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Il sabato del Caffè

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Per tutti i nostri amici, lettori e simpatizzanti: sabato ci sarà una grandissima sorpresa per voi, una pubblicazione diversa dal solito e quanto mai speciale! Cosa? Un attimo di pazienza… un indizio? Ok, solo uno però…pensate bene alla data: 17 marzo…

Per tutti gli amici del Caffè: sabato ci sarà una grandissima sorpresa per voi, una pubblicazione diversa dal solito e quanto mai speciale! Cosa? Un attimo di pazienza… un indizio? Ok, solo uno però…pensate bene alla data: 17 marzo…
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Tra violenze e diplomazia

Il video messo in rete che documenta i massacri compiuti dal guerrigiliero ribelle ugandese Joseph Kony ha suscitato parecchie discussioni. Intanto, in Nigeria purtroppo non cessano gli attentati e le reciproche violenze tra musulmani e cristiani, così come gli scontri nel Sud Sudan, ancora lontano da una completa pacificazione. Dagli scontri fisici a quelli tra ambasciate, come testimonia l'incidente diplomatico tra Sudafrica e Nigeria

#KONY2012 – Questa è stata la settimana della campagna “Kony 2012”. La ong Invisible Children Inc. ha prodotto un video da cento milioni di visualizzazioni (senza contare Facebook e Twitter) che mostra le malefatte di Joseph Kony, guerrigliero ugandese “cristiano” ricercato dalla Corte penale internazionale e autore di crimini atroci. Tuttavia, l’iniziativa ha dato adito a un ampio ventaglio di polemiche, soprattutto a causa dei presunti secondi fini della Invisible Children, sostenitrice dell’invio di militari statunitensi in Uganda. Joseph Kony è a capo della Lord’s Resistance Army, un gruppo sorto nel contesto dei terribili conflitti ugandesi e legato ai gruppi etnici contrari all’attuale presidente Yoweri Museveni. Nello scontro brutale, sia le forze governative, sia i ribelli hanno perpetrato violenze inaudite, calpestando ogni diritto umano e impiegando diffusamente bambini soldato. La questione ha assunto maggiore rilevanza internazionale da quando il Sudan ha cominciato ad appoggiare Kony, in contrasto con il favore ugandese e statunitense verso il Sudan del Sud. Invisible Children è stata tra i maggiori promotori delle misure di Obama per il contrasto alla Lord’s Resistance Army (attiva ormai solo nei Paesi confinanti) e, nel video, l’argomento è esplicitamente citato. Le critiche alla campagna giungono da più parti, ma tutte convergono nel contestare la visione molto rigida che contrappone Kony (la bestia), al presidente Museveni (il buono), nonostante vi siano prove delle atrocità commesse da ciascuna delle parti in causa. La vicenda è inserita in un complesso sistema internazionale, sul cui sfondo scorrono bambini soldato, vite spezzate e migliaia di volti marchiati dal dolore, dalla morte, dalla crudeltà fine a se stessa: ancora una volta, il rischio è che le contrapposizioni ideologiche siano il pesante sipario che copre la tragedia reale. Il link del video: http://www.youtube.com/watch?v=Y4MnpzG5Sqc

VIOLENZE INTERRELIGIOSE – Domenica 11 marzo, un attentato di matrice islamica alla chiesa cattolica di Jos, nel nord della Nigeria, realizzato tramite un’autobomba, ha provocato la morte di undici persone, tra le quali alcuni bambini e una donna incinta. La reazione immediata della comunità cristiana contro quella musulmana è scaturita in una spirale di violenza che è costata altre dieci vite, mentre tre decessi sono stati registrati in seguito a un’imboscata presso un vicino villaggio a maggioranza cristiana. I fatti sono avvenuti nello Stato di Plateau, geograficamente al centro tra il nord musulmano e il sud cristiano.

ANCORA SCONTRI IN SUD SUDAN – Continuano gli scontri tribali nello Stato del Jonglei, in Sud Sudan: secondo fonti governative, sarebbe tra 500 e 800 il numero delle persone morte, disperse o rapite. L’attacco è stato condotto dalla tribù dei Murle contro i Luo-Nuer, i quali, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, marciarono verso la capitale dei rivali, causando un altissimo numero di vittime, tuttora non ancora stimato. Al centro della contesa, oltre alla componente etnica, c’è il possesso dei pascoli per l’allevamento dei bovini, fulcro economico della regione, nonché attività dall’importante valore storico e sociale, tant’è che i Murle si sono ritirati con oltre 500mila capi di bestiame. Il governo del Sud Sudan è da mesi impegnato in un’ampia campagna di disarmo delle popolazioni locali, ma, purtroppo, l’obiettivo è ancora lontano dall’essere raggiunto.

CRISI SFIORATA TRA SUDAFRICA E NIGERIA – Breve crisi diplomatica tra il Sudafrica e la Nigeria. Il 2 marzo, centoventicinque nigeriani sono stati fermati all’aeroporto di Tampo perché in possesso di false certificazioni di vaccinazione contro la febbre gialla. Tre giorni dopo, la Nigeria ha respinto ventotto sudafricani per il sospetto che i documenti in loro possesso non fossero validi. I governi dei due Paesi hanno subito intrapreso una serie di consultazioni che, stante la lettera sudafricana di scuse alla Nigeria, hanno condotto a nuovi accordi in materia di controllo sanitario.

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OPERAZIONI SEGRETE AUSTRALIANE IN AFRICA? – Secondo “The Sidney Morning Herald”, quattro squadre dello Special Air Service australiano sarebbero state impegnate in decine di operazioni in Africa centrale e orientale (liberazione di prigionieri, missioni antiterrorismo, mappatura di regioni in vista di eventuali azioni militari), ma senza la copertura legale dell’Agenzia dei servizi segreti. Stephen Smith, ministro della Difesa di Canberra, ha preferito non esprimersi in merito.

ATTENTATO IN KENYA – Sabato 10, Nairobi è stata scossa da un attentato rivendicato dalle milizie di al-Shabaab, contro le quali l’esercito keniota è impegnato in Somalia. Secondo il ministro agli Interni, George Saitoti, una granata sarebbe esplosa a una fermata dell’autobus, uccidendo sei persone e ferendone più di sessanta.

PROGETTI AMBIZIOSI IN GUINEA – La Guinea ha intrapreso un ampio progetto per l’approvvigionamento di acqua pulita ed energia elettrica. Il Paese ha grande abbondanza di risorse idriche, sia per ragioni climatiche, sia per la presenza di numerosi e importanti fiumi, tra i quali il Niger. Tuttavia, a mancare sono le strutture di distribuzione, cosicché la Guinea ha annunciato la realizzazione di un piano da 16 milioni di dollari finanziato dalla Islamic Development Bank che, entro il 2015, consentirà di poter disporre, secondo le zone, di un volume d’acqua pro capite compreso tra i 55 e i 63 litri il giorno. Contestualmente, il governo s’impegnerà anche nell’ammodernamento della rete elettrica nella capitale Conakry tramite un progetto da 265 milioni di dollari sostenuto dalla stessa Islamic Development Bank e dalla African Development Bank.

2011 TERRIBILE PER GLI ELEFANTI – Secondo John Scanlon, presidente della Convenzione sul commercio internazionale di specie protette (Cites), il 2011 è stato un anno terribile per gli elefanti: la caccia di frodo, infatti, è aumentata sensibilmente, e, solo in Camerun, sono stati abbattuti quasi 450 esemplari. Il motivo principale è il contrabbando d’avorio, rivolto soprattutto verso il mercato asiatico. Nei dodici mesi appena trascorsi, sono stati eseguiti almeno tredici sequestri superiori ai 500 kg, il doppio rispetto al 2010.

Beniamino Franceschini [email protected]

Il crocevia pakistano

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – In termini geopolitici il Pakistan ha assunto negli ultimi anni un ruolo chiave, sia riguardo le relazioni tra le potenze regionali asiatiche sia nel contesto globale. L’attenzione rivolta dalla comunità internazionale nel suo complesso verso la situazione interna del Paese sta aggiungendo pressione a un momento molto delicato della vita politica pakistana

 

PESO DETERMINANTE – Il Pakistan, la sua stabilità e le scelte di politica estera sono cruciali per diversi motivi. È logico pensare che un Paese islamico di quasi centocinquanta milioni di abitanti e dotato di un arsenale atomico possa spostare gli equilibri non solo del quadrante centroasiatico ma delle relazioni internazionali nel loro complesso. Esiste però un duplice ordine di problemi. Da un lato le vicende domestiche che investono la sfera politica e quella economica, con lo scontro tutto interno alla classe dirigente pakistana che mina il già fragile sistema economico pakistano, scoraggiando soprattutto gli investimenti. Dall’altro il sistema di alleanze eo amicizie strategiche che ha subito una serie di scossoni negli ultimi anni, in particolare con gli Stati Uniti e la Cina, senza dimenticare la rivalità storica con l’altra grande potenza nucleare della regione, l’India.

 

GIGANTE DAI PIEDI D’ARGILLA – Il problema principale del Pakistan rimane il delicato equilibrio istituzionale, il quale non è in grado di dare stabilità e credibilità al sistema politico pakistano. Sostanzialmente il potere ruota intorno a tre cardini: l’esercito, il governo e la corte suprema. Questi tre elementi, in particolare dopo il 2008 (dopo la deposizione del generale Musharraf) sono in crescente conflitto uno contro l’altro. Infatti esercito e corte suprema erano già ai ferri corti per via del contributo decisivo di quest’ultima nell’estromissione dei generali dal governo, esercito e governo civile nutrono diffidenza reciproca dopo il colpo di Stato del 1999 ai danni di Sharif e le attuali politiche di Zardari e Gilani (rispettivamente attuale presidente e primo ministro), e corte suprema e governo civile sono impegnati in azioni di delegittimazione reciproca da diverso tempo. In particolare nel 2011 si è acuita l’asperità con cui il conflitto da latente si è palesato all’opinione pubblica interna e internazionale. L’ultimo esempio è, lo scorso ottobre, l’esplosione del caso “Memogate”. Un memo segreto sarebbe stato consegnato da un uomo d’affari americano, di origine pakistane (Mansoor Ijaz), all’Ammiraglio Mike Mullen in cui verrebbe chiesto agli Stati Uniti di proteggere l’attuale governo da un imminente colpo di Stato da parte dell’esercito, in cambio di un parziale smantellamento dei servizi segreti pakistani (ISI) e di uno sforzo maggiore nella lotta contro l’estremismo islamico. Il mittente sarebbe l’ormai ex ambasciatore negli Stati Uniti Husain Haqqani, su richiesta del presidente Zardari. Haqqani è stato subito richiamato da Washington e sembra essersi rifugiato nella residenza del primo ministro Gilani per paura di ritorsioni. Intanto, oltre alle reciproche accuse tra Gilani e i comandanti dell’esercito, la Corte Suprema non ha perso tempo e ha avviato un’investigazione ufficiale per far chiarezza su cosa ci sia di fondato nel “Memogate”. Le indagini si sovrappongono inoltre all’avvio del procedimento, sempre da parte della Corte Suprema, contro Gilani e Zardari per presunta corruzione, finanziata da conti svizzeri riconducibili al presidente pakistano. È da sottolineare che l’attuale Presidente della Corte Suprema pakistana è Iftikhar Muhammad Chaudhry, lo stesso che nel 2007 fu esautorato dal suo ruolo da Musharraf e lo stesso al cui reinsediamento Zardari si oppose con fermezza. Detto ciò si intuisce come le vicende anche personali della classe dirigente siano di grande rilievo in questo momento, gettando benzina su una situazione già infuocata.

 

COUPE D’ETAT? – Secondo diversi analisti un nuovo colpo di Stato da parte dell’esercito sembra però poco realistico. Sebbene sia l’istituzione più vicina al popolo pakistano e all’elite economica per la sua anima conservatrice e, soprattutto, perché dominata dalla componente punjabi, non ci sarebbero le condizioni per instaurare un governo militare. Innanzitutto l’esercito ha subito uno scacco imbarazzante, essendo stato colto di sorpresa dall’azione americana ad Abbottabad (che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden); secondo, il difficile rapporto con la Corte Suprema non darebbe stabilità a tale governo; infine i militari hanno cercato in passato condizioni economiche floride per legittimare il proprio potere, presupposti non riscontrabili in questo periodo. Il 2012 si presenterà quindi come un anno di travaglio; le possibilità concrete sono due: aspettare il termine della legislatura, con le elezioni parlamentari previste per l’inizio del 2013 o anticiparle a causa della continua pressione della Corte Suprema. Lo scenario rimane comunque incerto poiché le alternative al Pakistani People’s Party (PPP), ora al potere, sono la Pakistan Muslim League (PML-N) dell’ex Primo ministro Sharif (lo stesso Sharif che quando, nel 1999 cercò di ostracizzare il Generale Musharraf, venne rovesciato e rimase in esilio per dieci anni, perciò inviso all’esercito) oppure il Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) dell’ex giocatore di cricket Khan, più vicino all’esercito ma anche su posizioni decisamente anti-americane, e quindi non ben visto da Washington.

 

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ISLAMABAD-WASHINGTON PASSANDO PER KABUL – L’intricata situazione interna si riflette anche nelle relazioni con gli storici alleati, Stati Uniti e Cina. Inoltre il ritrovato attivismo indiano complica notevolmente gli spazi di manovra pakistani nel ridefinire le priorità di politica estera. Procedendo con ordine. Gli Stati Uniti hanno un precedente importante durane l’occupazione sovietica in Afghanistan, quando inondarono di aiuti economici e militari il Pakistan per contrastare l’URSS. Una volta cessato il pericolo comunista fu interrotto anche il flusso di dollari versati nelle casse pakistane (nel 1988 erano 783 milioni di dollari, nel 1992 la cifra era molto vicina allo zero). La classe dirigente pakistana nel suo complesso non vede la convenienza di risolvere in maniera definitiva la situazione afgana per il timore del venir meno degli aiuti americani. La disponibilità pakistana di offrire aiuto in termini di uomini, informazioni e restrizione volontaria della propria sovranità territoriale sembra essersi affievolita nell’ultimo periodo, almeno pubblicamente. Dall’altro lato però non pare esserci l’intenzione di schierarsi apertamente contro gli Stati Uniti. Le mosse del governo pakistano sono perciò altalenanti e poco coerenti con un’unica linea di condotta. Solo per fare alcuni esempi il governo sta contrastando risolutamente al Qaeda o i gruppi talebani pakistani ma non quelli afgani oppure formazioni come Hezb-i-Islami. Nel giugno 2011 il primo ministro afgano Karzai si è recato in visita ad Islamabad per garantire che il dialogo con i talebani afgani non fosse ostacolato dal Pakistan (che però premeva per far entrare nel governo di Kabul quei talebani appoggiati direttamente dall’ISI). Nel novembre 2011 un’azione NATO ha portato all’uccisione di 24 soldati pakistani, e la reazione di Islamabad non si è fatta attendere, chiudendo di fatto le vie di rifornimento per l’Afghanistan dal territorio pakistano. Sempre nel 2011, in primavera, il Pakistan ha richiesto formalmente a Washington di ritirare la maggior parte dei suoi addestratori militari e degli agenti della CIA dal Paese. Detto ciò sia il governo civile che l’elite militare ha continuato a tollerare e spesso a incoraggiare (più in via riservata che pubblicamente) le incursioni americane in Nord e in Sud Waziristan, nei territori tribali (FATA), in particolare le operazioni dei cosiddetti droni che stanno diventando sempre più preziose e prive di danni collaterali nel tentativo di riportare l’ordine nella regione e di eliminare centri di potere, che rischiano di diventare scomodi e fuori controllo anche per Islamabad.

 

LA VIA DELLA SETA – Diversi analisti e molti uomini politici pakistani intravedono nella Cina un’alternativa strategica agli Stati Uniti. Un articolo del dicembre scorso, a firma di Evan Feigenbaum, aveva però come sottotitolo “The end of the all-weather friendship”. La vicinanza strategica tra Pechino e Islamabad è rimasta per diversi anni uno dei principali cardini su cui si è mossa la politica estera pakistana. La Cina è considerata uno dei migliori alleati militari del Pakistan e un partner economico su cui si può contare per il commercio e l’afflusso di capitali. Da parte cinese gli obiettivi dell’amicizia con Islamabad sono sostanzialmente relativi al contenimento dell’espansione indiana, alla stabilità delle proprie provincie occidentali (stabilità politica ed economica), alla sicurezza dei propri confini continentali e alla preoccupazione che l’attivismo americano in Pakistan possa minacciare gli interessi centroasiatici di Pechino. Mentre per il Pakistan la Cina rimane fondamentale per compensare l’altalenante relazione con gli USA, Feigenbaum sottolinea l’esigenza di Pechino di bilanciare tre fattori di rischio nel calcolo del flusso di denaro e sforzi in Pakistan, ovvero rischio geopolitico, politico e finanziario. Sotto il profilo geopolitico, l’alleanza sino-pakistana è solida, riflettendo quello che è la spina dorsale del rapporto tra i due paesi (è di maggio 2011 la notizia della vendita di cinquanta aerei JF-17 a Islamabad). Il problema sorge da una parte nel crescente numero di attacchi che compagnie e lavoratori cinesi subiscono in Pakistan, che scoraggiano investimenti e attività commerciali e dall’altra la condizione economica pakistana, di certo non un ambiente favorevole per investire: un debito pubblico superiore al 60% del prodotto interno lordo, inflazione galoppante, deficit nella bilancia commerciale e poca credibilità delle politiche economiche attuate. Se, per ora, l’alleanza con Pechino sembra scontata per motivi strategici, non è però detto che lo sarà in futuro, soprattutto se verranno meno le condizioni economiche e politiche minime che garantiscono a Pechino non solo un vantaggio sin termini politici ma anche in termini di fruttamento degli investimenti e di sicurezza dei propri asset.

 

FARE GLI INDIANI – Tutte le valutazioni precedenti devono tenere conto della storica rivalità indo-pakistana. L’India ha riscoperto nell’ultimo periodo una vitalità internazionale che minaccia l’incolumità del Pakistan. La ritrovata sintonia con gli Stati Uniti e l’interesse crescente nella stabilizzazione del vespaio afgano preoccupano governo ed esercito pakistani. L’india è, inoltre, ripetutamente accusata dal Pakistan di sostenere le minoranze separatiste, tra tutti l’esercito di liberazione del Belucistan (BLA), con il deliberato obiettivo di destabilizzare il Paese. Dall’altra parte Nuova Delhi è convinta che la maggior parte degli attacchi terroristici in territorio indiano siano finanziati dai servizi segreti pakistani. Oltre a ciò sono continue le dimostrazioni di forza di entrambi i governi. Se nel 2007 erano sessanta le testate nucleari possedute da Islamabad, nel 2011 hanno superato le cento unità, allarmando la comunità internazionale. Inoltre è prevista tra il 2012 e il 2013 la costruzione di un quarto reattore per l’arricchimento dell’uranio. Sicuramente non segnali di distensione. Il nodo cruciale delle relazioni tra le due potenze nucleari rimane, ad ogni modo, il destino del Kashmir. Dal 2007 si sono aperti colloqui informali per sondare il terreno su una possibile soluzione che prevedrebbe una sorta di “soft borders” tra le due zone in cui è diviso il Kashmir; in pratica una zona dotata di ampia autonomia in cui cittadini e merci si potrebbero spostare liberamente. A tutto il 2011 non è stato fatto alcun passo in avanti, ma fonti diplomatiche evidenziano che il vero successo è che questi canali informali non siano stati ancora chiusi definitivamente, lasciando intravedere spiragli per il raggiungimento di basi negoziali nel medio e lungo periodo. Il sistema di relazioni internazionali e i rapporti istituzionali e personali all’interno della società Pakistana contribuiscono a creare un’intricata situazione difficile da sbrogliare e priva di una soluzione poco complessa. Il delicato equilibrio raggiunto rischia di congelare i tentativi di cambiamento per la paura del collasso dello Stato pakistano, che non gioverebbe ad alcun attore sia interno ma soprattutto esterno. Si delinea così un futuro in cui anche la più piccola miccia potrebbe causare una reazione a catena incontrollabile, ma dove, allo stesso tempo, l’immobilismo non porta ad una soluzione di medio e lungo periodo durevole e credibile.

 

Davide Colombo

Guerra e Pace

Più che l'agenda della politica globale per i 7 giorni a venire, il "ristretto" di oggi assomiglia ad un bollettino di guerra, tanta è la mobilitazione terroristica e militare nell'attuale condizione dell'anarchia globale. Unici santuari di pace e stabilità sembrano essere Americhe ed Europa dove l'attenzione si sposta di più a considerazioni economico-politche con i vari vertici UE in vista e il calendario incessante delle primarie statunitensi. Bruciano pesantemente Medio-Oriente e Asia, dove il binomio Afghanistan-Pakistan rappresenta la vera polveriera del continente. Niente di nuovo sulla via di Damasco da cui anche Kofi Annan torna con le tasche piene di parole e promesse, mentre la guerra civile continua incontrastata.

EUROPA

Lunedì 12-Martedì 13 – Ritorna la consueta doppietta europea con i vertici dell'Eurogruppo e del Consiglio per gli affari Economico-Finanziari. I ministri europei dell'economia e delle finanze sono chiamati ad intraprendere lavori consultivi per arrivare all'implementazione dell'ormai nota Tobin Tax. La tassazione delle transazioni finanziarie ha già provocato la resistenza del governo britannico di David Cameron, considerato dagli osservatori come l'espressione degli interessi della City londinese. Occorrerà anche instaurare il dibattito preliminare su alcune questioni incombenti di politica economica che saranno al centro di un meeting ECOFIN previsto per maggio-giugno. I 27 membri sarnno inoltre chiamati ad esprimersi sul primo report del meccanismo d'allerta della Commssione dopo le nuove disposizioni in materia di governance fiscale.

Lunedì 12-Sabato 17 – Sarà Marsiglia ad ospitare quest'anno il sesto World Water Forum, il summit più importante riguardo all'accesso alle fonti idriche. La Commissione Europea sarà presente con ben 4 rappresentanti, a testimonianza del suo costante impegno nei confronti delle sfide che il Mondo deve affrontare in materia. Quest'anno ricorre inoltre il 10 anniversario dell'Iniziativa Europea per l'Acqua (EUWI), una partnership politico-internazionale che ha garantito a milioni di persone il loro diritto, sancito dall'Assemblea Generale ONU, di accesso alle risorse idriche. Dal 2004 l'attenzione della Comunità Internazionale sull'argomento ha garantito a 32 milioni di persone l'accesso all'acqua potabile. L'iniziativa di Bruxelles lanciata a Johannesburg nel 2002 si è dimostrata un eccellente esempio di come la cooperazione allo sviluppo possa integrare l'impegno dei governi e sistemi innovativi di finanziamento.

Venerdì 16 – I Ministri per il Commercio Internazionale si riuniscono nella formazione del Consiglio per gli Affari Esteri, per discutere e trovare un consenso generale sulla firma di accordi di libero scambio con il Perù e la Colombia. Sarà anche analizzata la questione se raggiungere o meno un accordo simile con Singapore, partner strategico per la presenza in Asia Orientale. Il Consiglio dovrà anche occuparsi della transizione morbida dall'attuale sistema degli accordi Bilaterali d'Investimento (BIT) con i paesi terzi e il futuro degli EU BITs, accordi negoziati direttamente dalla Commissione secondo quanto previsto dal Trattato di Lisbona. L'art. 207 infatti apporta un'ulteriore spinta alla politica commerciale comune, uno dei pilastri fondamentali del processo integrativo. Infine ci sarà spazio anche per una revisione dello Schema Generalizzato di Preferenze Tariffarie (GSP) che dovrà soddisfare le nuove direttive in materia di sviluppo sostenibile e governance oculata nel supporte ai paesi più bisognosi.

AMERICHE

Lunedì 12 – Si abbatte anche su Brasilia la fantozziana nube diplomatica che mina la credibilità internazionale del governo italiano di Mario Monti. Dopo la vicenda dei marò detenuti in Kerala, le polemiche sul blitz degli SBS britannici fallito in Nigeria, è il Tribunale di Arezzo a suscitare scalpore con il blocco degli stipendi dei diplomatici verdeoro presenti in Italia. L'esecuzione forzata sulla filiale milanese del Banco do Brasil ammonta a circa un milione di euro diretti nelle casse dell'impresa nostrana Italplan, che vanta un credito di oltre 200 milioni nei confronti del gigante sudamericano, per un progetto poi abortito di ferrovia ad alta velocità. In giornata arriverà a Roma l'ambasciatore Ruy Noguera, il numero due del Ministero per gli Affari Esteri brasiliano, per cercare una soluzione diplomatica al provvedimento che rischia di far precipitare i rapporti bilaterali tra Roma e Brasilia.

Martedì 13 – Dopo la vittoria risicata in Ohio e il naufragio elettorale in Kansas, dove il suo diretto avversario Rick Santorum si è attestato al 51%, la strada verso la casa Bianca si fa sempre più ripida e scivolosa per Mitt Romney. Martedì toccherà agli stati meridionali della "Bible belt", la zona più devota degli Stati Uniti, esprimere la propria preferenza tra i candidati del Grand Old Party. Sembra scontata un'altra vittoria dell'idolo delle chiese conservatrici, l'italoamericano Santorum, con Romney incapace di incalzarlo su temi quali la laicità e la libertà di culto e fede. La verità è che il decisivo super tuesday, non ha in realtà deciso proprio nulla in merito alle sorti dei vari candidati, nessun ritiro, nessun k.o., nessuna figura di punta per i repubblicani. Sembra probabile che Romney cercherà di limitare le perdite accontentandosi del vantaggio risicato e sperando che la divina provvidenza porti il suo avversario sulla cattiva strada.

CUBA – Dopo l'apertura alle multinazionali petrolifere per le trivellazioni marittime nell'estremo oriente dell'isola, la Cuba di Raul Castro sembra pountare forte sulla revolución energetica. Proprio durante il summit di martedì del Board of Governors dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) il rappresentante cubano ha confermato il forte interesse del paese per lo sviluppo di impianti nucleari ad uso civile. Intanto sul piano internazionale la pressione americana continua a costringere l'isola caraibica all'isolamento politico-diplomatico, dopo la decisione del Presidente colombiano Juan Manuel Santos di non invitare il governo di L'Avana al Summit delle Due Americhe. L'evento in programma a metà aprile ha già suscitato alcune tensioni tra il blocco bolivariano a guida venezuelana dei paesi dell'ALBA e gli Stati del Nord America. Castro sembra aver incassato dignitosamente l'ultimo degli innumerevoli "colpi", soddisfatto tuttavia di ricevere a breve la visita ufficiale di Papa Benedetto XVI.

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ASIA

AFGHANISTAN – Il termine exit-strategy ha sempre rivestito un'importanza fondamentale nel dispiegamento internazionale delle truppe americane, ma, dopo la notizia dell'eccidio compiuto da uno o più soldati statunitensi nei pressi di Kandahar, rischia di diventare una questione di urgenza impellente. 16 morti e almeno tre feriti, testimoni preziosi, le vittime innocenti di un gesto folle ed ingiustificabile compiuto probabilmente da una o più schegge impazzite che hanno anche tentato di dare fuoco ai cadaveri, compiendo, se possibile, un'offesa gravissima al popolo afghano di fede islamica. Toccare cadaveri musulmani è infatti assolutamente vietato ai non-musulmani, la fede continua a restare un problema per la missione ISAF e dopo i video che testimoniano l'offesa agli insorgenti uccisi e il corano dato alle fiamme è probabile che l'escalation di proteste popolari raggiunga un gradino più alto. Il Presidente Karzai ha già ricevuto telefonate di scuse da Obama, dal Segretario alla Difesa Panetta e dal Comandante delle Forze NATO in Afghanistan, ma sembra pronto a sfruttare l'evento come una fiche preziosa al tavolo delle trattative.

CINA – Il morso della crisi dei consumi colpisce indirettamente anche l'economia cinese, tanto che il deficit commerciale ha raggiunto il suo livello massimo dal 1989, ponendo un altro punto di domanda sulle previsioni di crescita a lungo periodo. Le importazioni verso il dragone orientale supererebbero di circa 31 miliardi di dollari le esportazioni, un problema a doppia lama vista la contrazione dei consumi in Europa e l'aumento esponenziale dei prezzi di materie prime vitali come rame, ferro e petrolio. Rispetto al 2011 le importazioni sono aumentate del 40% mentre le esportazioni hanno registrato quota -19%, dimostrando chiaramente i moniti del Ministro per il Commercio Cheng Deming. Il provvedimento più rapido per non compromettere le stime della crescita del commercio estero potrebbe essere un'ulteriore svalutazione dello yuan, atta a sostenerel'attività economica rendendo più appetibili i prodotti cinesi all'estero.

PAKISTAN – Se la tensione sale in Afghanistan, il Pakistan permane in una situazione di conflitto latente confermato dall'ennesimo attacco suicida condotto dal famigerato movimento estremista Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP). 15 i morti e circa 40 i feriti causati da un kamikaze infiltratosi in una cerimonia funebre per colpire un esponente politico provinciale dell'ANP, l'Awami National Party. L'obiettivo, Khushdil Khan, aveva più volte criticato in passato i gruppi terroristici che dominano l'Area Tribale al confine con l'Afghanistan. Brutte notizie invece per il maggiore gruppo estremista islamico del paese “Ahle Sunnah Wal Jamaat”, noto anche come “I compagni del Profeta", dichiarato fuorilegge dal governo di Islamabad, dopo anni di violenze, eccidi e sequestri. La verità è che servizi segreti e forze di sicurezza continuano a coltivare rapporti ambigui con le svariate cellule terroristiche della regione, sia come deterrenza contro l'eterno nemico indiano, sia per influenzare le sorti dell'impegno americano in Afghanistan.

MEDIO-ORIENTE

SIRIA – L'inviato speciale di ONU e Lega Araba Kofi Annan ha lasciato Damasco pieno di speranze ma senza alcun accordo sul cessate il fuoco quotidiano richiesto dal Comitato Internazionale della Croce Rossa. Intanto a New York è data per imminente la discussione di una nuova bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza per fermare la repressione armata del regime di Assad sulla popolazione civile. Nel week-end, durante la visita di Annan a Damasco, ben 47 civili sono morti per il fuoco incrociato tra Esercito Siriano Libero e Forze di Sicurezza nella città di Idlib, nuovo epicentro delle violenze. Il Ministro degli Esteri russo Serghiej Lavrov sembra aver raggiunto un'intesa di massima con i paesi arabi per la risoluzione della crisi in corso. Il progetto dovrebbe prevedere il cessate il fuoco di tutti gli attori in campo, la messa a punto di un meccanismo di monitoraggio, aiuti umanitari per la popolazione e il sostegno alla missione dell'inviato speciale.

ISRAELE – Prove generali di strike aereo dopo che circa un centinaio di razzi lanciati dai territori palestinesi hanno colpito alcune città del sud di Israele. Fonti mediche attestano a 18 morti e dozzine di feriti il bilancio degli scontri. Tra questi oltre al leader dei Comitati di Resistenza Popolare Zuhair al-Qaisi e 7 membri delle Brigate Jihadiste al-Quds, numerosi civili innocenti tra cui un bambino di 12 anni. L'attacco aereo delle IAF è stato affiancato dall'utilizzo intenso dei droni e missili a guida intelligente per colpire i diretti responsabili del lancio di missili sorpresi a bordo di automobili e motociclette. Oltre a costituire una risposta efficace alla minaccia terroristica, l'attacco israeliano potrebbe rappresentare un messaggio subliminale alla leadership iraniana, per dimostrare l'effettiva superiorità militare e la capacità di colpire in ogni momento minacce incombenti.

BAHRAIN – La primavera araba sembra rivivere un anno dopo per le strade di Manama dopo la fine dell'intervento militare saudita e il silenzio complice degli Stati Uniti sulla repressione delle proteste da parte della famiglia regnante degli Al Khalifa. Proprio in Bahrain apparvero per prime le attuali caratteristiche dei sommovimenti del medio-oriente, infatti, le dimostrazioni di piazza hanno sempre assunto un carattere etnico-religioso sancendo la fine della convivenza pacifica tra sunniti e sciiti. La scarsa attenzione dei media internazionali, concentrati solo sulla sospensione del Grand Prix locale di Formula 1, e la presenza della base della quinta flotta statunitense sono un binomio ostile al successo delle richieste popolari. Notevole anche il ruolo geopolitico del paese, vero cuscinetto contro l'influenza sciita di Teheran nella regione e avamposto insulare nel Golfo Persico degli alleati sauditi e statunitensi.

Fabio Stella [email protected]

L’oro nero del Corno d’Africa

La compagnia Horn Petroleum ha avviato una campagna di trivellazioni nella regione autonoma somala del Puntland. Il rischio del terrorismo e dei conflitti clanici è elevatissimo, ma il petrolio potrebbe essere anche fattore di benessere e coesione sociale, come sostenuto dal presidente Farole e da molti attivisti sociali. Nel frattempo, la comunità internazionale fissa lo sguardo su riserve petrolifere calcolate tra i 6 e i 10 miliardi di barili: Gran Bretagna, Turchia, Etiopia e Kenya difficilmente vorranno esserne esclusi

PETROLIO NEL PUNTLAND – Alla fine di gennaio, la Horn Petroleum Corporation, controllata dalla Africa Oil, ha annunciato di aver intrapreso sondaggi petroliferi nella Dharoor Valley, territorio posto sotto il controllo del Puntland. Al momento, le operazioni riguardano il solo pozzo Shabeel-1, profondo 3.800 metri e che, secondo la stima della compagnia, potrebbe valere 300 milioni di barili a fronte dei 6 miliardi che si ritiene possano giacere sotto le aride regioni del nord-est somalo. Qualora i sondaggi andassero a buon fine, altri stabilimenti saranno costruiti nel Nugaal. Il progetto è stato intrapreso nel 2005, dopo che ogni trivellazione era stata interrotta con la caduta di Siad Barre nel 1991. Il principale deterrente alle estrazioni non solo petrolifere, ma anche minerarie, è tuttora l’instabilità della Somalia, dal pericolo del terrorismo, fino all’estrema frammentazione clanica della società. Non a caso, Abdirahman Mahmoud Farole, presidente del Puntland, nell’affermare che la presenza dei pozzi e delle attività a esse connesse condurranno a un alleviamento delle condizioni di povertà della popolazione, ha invitato le fazioni a superare le rivalità e le diffidenze per consentire alla regione di godere a pieno dell’opportunità.

CONFLITTI DI COMPETENZA – Certo è che il percorso verso la ripresa dell’estrazione petrolifera non è stato semplice, anche a causa dei conflitti di competenza tra i vari soggetti territoriali nei quali è divisa la Somalia. Secondo la legge, infatti, ogni governo regionale può legittimamente gestire le risorse minerarie e di oro nero purché i contratti di sfruttamento siano approvati da quello che attualmente è il Parlamento provvisorio federale, e i proventi siano divisi tra Mogadiscio e le autonomie locali. Nel 2006, tuttavia, il Puntland concluse un accordo con la Horn Petroleum e la Range Resources (detentrice della maggioranza dei diritti) sulla base del quale il 51% degli utili delle attività estrattive sarebbero spettati a tali compagnie. Le Istituzioni federali di transizione espressero le proprie perplessità circa la ripartizione dei proventi, quindi contestarono la firma in forma segreta del contratto tra il Puntland e le società petrolifere, aprendo una crisi politica che si è risolta solo recentemente.

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IL PETROLIO: AUMENTO DELL’ISTABILITÀ? – La presenza del petrolio in Somalia potrebbe aprire scenari tra loro diametralmente opposti, soprattutto se si considera che in sei mesi il mandato del governo provvisorio terminerà e, pertanto, nonostante l’iter per la nuova organizzazione statale sia definito, esiste il rischio concreto che possa aprirsi una fase di vacuum politico. Da un lato, infatti, le estrazioni potrebbero complicare la situazione: alcune fonti, per esempio, riportano intensi movimenti di miliziani nelle zone attorno ai giacimenti. L’impatto di rinvigoriti interessi economici internazionali potrebbe essere devastante per equilibri strutturalmente sempre sull’orlo del collasso. Secondo “The Observer” (26 febbraio), la Gran Bretagna starebbe negoziando segretamente con la Somalia delle opzioni vantaggiose riguardo allo sfruttamento del sottosuolo, offrendo in cambio l’assicurazione dell’impegno negli ambiti della sicurezza e dell’aiuto umanitario: la conferenza appena conclusasi potrebbe essere stata organizzata appositamente per mostrare la presenza di Londra nel Corno d’Africa. Tuttavia, il Regno Unito non è l’unico a volgere lo sguardo verso la regione, poiché, se la Turchia sta cercando alacremente di penetrare in Somalia, allo stesso modo Etiopia, Kenya e Uganda, i Paesi maggiormente esposti nel sostegno militare a Mogadiscio, non accetteranno certo passivamente le manovre straniere.

IL PETROLIO: VETTORE DI BENESSERE? – Dall’altro lato, però, il petrolio potrebbe addirittura rappresentare un fattore aggregante, la sottile linea lungo la quale corre la possibilità di un vantaggio condiviso, e sulla quale, quindi, a tutte le parti in causa conviene restare senza mostrare segni di bellicosità. In poche parole, le attività estrattive potrebbero rappresentare un’opportunità di arricchimento tale che le varie fazioni, sia locali, sia internazionali, potrebbero preferire una spartizione delle risorse, creando una stabilità che a nessuno converrebbe mettere seriamente in discussione senza rischiare di demolire il sistema. In entrambi i casi, tuttavia, la Somalia ricoprirebbe nella partita solo il ruolo della scacchiera, imprescindibile per il gioco, ma statica e spesso preda anche delle proprie pedine. Beniamino Franceschini [email protected]

A volte ritornano: la deterrenza nucleare

L’assetto politico internazionale successivo alla dissoluzione dell’Urss ha cambiato radicalmente la strategia americana della deterrenza nucleare. Lo scudo stellare prefigurato dal presidente Reagan negli anni ’80 e ripreso dalle amministrazioni successive potrà diventare realtà, consentendo una ipotetica guerra nucleare?

DETERRENZA ED EQUILIBRIO DEL TERRORE – Il 19 agosto 1949 l’Unione Sovietica effettuò con successo il primo test di sgancio di una bomba atomica, colmando il ritardo che per quattro anni aveva garantito il primato statunitense nello sviluppo di queste armi, come dimostrato dai bombardamenti delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Ha avuto così inizio la corsa agli armamenti tra le due superpotenze nel tentativo di superare “l’equilibrio del terrore” determinato dallo sviluppo di arsenali di questo tipo, che hanno portato all’elaborazione di strategie di deterrenza. Quest’ultima è la particolare forma di dissuasione che, secondo la teoria matematica dei giochi, può essere definita come il tentativo di influenzare il comportamento di un giocatore convincendolo del fatto che una mossa apparentemente vantaggiosa – come un primo attacco nucleare (First strike) – si ritorcerebbe contro per la risposta immediata e simmetrica del difensore. In base a questa strategia, gli Stati Uniti e l’Urss hanno costruito i loro rapporti durante la guerra fredda (1947-1989), passando dalla dottrina estrema della "rappresaglia massiccia" (massive retaliation) in caso di attacco, alla possibilità di uno scontro convenzionale nelle aree periferiche dei due “imperi”, come nel caso della guerra americana in Vietnam (1965-1975) e russa in Afganistan (1979-1989).

LE PROVOCAZIONI – La deterrenza, quindi, è stata fondamentale per evitare lo scontro diretto tra le due superpotenze ma paradossalmente ha causato gravi crisi per il ricorso di entrambe le parti alla provocazione, realizzata con l'intento di screditare l’avversario e testare la sua volontà ad attuare minacce. Emblematico il caso della crisi sul dispiegamento sovietico di missili nucleari a Cuba (1962) risolta, dopo un pericoloso braccio di ferro durato 13 giorni, con la rinuncia dell’Urss a installare i vettori in cambio della promessa americana di non invadere l'isola caraibica e del ritiro dei missili nucleari Jupiter installati nelle basi Nato turche e italiane. La deterrenza, inoltre, è stata fondamentale per risolvere le tensioni generate dall’esercitazione Nato “Able Archer 83” (1983), che prevedeva una simulazione di attacco nucleare, e per far desistere gli Usa dall’intenzione di dislocare missili atomici Cruise e Pershing II in Gran Bretagna, Italia e Germania occidentale contro le forze del Patto di Varsavia (1983-1987).

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FIRST STRIKE? SI PUÒ FARE… – Un tentativo per superare “l’equilibrio del terrore” è stato fatto dal presidente americano Ronald Reagan che nel 1983 ha promosso la Strategic defense initiative (Sdi), finalizzata alla realizzazione di uno “scudo spaziale” in grado di difendere gli Stati Uniti da un attacco nucleare e consentirgli il First strike. Questo progetto avveniristico, per il quale il Congresso stanziò in dieci anni 44 miliardi di dollari, si basava su tecnologie missilistiche, laser e satellitari in realtà all’epoca irrealizzabili, ma contribuì ad aumentare la spesa militare dell’Urss e a farne collassare l’economia. Il programma, ripreso dal presidente Bill Clinton e successivamente da George W. Bush, rientra in un quadro internazionale nuovo, che dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica (1991) vede come principali antagonisti degli Usa il terrorismo islamico, la Corea del Nord e l’Iran. Per contrastare gli “Stati canaglia”, l’amministrazione Bush ha ridefinito la propria strategia, integrando l’uso tattico di armi nucleari – cioè circoscritto al campo di battaglia – con il rilancio della Sdi. Il nuovo scudo, mai realizzato, prevedeva il dispiegamento di un radar di allerta nella Repubblica Ceca e un sistema missilistico da intercettazione in Polonia. La Federazione Russa, però, ha duramente contrastato questo progetto – malgrado l’accordo sottoscritto dai governi interessati – considerandolo come una minaccia concreta.

LO SCUDO DI OBAMA – Il presidente Barack Obama ha rimodulato la Sdi in base alla dottrina strategica che prevede, in considerazione del sovrastimato progresso iraniano in campo nucleare, l’utilizzo di forze speciali e droni in battaglia, ridimensionando la possibilità di ricorrere ad armi nucleari. Il nuovo scudo, “più soft” per ottenere il via libera di Mosca, prevede intercettori mobili in Romania e Polonia, privi però di capacità offensiva. Anche questo progetto è osteggiato dalla Russia e le dichiarazioni elettorali contrarie del neoeletto presidente Vladimir Putin, al suo terzo mandato, non lascino presagire un esito diverso dal passato. L’amministrazione americana, quindi, deve ancora convincere la Russia che l’ombrello protettivo offerto dallo scudo non costituisca una minaccia, compito davvero difficile.

Francesco Tucci [email protected]

Un futuro per la Somalia

Positiva, ma priva di risultati clamorosi, la conferenza di Londra sulla Somalia, ha visto la partecipazione di più di cinquanta delegati, compresi i rappresentanti delle entità territoriali del Corno d’Africa. Nel documento finale si è confermato l’iter verso la riunificazione del Paese, da attuarsi a rapide tappe tra il maggio e l’agosto 2012 secondo quanto già indicato in specifici accordi. Sullo sfondo del contrasto tra occidente e Turchia, si presenta il rischio che la comunità internazionale, in cambio della sicurezza della regione, favorisca un modello costituzionale che lasci in secondo piano la struttura clanica somala.

LA CONFERENZA – Il 23 febbraio si è tenuta a Londra la conferenza organizzata dal governo britannico riguardo alla questione somala. Tra i partecipanti, Ban Ki-Moon, Hillary Clinton, Giulio Terzi e oltre cinquanta diplomatici da vari Paesi, mentre i soggetti territoriali nei quali è divisa la Somalia erano rappresentati dal presidente del governo di transizione di Mogadiscio, Sheikh Sharif, e dagli inviati di Galmudug, Puntland e Somaliland.

I PRICIPI DI GAROWE – Nel documento finale si prende le mosse dai cosiddetti “princìpi di Garowe”, un documento sottoscritto dai delegati delle regioni del Corno d’Africa (tranne il Somaliland) e dall’ONU che definisce l’iter per la costituzione federale della nuova Somalia. L’impegno assunto durante il vertice è il rispetto dell’improrogabile termine del mandato del governo transitorio federale in agosto. In questo senso, la carta di Garowe prevede per maggio l’approvazione della nuova Costituzione, mentre «poiché l’incombente questione della sicurezza non permetterà elezioni dirette», i rappresentanti parlamentari e il presidente saranno nominati tra il 15 giugno e il 21 agosto. Negli obiettivi politici, l’atto conclusivo del vertice indica anche il sostegno al Joint Financial Management Board, un organismo di controllo dei fondi internazionali nel quale i donatori avranno parte attiva nella sorveglianza delle risorse.

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L’IMPEGNO PER LA SICUREZZA – Ampio risalto è riservato alla lotta alla pirateria e al terrorismo, necessità stringente in una regione che la Gran Bretagna ritiene direttamente connessa alla propria sicurezza nazionale. Non a caso, il giorno prima della conferenza, l’ONU ha approvato l’aumento delle truppe impegnate nella missione AMISOM da 12.000 a 17.731 elementi tramite la risoluzione n. 2036. Inoltre, è notizia recente che i soldati somali ed etiopi abbiano costretto alla ritirata le milizie al-Shabaab da Baidoa, roccaforte del sud. Per far fronte alla problematica della pirateria, invece, il governo britannico ha annunciato l’istituzione di un centro regionale di controllo alle Isole Seychelles in collaborazione con altri soggetti internazionali. Come previsto, quindi, dalla conferenza sono emerse note positive, ma non sorprese rilevanti, considerato che, comunque, non sarebbe stato possibile diversamente in questa sede e in un solo giorno di colloqui.

MOSAICO SOMALIA? – A giugno si svolgerà un nuovo meeting in Turchia, Paese molto attivo nel tentativo di attirare l’intero Corno nella propria sfera d’influenza. L’iniziativa di Londra potrebbe dover essere letta proprio in direzione del contrasto a ulteriori ingerenze in una regione estremamente critica. Cameron teme le ambizioni di Ankara e la costante insistenza della Conferenza dei Paesi Islamici, entrambe interessate a riportare la stabilità nel Corno escludendo ulteriori interventi internazionali, soprattutto da quando la società Africa Oil ha avviato un’ampia campagna di trivellazioni petrolifere nel Puntland e nel Somaliland. Strettamente implicati nella questione somala, tuttavia, sono anche l’Etiopia, tradizionale alleata degli Stati Uniti – l’impegno di Addis Abeba a sostegno del governo di Mogadiscio è da interpretarsi come una delega di Washington – e il Kenya, che ha alcune regioni occupate da gruppi somali non sempre collegabili ad al-Shabaab, ma senz’altro vicini ad ambienti nazionalisti. Quanto all’Italia, il ministro Terzi ha ribadito i legami storici con la Somalia, confermando l’impegno sia per il sostegno al percorso di riunificazione del Corno d’Africa, sia per il ripristino della sicurezza (anche marittima) nell’area.

MALINTESI INTERNAZIONALI – Resta il dubbio che la comunità internazionale continui a operare nell’eterogenea realtà somala considerando gli assetti clanici quali frammenti di un solo corpo sociale frantumato, la cui ricomposizione sia necessaria non tanto alla rinascita del Paese, quanto alla sola esigenza di sicurezza. Al contempo, però, si tralascia che l’Islam e il nazionalismo somalo non siano sempre fronti compatti e aprioristicamente unificanti, poiché includono al proprio interno posizioni variegate e costanti conflitti, manifesti o latenti. Altro elemento spesso posto in secondo piano è la tendenza centrifuga del Somaliland, dichiaratosi autonomo e indipendente da Mogadiscio, ma che tuttora è l’unico soggetto del Corno che, tramite l’aggregante dell’Islam e della tradizione clanica, riesce a mantenere ordine e integrità territoriale.

Beniamino Franceschini [email protected]

E tutto va come deve andare

Ottenendo quasi il 64% dei voti, brogli o non brogli, Vladimir Putin è nuovamente divenuto Presidente della Federazione Russa. Dimitri Medvedev, sottomesso delfino dell’uomo che, nel bene o nel male, sta creando la Russia moderna, ha ceduto la prestigiosa poltrona in un plateale passaggio di testimone che parte della popolazione, in particolare le educate classi medie cittadine, non ha gradito. Mentre Mosca e San Pietroburgo ribollono il resto della nazione più grande al mondo è ibernato sotto una spessa coltre di ghiaccio, omertà e informazione a senso unico, il primo principio della termodinamica ci dice che in questi casi tutto il sistema tende a raffreddarsi. Fortunatamente la politica non è una scienza esatta

PERCHE’ SEMPRE LUI?Centocinquant’anni fa in Russia esistevano ancora i servi della gleba, bestie analfabete sfruttate nei campi fino alla morte, sessant’anni fa ogni russo aveva in casa un’immagine di Stalin e microfoni collegati agli uffici della polizia segreta e in testa la folle paura di finire nei campi di lavoro di Magadan per il resto della sua vita, quindici anni fa le strade della neonata Federazione erano sicure quanto quelle del vecchio west nel diciannovesimo secolo, si moriva per un sacco di patate (gli scaffali dei negozi erano cronicamente vuoti), non era raro imbattersi in carri armati e militari corrotti durante una passeggiata, le mafie stavano ancora combattendo per spartirsi commerci e territorio. Nel profondo dell’anima di ogni russo alberga un bisogno primordiale, una necessità imprescindibile verso la quale aspirare sino all’infinito, slegata dal dio denaro, slegata dal Dio vero e proprio: la stabilità. Vladimir Putin, servile e glaciale agente segreto designato da un Boris Eltsin al capolinea come suo successore, ha ereditato uno Stato dilaniato dal crimine e dalla fame e, con i proventi derivanti dall’esportazione di gas e petrolio e la creazione di un articolatissimo e delicatissimo paradigma di relazioni tra i gruppi di potere più influenti (anche criminali, ovviamente) di cui è fondamentale vertice ed elemento di chiusura, ha costruito un sistema sostanzialmente funzionante dove il pane fresco si trova nei negozi a tutte le ore a prezzi accessibili ed è possibile passeggiare in un parco di Mosca all’imbrunire senza rischiare di essere rapinati o malmenati. Questa è la stabilità che i russi sognavano e che ora possono finalmente godersi. La scuola pubblica, pur di scarsa qualità, è quasi gratuita e, con l’aggiunta di qualche tangente qua e là, è persino possibile servirsi di un servizio sanitario nazionale. Per questo Vladimir Putin avrebbe vinto le elezioni al primo turno anche in assenza dei famigerati brogli denunciati dagli osservatori di tutto il mondo e dalle false e squinternate opposizioni parlamentari che altro non sono se non attori della sofisticata tragedia da lui scritta. Una tranquilla passeggiata nel parco val bene un’autocrazia!

LA VERA RUSSIA – Salire su un treno a Mosca e andare verso est è come tornare lentamente indietro nel tempo, dagli sgangherati palazzoni brezneviani mai restaurati di Ekaterinburg, sugli Urali, passando per i dimenticati villaggi nella taiga dove nessuno sa cosa sia un supermercato o un computer e i bambini lavorano negli orti e mungono le vacche, si giunge ad avamposti siberiani come Chita, famosa per le sue legioni di clochards in cerca di spiccioli e vodka nella spianata di cemento dove un tempo si facevano le parate militari, e Blagoveschensk, ormai colonizzata dagli operosissimi cinesi provenienti dall’altra sponda del fiume Amur. Lontano dalle follie consumiste di Mosca si cela una Russia antica, concreta, povera ma dignitosa. La gente, impegnata nel duro lavoro, esperta dell’arte della sopravvivenza e provata dai durissimi inverni, non è interessata alla democrazia all’occidentale e, in generale, alla politica. Il Governo centrale, operante a migliaia di chilometri di distanza, è percepito come un’entità lontanissima e impalpabile; è la televisione di Stato, quando necessario, a ricordare di rispettare e votare Putin se non si vogliono sconvolgimenti, tutti, sino a oggi, hanno distrattamente obbedito senza battere ciglio. E’ la Russia profonda la vera roccaforte del putinismo. Ma da qualche tempo anche tra i russi medi serpeggia un velato malcontento; anche loro, come gli oligarchi moscoviti, lasciano ogni anno il 13% del loro misero reddito allo Stato per poi usufruire di servizi quasi inesistenti e trovarsi impantanati in una fumosa burocrazia. Anche loro si chiedono come mai, dopo la stabilità, dopo un decennio di esportazioni di costosissime materie prime, il benessere tardi ad arrivare, come mai, mentre nella capitale apre ogni giorno un patinato salone di toelettatura per cani milionari, gli ospedali delle loro città dimenticate hanno attrezzature dei tempi di Krusciov. E’ di questa Russia, non della viziata borghesia urbana da lui creata e di lui succube, che il neoeletto Presidente si dovrà occupare se vorrà restare saldamente al timone. Mentre le effimere richieste di aperture democratiche e liberali saranno silenziate e presto dimenticate (anche perché non desiderate dalla gran maggioranza della popolazione) sarà fondamentale tenere a bada l’elettore tipo con piccoli aumenti di stipendi e pensioni e mirati miglioramenti alle infrastrutture e al welfare state, senza scomodare costituzioni e ideologie, evitando il crearsi di focolai di protesta in grado di propagarsi inarrestabilmente e far crollare il castello di carte dalla base.

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SAN PETROLIO AIUTACI TU! – Come sempre ricorda il blogger paladino della Mosca bene Alexei Navalny (incarcerato per la seconda volta dopo aver dato a Vladimir Putin del “ladro” nel corso di una manifestazione di protesta post-elettorale) la fragile economia russa annaspa nel clientelismo e nella corruzione. L’impresa privata è sostanzialmente inconsistente ed esclusi i settori armi e materie prime l’industria ricorda più quella di un paese del terzo mondo che quella di una ex superpotenza mondiale. Ogni anno la Russia esporta petrolio, gas e metalli per un valore di circa 200 miliardi di dollari (un incredibile settimo del prodotto interno lordo 2011), se i giacimenti si esaurissero o i prezzi calassero bruscamente il paese si troverebbe nel caos economico più assoluto. Nel pieno della crisi finanziaria del 2008-2009, quando il prezzo del barile di greggio scese di decine di dollari in poche settimane, fu la previdenza dell’allora Ministro dell’Economia Alexei Kudrin, che aveva in tempi di vacche grasse creato un fondo di emergenza, a salvare il paese dal default. Solo grazie agli immensi proventi delle esportazioni Vladimir Putin, che ha fatto pochissimo per lo sviluppo e la diversificazione dell’economia russa, ha potuto realizzare il “programma stabilità” ed essere così consacrato come il garante dell’ordine, come colui che ha traghettato il paese dalla buriana ad acque apparentemente più calme. Nulla lascia intendere che la sua politica economica cambierà nei prossimi sei anni. Se alla prossima occasione l’opposizione vorrà essere presa davvero sul serio dovrà presentarsi all’appuntamento compatta e con un concreto programma di ricostruzione economica che metta in luce le vere falle del sistema; per questa volta, è amaro ammetterlo, i caroselli di bandiere multicolori e folle eterogenee, le trame anti-Putin intessute dai giovani borghesi sui social networks non hanno nemmeno scalfito l’armatura del potere. La Russia non è ancora pronta per la democrazia. Lo sarà a breve, si spera. Ma poi, in fondo, che cos’è la democrazia?

Vittorio Maiorana [email protected]

Se il Sudan alza la voce

Caffè Nero – Riparte la nostra rubrica settimanale sull'Africa: un monitoraggio sulle questioni più calde, da seguire e approfondire. Questa settimana: il Sudan innalza i toni contro Washington e Juba, inasprendo le operazioni nel Kordofan e bombardando due pozzi di petrolio oltre confine. Ban Ki-Moon critica la condizione dei diritti degli omosessuali in Africa. L’allarme del Congresso USA contro l’unione d’intenti dei gruppi combattenti islamisti nel Maghreb, in Nigeria e in Somalia. L’accordo energetico tra Kenya ed Etiopia. Un’operazione antipirateria in Nigeria. La missione ONU in Liberia. Gli scontri etnici in Sudan del Sud. La drammatica esplosione a Brazzaville

LA POLITICA AGGRESSIVA DEL SUDAN – Il presidente sudanese al-Bashir ha disposto una nuova offensiva contro gli insorti del Sud Kordofan e del Nilo Blu, inviando al contempo truppe paramilitari al confine con il Sudan del Sud, e bombardando per via aerea due pozzi petroliferi al di là del confine. Da parte sua, Juba ha ribadito la cessazione di ogni rapporto con le forze ribelli, misura che, tra l’altro, già gli Stati Uniti avevano richiesto all’indomani dell’indipendenza del Paese, nel luglio scorso. Le popolazioni delle regioni attraversate dal conflitto versano in condizioni disperate, soprattutto da quando al-Bashir ha imposto la totale interruzione degli approvvigionamenti verso Sud Kordofan, Monti Nuba e Nilo Blu. A Hillary Clinton, che accusava Khartoum di mettere in discussione gli accordi di pace e l’indipendenza di Juba, il presidente del Sudan ha risposto in modo diretto: «Gli americani ci hanno sempre detto che con noi avrebbero usato il bastone e la carota. Diciamo loro che non vogliamo le loro carote avvelenate e sporche, e che non temiamo il loro bastone».

DIRITTI UMANI: NUOVE LEGGI CONTRO GLI OMOSESSUALI – Conclusa da poco la propria missione in Africa, Ban Ki-Moon ha sollevato la questione del rispetto dei diritti degli omosessuali. Il vicepresidente dello Zambia, Martin Musaluke, ha risposto che le parole del segretario generale dell’ONU non possano essere accolte, poiché, secondo il codice penale zambiano, l’omosessualità, in quatto atto contro natura, è un reato punibile anche con l’ergastolo: non è possibile, pertanto, richiamare i cittadini alla contraddizione della legge. Situazione analoga in Liberia, dove sono in discussione due proposte per l’elevazione dell’omosessualità a crimine da sanzionare con un massimo di cinque o dieci anni: «Essere gay, – ha detto il parlamentare Clarence Massaquoi, – non fa parte della storia del nostro popolo, non siamo mai stati in quel modo».

IL COORDINAMENTO DEL TERRORISMO ISLAMISTA – Secondo il generale Carter Ham, al-Qaida nel Maghreb islamico, al-Shabaab e Boko Haram starebbero operando per unire le proprie forze e coordinare azioni dirette verso obiettivi statunitensi. L’ufficiale ha riferito alla Congress Armed Services Committee di Washington che, all’origine dell’aumento del pericolo, ci sarebbe l’indebolimento di al-Shabaab in seguito alla controffensiva delle truppe etiopi e dell’AMISOM. Proprio i successi delle forze a sostegno del governo di transizione di Mogadiscio avrebbero spinto il gruppo somalo ad affiliarsi ad al-Qaeda, come annunciato lo scorso 9 febbraio da Ayman al-Zawahiri.

ACCORDO ENERGETICO TRA ETIOPIA E KENYA Kenya ed Etiopia hanno concluso il 2 marzo un accordo di fornitura energetica sulla base del quale Nairobi acquisterà annualmente 400 MW di elettricità da Addis Abeba. Durante il vertice appositamente convocato, i rispettivi capi di Stato, l’etiope Meles Zenawi e il keniota Mwai Kibaki, hanno discusso anche dell’ambizioso progetto di corridoio logistico che dal porto dell’isola di Lamu dovrebbe arrivare in Etiopia attraverso Kenya e Sudan del Sud e delle infrastrutture necessarie per la sua realizzazione.

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OPERAZIONE ANTIPIRATERIA IN NIGERIA – In Nigeria, la task force per la sicurezza del delta del Niger ha ritrovato i corpi dei quattro soldati caduti giovedì scorso. In un primo momento, la responsabilità era stata attribuita al Mend, il Movimento per l’emancipazione del delta del Niger, ma, successivamente, fonti ufficiali hanno specificato che i militari siano morti per mano dei pirati di Shedrack Itokofuwei, a sua volta ucciso dalle forze nigeriane.

ONU: MIGLIORAMENTO IN LIBERIA – Dopo due settimane di consultazioni, le Nazioni Unite hanno confermato che «con molta gradualità e grande cautela» è possibile cominciare il passaggio di consegne al governo liberiano, sebbene ancora la missione internazionale sia lontana dalla conclusione. I caschi blu sono in Liberia dal 2003, dopo una guerra civile decennale che ha causato oltre 150mila vittime.

SCONTRI TRIBALI IN SUD SUDAN – Trenta persone sono rimaste uccise in conflitti tribali nello stato orientale del Jonglei, Sudan del Sud: l’episodio, derivante dalla contesa di alcuni terreni di pascolo, mette in risalto la problematica dell’alto numero di armi in circolazione nel Paese ancora dopo la secessione da Khartoum, nonostante il governo abbia avviato una campagna di disarmo diffuso.

ESPLOSIONE A BRAZZAVILLE – Sono almeno duecento i morti nell’esplosione di un deposito di armi a Brazzaville, nella Repubblica del Congo, domenica 4 marzo. Secondo le prime fonti, ci sarebbero state cinque detonazioni innescate da due diversi incendi in una caserma vicina: oltre duemila persone sono state sfollate, mentre danni ad alcune strutture si registrano addirittura a Kinshasa, separata da Brazzaville dal corso del fiume Congo. Tra le vittime anche alcuni operai cinesi impegnati nella costruzione di una parte del sito ora distrutto.

Beniamino Franceschini [email protected]

Il solito ‘magna magna’?

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“Una vergona nazionale”: così il primo ministro indiano Manmohan Singh ha definito lo scorso gennaio i livelli di diffusione della malnutrizione tra i bambini indiani resi noti da una recente inchiesta condotta nel paese. Un’affermazione, quest’ultima, che mette in primo piano una grave debolezza dell’India in un periodo in cui si discute in parlamento di fare del diritto al cibo un diritto costituzionale. Ma dietro alle azioni per garantire una corretta nutrizione per tutti si celano anche calcoli di tipo politico

HUNGaMA (Hunger and Malnutrition) – Sarebbe potuta restare una delle tante ricerche sulla situazione della malnutrizione in India, il rapporto HUNGaMA presentato lo scorso 20 gennaio, se non fosse stato per le dichiarazioni di Manmohan Singh. Non solo il primo ministro ha espresso la propria preoccupazione per i dati emersi da tale inchiesta, ma è andato oltre sottolineando come la salute dell’economia e della società dell’India dipendano dalla salute stessa delle giovani generazioni. Promossa dalla Citizens’ Alliance against Malnutrition e coordinata dalla Fondazione Naandi, l’inchiesta è stata condotta in 112 distretti rurali in 9 stati e che ha coinvolto più di 100mila bambini e 75mila madri: un esercizio, questo, volto a fornire nuovi dati e informazioni sullo stato di salute dei bambini indiani, identificare i fattori principali che causano la malnutrizione e a proporre delle soluzioni.  Ciò che ne è emerso non fa altro che confermare una situazione preoccupante già denunciata da diversi attori che si occupano di malnutrizione nel paese: il 42% dei bambini è risultato essere malnutrito e il 59% soffre di rachitismo. Tale situazione è non solo strettamente legata alla situazione economica delle famiglie, ma anche al livello d’istruzione delle madri: il 92% ha dichiarato di non avere mai sentito la parola “malnutrizione”. Nonostante il fatto che si sia registrata una diminuzione rispetto al 2004 quando il 53% risultava essere malnutrito, i risultati restano preoccupanti. Le dichiarazioni di Singh mettono in luce come tale situazione minacci la salute stessa del paese e possa avere un impatto sulle generazioni che nei prossimi decenni guideranno il paese: la malnutrizione causa ritardi sullo sviluppo sia fisico sia mentale, e se si pensa alle cifre proposte da HUNGaMA, l’impatto che ciò può avere sulle future generazioni indiane è evidente. Tale situazione non è solo un grave problema, ma una vera “vergogna nazionale”. Singh ha anche riconosciuto che si tratta di un tasso inaccettabilmente alto rispetto alla crescita del PIL indiano degli ultimi anni.

DIRITTO AL CIBO PER TUTTI? – La pubblicazione del rapporto e le dichiarazioni di Singh arrivano proprio in un periodo in cui in India in parlamento si discute di diritto al cibo. Il Food Security Bill aspira a garantire ai più poveri del paese un minimo di cereali a basso costo al giorno: la nuova legge non solo vuole aumentare le persone che già attualmente hanno diritto ai sussidi, che potrebbero raggiungere la soglia del 75% della popolazione rurale e del 50% di quella urbana, ma vuole anche fare del diritto al cibo, un diritto costituzionalmente sancito. Se a priori la necessità di riconoscere tale diritto e di fare in modo che lo stato possa garantirlo non dovrebbe far sorgere alcun dubbio, le polemiche invece non mancano. In primo luogo discussioni essenzialmente politiche: promossa e fortemente voluta dalla famiglia Gandhi, dal presidente del Partito del Congresso Indiano Sonia e dal figlio Rahul, l’approvazione di questa legge è vista da molti come una manovra politica da parte del partito del Congresso per aumentare la propria popolarità in vista delle elezioni legislative che si terranno quest’anno in diversi stati indiani, e in vista delle elezioni generali del 2014. Lo scrutinio è già in corso, tra gli altri, nell’Uttar Pradesh, il più povero ma anche il più popoloso stato dell’India: una vittoria in questo stato, rappresenterebbe un vantaggio importante per il partito del Congresso, anche per le elezioni del 2014. Le discussioni, però, non si limitano alla scelta di mettere in primo piano la nuova legge proprio in questo momento, ma sono dirette anche al costo di tale manovra e al suo peso per le finanze dello stato: per l’anno fiscale che si termina a marzo, il deficit fiscale indiano potrebbe raggiungere il 5,5%, superando ampiamente il target del 4,6% previsto dal Governo. Tale situazione è dovuta soprattutto al rallentamento che ha subito la crescita indiana e alla conseguente diminuzione delle entrate: prevista intorno al 9%, la crescita del Prodotto Interno Lordo sembra raggiungerà a mala pena il 7%. Il costo per le finanze dello stato dell’implementazione di tale manovra in un paese di 1,2 miliardi di abitanti non può essere ignorato. Le discussioni si concentrano non solo sul costo della manovra, ma anche sulla disponibilità stessa di cereali nel paese: per garantire l’accesso a tali quantità a basso prezzo, un grande investimento, infatti, dovrà essere fatto anche per sviluppare la produttività agricola nazionale.

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SOLO UN PRIMO PASSO – Secondo quanto previsto dalla legge, i cereali saranno distribuiti tramite il Sistema di Distribuzione Pubblica (Public Distribution System, PDS), già oggetto di forti critiche per l’alto livello di corruzione che lo caratterizza. Le discussioni sull’efficacia del Food Security Bill nel combattere la fame si collega strettamente anche alle critiche verso questo sistema, che dato il suo livello di corruzione, non garantisce che le persone che hanno diritto a ricevere il cibo lo ricevano veramente. L’implementazione di questa nuova legge dovrebbe essere accompagnata anche da misure che possano risolvere le inefficienze di questo sistema. Pur riconoscendo la volontà di affrontare un problema importante per l’India come la fame e la malnutrizione, secondo molti questa legge rappresenta solo un primo passo in questa direzione: oltre al fatto che molti problemi legati all’implementazione della legge restano ancora irrisolti, la legge non prende in considerazione in modo integrato altri elementi che, oltre all’insicurezza alimentare, sono alla base della situazione nutrizionale del paese: tra questi, l’educazione e la salute delle madri, l’accesso all’acqua potabile e all’igiene, fattori sui quali lo stesso primo ministro Singh ha messo l’accento durante la presentazione del rapporto HUNGaMA.

Valentina Origoni [email protected]

A far la pace comincia tu

Il Giro del mondo in 30 Caffè – Nulla di nuovo sul fronte mediorientale, tra Israeliani e Palestinesi. I primi presi (ovviamente) dalla questione Iran, i secondi ancora impegnati su un faticosissimo tentativo di riconciliazione interna. Morale: le possibilità di ripresa di un dialogo tra le parti a breve non solo sembrano prossime allo zero, ma non paiono neanche un’urgenza per nessuno. Ma lasciare in secondo piano l’esigenza di un ritorno al confronto rappresenta, oltre che una sconfitta per tutti, un pericolo da non sottovalutare

 

QUI ISRAELE – Scena uno. Oggi, a Washington. Il premier israeliano Netanyahu da Obama. In agenda un solo tema: l’Iran, il suo nucleare, le paure israeliane, e le possibilità di reazione. Cosa accadrà? Da una parte, l’equilibrio del terrore, tipico della Guerra Fredda; dall’altra, l’intervento militare e la guerra, da non considerare più solo un teorico caso studio catastrofista, ma ormai una possibilità. Il governo israeliano freme, convinto di essere ormai vicini al punto di non ritorno relativamente al programma di arricchimento dell’uranio israeliano. Ahmadinejad non arretra di un passo, le minacce verbali proseguono (“Ci serviranno nove minuti per spazzare via Israele”, così parlo Ali Reza Forghani, capo del tema strategico del leader supremo Ali Khamenei). Gli Usa vorrebbero gettare acqua sul fuoco, non possono permettersi un conflitto che potrebbe sconvolgere l’intera regione mediorientale. Ma Israele non la vede così. Nell’incontro del 19 febbraio con il consigliere americano della Sicurezza nazionale Tom Donilon, Netanyahu non ci ha visto più. Le fonti americane raccontano frasi tutt’altro che diplomatiche: “Con tutto il rispetto, voi non siete a un tiro di schioppo dal vostro peggior nemico. Decidiamo noi quando, come, chi attaccare, quando è in gioco la nostra stessa esistenza”. Quando Donilon parla di “soluzione condivisa della crisi”, con un mix di nuove sanzioni, colloqui serrati e azioni d’intellingence mirate, Netanyahu non ci sente, non tollera questa politica di appeasement, che gli ricorda “l’atteggiamento accomodante di Regno Unito e Francia prima della Seconda guerra mondiale, e le conseguenze catastrofiche per il popolo ebraico”. Anche se le parole non fossero state proprio queste, i concetti sono chiarissimi, cristallini. Stessa sorte per l’incontro preparatorio del 29 febbraio a Washington tra il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak e Leon Panetta, segretario americano alla difesa: nessun via libera all’intervento, si punterà sulla diplomazia. L’incontro odierno sarà dunque privo di convenevoli. Per Obama è una bella patata bollente, e Netanyahu non si farà intimidire (e magari minaccerà velatamente il ritiro dell’appoggio elettorale a Obama dell’Aipac, potente gruppo di pressione filoisraeliano a Washington) anche perché teme che la questione siriana prenda il sopravvento, facendo così considerare meno urgente la situazione iraniana, e regalando così altro tempo a Teheran. Il fatto – di per sé clamoroso – che Israele non abbia mai preso una posizione netta contro le azioni del regime siriano di Assad (perfino Hamas si è espresso in questi termini) si spiega esattamente così. Intanto, continuano le schermaglie indirette: Teheran dichiara esplicitamente di rafforzare l’esercito libanese (con l’aiuto non troppo nascosto dei russi), composto per buona parte dai miliziani anti-israeliani di Hezbollah, mentre Israele manda uomini esperti di sicurezza e vende caccia, difese anti-missile e droni all’Azerbaijan, paese confinante con l’Iran e amico di Tel Aviv e Washington da cui sono partiti gli uomini che nei mesi scorsi hanno eliminato alcuni scienziati iraniani. Toccherà a Obama tentare di sbrogliare una matassa quanto mai intricata. Non possiamo dire con certezza come andrà l’incontro. Di certo, ci sembra verosimile immaginare questa scenetta finale. Una voce sullo sfondo, timida e incerta, che dice: “E i palestinesi?”. E Netanyahu, un po’ stranito, che si volta e risponde, scontroso e un po’ seccato: “Quali palestinesi?”

 

QUI PALESTINA – Scena due. Poco meno di un mese fa, a Doha. Sotto la regia del Qatar, Fatah e Hamas, i due partiti palestinesi che da cinque anni si fronteggiano e si combattano (i primi due anni anche a fasi alterne con una vera e propria guerra civile), firmano un accordo di riconciliazione, si accordano sul nome del Presidente dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) Abu Mazen (Fatah) come premier ad interim del futuro governo di unità nazionale, promettono elezioni presidenziali nel 2012. Una svolta per la politica palestinese, dopo che dal 2007 le due regioni palestinesi sono divise non solo geograficamente (Hamas controlla Gaza, Fatah la Cisgiordania)? Così sembrerebbe, ma ancora una volta le strette di mano rischiano di essere valide solo davanti ai fotografi. Il punto è che le forti divisioni non sono solo tra questi movimenti, ma all’interno di questi. E in questa occasione, l’accordo siglato tra Abu Mazen e Khaled Meshaal, leader di Hamas, è malvisto da diversi dirigenti di Hamas, la cui leadership è suddivisa tra l’ufficio politico centrale di Damasco, lì posto in seguito ai continui arresti di dirigenti da parte di Israele, e i vertici del partito che controllano Gaza. La discussione nel partito islamista è forte, i toni aspri. Una parte di Hamas – in particolare, quella di Gaza – resiste ancora all’idea di una riconciliazione intrapalestinese, a una compartecipazione di diverse anime alla vita politica palestinese, sul modello tunisino post-rivoluzione. L’ala pragmatica di Hamas considera questa strada come l’unica percorribile, l’ala radicale ancora non riesce ad immaginarla ipotizzabile, e continua inoltre a denunciare pubblicamente che non accetterà mai lo Stato d’Israele. Isamil Hanyeh, leader di Hamas a Gaza, tutt’altro che allineato alla posizione di Meshaal – che da anni non vive nei Territori Palestinesi – anche nel suo recente viaggio in Iran non ha perso l’occasione per ribadire che le armi sono l’unica risposta possibile allo Stato d’Israele. Insomma, nulla è ancora definito, le elzioni in fondo sono rinviate da anni, e grande è (ancora) la confusione sotto il cielo palestinese. Dal canto suo, Abu Mazen ha riproposto nei giorni scorsi l’ipotesi di un nuovo tentativo per un riconoscimento dello Stato Palestinese da parte delle Nazioni Unite, dopo il fallimento dello scorso anno. E l’ipotesi di un nuovo confronto con Israele, la possibilità di risiedere assieme al tavolo delle trattative? A questa domanda, l’espressione di Abu Mazen (per non parlare dei dirigenti di Hamas) assomiglierebbe terribilmente a quella di Netanyahu qualche riga sopra. “Confronto? Quale confronto?”

 

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CON LA TESTA ALTROVE – Insomma, se ci chiediamo come stanno andando e come andranno nel breve periodo le relazioni tra Israeliani e Palestinesi, il clima di sfiducia è forte. Verrebbe da dire che non ci sono particolari novità: tutto sommato, si potrebbe rileggere quanto era stato scritto nel Giro del Mondo di un anno fa, per vedere che è cambiato davvero poco. Anzi, in fondo, una novità c’è, ed è per certi versi la più amara. Non solo le possibilità di una ripresa dei negoziati di pace non registrano alcun passo avanti, ma sembra addirittura che i tentativi di tornare a confrontarsi non siano neanche in agenda. Il confronto tra le parti non sembra ora una priorità per nessuno. Entrambi sono “in altre faccende affaccendati”: tra i Palestinesi si fatica a mettere il naso oltre le proprie problematiche interne, Israele non distoglie nessuna attenzione da Teheran, e se proprio deve volgere la testa ad altre questioni, anche qui ci si tuffa nella politica interna, con i dissidi tra laici e ortodossi di cui già abbiamo parlato in un’altra tappa del Giro del Mondo, o le piccole beghe di partito (vedi le primarie del Likud, in cui Netanyahu si è riconfermato leader contro lo sfidante Moshe Feiglin, ancor più a destra di lui). Il 26 gennaio vi è stato un incontro ad Amman tra Yitzhak Molcho, collaboratore di Netanyahu, e Saeb Erekat, storico capo negoziatore palestinese. Timida ripresa di trattative? Macchè, solo uno specchietto per allodole per far contento il Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu), mentre da entrambe le parti ci si affrettava a negare qualsiasi ipotesi di rilancio del processo di pace. I Palestinesi insistono per un blocco totale dell’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania come precondizione imprescindibile per i negoziati, gli Israeliani non ci sentono (anzi, prima delle primarie del Likud voci insistenti mai confermate sostenevano la volontà di Netanyahu di legalizzare tutte le colonie, anche se probabilmente era solo uno stratagemma per farsi votare dai coloni), e siamo fermi a questa situazione da circa tre anni, senza minimamente ipotizzare la possibilità di affrontare le questioni più rilevanti, Gerusalemme in primis. L’unico confronto che ora pare possibile è quello del venerdì, all’ora della preghiera nella mosche di Al Aqsa, Spianata delle Moschee, sopra il Muro del Pianto (vedi foto), cuore nevralgico della Città Vecchia e di una buona fetta di tutte le tensioni tra le parti. In due degli ultimi tre venerdì vi sono stati scontri tra i fedeli palestinesi e i poliziotti israeliani: alcuni giovani palestinesi hanno lanciato pietre sulla piazza sottostante del Muro del Pianto, la polizia è entrata sulla Spianata con i lacrimogeni. Il 12 febbraio, la polizia ha bloccato la visita provocatoria alla Spianata di Feiglin, avversario di Netanyahu alle primarie, dopo che erano stati ritrovati volantini inneggianti alla ricostruzione del Terzo Tempio distruggendo la Spianata delle Moschee (che sorge sulle rovine del Tempio di Salomone, di cui il Muro del Pianto è l’unico contrafforte rimasto).

 

NON DISTOGLIERE LO SGUARDO – Insomma, non ci si aspetta grandi cambiamenti nell’anno in corso. Ci aspettiamo un anno in cui parleremo molto di Israele, senza citare però i Palestinesi. Un anno in cui parleremo spesso della situazione palestinese, senza alcun confronto con gli Israeliani. Eppure, appare davvero pericoloso per entrambe le parti derubricare la questione israelo-palestinese a un affare di secondo piano, una necessità non primaria. Lo spiega molto bene, in un editoriale odierno sulla Stampa, Abraham Yehoshua. Per risolvere la questione iraniana, occorrerebbe “Riprendere con energia, onestà e serietà il processo di pace con i palestinesi e arrivare a ciò che persino l’attuale governo di destra ha apertamente dichiarato essere un obiettivo politico: due Stati per due popoli. (…) E se ciò sarà fatto gli iraniani saranno costretti ad abbandonare la loro retorica esaltata e le loro perfide minacce. (…) Sono sicuro che ogni vero passo verso la pace con i palestinesi farà sì che questi ultimi si uniscano alla ferma richiesta di fermare le minacce di guerra iraniane perché un eventuale conflitto fra Israele e Iran distruggerebbe ogni possibilità di indipendenza nella loro patria”. Per quanto ci riguarda, non c’è nient’altro da aggiungere.

 

Alberto Rossi

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Esigenze difensive

Al giorno d'oggi le Forze Armate svolgono simultaneamente operazioni militari e di tipo umanitario; sono impegnate in missioni eterogenee che spaziano dalle attività di combattimento, alla prevenzione sino al ripristino delle infrastrutture e servizi nelle fasi post-conflitto. Questa molteplicità di azioni e modalità operative è una esigenza o una strategia?

DALLA DIFESA CONVENZIONALE ALLA HUMAN SECURITY – L’attuale contesto operativo, caratterizzato da una varietà di scenari di impiego tipologicamente diversificati e numericamente superiori al recente passato, ha determinato un nuovo concetto di impiego delle Forze Armate. Queste ultime, infatti, oltre ad operare nei tradizionali contesti di guerra, sono sempre più frequentemente coinvolte nelle “operazioni militari diverse dalla guerra”, altrimenti definite Military Operations Other Than War (MOOTW). L’impostazione convenzionale della difesa, fondata sul potenziale degli armamenti posseduti, ha ceduto il passo ad un dinamismo del sistema che ha ridefinito gli obiettivi delle politiche di difesa ed obbligato i governi a tenere conto della dimensione sociale. Inquadrati in questa nuova prospettiva, gli elementi militari propri della sicurezza statale sono integrati dalla formulazione dello human security che, introdotto per la prima volta nel 1991, individua un ampio spettro di elementi che concorrono a rafforzare sia il mantenimento che la percezione della sicurezza collettiva. Utilizzato dall’UNDP (United Nation Development Programme) nello Human Development Report del 1994, il concetto di sicurezza viene aggiornato e rivisto alla luce delle dimensioni socio-politiche delle comunità umane. Così, i parametri dello human security, pur mantenendo lo Stato come protagonista delle relazioni internazionali, spostano l’attenzione sulle collettività umane, gruppi etnici e culturali la cui geografia spesso non coincide con i confini degli Stati. Per quale motivo è necessario valorizzare la dimensione civile negli affari militari?

L’INCLUSIONE DELLA DIMENSIONE CIVILE – Il punto alla base di questa integrazione è il riconoscimento del fatto che senza sviluppo non si possa garantire sicurezza. Pertanto, un discontinuo sviluppo sociale o differenziali di sviluppo troppo elevati sono riconosciuti come elementi propedeutici all’esplosione di crisi e conflitti. Inoltre, il fattore dello sviluppo è rilevante alla luce della crescente integrazione fra gli Stati fondata su vincoli sempre più interdipendenti di tipo energetico, ambientale, economico e finanziario. Il riconoscimento del valore della dimensione sociale procede di pari passo con l’identificazione di nuove forme di combattimento che, perdendo il connotato tipico della guerra di posizione, si caratterizzano per la mancata individuazione certa delle parti in lotta. Questo genera conflitti asimmetrici rispetto agli schieramenti in campo. Ne sono un esempio le nuove forme di eversione e terrorismo che raggiungono facilmente livelli inaspettati di distruttività rivolti contro le stesse popolazioni civili. Il recente intervento in Libia, operato con la missione NATO Unified Protector (avviata il 23 marzo ed ultimata il 31 ottobre 2011), si inserisce in questa casistica in quanto alle Forze aereo-navali dei Paesi partecipanti sono stati assegnati compiti di imposizione della No-Fly Zone e dell’embargo navale per isolare gli attacchi di gruppi armati e tutelare l’incolumità della popolazione civile dai combattimenti.

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GLI ESEMPI DEL CAMBIAMENTO – La variegata gamma di operazioni che le Forze Armate sono chiamate a compiere su mandato della Comunità Internazionale con interventi di interposizione armata, di ricostruzione post-conflittuale, di stabilizzazione, è diretta espressione della complessità di un tale mutamento in cui convergono elementi militari e sociali, volti ad un coinvolgimento di attori, istituzionali e non, impegnati in una strategia di sicurezza e prevenzione dei conflitti. Ai rapidi interventi nei momenti di crisi si alterna dunque una policy di prevenzione che, agendo nel lungo periodo, può sperare di influire positivamente sulla stabilizzazione di aree compromesse. Ne è un esempio significativo la missione operata sotto l’egida delle Nazioni Unite a Cipro (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus) che, dinnanzi all’impossibilità politica di risolvere la questione territoriale fra greci e turchi sta operando ancora oggi sia come forza di interposizione che di sostegno umanitario. Un caso più recente è fornito dalla missione di assistenza in Afghanistan (United Nations Assistance Mission in Afghanistan, UNAMA) istituita nel 2002 dal Consiglio di Sicurezza ONU su richiesta del governo afgano per agevolare il processo politico-istituzionale. Merita rilevare che mandato, rinnovato con la Risoluzione 1974 fino a marzo 2012, prescrive alle Forze Armate anche azioni di monitoraggio per garantire la protezione dei civili e di assistenza alle istituzioni locali nell’implementazione delle fondamentali libertà (…”to monitor the situation of civilians, to coordinate efforts to ensure their protection…” RIS. 1974).

LA RIORGANIZZAZIONE DELLE FORZE ARMATE : L’ESEMPIO ITALIANO – Al pari di quanto è avvenuto negli altri Paesi europei, anche le Forze Armate italiane sono state impegnate in questo profondo cambiamento rivolto verso cinque direttrici ben definite. In primo luogo, esse hanno dovuto acquisire la caratteristica di uno strumento operativo che fosse in grado di proiettarsi in tempi rapidi al di fuori del contesto nazionale. Si è successivamente passati da una visone prevalente di singola Forza Armata ad uno strumento interforze. In terzo luogo, il cambiamento in atto entro le Forze Armate ha comportato una maggiore attenzione per le qualifiche professionali e per le competenze tecniche dei singoli componenti. Si è, poi, abbandonata la concezione di Forze Armate “di quantità”, numericamente consistente, mentre si è progressivamente affermato il concetto di Forze Armate di “qualità”, operativamente flessibili e tecnologicamente evolute. Infine, la dimensione delle Forze Armate si è via via integrata alla dimensione sociale e culturale delle realtà locali. Tali ristrutturazioni si sono rese necessarie in ragione del fatto che, attualmente, non si tratta più di opporsi ad una singola minaccia, peraltro, nota nelle sue principali componenti, ma di predisporre forze integrate che siano in grado di fronteggiare minacce e rischi non chiaramente prevedibili, estremamente variabili e che potrebbero concretizzarsi con modalità operative differenti ed asimmetriche. La trasformazione nella struttura delle operazioni militari è stata visibile a partire dagli anni ’90, decennio in cui si è intensificato l’impegno dell’Italia nelle operazioni militari di mantenimento/costruzione della pace sotto egida ONU nei Balcani, nel continente africano (Somalia e Mozambico), in Medio Oriente e nel Timor Orientale.

I TRE BLOCCHI – Le più recenti attività militari hanno evidenziato che il confine tra operazioni ad alta intensità, altrimenti note come warfighting, e operazioni di risposta alle crisi risulta essere sempre più sfumato ed indefinito. Per questo le forze militari impegnate sul campo sono state riorganizzate e dotate di una maggiore flessibilità, così da renderle idonee, nel caso più oneroso, a svolgere contemporaneamente un’ampia gamma di attività operative. Tale esigenza è sintetizzata nel concetto della Three Block War che prevede, nella medesima area di responsabilità, le attività di combattimento, per eliminare i residui focolai di forze avversarie e contrastare eventuali attentati terroristici, le attività di controllo del territorio e di pattugliamento per garantire la necessaria cornice di sicurezza e le attività di supporto alla pace (Peace Support Operations) per garantire assistenza umanitaria, il ripristino delle infrastrutture ed avviare una rapida normalizzazione della situazione post-conflitto. L’evoluzione della Three Block War, sfuggendo ad ogni classificazione netta, ben si addice anche all’esigenza strategica di esercitare un significativo controllo sul territorio e di influenzarne le fasi post conflittuali di sviluppo e ricostruzione.

Emanuela Sardellitti [email protected]