commissione chiamata a redigere la nuova carta ha risposto di non poter ottemperare alle richieste del Presidente, ma Mugabe ha ribadito con fermezza che le consultazioni saranno tenute in ogni caso, poiché, da parte dei giuristi impegnati nello studio delle riforme, ci sarebbe solo la volontà di allungare i tempi per consentire alle opposizioni di assumere una posizione di forza.

 

INCERTEZZA POLITICA IN GUINEA BISSAU – L’inviato dell’ONU in Guinea Bissau ha lanciato un appello affinché le forze politiche del Paese collaborino al completo superamento della fase di transizione seguita alla morte del presidente Malam Bacai Sanha in gennaio. Il 18 marzo si è tenuto il primo turno delle elezioni, mentre la fase successiva, che vedrà contrapposti il già primo ministro Carlos Gomes Junior e l’ex presidente Kumba Yala, si svolgerà il 22 aprile. Le consultazioni complicano il percorso individuato dall’ONU per il 2012, poiché rinviano le elezioni per il Parlamento al prossimo anno, e sospendono il dibattito sulle norme per la sicurezza, argomento ritenuto prioritario dalla missione internazionale in Guinea Bissau (UNIOGBIS). KONY 2(012) Invisible Children, promotrice della campagna “Kony 2012”, ha annunciato che entro breve sarà rilasciato un secondo video di denuncia contro il comandante della Lord’s Resistance Army. Nel nuovo filmato, l’associazione tenterà di correggere i molti errori presenti nel primo documentario, come, per esempio, l’affermazione che Joseph Kony sia ancora in Uganda o la proposizione di alcuni dati non confermati.

 

ATTENTATO A MOMBASA – Al-Shabaab torna a colpire in Kenya: sabato pomeriggio, una bomba è esplosa a Mombasa, causando la morte di una donna e ferendo più di trenta persone. Nella rivendicazione, il gruppo islamista intima alle truppe di Nairobi di ritirarsi dalla Somalia. Le forze di sicurezza keniote hanno comunicato di aver già arrestato alcuni individui collegati all’attentato.

 

Beniamino Franceschini

La pista azera

Israele è da decenni economicamente legata all’Azerbaijan, soprattutto in campo militare, con numerose industrie azere che costruiscono e testano veicoli ed equipaggiamenti su licenza dello stato ebraico. Ciò che recentemente è venuto alla luce è però il sospetto che lo stato caucasico possa concedere alcune basi aeree inutilizzate di epoca sovietica per rendere più facile un attacco all’Iran. Solo che stavolta sono gli USA a rivelare il tutto per paura che l’attacco avvenga sul serio.

 

PICCOLO MA STRATEGICO – L’Azerbaijan è un piccolo stato caucasico al confine nord dell’Iran e la possibilità che ceda alcune delle sue basi inutilizzate di epoca sovietica a Israele contro l’Iran appare più di una semplice ipotesi. Le relazioni tra Baku e Teheran sono state cordiali per decenni, ma tale situazione era più di facciate che reale. Le forze di sicurezza Azere hanno infatti recentemente smantellato una rete di informatori iraniani nel proprio paese così come in Iran la minoranza Azera viene tenuta sotto stretta osservazione in quanto non aliena alla rivolta. L’amicizia del vicino con Israele è infatti motivo di preoccupazione per gli Ayatollah, che la vedono come ulteriore segno di accerchiamento. E non ha giovato la recente proposta del partito al governo di rinominare il paese “Azerbaijan del Nord”, a paventare l’intenzione, prima o poi, di unirsi a quel “sud” ora sotto il controllo di Teheran.

 

LA MINACCIA DI RAPPRESAGLIE – Perché potrebbero essere importanti le basi aeree Azere? Perché la distanza tra Israele e i siti nucleari iraniani è molto elevata (da 1750 a 2200 km a seconda dei siti): richiede grosse cisterne di carburante, rifornimento in volo e in generale qualunque velivolo costretto a deviare anche poco dalla rotta potrebbe trovarsi senza carburante. Senza contare poi che la rivista Foreign Policy ha intervistato vari osservatori militari USA i quali, nonostante le rassicurazioni del comando israeliano, hanno notato come nelle ultime esercitazioni l’IAF abbia mostrato un’abilità nel rifornimento in volo “solo modesta”: troppo poco per garantire un’operazione di complessità così elevata. I caccia israeliani allora potrebbero attaccare dall’Azerbaijan, riducendo molto la distanza? Non appare probabile: il rischio di una ritorsione diretta iraniana è troppo alto, tanto che lo stesso governo caucasico ha dichiarato che “nessun attacco arriverà dall’Azerbaijan”. Proprio queste parole però non escludono altre forme di collaborazione che tornerebbero comunque utili all’aviazione di Gerusalemme.

 

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OBIETTIVO RICERCA E SALVATAGGIO – Per esempio si prevede che il territorio azero e le sue basi possano essere usate come punto di partenza per gli elicotteri destinati a recuperare eventuali piloti caduti in territorio ostile (CSAR – Combat Search and Rescue), oltre a ospitare apparati elettronici di sorveglianza e droni che possano andare a verificare i danni causati mentre avviene l’attacco e dunque l’eventuale necessità di colpire ancora – magari da parte di una seconda ondata che arrivi a breve distanza dopo la prima secondo un concetto di “shoot-look-shoot” – per la prima volta impiegato da Israele durante l’attacco a un convoglio di munizioni in Sudan dirette ad Hamas durante l’operazione Cast Lead nel 2009. Oltre a questo le basi azere possono essere impiegate per permettere ai cacciabombardieri israeliani di atterrare per rifornirsi dopo l’attacco – o in caso di emergenza – prima di tornare in patria. Potrebbe rivelarsi vitale soprattutto per i caccia di scorta che debbano consumare carburante molto più velocemente, riducendo la necessità del rifornimento d’emergenza in volo, come detto più complicato.

 

WASHINGTON: SEMAFORO ROSSO – Insomma, da un lato le basi potrebbero risolvere alcune importanti questioni che altrimenti renderebbero l’attacco israeliano molto più difficile da portare a termine. L’altra faccia della medaglia è però che questo è proprio ciò che gli USA non vogliono. Come fa notare Nicholas Kristof sul New York Times, negli Stati Uniti non esiste davvero nessun dibattito sull’opportunità o meno di attaccare l’Iran, perché questo viene valutata negativamente da tutti i principali analisti, militari e non. Le potenziali problematiche verrebbero solo acuite da un possibile impiego delle basi in Azerbaijan, poiché il già presente rischio di estensione del conflitto all’intero Medio Oriente si sommerebbe alla possibilità che venga coinvolto anche il Caucaso. La Turchia è particolarmente preoccupata da ciò, così come la vicina Armenia, che con l’Azerbaijan ha già combattuto per la zona contesa del Nagorno-Karabakh. Difficile pensare che l’Iran attacchi preventivamente il territorio Azero, ma nulla esclude che razzi o artiglieria vengano impiegati dopo l’attacco aereo, nel tentativo di colpire le forze di Gerusalemme che lì dovessero rifornirsi. Appare questa la maggiore motivazione dietro alla rivelazione USA delle mosse dell’alleato nel Caucaso. Le sanzioni contro l’Iran sono ora le più incisive di sempre, e serve tempo per vedere se possono essere sufficienti per ricondurre Tehran al dialogo. Ma se Israele attacca, gli USA potrebbero trovarsi coinvolti comunque in un conflitto che non desiderano – meglio dunque cercare di sventarlo prima.

 

Per un pugno di milioni di dollari

La prima settimana del mese di Aprile si apre nel segno della seconda Conferenza degli amici della Siria, chiusasi a Istanbul, con cui i paesi arabi e quelli occidentali hanno sbloccato fondi milionari per gli aiuti ai civili e ai ribelli. La corsa per la presidenza del WTO si fa sempre più pressante con Jim Yong Kim che apre il suo tour proprio a Bruxelles, le primarie G.O.P. passano da Washington con Romney in netto vantaggio mentre in Argentina tornano le ombre del terrore. Il capitano Sanogo gioca al gatto e al topo con l’ECOWAS e gli alti gradi dell’esercito mentre la Tunisia resta in stato d’emergenza in vista dell’alta stagione. Il trionfo ufficioso di Suu Kyi in Myanmar e lo stallo a Pechino in attesa di notizie sul fronte indiano dei naxaliti.

 

EUROPA

Mercoledì 4 – Jim Yong Kim, il candidato ufficiale del Presidente americano Obama per la carica di Presidente WTO, aggiungedosi alle candidature del Ministro nigeriano per le Finanze Ngozi Okonjo-Iweala e dell’ex Ministro colombiano José Antonio Ocampo. Kim ha in programma un lungo tour internazionale che lo porterà in seguito a toccare mete come Cina, Giappone, Corea del Sud, India, Brasile e Messico. Nel colloquio a Bruxelles, oltre a discutere apertamente con le cariche e i rappresentanti delle varie istituzioni dell’Unione, ci sarà tempo per analizzare la posizione europea nelle recenti vicissitudini tra Cina e Stati Uniti sulle terre rare.

FRANCIA – Lo scenario elettorale in Francia si fa sempre più complesso in vista delle presidenziali del 22 Aprile, mentre il fenomeno mediatico “Merah-Toulouse” passa silenziosamente senza lasciare alcuna traccia nel dibattito politico. La verità è che tutti si aspettavano un salto significativo delle possibilità della candidata d’estrema destra Marine Le Pen, che sembra invece soffrire della legge del contrappasso lasciando il terzo gradino del podio al candidato gauchista Jean Luc Melenchon. Per ora il socialista Hollande è al sicuro forte del 28,5% dei consensi ipotetici, contro il 27,5% di Nicolas Sarkozy, ma chissà che l’ascesa irrefrenabile della sinistra dura e pura non porti lo sfidante maggioritario a concedere qualcosa alla parte meno moderata.

KOSOVO – Il confine tra Serbia e Kosovo rimane al centro delle controversie tra Belgrado e Pristina dopo l’arresto di due guardie kosovare in territorio serbo avvenuto nel week-end. I due ufficiali di frontiera sono stati colti in fallo e in possesso di armi automatiche mentre pattugliavano una zona boschiva da unità speciali dell’esercito serbo. Intanto nel Kosovo del Nord saranno i militari italiani di stanza nella missione NATO KFOR a sostituire il contingente austriaco di 150 uomini ritiratosi nella serata di Domenica dopo le dichiarazioni del Ministro della Difesa di Vienna Norbert Darabos.

 

AMERICHE

Lunedì 2 – Mentre i 15 del Consiglio di Sicurezza saranno chiamati ad affrontare ufficialmente l’evidente fallimento del piano di pace per la Siria, gli Stati Uniti ottengono la Presidenza del foro più importante della Comunità Internazionale. La carica passa per ciascun membro in rotazione mensile, pur non garantendo alcun potere formale se non quello di pronunciare dichiarazioni ufficiali, garantisce un ruolo di prim’ordine nella formulazione dell’agenda dei lavori e nell’organizzazione dei dibattiti. Con la Siria sempre più destinata alla guerra civile e le voci di un possibile blitz israeliano in Iran entro fine mese, Washington ottiene una posizione chiave nella gestione dell’organo ONU più ambito.

Martedì 3 – Non sarà un super tuesday vero e proprio ma l’attesa è la stessa per l’appuntamento alle urne G.O.P. in 3 stati dopo il rinvio dell’appuntamento in Texas, la patria della stirpe Bush e del repubblicanesimo duro e puro. Wisconsin, Maryland e District of Columbia saranno teatro dell’ennesimo round di scontro tra i vari candidati rimasti in gara. Finita la sfilza di successi nella Bible belt Rick Santorum si trova in affanno nel ruolo di inseguitore, mentre Romney si attesta in cima ai sondaggi nonostante il permanere dei dubbi sulla sua nomina a Tampa. Intanto in settimana Mitt ha ottenuto l’ennesimo endorsement, stavolta dal senatore repubblicano Rubio, che punta a diventare l’Obama G.O.P. nell’ampio bacino latino dell’elettorato americano.

ARGENTINA – Fa scalpore il rinvio a giudizio dell’ex premier Carlos Menem, accusato dalla magistratura argentina di aver svolto un ruolo secondario negli attentati ad una fondazione ebraica nel 1994. Di origini siriane, Menem avrebbe insabbiato le prove contro un imprenditore amico di famiglia, implicato nell’atto terroristico che uccise 85 persone ferendone 300. La stampa locale, ricollegandosi alle indiscrezioni dell’attualità sui legami tra Teheran, Damasco ed Hezbollah, ha ribattezzato la vicenda Syrian Connection. Sarebbe infatti stata una cellula libanese a portare a termine il piano in Argentina su richiesta iraniana, una girandola di tappe mediorientali in cui più volte il paese è incappato.

 

AFRICA

MALI – La situazione rimane tesa a Bamako, dopo le continue pressioni della Comunità Internazionale affinchè la giunta militare restituisca il potere ad un governo democraticamente eletto. Domenica il Capitano Amadou Sanogo ha promesso la restaurazione della Costituzione e la ripresa del funzionamento degli organi vitali dello Stato, adempiendo alle richieste impazienti dei membri dell’ECOWAS, l’organizzazione regionale dell’occidente africano. Intanto il colpo di stato dei ranghi inferiori delle forze di sicurezza è stato un vero e proprio dono del cielo per i ribelli tuareg attivi nel Nord, giunti fino all’impensabile conquista di Timbuktu dopo la guarnigione di Gao. L’elite militare guarda con diffidenza e disprezzo i membri della giunta, qualora le consultazioni con i ribelli del Fronte per l’Azawad finissero in nulla, il contro-coup sarebbe la mossa scontata ed inevitabile.

TUNISIA – Il Presidente Moncef Marzouki ha esteso a tutto il mese d’Aprile lo stato d’emergenza dopo una consultazione rapida con il Presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente Mustapha Ben Jaafar e il Premier Hamadi Jebali. Il decreto è in realtà un atto dovuto più che un provvedimento straordinario dato che il continuo traffico d’armi provenienti dalla Libia continua a fiorire nelle zone desertiche e i contrasti sociali si accendono spesso in sferzate improvvise. Il turismo resta la principale voce dell’economia tunisina e l’alta stagione è alle porte dopo un anno di stallo totale, il governo punta forte sull’arrivo di turisti. La sicurezza è quindi il primo passo verso la rinascita del dopo Ben Ali, lo stato d’emergenza fa salve alcune prerogative fondamentali delle libertà dei cittadini anche se deve restare una misura d’ultima istanza senza diventare una triste abitudine.

Mercoledì 3 – Atteso come una possibile soluzione della crisi continua tra Sudan e Sudan del Sud, il summit di Mercoledì organizzato ad Addis Abeba è stato rimandato sine die a causa degli incessanti scontri di confine nel Kordofan Meridionale. L’incontro avrebbe riunito il Presidente di Khartoum Omar Hassan al-Bashir e il Presidente di Giuba Salva Kir, è stato invece ridotto ad incontro tra rappresentanti diplomatici dei due paesi. La situazione è precipitata ultimamente complicando ulteriormente la questione petrolifera, Giuba possiede i giacimenti, Khartoum oleodotti, sbocchi sul mare e raffinerie, mentre il Kenya si è offerto come sparring partners del Sudan del Sud proponendo la costruzione di un megaporto commerciale.

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ASIA

Lunedì 2 – La stampa indiana da per certa l’imminente comunicazione ufficiale dei ribelli naxaliti sulle richieste e le tappe per il rilascio dell’ostaggio italiano Paolo Bosusco, detenuto nei boschi dell’Orissa. Il leader dei ribelli Sabyasachi Panda si è detto deluso dell’andamento dei negoziati, affidati dal governo alle autorità regionali, in particolare ha più volte lamentato la mancata partecipazione di alti rappresentanti di Nuova Delhi. In settimana, interrogato sulla vicenda, il titolare della Farnesina Giulio Terzi si è detto incerto sull’esito delle trattative che potrebbero protrarsi a lungo in uno stallo pericoloso.

MYANMAR – Si fa frenetica l’attesa per i risultati ufficiali e completi delle elezioni parziali e suppletive nell’ex Brimania, mentre la Lega Nazionale per la Democrazia annuncia apertamente il trionfo della paladina Suu Kyi. I dati definitivi potrebbero arrivare solo nel week-end a causa della vastità del territorio nazionale e della mancanza di sistemi tecnologici, diversi episodi di brogli programmati sono stati denunciati dall’opposizione, ma l‘affluenza alle urne è comunque alta. Quello che è certo è che nemmeno un consenso popolare ampissimo potrebbe assicurare alla LND un ruolo di primo piano nel governo del paese, che resterà in ogni caso nelle mani dei militari. Suu Kyi, qualora eletta, dovrà accontentarsi di una tribuna ufficiale per i suoi discorsi a difesa della libertà e della democrazia.

CINA – Pechino continua a rimanere in un’atmosfera di stallo ed incertezza dopo la rimozione dalla carica politica del promettente astro nascente di Chonqing Bo Xilai. Nel week-end intense e frenetiche voci online di un coup militare imminente, correlati da testimonianze di movimenti di uomini e mezzi verso Pechino hanno portato le autorità a chiudere 16 siti internet e a multare due social network, oltre ad una sfilza di arresti nell’intento di fermare i rumours. Oltre a legarsi ad uno scandalo diplomatico con il consolato americano locale, la vicenda di Bo Xilai non è ancora chiara ma continua a far tremare la certezza dell’avvicendamento del Politburo, l’organo di governo del PCC.

 

MEDIO-ORIENTE

Lunedì 2 – Kofi Annan sarà a Teheran in mattinata per discutere con le massime cariche della Repubblica Islamica le implicazioni della mancata attuazione del piano di pace per la Siria da parte del governo di Damasco. Dopo la visita ufficiale del premier turco Erdogan, l’Ayatollah Ali Khamenei si era già pronunciato contro qualsiasi interferenza esterna nella gestione della crisi interna, riconfermando il pieno appoggio e sostegno all’alleato Bashar al-Assad. Le indiscrezioni dopo aver segnalato l’arrivo nel porto siriano di Tartus di una fregata russa con a bordo squadre d’elite dei corpi anti-terrorismo, danno per certa la presenza sul campo di battaglioni di pasdaran iraniani. Intanto nonostante il calo di acquirenti causa sanzioni, le esportazioni di greggio persiano hanno raggiunto i 16 miliardi di dollari dal marzo 2011. Sabato in una conferenza stampa le autorità di Pechino sembrano aver rifiutato la proposta di Obama bollando le sanzioni sul greggio come “punizioni unilaterali“.

QATAR – Sempre al centro dell’attualità internazionale il Qatar è la prima meta scelta dall’auto-esiliatosi vice premier iracheno Tariq al-Hashimi per un tour che lo porterà durante la settimana in altri paesi del Golfo. Al-Hashimi, rifugiatosi nel Kurdistan iracheno, è il nemico pubblico del governo sciita di Nuri al-Maliki, giunto al potere dopo la transizione guidata dagli Stati Uniti. Il Summit della Lega Araba di mercoledì scontro è stato in realtà il preambolo della visita ufficiosa, il Qatar ha infatti partecipato con un delegato di scarso rilievo, mandando un forte messaggio subliminale alla leadership di Baghdad. Nonostante l’Iraq voglia vendersi come un paese nuovo e forte dopo la fine dell’era di Saddam, rimane uno dei paesi più instabili dell’area a causa delle fratture etnico-religiose tra sunniti, sciiti e curdi.

SIRIA – Si è chiusa domenica a Instanbul il secondo meeting del forum “Friends of Syria“, una coalizione dei volenterosi che coordina gli aiuti ai ribelli siriani. Dopo aver raggiunto l’accordo su una richiesta ufficiale all’inviato Kofi Annan affinchè indichi un ultimatum al governo di Damasco, i partecipanti hanno riconosciuto il Consiglio Nazionale Siriano come unico interlocutore legittimo. I paesi del Golfo hanno confermato la posizione preminente nella gestione delle rivolte della primavera araba, creando un fondo multimilionario per il finanziamento dei ranghi dell’Esercito Libero Siriano e per offrire ricompense ai disertori. Gli Stati Uniti hanno deciso di sbloccare altri 12 milioni di dollari in aiuti alla popolazione civile, mentre la Germania ha raddoppiato il suo impegno fino a 7,6 milioni di dollari. Burhan Ghalioun, leader del CNS si troverà ora a gestire cifre milionarie in attesa che anche il Consiglio di Sicurezza si pronunci in merito nella sessione di oggi.

 

Fabio Stella

Il polmone cattolico del mondo

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Religione, geopolitica e diplomazia sono temi che, sebbene a volte possano apparire distanti, sono in realtà intrecciati tra loro. Ne è una dimostrazione il recente viaggio di Papa Benedetto XVI in Messico e a Cuba. L'America Latina è un continente di importanza strategica per la Chiesa cattolica, con un bacino di 400 milioni di fedeli. Il cattolicesimo però è messo in difficoltà dalle politiche laiciste di alcuni stati e dalla crescente diffusione delle sette protestanti

GRANDE PARTECIPAZIONE POPOLARE – A margine del viaggio apostolico di Benedetto XVI in Messico e a Cuba, appena concluso, sono molti gli spunti sui quali vale la pena riflettere. Un primo dato che colpisce è la straordinaria partecipazione popolare che ha costantemente accompagnato il pontefice durante il suo soggiorno nei due Paesi centroamericani. Un successo che sul piano mediatico ha offuscato – quando non proprio “spazzato via” – le numerose polemiche che avevano tenuto banco nelle settimane precedenti alla partenza, secondo un copione andato in scena più volte nel corso di questo pontificato: lo scandalo che ha travolto il fondatore messicano dei Legionari di Cristo Marcial Maciel Degollado (e di conseguenza i suoi sponsor Oltretevere), l'accusa di voler incidere attivamente sulle imminenti elezioni generali messicane, le immancabili critiche dei sostenitori della Teologia della Liberazione, che in Benedetto XVI vedono sempre l'ex prefetto del Sant'Uffizio Joseph Ratzinger, loro “nemico storico”. Tutto questo, anche nei corsivi dei commentatori normalmente meno teneri verso la Chiesa e il papa, sembra non avere retto di fronte alle centinaia di migliaia di persone accorse alla celebrazione della Messa sul Cerro del Cubilete a Silao (Guanajuato), nel centro geografico del Messico. NEMESI STORICA – Una fotografia, questa, che ha un po' il sapore di una “rivincita della storia”: poco meno di novant'anni fa, nel gennaio del 1923, quando nel medesimo luogo era stata posta la prima pietra del monumento a Cristo Re (successivamente distrutto nel 1926 e ricostruito nel 1940), il governo rivoluzionario laicista aveva reagito ordinando l'espulsione del delegato apostolico mons. Ernesto Filippi, reo di aver partecipato insieme a qualche migliaio di fedeli a quella cerimonia, che per essersi svolta all'aperto venne considerata anticostituzionale. Si era, allora, alla vigilia di un conflitto civile di matrice religiosa – la guerra cristera (1926-1929) – che sarebbe costato decine di migliaia di morti. Da allora in Messico molte cose sono cambiate, anche se le disposizioni più anticlericali della Costituzione del 1917 – sostanzialmente non applicate fin dalla fine degli anni Trenta – sono state modificate solo nel 1992. Le polemiche che hanno accompagnato il progetto di riforma dell'articolo 24 sulla libertà di culto, approvato dal senato messicano il giorno stesso in cui Benedetto XVI ha fatto ritorno in Vaticano, testimoniano peraltro quanto certe barriere risultino ancora oggi difficili da superare, in un Paese che della “laicità”, o piuttosto del “laicismo”, ha fatto una propria bandiera a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Il progetto originario di riforma presentato nel marzo del 2010 da un deputato del Partido Revolucionario Institucional (PRI) prevedeva ad esempio l'abolizione dell'obbligo di avere un permesso speciale per celebrare atti di fede in pubblico, e stabiliva il rispetto da parte dello Stato del diritto dei genitori a garantire ai figli un'educazione religiosa e morale secondo le proprie convinzioni. Non sembrano richieste scandalose, in una società che voglia definirsi compiutamente democratica. Ed è significativo che di esse si sia fatto portatore un esponente del partito fondato nel 1928 dal generale Plutarco Elías Calles, il presidente della Repubblica più ferocemente anticlericale che abbia mai avuto il Messico. FUOCO DI SBARRAMENTO – Eppure tali proposte non hanno superato il fuoco di sbarramento delle componenti liberali del parlamento, trasversali ai vari partiti: l'articolo ora approvato si limita ad affermare che «ogni individuo ha diritto alla libertà di convinzioni etiche, di coscienza e di religione e ad avere o adottare, in tal caso, quella di sua scelta». Anni luce, senza dubbio, dalla precedente formulazione, che riconosceva la libertà di professare un culto e di osservarne le pratiche nella misura in cui queste non costituissero «un reato o una colpa puniti per legge». Proprio per questo, d'altra parte, non manca chi ancora adesso continua a parlare di “attentato allo Stato laico”. Polemiche che risultano paradossali, oltre che anacronistiche, in uno Stato la cui popolazione per oltre l'80% si dichiara cattolica, e che dopo il Brasile è il secondo Paese cattolico del pianeta.

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AMERICA LATINA DECISIVA PER LA CHIESA – Anche questi dati contribuiscono a spiegare perché il viaggio di Benedetto XVI rappresenti un tornante decisivo per l'intero pontificato. Con i suoi oltre 400 milioni di fedeli alla Chiesa di Roma l'America Latina è ormai da tempo il principale “polmone cattolico” del mondo. Notevolissimo, a questo proposito, è anche il numero di vocazioni al sacerdozio, che in Messico appare in continua crescita. Dietro alle cifre, tuttavia, si nasconde una realtà problematica per diversi aspetti. Il cattolicesimo latinoamericano sta subendo infatti l'attacco sempre più deciso delle numerose e agguerrite sette protestanti, pentecostali in particolare, ben finanziate e basate per lo più negli Stati Uniti. Il fenomeno non è certo nuovo; è appena il caso di ricordare che quando il governo Calles negli anni Venti calpestava il diritto di libertà religiosa di milioni di cattolici, i missionari evangelici e i propagandisti statunitensi della Young Men Christian Association erano liberi di fare proseliti, godendo della stima e dell'appoggio incondizionati – e ricambiati – delle autorità civili. Oggi le sette forse non godono più degli “aiuti di Stato” di un tempo (in Messico, in alcuni casi esse si mostrano piuttosto collaterali ai cartelli del narcotraffico, come in Michoacán). Il proselitismo protestante ha tuttavia raggiunto dimensioni notevoli, complice anche una superficialità nel vivere la fede che colpisce diversi cattolici in America Latina, attenti talvolta più agli aspetti emotivi e materiali della religione che alle ragioni profonde del credere. Di questo si è mostrato ben cosciente Benedetto XVI, che non a caso ha esplicitamente invitato i cattolici messicani a non separare il “cuore” dalla “ragione” e a non isolare il culto mariano, radicatissimo a livello popolare, dal nucleo fondamentale della Rivelazione cristiana. LA LIBERTA' RELIGIOSA – Insieme all'approfondimento della fede e alla necessità di una nuova evangelizzazione dell'America Latina, Benedetto XVI nel suo viaggio ha evidenziato con forza il tema della libertà religiosa. Su questo terreno potenzialmente accidentato, a Cuba soprattutto, il papa ha saputo muoversi con grande abilità e allo stesso tempo con la necessaria discrezione. Posto di fronte alle pressioni dei dissidenti cattolici cubani da una parte, e del regime castrista dall'altra, Benedetto XVI ha perseguito con successo una terza via. Dal punto di vista “ideologico” ha giocato d'anticipo, definendo il marxismo – prima ancora di scendere dall'aereo che lo stava portando oltreoceano – un «sistema ormai superato», e offrendo il contributo della Chiesa locale al rinnovamento morale e sociale dell'intero Paese. Questo gli ha permesso di sottrarsi a molti dei prevedibili tentativi di strumentalizzazione della sua visita a Cuba, durante la quale non sono mancati accenni alla situazione dei detenuti politici ed è stata richiamata a più riprese la necessità di un maggiore rispetto del diritto di libertà religiosa. RISULTATI OTTENUTI – Di più, probabilmente, il papa non poteva fare. È utile a questo riguardo sottolineare che l'azione della diplomazia pontificia, nel dialogo con i governi, ha come obiettivo principale quello di garantire uno spazio (anche minimo) di libertà per la Chiesa, che ne salvaguardi innanzitutto la dimensione pastorale ed educativa. Per questo, se da una parte è lecito supporre che il papa condivida le ragioni di chi, in nome della propria fede, si è sempre opposto e tuttora si oppone al regime cubano, dall'altra Benedetto XVI non può che appoggiare i vescovi che cercano di mantenere con quel regime un rapporto costruttivo, mostrandosi disposti a collaborare con le autorità in vista del bene comune e nella prospettiva di una graduale transizione verso un regime più democratico. Sempre che questo non significhi per la Chiesa venire meno ad alcuni principi “non negoziabili”. La storia del Messico ci offre ancora una volta un esempio istruttivo al riguardo. Il 18 marzo 1938, approfittando anche della confusione internazionale creata dall'annessione dell'Austria alla Germania nazionalsocialista, il presidente messicano Lázaro Cárdenas annunciò l'espropriazione petrolifera a danno delle compagnie straniere. Sia in Austria che in Messico i vescovi si espressero pubblicamente in modo assai favorevole al nuovo corso politico intrapreso dai rispettivi governi. Ma mentre nel primo caso la Santa Sede – per evidenti ragioni – intervenne duramente contro l'episcopato austriaco che aveva accolto trionfalmente Hitler, in Messico si guardò bene dal farlo. Il sostegno dei vescovi messicani alla causa nazionale rappresentava infatti l'inizio di una nuova fase nei rapporti tra la Chiesa e lo Stato, dopo i conflitti dei decenni precedenti. Un fatto che non poteva sfuggire al Vaticano. Oggi il successo della visita di Benedetto XVI in Messico e a Cuba sembra dimostrare la lungimiranza di quella strategia, che nel tempo ha portato i suoi frutti, dagli storici viaggi di Giovanni Paolo II alla riforma dell'articolo 24 della costituzione messicana. Purché si sia disposti ad accettare i proverbiali “tempi lunghi” della Chiesa… Paolo Valvo [email protected]

Tutti a scuola!

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Storicamente, il Brasile ha dovuto scontare un problema di arretratezza del proprio sistema educativo: mentre gli altri Brics, in particolare Cina ed India, hanno fatto dei propri studenti il volano della crescita, il Brasile non è ancora riuscito a dotarsi di un sistema educativo al livello di quelli americano ed europeo. Per affrontare il problema Dilma Roussef ha promosso “Science without borders”, un programma governativo che prevede la possibilità per gli studenti universitari brasiliani di ottenere lauree e diplomi all’estero

SCUOLE E CRESCITA – Dall’inizio del secolo la crescita del Brasile è proseguita a ritmi inimmaginabili per la stagnante Europa, ma nonostante questo il 4-5% annuo di Brasilia rimane leggermente inferiore alla media latinoamericana e sensibilmente in ritardo rispetto a Cina e India. Le ragioni sono ovviamente molteplici, ma fra queste trova posto un sistema educativo di livello inadeguato. I datori di lavoro lamentano infatti la difficoltà di reperire tecnici e impiegati sufficientemente preparati, mentre la disoccupazione ha toccato record minimi. Nel 2000, il Programme for International Student Assessment (PISA) classificò il Brasile all’ultimo posto del suo studio sul rendimento scolastico: i Paesi sotto esame erano i membri dell’OECD più alcuni paesi in forte crescita. Nonostante questo punto di partenza estremamente basso, le riforme del sottore e le varie iniziative collegate operate dai governi Cardoso, Lula e Rousseff hanno portato buoni frutti: nell’ultimo studio del PISA, pubblicato nel 2010, il Brasile si è classificato 53esimo su 65 paesi nelle materie scientifiche ed è stato indicato dalla stessa OECD come un “esempio incoraggiante”. Ma la strada da percorrere è ancora lunga per un paese che coltiva sogni di potenza regionale e mondiale. SCIENCE WITHOUT BORDERS – Per affrontare il problema della mancanza di tecnici formati ad alto livello, Dilma Roussef ha lanciato Science Without Borders: il programma prevede la possibilità per 100.000 giovani studenti brasiliani di studiare almeno un anno in prestigiose università estere che hanno concluso accordi con il governo brasiliano (fra cui l’Università di Bologna). Le materie sovvenzionabili sono ovviamente quelle ritenute di interesse strategico dal governo: scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. L’investimento non è di poco conto: l’intero programma costerà 1,65 miliardi di dollari, un quarto dei quali arriverà dai privati. L’obiettivo è ovviamente quello di aumentare il livello dei propri tecnici per poter sostenere la crescita economica del colosso sudamericano.

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BASE FRAGILE – 20.000 studenti si recheranno in università statunitensi, tra i 6000 ed i 10.000 ciascuno in Italia, Germania, Inghilterra e Francia. Numeri importanti, ma ancora insufficienti a competere con India e Cina, che vantano oltre 260.000 studenti nei campus statunitensi. D’altro canto i colossi asiatici hanno puntato in modo massiccio sull’educazione e sulla formazione come volano per lo sviluppo, mentre il Brasile mantiene alcune zone specifiche di eccellenza, come agricoltura, biocarburanti ed estrazione petrolifera, che per l’appunto furono oggetto di un programma simile a Science Without Borders già negli anni ’70. D’altra parte i problemi del sistema educativo brasiliano rimangono sostanziali: se le università pubbliche sono comunque di buon livello, soprattutto se confrontate con quelle latinoamericane, le scuole primarie e secondarie non lo sono affatto. Si arriva quindi al paradosso per cui chi accede all’università pubblica e completamente gratuita ha frequentato scuole primarie e secondarie private, dai costi decisamente alti ed insostenibili per buona parte della popolazione. Un problema che dovrà essere risolto per fornire una base solida alla crescita del gigante verdeoro. Francesco Gattiglio [email protected]

Nuove rotte nel Pacifico

Il 2012 ha condotto alcune novità nell’equilibrio del Pacifico meridionale. L’avvicendamento al Foreign Office australiano potrebbe essere il prodromo all’allentamento dell’intransigenza di Canberra verso le Fiji, linea che gli USA hanno mostrato di non approvare. Washington, infatti, ha scelto di dialogare con la giunta militare, mentre la Cina, migliore amica del presidente Bainimarama, ottenuta la certezza dell’interruzione dei rapporti delle Isole con Taiwan, preferisce non forzare i toni. A dominare, quindi, è il realismo politico, allo scopo di rendere neutra una regione certo strategica, ma, al momento, secondaria rispetto al Pacifico centro-settentrionale.

AUSTRALIA: INDIETRO TUTTA – A inizio marzo, in seguito a una crisi interna alla maggioranza laburista australiana, il ministro degli Esteri, Kevin Rudd, è stato sostituito con Bob Carr, politico esperto, ma accusato di eccedere con la cosiddetta megaphone diplomacy, ossia di indugiare troppo spesso in dichiarazioni forti tramite i media. Fra i primi obiettivi del nuovo membro del governo c’è la volontà di coordinarsi con i neozelandesi per tentare di ricostruire un fronte compatto nel Pacifico meridionale. In particolar modo, a preoccupare Carr è la gestione dei rapporti con le Fiji, in un periodo nel quale Stati Uniti e Cina sembrano propensi a mutare l’atteggiamento nei confronti dell’arcipelago. Se, infatti, fino ad adesso l’Australia ha scelto la completa chiusura nei confronti della dittatura di Frank Bainimarama, da parte loro, Pechino e Washington, seppur con modalità ed esiti diversi, hanno avviato una mediazione con il Paese in un’ottica più realista.

IL GIOCO NON VALE LA CANDELA – La Cina si avvicinò alle Fiji sin dal colpo di Stato del 2006, rafforzando poi la cooperazione al momento della sospensione delle garanzie costituzionali nel 2009, quando le Isole si trovarono pressoché istantaneamente sole, sospese dal Commonwealth e dagli organi internazionali del Pacifico meridionale. L’interesse di Pechino era volto a due scopi: ottenere una base d’appoggio rilevante nella regione per la ricerca di materie prime, ed evitare che Bainimarama intrattenesse relazioni con Taiwan. Tuttavia, raggiunta la certezza che le Fiji avrebbero riconosciuto formalmente soltanto la Repubblica Popolare, i cinesi, pur rimanendo senza dubbio i migliori amici della giunta militare, hanno cominciato, dalla fine del 2011, ad allentare la pressione, considerando controproducente inasprire i rapporti con Stati Uniti e Australia per mantenere la posizione nel Paese.

REALISMO MADE IN USA – Washington ha mostrato segni di insofferenza verso la rigida politica di Canberra, basata su sanzioni e interruzione delle relazioni diplomatiche. L’Amministrazione Obama, infatti, ha preferito intraprendere un dialogo diretto con Bainimarama ispirato dalla previsione dei vantaggi negli ambiti della sicurezza e della lotta alla criminalità che l’apertura nei confronti delle Isole Fiji avrebbe potuto condurre, senza contare la necessità statunitense di riaffermare la propria presenza nel Pacifico meridionale. Lo sguardo di Washington verso l'arcipelago sembra cambiato anche in virtù della ridefinizione del sistema di sicurezza e difesa globale, ora maggiormente concentrato sulle questioni orientali e sul contrasto alle egemonie regionali emergenti.

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FIJI 2014 – L’attività delle potenze si intensificherà in vista delle elezioni del 2014: Bainimarama, infatti, di per sé è poco propenso a rispettare la scadenza del mandato, ma è consapevole che il futuro delle Fiji sarà condizionato dalla sua condotta verso le opposizioni. Il percorso che intraprenderanno le Isole, cioè la scelta del Presidente tra concessioni più o meno ampie e accentuazione dei caratteri dittatoriali, modificherà la linea strategica degli Stati coinvolti nell’area. L’Australia, infatti, potrà rivendicare l’efficacia del proprio operato solo qualora le Fiji si inoltrassero sulla via democratica: coesistenza di forze partitiche, elezioni regolari e pacificazione delle tensioni interetniche sarebbero una vittoria per l’intransigente Canberra. Tuttavia, qualora Bainimarama non potesse, oppure non volesse, aprire eccessivamente alle istanze dei dissidenti, gli australiani si troverebbero nella posizione più difficile, stretti in una situazione ambigua che delegittimerebbe la politica verso le Fiji e, forse, addirittura, il sistema strategico del Paese, poiché Cina e USA continuerebbero a perseguire una linea conciliante.

OBIETTIVO STATUS QUO – A meno che Bainimarama non concentri drasticamente il potere nelle proprie mani, è evidente che Washington e Pechino trarranno vantaggio da qualsiasi forma di normalizzazione, al contrario dell’Australia. Per questo motivo, anche gli Stati Uniti sono disposti a subordinare le misure di Canberra e la risoluzione delle criticità interne figiane alla stabilità della regione. Considerata la partita che si disputa nel Pacifico centro-settentrionale, infatti, nessuno ha interesse a rischiare l’apertura di un fronte di dissidio per le Fiji: l’obiettivo, adesso, è soltanto mantenere l’equilibrio, neutralizzando progressivamente i possibili focolai di tensione.

Beniamino Franceschini [email protected]