venerdì, 19 Dicembre 2025

APS | Rivista di politica internazionale

venerdì, 19 Dicembre 2025

"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

Home Blog Page 571

Se l’Orso sfida il Dragone

0

E’ ben noto che l’Asia Centrale sia un’area geo-strategica sensibile agli interessi delle più grandi potenze regionali e mondiali. Considerata un forziere energetico per le sue riserve di petrolio, gas e idrocarburi, è però anche una regione fondamentale per il controllo dell’Asia Meridionale nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale, al separatismo e all’estremismo religioso. Mosca e Pechino collaborano, si confrontano e si scontrano su tutti questi temi, determinando anche l’andamento delle alleanze e dei rapporti tra i cinque Paesi dell’area

 

NUOVE TENSIONI TRA MOSCA E PECHINO – Negli ultimi mesi dello scorso anno, in particolare, è stata la questione energetica e dell’accaparramento delle risorse naturali a tenere banco e a far riesplodere la tensione tra i due giganti asiatici. Lo spirito di collaborazione multilaterale espresso da Cina e Russia nel giugno scorso ad Astana, durante le celebrazioni per il decimo anniversario dalla nascita della Shanghai Cooperetion Organization (SCO), sembra essere venuto meno lasciando spazio alle negoziazioni per la stipula di accordi bilaterali che garantiscano all’economia cinese le risorse indispensabili per la sua inarrestabile crescita e alla Russia il mantenimento della sua influenza in una ragione che considera ancora quasi un’estensione del suo territorio nazionale. L’evidente utilizzo della SCO, da parte di Pechino, come strumento per il rafforzamento dei suoi legami bilaterali per la fornitura di risorse energetiche con le cinque repubbliche centrasiatiche non poteva lasciate Mosca indifferente a guardare l’inesorabile erodersi della propria sfera d’influenza politico-militare sotto il dinamico espansionismo economico cinese. Così, a pochi mesi dalla sua quasi scontata terza rielezione al Cremlino, Vladimir Putin ha lanciato la proposta della creazione di una Unione Euroasiatica che nell’intento dovrebbe comprendere i paesi dello spazio ex-sovietico interessati e dalla quale Pechino verrebbe irrimediabilmente esclusa.

 

LA SCO SARA’ IN GRADO DI RESISTERE? – La discordanza di obiettivi e le azioni individualistiche poste in essere dai due maggiori leader stanno mettendo così in crisi l’organizzazione che fino a pochi mesi fa sembrava dover acquisire un prestigio e un’ importanza sempre maggiore nello scenario internazionale per lo sviluppo economico e per la cooperazione in materia di sicurezza regionale. Se è vero, quindi, che essa non ha perso la sua importanza in ambiti come la sicurezza, la lotta al terrorismo, all’estremismo e al separatismo, questioni dove l’azione di Russia e Cina è ancora concertata, condivisa e unitaria perché nessuno dei due può permettere che venga compromessa la propria stabilità interna, è vero anche che l’attuale situazione geopolitica fa pensare ad un allontanamento tra i due attori e che quest’ultimo possa mettere a rischio la futura esistenza dell’organizzazione stessa. Non è facile comprendere come la SCO potrà continuare ad operare con i due principali leader in una posizione di così netto contrasto e con il nuovo progetto russo di un’Unione Euroasiatica che a vent’anni dalla fine dell’URSS propone la creazione di un enorme polo economico comune – simile all’Unione Europea – composto dai mercati delle ex repubbliche sovietiche, che secondo l’idea di Putin dovrebbe anche favorire i contatti tra l’ex blocco sovietico e Bruxelles, grazie anche al suo recente ingresso nella World Trade Organization (WTO).

 

content_970_2

LA POSIZIONE DEI CINQUE –STANIl progetto ha già raccolto il consenso di Minsk e di Astana, e a breve riceverà quello del Kirghizistan il cui nuovo premier eletto lo scorso ottobre, il filorusso Atambaiyev ha già reso noto il suo asse di alleanze dichiarando che nel 2014 mentre gli americani dovranno lasciare la base di Manas, i russi avranno il via libero per la costruzione di un’altra in cambio dell’accesso alla favorevole Unione Doganale con la Bielorussia e il Kazakhstan e la Russia. Anche il Tagikistan, anello debole della catena centrasiatica, si appresta a confermare la sua adesione, mentre non è altrettanto scontato l’appoggio dell’Uzbekistan e del Turkmenistan. Il primo, infatti, ricerca ormai da diverso tempo una posizione di leadership nella regione, in competizione con il Kazakhstan, pertanto difficilmente accetterà di essere sottoposto ad un nuovo controllo da parte di Mosca, senza tener conto tra l’altro della sua attuale necessità di concentrare l’attenzione sul mantenimento dell’ordine interno piuttosto che di preoccuparsi nell’immediato del proprio posizionamento in ambito internazionale.   Il secondo, invece, se da un lato condivide col vicino il problema del mantenimento dell’ordine interno, dall’altro ha appena stretto diversi e importanti accordi con la Cina in materia di infrastrutture per il trasporto e la vendita del gas e del petrolio.  Ashgabat  e Pechino hanno siglato tra il 22 e il 25 novembre scorso una serie di accordi che rafforzano la presenza cinese in Asia Centrale e che garantiranno al Dragone ingenti rifornimenti di gas. In questo momento è ancora difficile fare delle ipotesi su quale sarà il futuro di questa nuova Unione Euroasiatica, quali saranno gli scenari che si prospetteranno in Asia Centrale se la SCO non dovesse essere in grado di sopravvivere a questo difficile momento sospinta com’è dalla volontà e necessità di collaborazione in alcuni ambiti e di aperto contrasto in altri e se la nuova organizzazione proposta da Mosca sarà in grado di contrastare quella che ad oggi sembra l’inarrestabile crescita cinese. Così come non è facile immaginare quali saranno le azioni di un Occidente al momento preoccupato ma anche conscio della sua possibilità di ricominciare ad esercitare un’influenza più forte nell’area grazie all’allontanamento tra Mosca e Pechino.

 

Marianna Piano

Seguici su twitter!

0

Il nostro account su twitter: http://www.twitter.com/cafegeopolitico

 

Segui i nostri cinguettii con il nostro account su twitter: http://www.twitter.com/cafegeopolitico

blank

Separate da un voto

0

Il 2012 sarà l’anno in cui un terzo dei paesi del mondo voterà: Francia, Russia e Stati Uniti, i più significativi. Mentre la Cina ad ottobre inizierà il passaggio di leadership. Ma la prima importante elezione del 2012 si terrà nell’isola di Taiwan, il prossimo 14 gennaio, per l’elezione del nuovo presidente e per la nuova composizione del parlamento (il Legislative Yuan). Una vittoria dell’opposizione significherebbe tensioni con Pechino. Ecco due possibili scenari

NON SVEGLIATE IL CAN CHE DORME – La questione dello status internazionale di Taiwan è vecchia di 60 anni: da quando i rappresentanti del Kuomintang e il suo leader Chiang Kai-shek persero la guerra civile contro le forze comuniste di Mao Tse-tung, e dovettero ritirarsi nell’isola di Taiwan – ex colonia giapponese tra il 1895 e 1945. Entrambi gli stati si consideravano i soli rappresentanti del popolo cinese, tant’è che il seggio all’Onu è stato occupato dalla Repubblica di Cina (Taiwan) fino al 1971, per poi essere sostituita dalla Repubblica popolare cinese. Il vero problema però risale alla politica della ‘One China Policy’, iniziata nel 1992. I due paesi si accordarono sul fatto che esiste una sola entità nazionale che possa essere definita ‘Cina’, ma non si specificò chi dei due fosse il legittimo rappresentante dello Stato cinese, lasciando libera interpretazione nel definire cosa “una Cina” significhi. Questo accordo prese il nome di ’1992 Consensus’, e ha portato a profonde conseguenze nelle attività diplomatiche dei due Paesi: nessuno Stato terzo può intrattenere relazioni diplomatiche contemporaneamente con la RPC e con Taiwan. Oggi solo 23 stati riconoscono l'isola come legittimo Stato cinese. Non essendoci stato chiaro accordo, le situazioni ambigue sono rimaste; non tanto da parte della Cina, per la quale Taiwan non è altro che una provincia ribelle che prima o poi dovrà essere annessa alla madre patria, quanto per le forze politiche taiwanesi. Il Kuomintang o KMT (i Nazionalisti) con l’attuale presidente Ma Ying-Jeou, riconoscono la politica della “one China(quindi mantenendo quell’ambiguità che lascia tutti soddisfatti), mentre il Democratic People’s Progressive Party (DPP) o Minjindang della sfidante alle prossime elezioni, Tsai Ing-wen, non riconoscono il ‘92 Consensus e storicamente sono portatori di istanze indipendentiste.   La questione della relazione tra le “due Cine” è un po’ come la situazione di un grosso cane notoriamente rumoroso (e potenzialmente pericoloso), che sta dormendo e che nessuno vuole svegliare. La Tsai, negando l’esistenza della “One China Policy” sembrerebbe pronta a svegliarlo. MA VS TSAI – Da quando nel 2008 Ma Ying-jeou vinse le elezioni riportando al potere i nazionalisti, dopo la parentesi dei due mandati di Chen Shui-bian (tra il 2000 e il 2008), le relazioni tra Taipei e Pechino non erano mai state così buone: è stato firmato l’Economic Cooperation Framework Agreement (ECFA) (una serie di accordi per il libero scambio); si sono aperte linee aeree dirette tra i due Paesi, facilitando gli scambi culturali; e si è intensificata la cooperazione in ambito legale e della sicurezza alimentare. L’atteggiamento di Ma ha sicuramente favorito l’appoggio alle sue politiche da parte degli imprenditori che investono fortemente in Cina, ma è stato anche accusato dalla sua avversaria alle presidenziali di aver venduto la sovranità taiwanese in cambio di benefici economici di breve periodo. La Tsai propone il Taiwan consensus al posto del ’92 consensus. In un’intervista al New York Times, di pochi giorni fa, ha detto che Ma ha sostenuto l’accordo del 1992 perché la Cina lo aveva imposto come precondizione per i rapporti diplomatici, aggiungendo che: “Il 1992 consensus non è chiaro, e nessuno ha un argomento convincente per spiegare cos’è successo in quegli anni”. Mentre il Taiwan consensus è da preferire perché significa che: “I taiwanesi devono unirsi e trovare un consenso tra di loro, e da soli, per poi parlare con la Cina e trovare una base comune sulla quale fondare le relazioni nello stretto”. I due candidati si spartiscono l’elettorato in un vero testa a testa, dove Ma ha un lieve vantaggio e dove il risultato resta apertissimo, mentre il terzo candidato James Soong del People’s First Party (vicino alle posizioni del KMT) ha circa il 10 per cento delle preferenze. La Tsai cercherà di ottenere la maggioranza dei voti tra i suoi tradizionali elettori: i nativi dell’isola di Taiwan e i contadini nel sud dell’isola che non sentono i benefici degli accordi ECFA con la Cina. Anche se il fattore economico giocherà un ruolo fondamentale nella decisione di voto, la questione delle relazioni con la Cina resta senza dubbio determinante.

content_972_2

SCENARIO 1: MA è RICONFERMATO – Altri quattro anni di governo con Ma Ying-jeou, significherebbero un’ulteriore espansione delle relazioni tra Taiwan e la Cina. Anche se non si può negare che frizioni possono comunque verificarsi. Restano sempre da stabilire il modo e i tempi in cui Ma è disposto ad aprire un dialogo con Pechino sulle questioni politiche più scottanti e su quelle militari. Se ciò non avvenisse la nuova leadership cinese potrebbe spostarsi su posizioni più dure. Ma cercherà di continuare ad allargare le relazioni economiche con Pechino e allo tesso tempo cercando nuove opportunità con paesi terzi. La politica dei “tre no” continuerà ad essere la base su cui poggeranno le relazioni con la Cina, e sarebbe a dire: no riunificazione, no indipendenza, no conflitto armato nello stretto. Ciò perché la popolazione taiwanese preferisce lo status quo alle altre due alternative: indipendenza o riunificazione con la Repubblica Popolare Cinese. SCENARIO 2: VINCE TSAI – Una vittoria del DPP introdurrebbe un periodo di incertezza nelle relazioni dello stretto di Taiwan, anche se le dinamiche sarebbero fondamentalmente differenti rispetto al periodo di Chen Shui-bian. Secondo Bonnie S. Glaser, esperto di sicurezza in Asia, “La Tsai non adotterà politiche provocatorie nei confronti della Cina, o che possano alienare gli Stati Uniti. Tuttavia la candidata del DPP non riconosce il ’92 Consensus e perciò il fallimento nel trovare una nuova base negoziale, porterebbe Pechino a sospendere il dialogo”. Anche se le tensioni aumenterebbero “L’uso della forza militare da parte di Pechino è improbabile, a meno che la questione dell’indipendenza non sia una minaccia reale”. In caso di vittoria dell’opposizione questo sembra lo scenario più probabile: il portavoce dell’ufficio cinese per le relazioni con Taiwan ha affermato che se la signora Tsai vincesse le elezioni: “Potrebbe inevitabilmente danneggiare i pacifici progressi nelle negoziazioni tra i due paesi”. Marco Spinello [email protected]

Niente di nuovo sotto il sole?

Il nuovo anno si apre con alcune delle tematiche principali che ci hanno accompagnato per gran parte del 2011 a fianco a nuovi sviluppi nel panorama mondiale, che rendono la settimana che ci attende ricca di appuntamenti. Con i leader europei a caccia della formula magica per il futuro del vecchio continente, gli Stati Uniti alle prese con il ripensamento strategico e il Medio Oriente minacciato dai venti di guerra, riprende l'appuntamento che vi serve i prossimi 7 giorni della settimana condensati nel primo "ristretto" dell'anno

EUROPA

Lunedì 9 – Il Presidente francese Nicolas Sarkozy sarà a Berlino in mattinata per un incontro bilaterale con la Cancelliera tedesca Angela Merkel. I due metteranno a confronto le rispettive posizioni in vista della trilaterale di Roma del prossimo 20 Gennaio e in seguito all'incontro del week end scorso tra Monti e lo stesso Sarkozy. Italia, Francia e Germania hanno in mano il futuro dell'Unione ma si trovano in disaccordo su diversi punti: euro-bond o project-bond, fondo salva stati efficiente o mera istituzione di facciata, tobin tax europea o variante nazionale, entro la fine del mese avremo probabilmente tutte le risposte.

Mercoledì 11 – Anche il Primo Ministrio italiano Mario Monti raggiunge Berlino per terminare la girandola di summit tra i leader europei di spicco. Proprio il nuovo governo di Roma, reintegrato nelle stanze dei bottoni europee, sembra essere ora il maggiore alleato di Parigi contro ulteriori irrigidimenti del Fiscal Compact voluto dal presidente della BCE Draghi e dalla stessa Merkel. La credibilità europea e la competenza tecnica del premier italiano dovranno portare Berlino a più miti posizioni per la salvezza del cammino comune dell'Unione.

Il Primo Ministro Helle Thorning Schmidt aprirà a Copenhagen il semestre di presidenza danese del Consiglio Europeo, ci sarà spazio per tirare le somme del lavoro svolto dalla Polonia nella seconda metà del 2011 e per presentare le linee d'azione per un 2012 che si preannuncia ricco di sfide e di punti di svolta. La cerimonia inaugurale sancirà il culmine della visita in Danimarca del Collegio dei Commissari che resteranno nel paese fino a Giovedì.

Giovedì 12 – Primo meeting dell'anno per il Consiglio di Governo della Banca Centrale Europea presieduta da Mario Draghi che terrà una conferenza stampa alla fine dell'incontro. I temi principali dell'agenda riguardano gli obiettivi per la crescita, lo sviluppo e la stabilità dell'area euro e i preparativi per l'Eurogruppo del 23 e il Consiglio ECO-FIN del 24 Gennaio. Non mancheranno focus sulla situazione disperata dell'economia ungherese, esterna all'eurozona ma ad essa strettamente legata.

AMERICHE

Martedì 10 – Si tiene in New Hampshire la seconda tappa per le primarie del Partito Repubblicano che dovranno portare alla nomina dello sfidante di Barack Obama alle Presidenziali. Nell'ultimo dibattito televisivo tutti gli sfidanti si sono coalizzati contro l'ormai favorito Mitt Romney, attaccato via twitter dallo stesso Obama. Nonostante l'endorsement di Fox News il creazionista Nick Santorum sembra condannato a decadere dal secondo posto nel caucus dello stato con il più alto numero di laici e agnostici, mentre sono in ascesa le quotazioni del populista Gringrich e dell'anti statalista Ron Paul. Il Governatore Rick Perry invece guarda già alla tappa del 21 Gennaio in South Carolina.

Il Console Generale venezuelano a Miami Livia Acosta Noguera dovrà lasciare entro martedì il territorio degli Stati Uniti in quanto persona non grata, dopo che il mese scorso alcune indiscrezioni confermate la segnalavano tra i cervelli di un attacco di cyber-warfare congiunto tra Venezuela e Iran contro strutture statunitensi. Tra i primi a segnalarvi la notizia, restavamo tuttavia scettici sulla veridicità delle fonti, il provvedimento del Dipartimento di Stato scioglie a distanza di un mese ogni dubbio. Il ricorso all'articolo 23 della Convenzione di Vienna sulle Relazioni Consolari dimostra quanto Washington prenda sul serio il nuovo fronte della guerra tecnologica destinata a dominare il futuro della strategia militare.

VENEZUELA – Mentre l'attesa per le presidenziali di Ottobre si fa sempre più pressante il Presidente Hugo Chàvez dà il via alle danze sostituendo figure di spicco del suo cerchio magico. Dopo la nomina di Diosdado Cabello, uno dei leader del partito di Chàvez, a Presidente dell'Assemblea Nazionale, il vero colpo di genio rimane la nomina a Ministro della Difesa del Generale Henry Rangel Silva, ex capo dei servizi segreti, da sempre fedele alleato nelle forze armate. Ma Rangel Silva figura soprattutto in un rapporto del Dipartimento del Tesoro statunitense del 2009 come uno dei principali alleati a Caracas del movimento marxista delle Farc per il sostegno al trasporto di cocaina dalla Colombia al Venezuela.

AFRICA

SUDAFRICA – Conclusesi con successo le festose manifestazioni per la celebrazione dei 100 anni dalla nascita dell'African National Congress (ANC) restano le tensioni e le fratture tra la leadership politica del paese e l'opinione pubblica dei ceti medi e delle township. Apparso a fianco dell'ex Presidente Thabo Mbeki, Jacob Zuma è insidiato all'interno del suo stesso partito dall'opposizione del leader della Lega giovanile Julius Malema. Il giovane carismatico rimprovera a Zuma una politica sociale troppo moderata e incline al compromesso liberista incarnando il malcontento dei poveri e degli abitanti delle baraccopoli il cui tenore di vita non sembra aver tratto beneficio dalla fine del'apartheid.

SOMALIA – Il raid dell'aviazione kenyota nel distretto di Burdubo, nella regione di Gedo ha provocato numerose vittime tra i militanti di Al Shabaab che si sono rifugiati nella confinante regione di Bay dove detengono un controllo quasi totale del territorio. Nonostante l'invasione corazzata da parte del Kenya, che dura ormai da due mesi, la cellula qaedista somala sembra godere dell'appoggio delle tribù della parte sud-occidentale del paese che le garantisce la sopravvivenza ai ripetuti attacchi armati. Intanto sul fronte della pirateria, l'Unione Europea, tramite la missione Atlanta, starebbe studiando interventi risolutivi che concludano una volta per tutte il ripetersi degli assalti e dei rapimenti. Niente occupazione militare in vista però, si punta piuttosto a blitz di search&destroy affiancati ad un progetto per la costituzione di un sistema giuridico internazionale per la lotta alla pirateria marittima.

NIGERIA – Per quanti non fosse bastato il paragone tra la situazione attuale e la guerra civile degli anni '60 il Presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha ventilato nuove rivelazioni sul movimento islamico Boko Haram. Sarebbero proprio complicità profonde con le Istituzioni, con il sistema giudiziario, la polizia, le forze armate e addirittura il Governo stesso a garantire alla setta estremista la sopravvivenza nel paese. Intanto sale a 49 il numero delle vittime degli attacchi ai cristiani con lo spettro di una nuova guerra civile che avanza in una delle nazioni africane con i tassi di crescita più elevati.

content_969_2

ASIA ORIENTALE

CINA – Il Governo di Pechino ha accolto con freddezza la pubblicazione del nuovo Scenario Strategico americano che sancisce come fondamentale il contesto dell'Asia-Pacific. Per Washington la regione del Sud-Est Asiatico rivestirà la stessa importanza che aveva l'Europa nel ventesimo secolo e l'America dovrà impegnarsi contro le potenze regionali emergenti piuttosto che in lunghe guerre di counter-insurgency. Ai leader del PCC saranno sicuramente fischiate le orecchie dato che Barack Obama ha sempre sostenuto l'importanza del livello delle grandi potenze rispetto agli obiettivi dell'antiterrorismo. Con il ritiro completato dall'Iraq e quello preannunciato dall'Afghanistan saranno Taiwan, Myanmar, Giappone e Corea i banchi di prova del concetto di coevoluzione coniato da Henri Kissinger nel suo ultimo libro sulla Cina.

FILIPPINE – Aumenta la tensione nel Pacifico con uno degli alleati storici degli Stati Uniti, Manila, che accusa Pechino di aver sconfinato nelle acque territoriali nazionali. Già la settimana scorsa il Ministero degli Esteri aveva segnalato la presenza di tre navi della marina cinese intorno agli isolotti dell'arcinoto arcipelago delle Spratly. Insignificanti dal punto di vista territoriale sorgono su fondali marini ricchi di gas e giacimenti petroliferi che fanno gola a quasi tutte le nazioni bagnate dal Pacifico. Cina, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei si contendono i diritti di sfruttamento delle risorse energentiche con periodici scontri navali e dimostrazioni simboliche. Curiosamente proprio lo scorso novembre Stati Uniti e Filippine hanno tenuto esercitazioni congiunte simulando sbarchi anfibi in territori inospitali contro una potenza occupante.

MYANMAR – Con l'avvicinarsi della scadenza per le elezioni politiche di Aprile si fanno sempre più forti le indiscrezioni che vorrebbero Suu Kyi, leader ed eroina della Lega Nazionale per la Democrazia, parte del governo civile di Naypyidaw. La logica della cooptazione sembra l'uncia possibile affinchè l'elite militare riesca a sventare il ripetersi del crack down elettorale che nel 1990 attribui alla LND l'80% dei seggi disponibili. La legalizzazione del Partito garantita in Dicembre dal Gen. Thein Sein conferma la volontà del regime di garantire spazi politici all'opposizione che nel 2010 si ere ritirata prima delle elezioni.

MEDIO ORIENTE

IRAN – Dopo l'annuncio della produzione della prima barra di uranio arricchito al 20%, soglia per la produzione energetica in reattori sperimentali, il capo dell'Organizzazione per l'energia atomica di Teheran ha annunciato l'avvio della produzione di combustibile nucleare arricchito nello stabilimento sotterraneo di Fordow, a nord di Qom. Fereydoun Abbasi Davani ha inoltre annunciato in un incontro con alti ufficiali del regime che l'Iran è disponibile a fornire tecnologie e know how a qualunque paese sia interessato alla proliferazione nucleare, in particolare alle nazioni del continente africano ricche di uranio come Niger e Namibia. Continuano dunque le provocazioni alle politiche di disarmo e non proliferazione nucleare mentre i pasdaran hanno già programmato nuove esercitazioni nello stretto di Hormuz in febbraio, promettendo novità mai mostrate prima d'ora.

SIRIA – La Lega Araba riunitasi a Il Cairo nella serata di Domenica ha sancito la continuazione e il rafforzamento della missione dei suoi osservatori in Siria che conterà da domani 300 membri secondo il Qatar. Nell'audizione del capo degli inviati, il generale somalo Mohammed Ahmed Moustafa al-Dabi, sono emerse violazioni a tutti i punti del diktat imposto a Damasco il 26 Dicembre: repressione violenta contro proteste pacifiche, assedio di quartieri e città con blindati, segregazione dei prigionieri politici. Nonostante i ripetuti appelli del Consiglio Nazionale Siriano per l'ingresso di personalità delle Nazioni Unite nel paese la Lega Araba continua a mantenere il monopolio nella gestione della crisi, spalleggiata dal veto della Russia al Consiglio di Sicurezza. In risposta alle manovre militari della marina statunitense Mosca ha inviato una fregata e un'unità antisottomarini nel porto siriano di Tartus, dove sono stati accolti in pompa magna dai lealisti e dalla stampa locale.

IRAQ – E' giunto a 73 il conteggio dei morti in seguito ai molteplici attacchi esplosivi contro gli sciiti in seguito al tentativo del premier Nuri al Maliki, sciita anch'egli, di far dimettere due politici sunniti in seguito al ritiro delle truppe americane. Sadr City, Khadmiya, Kerbala e Nassiriya, i nomi che un tempo richiamavano i caduti della coalizione contro Saddam Hussein oggi subiscono l'ondata dell'odio fratricida tra le due fazioni dell'islam iracheno, inaspritosi durante l'occupazione straniera. Nonostante la crisi politica che dura ormai da mesi, la società divisa e terrorizzata dalla campagna di attentati la produzione petrolifera ha superato per la prima volta in vent'anni i 3 milioni di barili al giorno ed è destinata a giungere ai 5-6 mbg nel 2017. Ottime notizie per gli esportatori europei in vista del futuribile embargo sul greggio di Teheran.

Fabio Stella [email protected]

Mossa dopo mossa

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Nell’antico gioco cinese del weiqi (meglio conosciuto in Occidente con il nome giapponese di go) i giocatori si alternano a piazzare pedine su una griglia molto simile a una scacchiera. In questo gioco le pedine avversarie non sono “mangiate” come a scacchi, bensì vengono eliminate quando sono circondate, ovvero quando hanno perso ogni “libertà” di movimento. L’opportuno piazzamento delle pedine diventa così fondamentale per difendere il proprio territorio e conquistare quello avversario. È una buona metafora per descrivere la dinamica geopolitica in atto nell’Oceano Indiano e Pacifico tra USA e Cina

 

SCACCHIERA PACIFICA – Se osserviamo gli eventi di quest’ultimo anno nel Pacifico dal Mar Cinese Meridionale all’Oceano pacifico meridionale al Mar del Giappone, si ha l’impressione di essere proprio in mezzo a una partita di weiqi di dimensioni colossali, che si svolge principalmente tra gli USA e la Cina. Il recente tour del Pacifico da parte del Presidente Obama mostra come Washington si sia accorta che la scacchiera del Pacifico sia diventata un teatro di operazioni tra i più rilevanti e, come sempre più spesso si prevede tra gli analisti, possa risultare sempre più fondamentale per gli equilibri globali. Ne è una prova la recente creazione di una nuova base di 2000 marines e mezzi annessi a Darwin, in Australia, piccola pedina che fa parte di un confronto fatto di mosse e contromosse che caratterizzeranno la probabile strategia USA in questa regione del globo nel 2012 e oltre.

 

VECCHIE PERCEZIONI – Tutto parte da una semplice considerazione: con gli USA sostanzialmente padroni del Pacifico nello scorso decennio, finora non esisteva da parte loro alcun desiderio di modificare uno status quo che contribuiva a mantenere quell’area una delle meno conflittuali del pianeta. In particolare, la valutazione della minaccia delle forze armate cinesi come ancora incapaci di un confronto diretto ha fatto sempre pensare a Washington che non ci fosse alcun rischio oltre la fascia Taiwan-Mar Cinese Meridionale; proprio qui difatti erano concentrate le attenzioni USA. Tale percezione si è mostrata sbagliata nel momento in cui la Cina ha piazzato le sue prime pedine. Strategicamente cosa significa? E perché il paragone con il weiqi?

 

CONFLITTI OGGI – Teniamo conto che al giorno d’oggi un conflitto può essere vinto prima ancora di essere combattuto semplicemente convincendo l’avversario che la nostra posizione è migliore e dunque una guerra aperta avrebbe conseguenze negative. Ciò è ancora più vero se si considera la generale riluttanza delle opinioni pubbliche (e di molti leader) ad approvare conflitti al di fuori dei confini nazionali senza chiari segni di probabile successo. Come nel weiqi dunque ciò che conta è posizionare al meglio le proprie pedine per togliere spazi e libertà di manovra agli altri attori internazionali, di fatto eliminandoli come rilevanza.

 

MOSSE E CONTROMOSSE – E’ proprio questo gioco di mosse e contromosse che guida la strategia USA in quest’area. La Cina ha giocato varie pedine, come il forte programma di ammodernamento delle forze armate (v. “Il drago cinese affila le zanne” ), la politica di avvicinamento al Laos e al Myanmar e la rivendicazione delle risorse nelle acque delle isole Spratly; a queste Washington ha risposto con una strategia contenitiva di intese e accordi con Vietnam e Filippine. E’ qui però che le pedine cinesi hanno iniziato a essere posizionate in maniera più audace: dalla formulazione di accordi per basi nell’Oceano Indiano (v. “La strategia del filo di perle”) alle sovvenzioni alle Fiji (v. “Un mare…di guai” ) e all’interesse generale per il SOPAC, lo scacchiere Sud Pacifico (da SOuth PACific) che è stato teatro di gran parte dell’azione nella II Guerra Mondiale e le cui risorse naturali sono ora ambite da tutti. La tradizionale linea di difesa USA è stata infatti bypassata grazie a una strategia lenta che ha portato la proiezione dell’influenza cinese molto al di là dei confini della proiezione militare.

 

RUOLI RIBALTATI – Nessun gesto di conflitto, eppure, forse sembrerà strano a dirsi, ora gli USA si trovano strategicamente sulla difensiva, costretti a rispondere alle mosse altrui, a reagire piuttosto che ad imporre il proprio gioco. Proprio tale reazione ha portato alla costituzione della base (che servirà da centro logistico e di appoggio dei marines) a Darwin (v. “Tutto calcolato”), passo che a sua volta indica l’intenzione di una maggiore cooperazione con l’Australia, una delle maggiori potenze locali. Bisogna comprendere che in un contesto come quello del Pacifico, dove sono le distanze marine a modellare un conflitto, è l’accurato posizionamento delle basi e dei punti di appoggio (propri o di alleati) che fa la differenza. Nella II guerra mondiale i confini, seppur sparsi su migliaia di chilometri e miglia nautiche, erano regolari e portavano a una guerra definita dal concetto di “island hopping”, ovvero di conquistare terreno saltando successivamente da isola a isola. Tuttavia un ammiraglio USA o australiano che si vada a ristudiare i resoconti di allora – per quanto utili per comprendere alcuni concetti base – non dovrà farci troppo affidamento perché le capacità di movimento navali e aeree odierne sono considerevolmente maggiori e la penetrazione diplomatica è in tempo di pace molto più efficace per conquistare terreno.

 

content_968_2

COSA SIGNIFICA? – Facciamo un esempio pratico: la creazione del “filo di perle”, le basi navali nell’Oceano Indiano (tra cui una preannunciata alle Maldive, che hanno estremo bisogno dei soldi di Pechino), permetterà alla flotta cinese di potersi spostare e sostare in quella zona senza alcun bisogno di un conflitto. Tuttavia la loro presenza, che si preannuncia sul lungo periodo sempre più consistente, avrà l’effetto di spostare gli equilibri geostrategici della zona: pensate infatti che gli USA possiedono principalmente la base di Diego Garcia e che questa si troverebbe di fatto circondata e quasi isolata. Per mantenerla, Washington dovrebbe a sua volta aumentare le forze in zona e mantenerle bloccate lì, ma se la pressione cinese dovesse aumentare (grazie ad altri accordi, magari ottenendo anche una situazione di neutralità indiana) allora mantenere la sicurezza di Diego Garcia potrebbe diventare troppo complesso. E Washington dovrebbe rispondere con altre mosse, piazzando altre pedine difensivamente per proteggere Diego Garcia o offensivamente altrove per minacciare gli interessi cinesi altrove e costringere l’avversario a spostare altrove la pressione. Chi cede per primo, ovvero chi non riesce a rispondere adeguatamente alle mosse avversarie, rischia di perdere terreno.

 

OBIETTIVI – Va da sé che la strategia USA nel Pacifico deve per forza prevedere anche la necessità di riprendere l’iniziativa strategica, ovvero di riuscire a ribaltare la situazione e obbligare Pechino ad essere lei a reagire alle proprie mosse. In alternativa, gli USA continueranno a rincorrere, col rischio di trovarsi prima o poi troppo indietro soprattutto sul campo diplomatico e degli accordi economici.

 

LUNGA SFIDA – Analoghi discorsi possono essere fatti per il Mar Cinese Meridionale e il Sud Pacifico. Il tutto non ha alcun bisogno di conflitto aperto, ma semplicemente coinvolge l’accurato piazzamento di pedine attorno agli obiettivi: chi riesce a togliere ogni “libertà” all’avversario può eliminarlo (nel senso di togliergli il controllo), come in una partita di weiqi. Si tratta evidentemente di una sfida sul lungo termine, che vede impegnata una strategia lenta e costante e mosse che potrebbero dare i propri frutti solo tra anni. Soprattutto non vanno attese fughe precipitose da posizioni ritenute rischiose, perché questo comporta notevoli perdite di faccia diplomatiche. Non pensiamo che non sia possibile per la Cina una tale condotta: in Oriente le partite di weiqi durano anche giorni interi… e il gioco è praticato da più di 2500 anni. Di esperienza ne hanno da vendere e, per una volta, sarà l’Occidente a dover imparare le nuove regole.

 

Cambio al vertice

0

L’operazione cui si è appena sottoposta la Presidenta Cristina Fernández de Kirchner e la conseguente convalescenza lancia come Capo provvisorio del Governo colui che si augura di raccogliere l’eredità della dinastia Kirchner, Amado Boudou. Il Vicepresidente si trova a dirigere le operazioni in un momento particolarmente delicato, in cui verranno resi operativi i tagli alla spesa pubblica. E le prime proteste vanno già in scena

PAESE COL FIATO SOSPESO – E probabilmente non poteva essere altrimenti. Poco più di un anno dopo la morte per cause naturali di suo marito Néstor Kirchner, la notizia dell’operazione cui si sarebbe dovuta sottoporre anche la sua consorte, nonché nuovo Presidente del paese, è stata un vero shock nel paese. Tutto è andato per il meglio: la mattina del 4 gennaio è stata effettuata, con pieno successo, l’operazione chirurgica per asportare un carcinoma papillare alla tiroide. E al bollettino medico reso noto dal suo portavoce Alfredo Scoccimarro è potuta esplodere la gioia dei sostenitori della Kirchner, accampati da giorni appena fuori dall’ospedale e muniti con tanto di striscioni e immagini sacre. Il corso degli eventi è stato seguito con un’attenzione quasi spasmodica dall’intero spettro dei media argentini e non solo, in un periodo in cui l’intera regione sudamericana sembra colpita da una vera e propria maledizione: la Kirchner è infatti il sesto Presidente o ex Presidente a cadere vittima di un tumore, preceduta da Lula, Dilma Rousseff, Hugo Chavez, Fernando Lugo e Alvaro Uribe. LA REGGENZA DI AMADO BOUDOU – A fare le veci della Kirchner alla guida del paese nel periodo di inevitabile convalescenza (stimato in almeno una ventina di giorni) sarà il suo vice, Amado Boudou, che ha già fatto sapere di voler mantenere un profilo il più basso e defilato possibile. Proprio nei giorni immediatamente antecedenti il ricovero, la Presidente si è ripetutamente intrattenuta in colloqui formali con Boudou, e sebbene non siano state rilasciate comunicazioni ufficiali si vocifera che la Kirchner sia stata molto chiara nel lasciar intendere al suo vice come questi debba limitarsi a svolgere le mansioni ordinarie che la carica richiede, e a seguire alla lettera le indicazioni dei suoi più fedeli collaboratori. Ciò nel timore, neppure troppo velato, che si ripeta quanto verificatosi nel 2008, col precedente Vice, il radicale Julio Cobos, che “tradì” la Kirchner opponendosi all’aumento delle trattenute statali sulle esportazioni agroalimentari. Ecco, dunque, che per Boudou questo periodo può essere interpretato come un vero e proprio test di fedeltà verso il leader incontrastato del paese, test dal quale lo stesso Boudou ha tutto l’interesse ad uscire indenne se davvero vuole, in futuro, raccogliere l’eredità della Kirchner e presentarsi come suo successore alle prossime elezioni presidenziali.

content_967_2

TAGLI IN ARRIVO – Proprio l’inizio del nuovo anno, peraltro, segnerà l’entrata in vigore di alcune delle misure più delicate del nuovo mandato della Kirchner, vale a dire i cospicui tagli alla spesa sociale e ai sussidi, che comporteranno un sensibile rialzo delle bollette e delle tariffe dei mezzi pubblici.   Al centro del dibattito è stato in particolare il passaggio della gestione del servizio di metropolitana (foto a destra) di Buenos Aires (unica città del paese ad esserne dotata), passata proprio lo scorso 3 gennaio dal governo nazionale all’amministrazione cittadina. La prima conseguenza del trasferimento di competenze è presto detta: dimezzamento dei sussidi statali (che verranno completamente meno entro un anno) ed aumento in vista delle tariffe di un sonoro 127%, vale a dire da 1,10 a 2,50 pesos. Certo non un provvedimento che renderà felici gli 1,6 milioni di persone che quotidianamente si affidano alla metropolitana per spostarsi nell’enorme territorio della Capital Federal. Quanto all’aumento delle bollette, questo investirà interi quartieri della Capitale, considerati “benestanti” e per i quali verranno interamente tagliati i sussidi. Si parla, fra gli altri, dei famosi barrios di Belgrano, Recoleta, Palermo e Puerto Madero. Ma saranno in generale le famiglie più abbienti del paese a vedersi private di questo prezioso supporto, e a dover contare unicamente sulle proprie risorse per far fronte a tali spese. SI INVOCA LA GIUSTIZIA SOCIALE, MA INTANTO… – A difendere i tagli ci ha pensato pochi giorni fa Alicia Kirchner, Ministro dello Sviluppo Sociale (nonché sorella di Nestor), che ha spiegato come “garantire sussidi esclusivamente a coloro che ne hanno davvero bisogno è un atto di giustizia sociale da parte del Governo”. Permangono, tuttavia, forti dubbi su come l’opinione pubblica argentina reagirà a tali misure, anche alla luce di quanto avvenuto recentemente nella provincia di Santa Cruz, fortino elettorale e terra di provenienza proprio di Cristina Fernández. Qui la notizia dell’entrata in vigore di un piano fiscale di austerità per ridurre il deficit di bilancio ha scatenato la rabbia della popolazione, manifestatasi in violenti scontri con la polizia e le forze dell’ordine. Ne è seguita una vera e propria crisi istituzionale, con tanto di dimissioni di alcune figure politiche di spicco della regione. L’enorme sostegno popolare di cui gode la Kirchner, ad ogni modo, lascia ben sperare l’establishment in vista di altre e più incisive misure che possano portare finalmente stabilità finanziaria in un paese che vive una situazione ancora sin troppo fluida ed instabile. Antonio Gerardi [email protected]

Le rette parallele

0

Stato e Chiesa: un rapporto che ha rappresentato una costante ineludibile della politica, non solo interna ma anche estera, della storia italiana. In questo articolo ne ripercorriamo le tappe principali: dalla rigida opposizione del Vaticano al neonato Stato italiano dei primi decenni alla riconciliazione durante i primi anni del Fascismo, che portò alla stipula dei Patti Lateranensi, fino agli sviluppi più recenti dei papati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ecco come la Chiesa ha di volta in volta supportato oppure osteggiato le scelte della politica estera nazionale

 

UN INIZIO DIFFICILE – Nella storia dei rapporti tra la Santa Sede e l’Italia a partire dal 1861, si può individuare una prima grande fase dominata dalla “Questione Romana” (vedi “Un chicco in più”), che si conclude con la stipula dei Patti Lateranensi nel 1929. Nei primi decenni dell’Italia unita la legislazione anticlericale del governo, da una parte, e il non expedit (ovvero il divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica nazionale, stabilito da Pio IX nel 1874) dall’altra, aumentano la distanza tra il “paese reale” (il popolo) e il “paese legale” (le istituzioni). Per quanto riguarda la politica internazionale, la Santa Sede – privata definitivamente di ogni sovranità territoriale nel 1870 – è alla ricerca di una sponda europea che possa appoggiare le sue rivendicazioni. A questo proposito Leone XIII (1878-1903) mostra inizialmente di appoggiare la politica favorevole alla Triplice Alleanza espressa all’interno della Curia romana dal cosiddetto “nucleo tedesco”, guidato da mons. Luigi Galimberti. Si tratta di una politica “evoluzionista”, che mira ad ammorbidire la posizione dell’Italia facendo leva sui rapporti internazionali di quest’ultima. La fine del Kulturkampf (vedi “Un chicco in più”) in Germania è il risultato più importante di Galimberti e dei suoi collaboratori, ma con l’arrivo del nuovo segretario di Stato Mariano Rampolla del Tindaro (1887) il quadro muta radicalmente. Rampolla infatti promuove un orientamento filo-francese il cui obiettivo è lo scardinamento della Triplice Alleanza per isolare l’Italia attraverso un riavvicinamento franco-austriaco: tale politica costerà allo stesso Rampolla il “veto di esclusione” da parte dell’Austria-Ungheria al conclave del 1903, dal quale uscirà eletto il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto. Meno attivo sulla scena internazionale Pio X (1903-1914); papa Sarto si affida per gli affari più importanti alla sua segreteria particolare, la “Segretariola”, che si occupa sopratutto delle questioni relative all’Italia, dalla crisi modernista ai rapporti sempre delicati con le autorità civili.

 

GLI ANNI DELLA CONCILIAZIONE – Il pontificato di Giacomo Della Chiesa (Benedetto XV, 1914-1922) vede l’avvio di una “conciliazione ufficiosa”, che resiste alle tensioni suscitate dalla Prima Guerra Mondiale (di cui è un esempio l’esclusione della Santa Sede dalle trattative di pace, sancita dal Patto di Londra su richiesta italiana). Nel 1919 il cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri invia mons. Bonaventura Cerretti a Parigi per discutere in via preliminare e confidenziale i termini di una soluzione della Questione Romana con il presidente italiano Vittorio Emanuele Orlando. Nel 1924 il Vaticano favorisce la ratifica del Trattato di Roma tra Italia e Jugoslavia, agendo sui deputati cattolici croati e sloveni del parlamento jugoslavo attraverso il nunzio a Belgrado mons. Pellegrinetti. L’avvio del pontificato di Pio XI (1922-1939) e l’inizio della dittatura fascista non alterano radicalmente tale contesto nel quale, nonostante la tensione suscitata a più riprese dalle pretese totalitarie del regime, prendono corpo le trattative che porteranno alla conclusione dei Patti Lateranensi. Negli anni che precedono l’“accelerazione totalitaria” del regime fascista, il Vaticano condivide con l’Italia importanti indirizzi di politica estera (è emblematico in questo senso lo sforzo comune per difendere l’indipendenza dell’Austria dall’espansionismo tedesco), ma il progressivo avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista suscita reazioni molto negative Oltretevere; tuttavia la volontà di denunciare unilateralmente il Concordato, attribuita a Pio XI negli ultimi mesi del suo pontificato (contro la volontà di gran parte della Curia) e attualmente oggetto di dibattito in sede storiografica, non ha trovato ad oggi un riscontro documentario convincente.

 

content_966_2

IL DOPOGUERRA E LA DC – Durante il lungo pontificato di Eugenio Pacelli (Pio XII, 1939-1958) è il romano mons. Domenico Tardini a occuparsi più da vicino degli affari politici della Santa Sede; il bresciano Giovanni Battista Montini rappresenta invece un punto di riferimento per Alcide De Gasperi e la nuova classe dirigente democristiana, anche a seguito del precedente impegno nell’Azione Cattolica. All’indomani della fine del conflitto mondiale, la Santa Sede segue con attenzione i lavori dell’Assemblea Costituente; in materia di rapporti tra Stato e Chiesa, il Vaticano appoggia la formulazione del futuro articolo 7 (vedi “Un chicco in più”) proposta da Giuseppe Dossetti, anche se guarda con sospetto l’appoggio che si profila all’orizzonte a questo proposito da parte del PCI di Togliatti. Il giudizio sulle vicende italiane fa emergere alcune differenze tra le due anime della segreteria di Stato di Pio XII: mentre Montini sostiene l’unità politica dei cattolici nella DC, Tardini è più cauto, non disapprovando a livello di principio un pluralismo di posizioni ma escludendo aperture a sinistra; entrambi, in ogni caso, sono contrari al blocco cattolico-conservatore prospettato da Luigi Gedda nel 1947. Anche l’ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica suscita opinioni discordanti: Tardini è piuttosto contrario, ritenendo preferibile per l’Italia una posizione internazionale di neutralità e temendo soprattutto un coinvolgimento della Santa Sede; Montini si esprime invece in senso favorevole, confermando la sua vicinanza a De Gasperi. Anche Pio XII, nonostante le iniziali perplessità, decide infine di approvare la scelta atlantica dell’Italia. I pontificati di Giovanni XXIII (1958-1963) e Paolo VI (1963-1978) attraversano anni cruciali per la Chiesa italiana: l’ottimismo suscitato dal Concilio Vaticano II (1962-1965) deve fare i conti con una fede sempre meno praticata e vissuta in ampi strati della popolazione, mentre cresce l’insofferenza di parte del clero e del laicato per il magistero pontificio, evidente nel caso dell’enciclica Humanae vitae (1968). Papa Montini interviene nelle questioni italiane attraverso la Segreteria di Stato e altri canali: negli anni in cui viene introdotta la legge sul divorzio e si inizia a discutere di una revisione del Concordato, il papa si confronta a più riprese con il segretario della CEI mons. Enrico Bartoletti, con il quale l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede Gian Franco Pompei elabora una prima bozza del nuovo Concordato.

 

WOJTYLA E RATZINGER: GLI ULTIMI SVILUPPI – Il maggiore protagonismo della Conferenza Episcopale contraddistingue i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia nel pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), a partire dall’accordo-quadro del 1984, che fa della CEI il soggetto competente a trattare con le istituzioni italiane in diverse materie, tra cui i beni culturali e il finanziamento pubblico alla Chiesa cattolica. Nel confuso quadro generato dalla “fine della Prima Repubblica”, con la diaspora politica dei cattolici che ne è conseguita, le istituzioni italiane trovano nella CEI del cardinale Camillo Ruini un interlocutore privilegiato. Con Benedetto XVI la situazione appare meno definita: in un’importante lettera al presidente della CEI Angelo Bagnasco (25 marzo 2007) il segretario di Stato Tarcisio Bertone ha infatti rivendicato implicitamente un ruolo più attivo per sé nei rapporti con le autorità civili. L’attuale crisi economica e politica, che ripropone il problema del ruolo dei cattolici nell’arena pubblica (i cui termini sono stati lucidamente evidenziati dal cardinale Bagnasco a Todi, il 18 ottobre 2011), darà sicuramente vita a nuove occasioni di confronto.

 

Paolo Valvo

Un nuovo inizio

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – L’anno si apre con una conferma: il mondo non è più lo stesso di alcuni anni fa. La supremazia degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali è ormai destinata a declinare, di pari passo con il peso crescente di attori importanti come Cina e Brasile. Una nuova ridefinizione delle “regole del gioco” mondiali ci sembra dunque che dovrà essere una prioritaria nell’agenda dei prossimi anni. Per quest’anno, la paura della recessione e della crisi economica dovranno indurre ad una presa di coscienza che il mondo è cambiato, primo passo verso la definizione di una nuova governance

 

UNA PROFEZIA SBAGLIATA – E meno male che qualcuno aveva parlato di “fine della storia”. All’inizio degli anni’90 il politologo statunitense Francis Fukuyama aveva utilizzato questa espressione per sintetizzare ciò che sarebbe accaduto con il crollo dell’Unione Sovietica e il termine della Guerra Fredda: gli Stati Uniti, seguiti dalle altre potenze occidentali, avrebbero prevalso inesorabilmente nei rapporti di forza mondiali. Fine della storia, appunto. L’ultimo decennio del secolo scorso ha effettivamente seguito questo copione; tuttavia le cose, con buona pace di Fukuyama (il cui intento era comunque anche provocatorio) hanno poi iniziato a seguire una traiettoria ben diversa. La prima “doccia fredda” è stata rappresentata dalla data cruciale dell’11 settembre 2001: un evento dall’altissimo significato simbolico, oltre al quale si è andata costruendo in questi anni una nuova realtà globale. Dallo stretto bipolarismo Washington – Mosca si sta giungendo sostanzialmente ad uno schema multipolare, attraverso il passaggio dal modello “1 +” (dominato dagli USA con alcuni attori di peso minore) e “2 +” (con la Cina che, seppur non ancora a livello economico, sta affiancando gli Stati Uniti come influenza e rilevanza geopolitica in numerosi scenari mondiali).

 

UN NUOVO ORDINE MONDIALE – E’ chiarissimo ormai che in questi anni si sta determinando un processo molto fluido di redistribuzione del potere globale. La Cina, da tempo seconda economia mondiale, ma anche altri importanti attori come Brasile, Russia e India (per intenderci, coloro che compongono l’ormai famosissimo acronimo BRIC) stanno progressivamente colmando il gap rispetto alle potenze occidentali. Le due crisi, dapprima quella finanziaria del 2007/2008 e poi quella del debito pubblico del 2010/2011, hanno accentuato questo processo, indebolendo USA e Unione Europea a vantaggio di queste potenze emergenti. Un modo per capire in termini quantitativi l’evolversi di questa dinamica è guardare alla posizione finanziaria internazionale dei Paesi emergenti: si possono fare scoperte molto interessanti, come per esempio il fatto che i Paesi sviluppati non sono – o non saranno più – creditori netti di quelli in via di sviluppo, ma stanno diventando loro debitori. L’aumento esponenziale dei debiti pubblici ha infatti accelerato questo “capovolgimento nella finanza globale”, come ha ben spiegato l’economista Eswar S.Prasad in un recente articolo. In particolare, la tendenza che si sta verificando è un accumulo di riserve di valute straniere “forti” (ovviamente soprattutto dollari statunitensi), mentre dal lato delle passività – quindi, per intenderci, di deflussi di capitali – ha avuto luogo una netta riduzione dell’indebitamento pubblico a vantaggio della crescita degli Investimenti Diretti Esteri (intesi come afflusso di capitali dall’esterno). Questa tendenza, per dare un esempio chiaro, è comune a tutti i Paesi che formano il gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e rappresenta un netto miglioramento della posizione finanziaria di uno Stato nei confronti del resto del mondo. Cina e Brasile, ad esempio, sono tra i maggiori detentori di dollari al mondo e hanno un rapporto debito/PIL decisamente più basso e sostenibile rispetto alle potenze occidentali oggi in difficoltà. Il debito del Brasile ammonta al 50% del Prodotto Interno Lordo e il governo di Dilma Rousseff ha l’obiettivo di diminuirlo sensibilmente entro il termine del mandato. Nel 2007 le economie emergenti contavano per il 25% del PIL mondiale e per il 17% del debito. La prospettiva per il 2016 è che questi Stati rappresentino il 38% del PIL e appena il 14% del debito.

 

content_965_2

…E UNA NUOVA GOVERNANCE? – Se il denaro comincia a invertire la direzione del proprio flusso, è evidente che le relazioni internazionali non potranno più essere le stesse degli anni ’90. Due sembrano le parole chiave che possono “immortalare” questo processo: interdipendenza e multipolarità. In altre parole, nel breve-medio periodo i rapporti tra le potenze mondiali saranno sempre più su livelli di parità e di reciproco confronto, meno probabile appare in questa fase un’accelerazione sulla conflittualità. Se la Cina possiede un’enorme quantità di riserve in dollari essendo il primo “azionista” del debito pubblico statunitense, difficilmente la nuova élite di Pechino (a fine anno Xi Jinping e Li Keqiang dovrebbero subentrare a Hu Jintao e Wen Jiabao) cercherà lo scontro con Washington nei prossimi mesi o negli anni strettamente seguenti. Che fare allora per garantire una nuova e maggiore governabilità delle relazioni internazionali? I sistemi attualmente in uso appaiono quantomai obsoleti e inadeguati. Il processo decisionale del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non risponde più da tempo all’attualità delle forze in gioco, così come le varie sigle G-7 e G-8 sono ormai vuote e anche formalmente errate (se venisse davvero rispettato il criterio dell’importanza economica, l’Italia dovrebbe essere fuori e nella membership dovrebbero entrare Cina e Brasile). Anche il G-20 (foto a destra) si è dimostrato un semplice forum di discussione senza capacità di incidere sull’efficacia di prendere decisioni collettive e davvero vincolanti. Una proposta interessante è quella formulata dall’economista di Harvard Dani Rodrik, che nel suo ultimo libro “La globalizzazione intelligente” mette a nudo i problemi dell’architettura delle relazioni internazionali sottolineando l’esistenza di una “trilemma politico dell’economia mondiale”. Secondo Rodrik le esigenze di iperglobalizzazione, mantenimento della democrazia e conservazione dello Stato nazionale, sono inconciliabili. Quindi, saranno realizzabili soltanto a due a due e qualunque scelta venisse fatta dovrebbe rinunciare ad uno dei tre elementi (vedi nel chicco in più).

 

L’ANNO CHE VERRA’ – Il 2012 sarà un anno cruciale per le sorti dell’economia mondiale. L’interdipendenza cui si è accennato sopra non renderà immuni i Paesi emergenti da un eventuale tracollo dell’Euro o da una nuova crisi negli Stati Uniti: per questo, dovrebbe essere nell’interesse di tutti collaborare per salvare l’economia da una vera e propria catastrofe. Un aumento della dimensione della cooperazione potrebbe iniziare a gettare le basi per una nuova “Bretton Woods”, l’inizio di un processo che ristrutturi la gestione dell’economia globale. Si tratta di un processo molto lungo e che molto difficilmente si svolgerà quest’anno; tuttavia la prima fase, quella della presa di coscienza che il mondo è cambiato, dovrà avvenire il prima possibile.

367 giorni dopo

0

Cronaca di una profezia di Capodanno avverata, altro che i Maya. E al di là degli aneddoti, ecco qui il lancio ufficiale del primo speciale del Caffè nel 2012: zaino in spalla e tutti a bordo, si torna a girare il mondo insieme. Ecco come

 

31 dicembre 2010. La classica comitiva dell’ultimo dell’anno, nella dimora del benefattore di turno del gruppo, accogliente e quasi orgoglioso di rendere disponibile la propria casa, sino a quando gli ultimi ospiti, sul far del mattino, salutano, ringraziano e se ne vanno, lasciando il malcapitato padrone di casa solo con decine di colonne di piatti da lavare, manco fosse un tempio greco.

La solita comitiva, dicevamo. Tavola imbandita, amici di sempre e la classica coppia che non vedi mai se non in queste occasioni. Confusione, musica, grandi discorsi e solite chiacchiere da bar, che sfilano via tra svariati antipasti e diverse bottiglie di vino. Gli uomini, tra di loro, a parlare delle grandi tematiche dell’universo. Le donne, tra di loro, a commiserare gli uomini che sembra stiano decidendo i destini dell’umanità, e invece parlano solo di donne e calcio.

Tra una portata e l’altra, tra un bicchiere e l’altro, emergono sogni e speranze per l’anno che viene: chi parla del principe azzurro e chi della donna che gli farà mettere la testa a posto, chi parla di matrimonio e chi semplicemente di trovare un lavoro, chi vuole uscire dal precariato e chi al primo posto mette scudetto e Champions. Poi, passato il conto alla rovescia, la mezzanotte, lo spumante, i botti, lo zampone e le lenticchie, più o meno nell’attimo in cui qualcuno propone qualche gioco di società, arriva sottile quel filo di malinconia, tipico del momento di festa che sta per volgere alla conclusione. È quello il momento dei geopolitici: le relazioni internazionali da ultimo dell’anno sono le più entusiasmanti, permettono di non essere troppo analitici e di rivoluzionare il mondo in due-tre scenari, altro che risiko. Ebbene, eccoli lì, quelli del Caffè, ad immaginarsi il mondo che verrà nel 2011. E tra questa e quella novità clamorosa, emerge uno scenario tra i più rivoluzionari: “Pensate a un mondo veramente diverso. Pensate a un mondo senza più cattivi, come potrebbe davvero cambiare. Prendiamone tre a caso: Gheddafi, Kim Jong Il, e lui, il numero uno, Bin Laden. Ecco, come col genio della lampada, nel nuovo anno esaudiamo tre desideri e facciamoli sparire. Cosa succederebbe? Sarebbe un mondo migliore?”.

 

Fine del flashback. Trecentosessantasette giorni dopo. È andata proprio così, la chiacchiera delle tre del mattino si è avverata. Vi sareste mai immaginati, un anno fa, di ritrovarci un anno dopo senza questi tre personaggi? Assolutamente no, ovviamente. Difficile però ora dire: siamo in un mondo migliore. Com’è complicato raccontare quanto accade nel mondo. Non basta far fuori il cattivone, come in un western che si rispetti o il solito thriller americano di stagione. Quanti scenari, quante situazioni, quanti aspetti da considerare e particolari da cogliere. È difficile raccontare, è ancor più difficile prevedere. All’inizio del 2012, vogliamo però provare a vedere com’è questo mondo adesso, con le sue difficoltà, le sue crisi, le sue opportunità, le sue tragedie, le sue occasioni di crescita. Per questo, anche quest’anno, desideriamo invitarvi nuovamente a viaggiare con noi, nel nuovo speciale che parte oggi: “Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012”. Non abbiamo certo la pretesa di dirvi: “Ecco quello che succederà”. Vogliamo però analizzare diversi scenari, raccontando la situazione attuale e segnalando questioni e tendenze su cui porre particolare attenzione nei dodici mesi che arrivano. La partenza è fissata per oggi: prima tappa, Israele e le sue problematiche interne. Nel prossimo mese, poi, gireremo il mondo intero. Se volete, allora salite a bordo, c’è posto per tutto voi. E buon viaggio!

 

Alberto Rossi

La minaccia arriva dall’interno

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Se si chiede a un esperto quale sia il maggior pericolo per Israele nel 2012, l’attenzione verrà rivolta verso l’Iran, il suo programma nucleare e i suoi alleati Hezbollah, o verso la possibilità di conflitto con le formazioni nella Striscia di Gaza come Hamas e la Jihad islamica, o ancora nei rapporti con l’ANP e la questione dei coloni. Sono problemi effettivi, tuttavia un altro pericolo può colpire Israele dall’interno

 

LAICI VS ULTRAORTODOSSI – Una bambina insultata pesantemente da adulti mentre va a scuola perché, pur coperta con pantaloni lunghi e maglietta a maniche lunghe, viene accusata di essere vestita in modo impuro. Donne a cui è richiesto di camminare nel lato della strada opposto a quello degli uomini e che devono sedere nei sedili posteriori di un bus. A sentire queste – e altre simili – notizie si potrebbe pensare che si stia parlando di Talebani o Iran o un altro paese islamico: siamo invece in Israele. Abbiamo già citato i contrasti esistenti tra esercito – e dunque l’amministrazione centrale – e coloni (v. articolo Israele contro Israele), ma esso non è l’unico campanello d’allarme che nel 2011 ha risuonato a ricordare al paese le sue contraddizioni.

 

DIVISIONI – La disputa tra laici e ultraortodossi infatti ripropone la grande divisione della società israeliana, spesso a torto immaginata come estremamente coesa. Sicuramente esiste una forte unione e sentimento nazionale di fronte alle minacce esterne, ma questo stato di fatto non si estende poi ad altri ambiti della società. Così, di fronte a proteste laiche come il boicottaggio dei suddetti bus discriminatori rispondono gli ortodossi con bambini con la stella di Davide gialla sul petto a indicare accuse di nazismo, a cui si replica con accuse opposte di agire come gli Ayatollah.

 

FACCIAMO UN PASSO INDIETRO – Quando Israele venne fondato nel 1948, venne creata una legge per favorire l’immigrazione (aliyah) non solo di laici ma anche di ebrei ortodossi e ultraortodossi che, oltre ad aumentare il peso demografico, potessero contribuire a reintrodurre importanti elementi della tradizione ebraica nel nascente stato. Tali privilegi garantivano agli haredim (studenti di teologia, di fatto gli ultraortodossi) la possibilità di dedicarsi unicamente alla pratica religiosa; si trattò perciò di esenzione dal servizio militare (salvo personale volontà di servire comunque), esenzione dalle tasse, possibilità di non lavorare e di ricevere sovvenzioni statali – una sorta di stipendio – crescente a seconda del numero di figli fino a un massimo di tre. Agli inizi tali concessioni apparivano minori, anche considerando gli scarsi numeri coinvolti – appena qualche centinaia di haredim nei primi anni. Tuttavia con il passare degli anni e dell’immigrazione la popolazione ultraortodossa è sensibilmente cresciuta fino ad arrivare a circa 700.000 persone (circa il 12% della popolazione totale), mentre i privilegi sono rimasti gli stessi.

 

IMPOSIZIONI – Non deve sorprendere quindi come gran parte della popolazione laica giudichi con crescente ostilità una parte della società che vede come non produttiva e che vive per le sovvenzioni statali senza un’adeguata contropartita. Non solo: come molti altri esponenti ultraconservatori anche di altre religioni, gli haredim puntano a modellare l’intera società secondo le proprie convinzioni, avendo oggi una maggiore influenza numerica. Si è infatti verificata una progressiva espansione delle aree abitate dagli ultraortodossi che soprattutto in alcune zone di Tel Aviv e di Gerusalemme sono impegnati nel tentativo di estendere le proprie regole anche ai cittadini laici. Solo recentemente però si è osservato un più vasto movimento di protesta verso queste espressioni.

 

content_963_2

IDF DIVISE – Se il rischio di scontri tra religiosi e laici appare pericoloso per il paese, lo è ancora di più quando si osserva la situazione nelle forze armate. Le IDF (Israeli Defense Forces) contengono tra i ranghi numerosi rabbini militari – equivalente dei nostri cappellani militari – che tuttavia, oltre a curare la salute spirituale dei soldati, tendono a voler modellare anche le loro pratiche di vita e operative. Alcuni esempi sono:

 

–          la richiesta di maggiore segregazione tra uomini e donne (anche laici), il cui comportamento, incluso il canto dell’inno nazionale davanti alla bandiera, viene giudicato sconveniente se eseguito di fronte a colleghi di sesso maschile. Da notare che già esistono intere unità, come una compagnia nella Brigata Nahal, per soli haredim, permettendo così a quegli studenti di teologia che lo vogliono di poter servire l’esercito in ambiti “protetti”.

–          il richiamo a una maggiore ostilità verso i palestinesi, incluso l’invito a rifiutare di obbedire a ordini contro i coloni.

–          il tentativo di influenzare la promozione di ortodossi e coloni in posizioni di responsabilità nell’esercito e nella polizia territoriale.

 

CHI COMANDA? – L’intera questione ovviamente preoccupa il comando israeliano, come ha fatto notare un rapporto del 23 Giugno 2011 da parte del Generale Avi Zamir (foto a destra), capo dell’ufficio organico e personale delle IDF: la radicalizzazione religiosa delle IDF potrebbe finire per intaccare l’efficienza e l’immagine di esercito del popolo. Il rischio è che si stia cercando di creare una sorta di catena di comando parallela che porti sempre più truppe a obbedire prima ai rabbini e alle regole religiose piuttosto che al comando. Il tutto con un rischio ulteriore: se dovessero rendersi necessari ordini controversi, come la rimozione in massa di molte colonie o la protezione di villaggi palestinesi, come reagirebbero le unità più influenzate? Obbedirebbero o diserterebbero? Per ora il dialogo tra lo stato maggiore delle IDF e il Rabbinato Militare appare cordiale e il Rabbino Capo militare Rafi Peretz si è visto d’accordo con il Capo di Stato Maggiore Benny Gantz nel condannare ogni discriminazione nei confronti delle donne; tuttavia non è detto che tutti i rabbini – o anche solo i singoli soldati – si sentano obbligati a obbedire se questo va contro i dettami di altri rabbini civili considerati più influenti.

 

Lorenzo Nannetti

Tutti in Birmania

0

Gli interessi geopolitici di Pechino e Washington si stanno dirigendo verso l’ex Birmania, un Paese che fino a poco tempo fa era uno dei più isolati al mondo a causa delle sanzioni internazionali imposte a causa della dittatura militare che la governa. Quali sono le cause di questo rinnovato interesse? La Cina vede Myanmar come un avamposto importante per aumentare la propria influenza verso Ovest, mentre gli Stati Uniti hanno l’obiettivo di accrescere la presenza nell’area Asiatica e Pacifica

 

IL RITORNO DI WASHINGTON – Gli Stati Uniti “tornano” nel Pacifico. Obama ha annunciato una svolta strategica che potrebbe marcare un netto distacco con la prima decade del nuovo millennio. Fermo restando che il Medio Oriente resta un’area di primo piano, Washington non può ignorare L’Asia emergente. Per il meglio o per il peggio, il Pacifico va assumendo un peso sempre più grande nelle relazioni internazionali e molti sono convinti che sarà soprattutto qui che si combatteranno le sfide future. Proprio per questo gli Stati Uniti cercano di cementare la loro –già solida- presenza in Asia. Ciò che serve sono alleati politici, partner economici e, last but not least, un rinnovato appoggio militare. Recentemente, infatti, è stata annunciata la costruzione di una base di marines in Australia (e non in un’area qualsiasi, ma sulla punta più settentrionale del Paese, di fronte al Mar Cinese Meridionale) ed è stato varato un ampio progetto di cooperazione economica nel Pacifico. Anche se i fini strategici di lungo periodo non sono ben definiti, è chiaro che il convitato di pietra al tavolo politico trans-pacifico è stata la Repubblica Popolare Cinese. Irritata dai marines e de facto esclusa dal progetto di integrazione commerciale per mezzo di paletti economici. E’ in questo quadro generale che va ad inserirsi la recente visita di Hillary Clinton in Myanmar. L’ultima volta che un segretario di stato americano si era recato in quella terra correva l’anno 1955 e il segretario in questione era Foster Dulles. Alcuni decenni più tardi, come conseguenza della crisi politica degli anni ottanta, il Paese si trovò isolato in diplomazia e sanzionato dall’Occidente. Da allora la crisi economica lo ha reso uno dei Paesi più poveri dell’Asia. Un paria per la comunità internazionale, il regime ha finito così per avvicinarsi sempre di più a Pechino.

 

GLI INTERESSI DI PECHINO – Se per il Myanmar i vantaggi della cooperazione con la Cina sono quasi scontati, bisognerebbe forse chiedersi cosa guadagni Pechino da questo rapporto. Innanzitutto, va osservato come il governo cinese sia incline a mantenere buoni rapporti con tutti i paesi vicini, almeno finché questi non trasgrediscono alcune semplici regole (come per esempio il divieto di ficcare il naso nella questione di Taiwan). Essi costituiscono un mercato per l’export e una fonte di materie prime. Allo stesso tempo, il buon vicinato è funzionale alla dottrina della cosiddetta “ascesa pacifica” cinese. Niente più guerre e guerriglie, “solo business” è diventato il mantra di Pechino. Una formula che ha dato i suoi frutti, anche se non ha risolto tutti gli attriti. Nel caso del Myanmar, tuttavia, c’è di più. La Birmania non è semplicemente convivente nel condominio asiatico, ma un Paese con una posizione strategica e grandi ricchezze naturali. Costituendo la barriera naturale che divide il golfo del Bengala dal Mar Cinese Meridionale, si colloca alla confluenza di due aree essenziali per gli sviluppi geopolitici dell’Asia futura. Una Birmania con una situazione politica stabile e sufficienti investimenti in infrastrutture potrebbe divenire un ponte per collegare la Cina meridionale all’India nord-occidentale. Offrirebbe così un’importante via commerciale, da valutare anche alla luce della campagna “go West” lanciata da Pechino per promuovere lo sviluppo delle aree più povere dell’entroterra cinese. Particolarmente interessante, da questo punto di vista, è la costruzione di un oleodotto che trasporterà il greggio dall’isola di Maday fino alla provincia dello Yunnan. L’appalto per la costruzione è stato vinto dalla China National Petroleum Corp che con con questo progetto contribuirà ad un passo avanti sia in senso economico che strategico. La Cina, infatti, è favorevole ad una diversificazione delle vie di importazione che rendano più veloce e sicuro il trasporto delle risorse energetiche verso i suoi centri industriali. L’oleodotto birmano, bypassando lo Stretto di Malacca, aiuterà ad evitare pirati e marina americana.

 

content_962_2

IMPLICAZIONI MILITARI – Ci sono poi gli aspetti militari della questione. L’establishment politico cinese nega fermamente di avere piani espansionistici in tema di marina militare. E’ un dato di fatto, però, che l’ammodernamento delle forze armate cinesi stia procedendo con rapidità. Non solo, ma la recente inaugurazione della prima portaerei cinese –che sarà seguita da altre due nei prossimi anni- fa pensare che la Cina stia progettando una flotta d’alto mare, in grado di influire efficacemente su eventi ben al di là delle coste nazionali. In uno scenario simile, il Myanmar sarebbe un valido appoggio verso l’Oceano Indiano e il Medio Oriente. Secondo quanto riporta uno studio del College of International Relations presso la Ritsumeikan University in Giappone, stazionando truppe e navi sulle coste occidentali della Birmania, la marina cinese risparmierebbe fino a 3000 miglia di viaggio. Lo stesso studio sottolinea come la connessione di infrastrutture portuali con eventuali infrastrutture di trasporto terrestri potrebbe avere “serie implicazioni a livello di sicurezza non solo per l’Indonesia, la Thailandia e l’intero ASEAN, ma anche per gli interessi strategici di India, Giappone e Stati Uniti”.  Infine, ci sono fattori di stabilità locale. La Cina condivide un lungo confine con il Myanmar. E non uno particolarmente facile da gestire. Il governo centrale birmano è stato per decenni in conflitto con le etnie che abitano il nord del Paese, e tuttora non ha il pieno controllo di vaste regioni settentrionali (recentemente la tregua stabilita con l’esercito di liberazione dei kachin è giunta al termine e si è ricominciato a sparare). Per di più, con la liberalizzazione economica in Cina, il fermento economico transfrontaliero è dilagato, e oggi esistono numerose attività economiche, legali e non, sulla linea di confine.

 

PERCHE’ GLI USA – Alla luce di quanto detto, non può stupire che il rapporto fra Pechino e la capitale del Myanmar Naypyidaw abbia un’importanza speciale nel sud est asiatico. E che, come conseguenza, lo abbia anche per gli Stati Uniti. Molto probabilmente è qui che vanno cercate le ragioni che hanno portato alla storica visita. Per l’occasione, Hillary Clinton si è presentata con la promessa di non ostacolare gli investimenti delle Nazioni Unite e del Fondo Monetario Internazionale in materia di assistenza sanitaria e di supporto alle piccole imprese del Myanmar. Naypyidaw è stato anche invitato ad entrare a far parte della “Lower Mekong Initiative”, un programma sponsorizzato dagli Stati Uniti per offrire consulenza sulla gestione del bacino del Mekong. Sullo sfondo rimane la rimozione delle sanzioni economiche, un impegno sul quale il Segretario di Stato americano non si è compromesso eccessivamente. “Non siamo ancora arrivati al punto di considerare l’eliminazione delle sanzioni perché abbiamo ancora delle preoccupazioni riguardanti alcune politiche che devono essere sospese. Ma qualsiasi passo che sarà intrapreso dal governo sarà considerato attentamente” ha dichiarato la Clinton. Insomma, una bella carota da inseguire per Thein Sein. Benché gli scopi ultimi della presenza americana non siano stati espressi chiaramente, è impossibile avere dubbi sul valore strategico di una Birmania aperta all’Occidente vis-à-vis l’avanzata cinese. In questo modo il Paese sarebbe sottratto all’influenza esclusiva di Pechino e la Cina sarebbe privata dell’appoggio di un potenziale alleato. Forse non è un caso che solo pochi mesi fa Naypyidaw abbia di colpo sospeso la costruzione della diga di Mytsone sull’Irrawaddy. Thein Sein aveva per l’occasione usato termini in precedenza sconosciuti alla politica birmana. Il progetto non poteva andare avanti perché “contrario alla volontà del popolo”, aveva dichiarato il presidente. Parole tanto inusuali quanto dolci per l’opinione pubblica occidentale, che certo non sarebbe contenta di vedere i propri governi andare incontro a dittatori vari (se prima non si togliessero la giacca con gradi e greche). Non c’è prova che il collegamento esista, ma la tempistica fa sospettare che sia stato un prezzo da pagare, al pari del rilascio dei prigionieri politici detenuti nelle carceri birmane, per spianare la strada a Hillary.

 

I RISCHI DI UN NUOVO VIETNAM? – Per ora la risposta cinese è stata guardinga e sottotono. A pochi giorni di distanza, il 6 dicembre, il presidente Hu Jintao ha dichiarato che “la marina militare cinese deve prepararsi per la guerra”. Una frase che è sembrata ovviamente rivolta agli sviluppi del Mar Cinese Meridionale e alla politica americana verso il Myanmar, ma niente è stato specificato e, a parte questo, non ci sono state eclatanti prese di posizione. Il “GlobalTimes” ha poi scritto che tali dichiarazioni non sono per nulla eccezionali, specialmente per un paese in via di sviluppo. D’altra parte, gli Stati Uniti per primi hanno negato che il nuovo corso riguardi la Repubblica Popolare. Se un alto ufficiale cinese avesse apertamente attaccato la politica americana si sarebbe potuto creare un caso internazionale, ammettendo apertamente che si gioca per il controllo di un’area strategica. Meglio invece mantenere il segreto di Pulcinella a livello istituzionale e lasciare che siano i giornali a raccontare i retroscena.    Fare previsioni sarebbe quantomeno azzardato, ma, anche senza essere Sibille, qualcosa si può immaginare. Godendo di nuovi legami politici il Myanmar sarà forse capace di ritagliarsi qualche spazio per ottenere favori economici da un lato e dall’altro. Un gioco che difficilmente un Paese povero e bisognoso di sviluppo non vorrebbe giocare. Ma, se la storia ci ha insegnato qualcosa, forse è il caso di non lasciarsi prendere da eccessiva euforia. Qualora il gioco dei giganti dovesse prendere una brutta piega, la Birmania, divisa fra i pretendenti, potrebbe avere un futuro cupo. Vietnam docet.

 

Michele Penna

[email protected]

Maya o non Maya…

0

…questo 2012 ha tutte le premesse per essere un anno cruciale per il futuro di tante parti del mondo. Noi del Caffè vogliamo accompagnarvi nei prossimi giorni in un viaggio speciale per scoprire insieme quali sono le sfide, gli appuntamenti, le situazioni, gli scenari da tenere d'occhio nei prossimi 12 mesi. Insomma, tutto è pronto per partire con il nostro outlook 2012, Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2.0! Le vacanze in redazione sono agli sgoccioli…godiamoci i festeggiamenti oggi e domani, e poi si parte! Nel frattempo, ovviamente, tantissimi auguri a tutti voi…buon 2012!!

blank