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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Le mille tessere del puzzle

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – Dieci mesi di rivolte e più di 5.000 vittime civili accertate dalle Nazioni Unite. Questi sono i dati più allarmanti di un Paese ancora lontano da una possibile pacificazione. Uno scenario complicato dalla mancanza di volontà del Presidente Bashar al-Assad di abbandonare il potere e dall'importanza strategica della Siria nello scacchiere mediorientale. Damasco si trova a dover affrontare una nuova rivolta – diversa nel contesto e nelle motivazioni dalla precedente del 1982 – che mina la stabilità nazionale interna e regionale. Ogni variabile sembra essere la tessera di un puzzle complicatissimo

IL CAOS INTERNO E LA PAURA DEL TERRORISMO – La rivolta siriana, nata come rivolta sociale dei contadini contro il regime per la democrazia, ha sempre più assunto negli ultimi mesi la forma di una rivolta sunnita o guidata dai sunniti contro l'establishment alawita. Le principali piazze coinvolte sono state Homs, Hama, Dara'a, Banyas, Iblid, Dair az-Zor, Latakia, Qamishli, Aleppo e la stessa Damasco, in cui recentemente le proteste sono aumentate e sfociate in vere e proprie rivolte armate. Pur in un momento di gran difficoltà, il regime ha il vantaggio di trovarsi contro un' opposizione molto variegata e poco coesa: dalla resistenza locale guidata dai Fratelli Musulmani e dai curdi nelle città del Nord, passando per il Free Syrian Army, attivo ai confini con la Turchia, e per il Consiglio Nazionale Siriano (CNS) presieduto da Burhan Ghalioun e ospitato ad Istanbul ad, infine, il Comitato di Coordinamento Nazionale (CCN) guidato da Hassan Abdul Hazim. In particolare, gli attriti tra le ultime due sigle rendono di fatto le opposizioni litigiose e poco unite fornendo, perciò, un elemento di protezione al regime. Questa situazione di frammentarietà e complessiva destabilizzazione, fa si che la Siria possa somigliare sempre più al vicino iracheno. Un chiaro esempio di ciò sono gli attentati kamikaze del 23 dicembre e del 6 gennaio scorso a Damasco. L'esplosione di due autobombe ha prodotto diverse decine di morti e centinaia di feriti civili. La tipologia degli attacchi è molto simile a quella attuata in Iraq e, anche se il governo ha attribuito le responsabilità ad al-Qaeda, nessuna sigla del network terroristico ha mai rivendicato la paternità degli attentati. Questa ipotesi è stata smentita con prontezza anche dalle cosiddette “Brigate di Abdullah Azzam”, gruppo terroristico legato ad “al-Qaeda”, attivo soprattutto nel Sud del Libano, ritenuti coinvolti nei recenti eventi. Inoltre numerosi giornalisti (come l’italiano Lorenzo Trombetta), analisti e attivisti hanno messo in dubbio la veridicità della versione del governo: le immagini, le ferite e i corpi non sembrano compatibili con il tipo di esplosione e si moltiplicano le accuse al regime di aver fabbricato ad arte l’evento o di essere esso stesso dietro agli attentati. Essendo impossibile una verifica indipendente sul posto nessuna versione può essere verificata, tuttavia l’establishment alawita ha ripetutamente alimentato lo spauracchio qaedista, spiegando come l’instabilità del Paese sia da imputare “all’opera di poche centinaia di criminali e terroristi, al soldo di forze straniere che tenterebbero di rovesciare un governo legittimo”. I dubbi contribuiscono però a ridurre l’efficacia di questo tipo di messaggio.

CONFUSIONE ANCHE SUL FRONTE REGIONALE – Tra alleati che scarseggiano e sempre più nemici alle porte, il regime di Damasco si ritrova sempre più isolato nel delicato puzzle di alleanze politiche regionali. Allo stato attuale, solo Iran ed Hezbollah in Libano supportano, indefessamente, il regime alawita. Uno ad uno, e in base ad una serie di motivazioni politiche di varia natura, gli alleati del calibro di Hamas, della Turchia, della Cina e della Russia stanno sempre più smarcandosi dallo scomodo appoggio a Damasco per supportare, piuttosto, un regime change il meno cruento possibile. In particolare, Pechino e Mosca, sebbene abbiano posto un veto alla possibilità di introdurre “misure mirate” contro il regime di Assad – tra queste erano contemplate sanzioni economiche e/o interventi di tipo militare, come ad esempio una “no fly zone” sullo stile libico –, sarebbero disponibili ad un cambio al vertice per evitare possibili nuovi casi “Libia” in un’area tradizionalmente strategica per entrambi. Il Cremlino sta in effetti cercando di convincere Assad a cedere il comando a Faruk al-Shaaral, Vice Presidente siriano. Medesimo ragionamento viene portato avanti anche da Ankara che, riconoscendo la legittimità dell'opposizione, è sempre più intenzionata ad ergersi quale modello regionale, anche a costo della rottura con la Siria. Tuttavia, i rischi connessi con un regime change sono elevati e potrebbero dal luogo a “nuovi” conflitti armati nella regione. D'altra parte, non è escluso che l’attuale crisi possa degenerare in una vera e propria guerra civile che riprodurrebbe in Siria lo scenario iracheno del dopo Saddam Hussein, con ripercussioni per l’intera regione.

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I TIMORI DI UN’ALTRA “LIBIA” – Anche l'opzione-intervento armato per ora sembra esser scartata dalla Comunità Internazionale, in Siria più che in Libia, a causa degli alti rischi in termini stabilità e sicurezza. Infatti, sia gli USA, sia i Paesi arabi stanno attuando una serie di ritorsioni economiche,  nella speranza che nel breve periodo possano rivelarsi una strategia vincente. Da quando sono entrate in vigore le nuove sanzioni sul petrolio siriano, il regime perde circa 400 milioni di dollari al mese e la situazione di isolamento politico-diplomatico ha reso necessario la richiesta di prestiti ad Iran, Iraq e Venezuela. Volendo, dunque, scongiurare qualsiasi ipotesi militare, anche gli alleati di Damasco sembrerebbero essere d'accordo nel perseguire la strada della diplomazia, pur non condividendo fino la strategia dell'inasprimento delle sanzioni economiche. Ma per giungere ad un cambio al vertice esiste un’istituzione internazionale o regionale in grado di portare a termine questa transizione? La Lega Araba non pare avere questa forza, come neanche l’ONU o gli Stati Uniti – impegnati su più fronti dall'Iran alla Cina –, tanto meno una coalizione di Stati europei a guida franco-britannica. Forse l’unico organismo in grado di incidere sulla crisi siriana potrebbe essere il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) – in cui un ruolo sempre maggiore sta assumendo il Qatar – che, seguendo gli esempi di Tunisia ed Egitto, potrebbe assicurare alle forze di opposizione la guida della “nuova Siria” e, al contempo, garantire un salvacondotto ad Assad e a tutta la sua famiglia. Ad ogni modo, le certezze sono davvero poche e il cammino da seguire per giungere ad una soluzione non sarà privo di insidie e né avverrà in tempi brevi. Giuseppe Dentice [email protected]

La vedo nera?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – L’Africa Subsahariana ha chiuso il 2011 tra alcune conferme di cambiamenti strutturali in corso nel continente e profonde inquietudini che scuoteranno il continente anche in questo 2012. Il 2011 è stato l’anno della guerra in Costa d’Avorio e della crescita record del confinante Ghana, della carestia devastante nel Corno d’Africa e del consolidamento della presenza Cinese nel continente, l’anno del gruppo fondamentalista Nigeriano Boko Haram e della presa di coscienza mondiale del fenomeno del land grabbing. Alcune luci e molte ombre, che pongono sul tavolo delle questioni cruciali

 

DIFFICOLTA’ ECONOMICHE – La più grande incognita con la quale i paesi dell’Africa Francofona hanno archiviato il 2011 derivano dalle voci di una possibile svalutazione del Franco CFA. Il CFA è la moneta in vigore in 14 paesi delle due Unioni Monetarie Francofone della UEMOA e della CEMAC, è garantita dal Tesoro Francese (che in cambio gestisce il 60% delle riserve monetarie dei paesi interessati) ed è legata con un tasso di cambio fisso all’Euro. La svalutazione (almeno per ora) non c’è stata, ma le sue ragioni permangono e accanto ad esse l’inquietudine degli attori economici locali. Lo spread Francese ha toccato a Dicembre i 150 punti base e nonostante un’asta di inizio anno in cui sono stati collocati 8 miliardi di Oat a dieci anni al 3,30%,nell’ultimo trimestre del 2011 l’economia Francese è entrata ufficialmente in recessione. Le prospettive per il 2012 rimangono quindi molto incerte.  Una svalutazione del franco CFA abbatterebbe i costi di importazione delle materie prime per le società Francesi dalle ex-colonie. Una mossa che teoricamente potrebbe avvantaggiare l’export dei paesi Africani, ma in tempi di forte domanda di materie prime in cui i prezzi non subiscono crisi, l’unico effetto sarebbe una crescita dell’inflazione (solo parzialmente compensata da un aumento eventuale dei salari) proprio in quei paesi che grazie al rapporto che lega CFA/Euro non subiscono le devastanti oscillazioni inflattive che ciclicamente scuotono i paesi con monete nazionali molto più deboli (anche se, d’altra parte, i paesi esportatori  che hanno come valuta il CFA scontano la forza dell’Euro sul Dollaro). E come è noto, l’inflazione nei paesi in via di sviluppo è un elemento politico destabilizzante. Il debito dei paesi africani inoltre, espresso in CFA, aumenterebbe enormemente in un solo istante. In più, la maggior parte dei settori vitali dell’economia di questi paesi dipendono in larghissima parte dalle importazioni dall’Europa (e ancora di più dalla Cina) di macchinari, prodotti finiti e di semi-lavorati, e in caso di svalutazione è prevedibile un periodo di crisi (e forse di parziale recessione)  per riassorbire un aumento repentino dei costi di importazione. Per avvantaggiare davvero l’export (ad esempio dei paesi produttori di materie agricole) servirebbero altre misure come un freno alle sovvenzioni al settore agricolo dell’Unione Europea.

 

COSTA D’AVORIO NEL GUADO – Nel 2012 il tasso di crescita in termini reali dei Paesi aderenti all’Unione economica e monetaria dell’Africa Occidentale sarà circa del 6 per cento (secondo tutte le istituzioni Internazionali). Molto dipenderà dalla tenuta del paese Francofono più importante dell’area, la Costa d’Avorio, che sta faticosamente riemergendo dopo la guerra civile che è seguita alle contestate elezioni di fine 2010. La guerra, che ha avuto il suo epilogo il 10 Aprile 2011 con l’assalto delle forze speciali francesi all’ “Hotel du Golf” di Abidjan dove era asserragliato il presidente uscente Laurent Gbagbo, ha lasciato dietro di sé un paese diviso e sfiancato da 10 anni di instabilità e tensioni.  La sfida per il nuovo presidente Alassane Ouattara è quella di ricucire le due anime del paese, quella Cristiana del sud legata alla figura di Gbagbo e che ha disertato in massa le elezioni legislative di Dicembre,  e quella musulmana del Nord, uscita vincente dall’epilogo della guerra. Il problema più urgente è quello di disarmare quanto più possibile gli ex-partigiani di Gbagbo e la popolazione comune (visto che dopo la guerra era possibile acquistare nei sobborghi di Abidjan un Kalashnikov o una granata per pochi euro) e di riformare l’esercito integrando i due fronti che si sono dati battaglia (le Force Nouvelle del Nord pro-Outtara e l’esercito regolare pro-Gbagbo) sotto un unico comando in nome di un rinnovato spirito comune (une delegazione ruandese ha illustrato al governo Ouattara la loro esperienza, riuscita, di riappacificazione). Molto dipenderà dalla capacità della nuova classe dirigente di far ripartire le esportazioni, di generare crescita e di distribuirne i benefici in maniera equa includendo soprattutto gli esiliati che sono scappati dalla guerra e che stanno lentamente rientrando.

 

IL GHANA VOLA – Tassi di crescita a doppia cifra invece per il confinante Ghana nel 2011, grazie anche all’entrata a pieno regime  dell’estrazione di greggio a fine 2010 nel giacimento Jubilee gestito da un consorzio a maggioranza Tullow (UK).  Il paese modello dell’area per stabilità e modelli organizzativi ha incrementato del 2% anche la produzione di oro di cui è il secondo produttore del continente dopo il Sudafrica. Nel solo 2011 gli introiti dell’export di oro, che si sono attestati a quota 3,62 miliardi di dollari, sono aumentati del 27,5 per cento grazie all’aumento del prezzo di mercato. Nonostante lo straordinario fermento economico, l’istituto di statistica nazionale ha certificato che il livello di inflazione si e’ attestato a novembre 2011 all’8,5 per cento, in calo per il decimo mese consecutivo e ormai saldamente sotto la soglia psicologica della doppia cifra. Il Ghana e’ una delle poche nazioni dell’Africa a garantire un servizio elettrico senza interruzioni per quasi tutta la giornata e l’obiettivo del Governo di Accra e’ di diventare un esportatore di energia elettrica nei Paesi confinanti.

 

IL COTONE DEL BURKINA E DEL BENIN – L’asse portante della crescita dell’Africa Occidentale è il settore minerario, che oltre al Ghana e alla Costa d’Avorio registrera’ una crescita notevole soprattutto per quanto riguarda la produzione di oro e uranio in Burkina Faso e in Mali. Il Burkina Faso ha vissuto un 2011 contrastato tra le buone performance economiche (con una crescita economica prevista al 6% anche per il 2012) e le tensioni politiche di cui il “Caffè Geopolitico” aveva già raccontato qui. Il timore della comunità Internazionale è che il presidente Compaorè (rieletto a fine 2010) modifichi la costituzione per potersi ricandidare nel 2015. Il tessuto economico-imprenditoriale del paese è stufo della voracità dell’entourage di Compaorè, ma nonostante le distorsioni familistiche del budget e delle commesse pubbliche, l’economia Burkinabè, fondata sull’export del cotone (con 250.000 piccole e micro-aziende agricole) è in costante crescita. La Societa’ nazionale di fibre tessili del Burkina Faso (Sofitex) ha stimato che nella campagna 2011-12 la filiera del cotone, che contribuisce a circa il 40 per cento del PIL e al 60% dell’export nazionale e che occupa circa 3 milioni di Burkinabè  si attesterà, in buona crescita, sulle 320.000 tonnellate. Il governo ha previsto la creazione di un nuovo polo per lo sviluppo agricolo e ha dato il via ad una operazioni di per la quale tutti i cittadini verranno dotati di una tessera plastica a banda magnetica come carta d’identità (con degli operatori che stanno girando il paese a fare le foto per la tessera a tutti!). Inoltre, entro il 2012 diventerà operativo in Burkina Faso un sistema sanitario che permetterà a tutti i cittadini l’accesso a cure mediche gratuite. Anche il Benin ha più che raddoppiato la produzione di cotone nel 2011 e  il governo di Cotonou ha stimato una crescita del PIL nel 2011 pari al 3,8 per cento, dopo aver archiviato il 2009 e 2010 rispettivamente con un miglioramento del 2,6 e del 2,7 per cento. Per il prossimo anno, invece, la crescita sarà pari a oltre quattro punti percentuali, fino ad arrivare a un considerevole +8% nel 2013. Lo sviluppo del Benin, sempre secondo i dati dell’esecutivo (e dunque da prendere con beneficio d’inventario) permetterà di portare il tasso nazionale di povertà, alla fine del periodo considerato, dall’attuale 50 per cento della popolazione complessiva al 35 per cento.

 

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FINALMENTE LUCE PER LA GUINEA – La tribolata e poverissima Guinea Conakry, dopo anni di rivolgimenti politici sembra vedere la luce in fondo al tunnel e il 2011 è stato un’anno di stabilizzazione e di riforme. Il presidente democraticamente eletto a fine 2010 Alpha Condè, nonostante un fallito attentato a Luglio, sta tentando di risollevare un paese  potenzialmente ricchissimo ma dove lo stato non esiste o quasi, dove la burocrazia statale è tra le più corrotte al mondo, e dove accanto ad un esercito onnipotente ed onnipresente operano indisturbate le più importanti compagnie minerarie internazionali (dai russi di Rusal che esportano navi cariche allumina agli angloaustraliani di Rio Tinto che hanno appena annunciato l’apertura della più grande miniera di ferro dell’Africa sui monti Simandou). Nel 2012 la Guinea procederà alla revisione dei contratti con le società minerarie attive sul proprio territorio e al ridimensionamento delle Forze armate, ed è previsto un pacchetto di provvedimento per rilanciare l’economia, tra le quali una norma che permetterà di aprire un’attività produttiva in 72 ore. A due donne Liberiane nel 2011 è stato invece assegnato il Nobel per la Pace. A ritirare il riconoscimento Elle Johnson Sirleaf, Presidente della Liberia e prima donna a guidare uno stato africano, e Lymah Gbowee, militante pacifista all’epoca del regime di Charles Taylor. La “donna di ferro” della Liberia, alla presenza di Hillary Clinton, è stata investita il 16 Gennaio di un secondo mandato. La Clinton, nel suo ultimo tour africano, nel quale ha visitato anche Togo, Costa d’Avorio e Capo Verde, ha parlato dei temi cari alla strategia securitaria di Africom: democrazia, terrorismo, sicurezza. Un’approccio perdente, riproposto dalla Clinton negli stessi giorni in cui è stato pubblicato uno studio di Fitch che mostra come nell’ultimo decennio la Banca Export-Import cinese (EXIM Bank) ha esteso di 12,5 miliardi di dollari i prestiti all’Africa Subsahariana, compiendo uno sforzo nettamente superiore a quello della Banca Mondiale. La EXIM Bank ha erogato prestiti per un cifra  complessiva di 67,2 miliardi di dollari, mentre dal 2001 al 2010 la Banca Mondiale ha erogato 54,7 miliardi. Non è con la retorica nè con la lotta al terrorismo che si crea sviluppo e consenso, ma con gli investimenti, una voce che anche nel 2011 ha visto ancora i Cinesi primeggiare in Africa.

 

MAMMA LI CINESI – Come riporta Greenreport l’anno appena trascorso ha visto il definitivo sfondamento del governo di Pechino nel Niger, dove stanno saltando gli equilibri storici che vedono il colosso dell’energia nucleare Francese Areva farla dal padrone nel penultimo paese al mondo come indice di sviluppo umano. Per contenere i Cinesi la Francia le ha tentate tutte: prima finanziando le incursioni dei ribelli Tuareg nelle aree interessate dalle esplorazioni cinesi e poi sostenendo il colpo di stato del 2010 (risolto poi da un contro-colpo di Stato dei militari che hanno riconsegnato il paese alla sovranità popolare sancita dal voto regolare di Aprile 2011). La mancata riconferma a presidente di Areva di Anne Lauvergeon a Giugno 2011 dopo dieci anni alla testa del gruppo, si dice sia dovuta anche al fallimento della politica di Areva nel paese. I Cinesi, in netto contrasto con la politica colonialista Francese “hanno realizzato le vie di accesso al secondo ponte sul fiume Niger a Niamey, il Pont de l’Amitié Chine-Niger, costruito un ospedale, trivellato 70 pozzi ed edificato due scuole primarie, in più hanno avviato un progetto pilota di illuminazione ad energia solare e inviato stock di medicinali, materiale medico e scolastico e per gli uffici governativi. Inoltre 225 nigerini sono andati in Cina per corsi di formazione professionale e per studiare.” Ma il simbolo “più eclatante di questa cooperazione è soprattutto l’entrata in servizio il 28 novembre 2011 del progetto petrolifero integrato di Agadem. Grazie allo sfruttamento dei campi petroliferi di Agadem, nell’estremo nord-est nigerino , da parte della società cinese China national petroleum corporation (Cnpc) ed alla messa in servizio della raffineria di Zinder (Soraz), società a capitale sino-nigerino, il Niger ottiene il rango di Paese produttore ed esportatore di petrolio. Dispone automaticamente di un’industria petrolifera completa». (Greenreport, 05/01/2012).  E sempre una raffineria costruita dai Cinesi è stata inaugurata a luglio del 2011 in Ciad, a poca distanza dalla capitale N’Djamena che ha dimezzato (almeno per metà giornata!) il prezzo di gasolio e benzina sul mercato locale. Proprio in Ciad nel 2012 la società China Civil Engineering Construction Corporationnel inizierà i lavori per la costruzione di una linea ferroviaria di 1.344 chilometri, la prima del paese africano, dopo aver siglato l’anno scorso un contratto da ben 7,5 miliardi di dollari! In Senegal, uno dei paesi più interessati dalla cavalcata trionfale cinese in Africa grazie al presidente uscente Wade, è stato inaugurato a Dakar ad Aprile 2011 il Grande Teatro Nazionale costruito dai Cinesi con una donazione di ben 21 milioni di euro. A giugno sono iniziati i lavori per la realizzazione del “Museo delle civiltà nere”, sempre interamente finanziato dal governo cinese. Un altro contratto, firmato a gennaio 2011, assegna ancora alla Cina l’esecuzione dei lavori di riabilitazione di undici stadi in Senegal, e le poche infrastutture realizzate negli ultimi anni sono state ad appannaggio di società cinesi. .  Il  26 Febbraio, dopo dodici anni di governo del Presidente Wade, il Senegal è chiamato alle urne, e il cantante/imprenditore Youssou Ndour, ha annunciato la sua candidatura. L’ottantaseienne Wade ha annunciato la sua ricandidatura, tuttavia avendo già alle spalle due mandati, secondo alcuni costituzionalisti e per la maggior parte degli oppositori non avrebbe potuto ricandidarsi per il terzo mandato presidenziale. Una situazione che sta facendo crescere la tensione. Si registrano già alcuni morti e la violenza virulenta dei dibattiti sta creando un clima di paura e incertezza che getta un’ombra inquietante sulla fase post-elettorale.

 

L’economia senegalese è crescuta del 4% nel 2011 e nel 2012 dovrebbe al 4,4, anche grazie al miglioramento degli approvvigionamenti di energia elettrica. La fascia del Sahel che unisce Senegal a Ovest e Sudan del Nord a est, laddove c’è la faglia di congiunzione tra mondo Musulmano e Africa Cristiano-Animista, che si raccolgono le tensioni più inquietanti per l’instabilità Africana. Come in Costa d’Avorio, anche in Nigeria, il gigante regionale, si replica la divisione tra il Nord Musulmano e il Sud-Cristiano. Ma questa è una storia che vi abbiamo già raccontato (vedi Chicco in più). Vi porteremo tra pochi giorni invece in Sudan, per un “caffè” davvero bollente.

 

Stefano Gardelli

La quiete prima della tempesta

I 7 giorni che ci attendono rappresentano l'attesa e la tensione per un periodo che si rivela decisivo per il bilancio del 2012 come anno di svolta. In primis l'Europa con la serie di appuntamenti che precede il Consiglio economico-finanziario di settmana prossima e gli Stati Uniti con le primarie del G.O.P si affiancano alle situazioni d'instabilità perenne in Iran, Siria e Pakistan. Sul fronte prettamente politico Taiwan e Kazakistan tirano le somme delle recenti chiamate alle urne mentre in Africa rimangono tensioni in Somalia e Sud Sudan. É un caffè amaro quello con cui oggi, come ogni lunedì, vi proponiamo il mondo la settimana prossima.

EUROPA

Lunedì 16-Giovedì 19 – Il parlamento Europeo si riunisce in seduta plenaria per una serie di votazioni e conclusioni importanti. Oltre alla presentazione del semestre danese di Presidenza di turno, accennato la settimana scorsa, i parlamentari sono chiamati ad eleggere il nuovo Presidente del Parlamento che andrà a sostituire il polacco Jerzy Buzek, e a dibattere a proposito dei recenti sviluppi economico-politici in Ungheria. Ci sarà anche tempo per analizzare le conclusioni della Conferenza di Durban sul cambiamento climatico e la risoluzione sul Unione di Stabilità Fiscale, che sicuramente desterà aspri dibattiti. Durante le discussioni sulla crisi economica i neo-premier di Grecia e Italia, Papademos e Monti, sono stati invitati ad intervenire per illustrare le situazioni dei due paesi membri.

Lunedì 16 – E' atteso a Roma presso Palazzo Chigi l'arrivo del Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy per un incontro istituzionale col Presidente del Consiglio Mario Monti. Crisi economica, piani per la crescita e l'occupazione, il Consiglio Europeo della settimanna prossima i temi sul tavolo dell'ennesimo incontro di una lunga serie che non fa che ribadire il ritorno di Roma nell'ottica di Bruxelles. Van Rompuy incontrerà in tarda mattinata anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, i due si confronteranno sui punti dell'agenda europea per l'uscita dalla crisi economico-finanziaria. Intanto il Commissario per le politiche regionali Johannes Hahn farà tappa in Liguria, nelle zone colpite dall'alluvione, a Napoli per verificare la questione dei rifiuti e infine a Roma.

Mercoledì 18 – Il Premier inglese David Cameron riceverà il Presidente del Consiglio italiano Mario Monti nell'ultimo degli incontri che precedono il Consiglio eco-fin del 24 gennaio. Il vero nodo cruciale dell'incontro è la tobin tax europea, questione su cui il leader dei conservatori britannici si è impegnato a non mollare, a difesa dei gruppi d'affari della city da sempre sostenitori dei governi di destra. L'impresa sembra dunque impossibile, anche per il professore, chiamato a mediare tra le posizioni ormai inconciliabili dell'ex trio Sarkozy-Merkel-Cameron, che rischiano di peggiorare in seguito al downgrading collettivo delle economie del vecchio continente.

AMERICHE

Sabato 21 – Il tour de force delle primarie dei repubblicani in vista delle presidenziali di novembre fa tappa in Sud Carolina, la patria del secessionismo sudista dove la fede repubblicana più che un credo politico è una religione. Nonostante l'ormai strafavorito Mitt Romney veleggi verso la terza vittoria consecutiva, c'è ancora posto sul podio per una possibile consacrazione del parvenu Rick Santorum, in uno degli stati più cristiani di tutti gli states. L'appoggio del gruppo Murdoch alla campagna dell'italoamericano convinto creazionista potrebbe segnare la fine dei giochi per il populista Gingrich e per il federalista Ron Paul. Ma nulla è scontato in quella che si è dimostrata una delle tornate tra compagni di partito più combattute nella storia del G.O.P.

VENEZUELA – Continua il gioco delle parti tra Caracas e Washington in seguito allo scandalo diplomatico-cibernetico che ha portato all'espulsione del Console Generale a Miami Livia Acosta Noguera. Hugo Chàvez, forte del prestigio ricevuto dalla visita di settimana scorsa dell'amico Mahmud Ahmadinejad, ha preannunciato la chiusura del consolato in questione contro una decisione considerata "ingiusta e arbitraria". Intanto sul fronte interno l'istrionico leader ha promesso di farsi da parte qualora un candidato delle opposizioni dovesse batterlo alle presidenziali. Tanti i temi di un discorso di circa 9 ore all'Assemblea Nazionale in cui Chàvez ha smentito le accuse di trasformazione dittatoriale del suo governo e ha incalzato i suoi sfidanti sui temi più svariati. La verità è che restano ancora forti dubbi sulle sue condizioni di salute nonostante la brillante performance oratoria, inoltre il corpo di guardie pretoriane istituite lo scroso anno potrebbe essere chiamato a difendere il vertice supremo in caso di sconfitta, anche elettorale.

CUBA – Il Governo di Raul Castro sembra convinto a proseguire sulla strada delle liberalizzazioni, infatti indiscrezioni sulla stampa locale ci portano a pensare che dopo barbieri, pizzaioli, ristoranti anche le caffetterie di stato saranno privatizzate e affidate ai gestori. Il progetto punta sulla provincia di Holguin che farà da cavia all'ennesimo passo verso il ritiro dello stato dall'economia reale dell'isola. Intanto sul fronte militare un nuovo accordo firmato in settimana con il Sudafrica garantisce a l'Havana cooperazione in materia di armamenti, addestramento dei reparti d'elite e i trattamenti sanitari di reduci e veterani e il contributo di Pretoria all'istituzione entro l'anno di una forza di difesa civile per il pronto intervent in caso di calamità naturale. 

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ASIA

TAIWAN – Ma Ying-Jeou, l'uomo di Washington e di Pechino, trionfa alle presidenziali dell'isola di formosa ottenendo il 51,6% dei consensi. L'ambiguità della politica dei "tre no", no alla riunificazone, all'indipendenza e alla guerra, sconfigge le incertezze che avvolgevano il programma della sfidante Tsai Ying-Wen del Partito Democratico Progressista. L'ambiguità domina incontrastata nella piccola isola dopo che il Kuomintang, il partito di Chiang Khai Shek ha optato per la riconciliazione con la madrepatria lasciando all'opposizione il contrasto al dragone cinese. Restano invariate le mire cinesi sull'economia rampante della piccola isola, unico vero limite alla ricostituzione del grande Impero, che da sempre ha optato per la difesa delle frontiere e il controllo sulle terre di confine.

INDIA – Il vecchio continente si sgretola anche sul campo dell'industria aerea militare, infatti le necessità di riammordenamento dell'Indian Air Force rischiano di portare i promotori del progetto Eurofighter, Germania-Italia-Regno Unito-Spagna, contro il programma Rafale della francese Dassault. La posta in gioco è assolutamente di prim'ordine, si parla di almeno 120 velivoli per una commessa di circa 20 miliardi di dollari con possibilità di stabilire legami e collaborazioni per ulteriori contratti. Ma non c'è solo l'Europa in gara, la Russia con gli iper celebrati Sukhoi 27/30 e il prototipo stealth T50 e l'americano F35, versatile grazie al decollo verticale ma debole dal punto di vista dell'armamento. Voci di complotti e tentativi di corruzione da parte dei servizi segreti di Parigi hanno toccato l'immacolato Ministro della Difesa, Mr. Arackaparamabil Kurien Antony che è chiamato a giudicare l'offerta migliore per l'eterno confronto col Pakistan.

PAKISTAN – La jihad islamica contro gli sciiti invade anche il Pakistan, dopo un attentato contro le celebrazioni della festa per l'anniversario della morte dell'Imam Hussein, il Cehlhum. Il bilancio è di 18 morti e una cinquantina di feriti mentre la tensione interna sale alle stelle nonostante i colloqui di tregua tra il Presidente Asif Ali Zardari e i vertici militari. Anche il premier Yusuf Raza Gilani entra nello scontro tra istituzioni in seguito all'ingiunzione della Corte Suprema che lo invita a comparire entro giovedì per un caso di mancata implementazione di misure anti-corruzione. Intanto un'interrogazione parlamentare di un deputato cattolico alza i riflettori su estorsioni, stupri e violenze sui bambini che coinvolgerebbero la comunità cristiana di Karachi. Intanto il movimento d'ispirazione qaedista dei Tehirk-e-Taliban (TTP) smentisce le voci che davano per spacciato il loro leader Hakimullah Messud dopo un attacco da parte di un drone americano nel nord-Waziristan.

KAZAKISTAN – Prevedibile e annunciata è arrivata nella tarda serata di domenica la riconferma per il partito Nur Otan del Presidente Nursultan Nazarbaev. Una maggioranza schiacciante, circa l'80% dei consensi conferma la solidità del regime fondato soprattutto sulla ricchezza generata dallo sfruttamento dei ricchi giacimenti di greggio e gas naturale. Le proteste documentate negli ultimi mesi del 2011 erano destinate al fallimento in un paese in cui i concetti di Stato e Partito si mischiano fino a confondersi. La missione pletorica degli osservatori internazionali si divide tra la capitale Astana, dove tutto appare cristallino agli inviati di Russia e Bielorussia, e le province periferiche dove gli inviati dell'OSCE segnalano irregolarità palesi e ripetute.

AFRICA

SOMALIA – Nonostante le recenti piogge che hanno recentemente bagnato il sud del paese al confine col Kenya continua l'emergenza idrico-umanitaria. Ma un'altra scure rischia di abbattersi sulla popolazione vessata dalla fame e dall'anarchia che regna sovrana, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha annunciato che bloccherà la fornitura di aiuti destinati a circa 1 milione di persone in seguito ai continui impedimenti del movimento islamico di Al-Shabaab. L'unica organizzazione internazionale accettata nei confini instabili del paese si scontra da dicembre con difficoltà logistiche di gestione a causa dei continui blocchi ordinati dalle autorità locali e ha così optato per il mantenimento delle attività di emergenza, come la cura dei bambini gravemente malati e i progetti di fornitura di acqua potabile. Intanto le stime delle Nazioni Unite indicano in 3 milioni il numero di somali che necessità di assistenza umanitaria di cui 250mila vivono ancora in condizioni di carestia.

NIGERIA – La protesta congiunta dei principali sindacati si placa in seguito alla decisione del Presidente Goodluck Jonathan di tagliare il costo del carburante fino alla cifra di 0,6 dollari al litro. Nei primi giorni del 2012 il prezzo del carburante era schizzato fino a giungere a 1 dollaro al litro in seguito alla decisione del governo centrale di tagliare definitivamente i sussidi all'importazione. Intanto sul fronte degli scontri religiosi fa scalpore un video messaggio del leader della formazione integralista Boko Haram,in cui Abubakar Sheaku appare richiamando chiaramente la figura di Osama Bin Laden, con tanto di turbante e kalashnikov sullo sfondo. Nonostante la fatwa indetta dal movimento contro i cristiani il vero obiettivo restano esercito e forze di sicurezza, i responsabili dell'uccisione nel 2009 dell'ex guida spirituale del gruppo, Mohammed Yusuf.

Martedì 17 – I rappresentanti di Sudan e Sudan del sud si incontreranno ad Addis Abeba per una sessione dei famigerati oil talks per la questione degli scambi petroliferi che infiamma lo scontro tra i due vicini. La decisione di sequestrare circa 650mila barili di greggio da una nave del sud presso Port Sudan ha suscitato sdegno nelle autorità di Giuba, nonostante venisse considerata come un balzello pagato per il mancato accordo sulla tassa di transito per il collegamento agli oleodotti di Khartoum. Intanto il Ministro del Petrolio del 193esimo membro ONU Stephen Dhieu Dau ha annunciato la firma del primo accordo di fornitura di greggio all'estero con Malesia, India e Cina, proprio Pechino è il principale alleato di Khartoum e il più forte sostenitore della conlcusione della vicenda petrolifera.

MEDIO-ORIENTE

IRAN – Nuovo capitolo della lunga serie di colpi di scena tra Washington e Teheran, dopo le notizie dell'apertura di un canale privilegiato tra il Presidente Obama e la Guida Suprema Ayatollah Khamenei, anche la sede ONU di New York si tinge di giallo. L'ambasciatrice USA alle Nazioni Unite Susan Rice avrebbe consegnato alla controparte iraniana Mohammad Khazaie una lettera, giunta in Iran anche attraverso l'Ambasciata svizzera, che a Teheran gestisce anche gli interessi americani, e il Presidente Iracheno Jalal Talabani. La pluralità dei percorsi e il grado di pubblicità garantito all'affaire sembra confermare il tentativo statunitense di delegittimare l'accerchiato Ahmadinejad, forte ormai solo del supporto di pasdaran, aprendo nuovi canali con i vertici più in vista. Intanto si fa sempre più probabile un attacco di Israele ai siti di arricchimento dell'uranio di Natanz e Fordow, tanto che il Capo di Stato Maggiore americano Martin Dempsey dovrebbe recarsi in settimana a Tel Aviv per incontrare l'elite militare delle Israeli Defense Forces.

Giovedì 19-Domenica 22 – Nuovi scenari complicano la situazione giunta ormai al vero e proprio conflitto intestino. Tra domenica e lunedì ha preso corpo la nuova proposta del Qatar, che gioca ormai da leader politico tra i paesi arabi, lo sceicco Al Thani ha infatti prospettato l'invio di una forza di frapposizione a Damasco con il compito di proteggere i civili. Il Capo della Lega Araba Nabil Arabi ha accolto positivamente la notizia prospettando un dibattito al riguardo nell'incontro di domenica 22 tra i paesi membri. Intanto si allontana la probabilità di un coinvolgimento dell'occidente e del Consiglio di Sicurezza ONU nella questione siriana, gli osservatori lasceranno il paese giovedì e nonostante le promesse di amnistia generale Bashar al-Assad potrebbe cogliere al balzo l'occasione di far piazza pulita di oppositori e disertori. Intanto l'FSA ha creato in Turchia un consiglio militare supremo con compiti di coordinamento delle varie azioni di sabotaggio e guerriglia, a gestirlo sarà Mustafa al-Sheikh ex capo delle forze siriane del nord del paese, mentre il numero di disertori si stima ora intorno ai 40mila effettivi.

Sabato 21 – Lo Yemen si reca alle urne nell'ultimo passo della road map democratica indicata dal Gulf Cooperation Council (GCC) all'ex regime del dimissionario Ali Abdullah Saleh. Le elezioni presidenziali rischiano però di inasprire ancor di più la situazione di conflitto che frappone la capitale San'a con i ribelli zaiditi del clan al-Houti, le forze qaediste che controllano alcune città e i movimenti secessionisti stanziati nel sud del paese. Il compromesso riguarda infatti l'elite politica del vecchio regime e l'opposizione riconosciuta come legittima, ovvero le formazioni raggruppatesi nel Joint Meeting Party. Ryadh ha partecipato attivamente nel lavoro di persuasione diplomatica che ha portato Saleh a lasciare il potere, ma potrebbe tentare il tutto per tutto ipotecando un'influenza permanente sulle sorti del prossimo governo.

Fabio Stella [email protected]

Pronta al decollo?

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – La Nigeria è il Paese africano più popoloso e quello che, insieme al Sudafrica, ha le possibilità per diventare una grande potenza regionale. L’economia viaggia a gonfie vele, complice lo sfruttamento delle risorse petrolifere e gli investimenti in arrivo dalla Cina. Tuttavia le forti tensioni religiose provocate dagli attentati della setta islamica Boko Haram mettono a rischio la stabilità interna. Ecco le principali prospettive e sfide per l’anno nuovo

 

IL DECOLLO – La Nigeria può essere inserita tra i quattro paesi al mondo che ha mostrato i migliori tassi di crescita negli ultimi anni, ed è stata accostata dalla Banca Mondiale alle nazioni del ‘BRICS’ (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Dal 2003 al 2010 il PIL della nazione più popolosa del continente (155 milioni di persone) e’ cresciuto mediamente del 7,5 per cento, superando la doppia cifra nel 2003 e nel 2004 e non scendendo mai sotto il sei per cento, neanche negli anni più difficili della crisi economica internazionale. L’incremento atteso per l’anno 2011 è stato dell’8 per cento, e seguendo questi tassi di crescita la Nigeria è destinata a entrare nel club delle venti principali economie mondiali entro il 2050. Il paese ha lanciato il 19 dicembre il suo terzo satellite in meno di sei mesi: operazione portata a termine dalla base cinese di Xichang (a parte il Sud Africa, la Nigeria e’ l’unica nazione sub-sahariana a poter contare sulla tecnologia satellitare). La Nigeria ha effettuato enormi investimenti nei settori tecnologici legati alla telefonia e alle comunicazioni e si stima che i principali paesi dell’Africa occidentale abbiano speso in media un miliardo di dollari all’anno negli ultimi cinque per portare ai propri cittadini cavi in fibra ottica per avere connessioni internet più veloci: circa il 50% di questi fondi e’ arrivato dalla Nigeria.

 

CINIGERIA? – I rapporti tra i governi di Pechino e Abuja sono sempre piu’ stretti e a fine 2011 il valore degli scambi commerciali è stato di circa 10 miliardi di dollari, in crescita del 20% rispetto all’anno prima. Proprio Cina e Nigeria sono i due paesi che secondo le stime Onu saranno nel 2050 rispettivamente al primo e terzo posto per numero di abitanti. Per la Cina la Nigeria e’ il quarto partner commerciale più importante del continente, mentre per il Paese africano Pechino e’ già il secondo partner commerciale in assoluto. La presenza di imprese cinesi in Nigeria cresce di anno in anno in tutti i principali settori produttivi: risorse minerarie, agricoltura, metallurgia, chimica, pesca. Si stima che il 60% dei prodotti elettronici e meccanici importati in Nigeria siano ‘made in China’, un’espansione che il governo locale sta cercando di attenuare con numerosi incentivi allo sviluppo dell’industria manifatturiera nazionale con la più classica politica di sostituzione delle importazioni (tipica dei paesi francofoni).

 

CEMENTO E CELLULOIDE – La Nigeria, ad esempio, diventerà autosufficiente nella produzione di cemento a partire dal 2012 grazie all’inaugurazione di un nuovo cementificio nello stato confederato di Ogun (Nigeria sud-occidentale). Il campione nazionale della produzione di cemento è il gruppo Dangote, una delle principali multinazionali autoctone del continente che spazia, tra l’altro, dall’alimentare alla finanza, dai servizi all’immobiliare. E proprio il patron del gruppo,  Aliko Dangote, che si colloca al vertice della lista ‘Forbes’ degli uomini più ricchi del continente e riveste in Nigeria un ruolo centrale nella vita economica, politica e della cronaca mondana segna un cambio significativo del paese: di lui in passato si è parlato come possibile acquirente di squadre blasonate del campionato inglese,  ripercorrendo il solco tracciato degli oligarchi russi o dei petrolieri arabi. La Nigeria è anche la nuova Mecca del cinema:  con 300 mila impiegati, l’industria cinematografica di Nollywood, la risposta africana all’americana Hollywood e all’indiana Bollywood, è il secondo datore di lavoro in Nigeria. A superare Nollywood è solamente l’amministrazione pubblica. L’industria cinematografica nigeriana si colloca al terzo posto per fatturato complessivo, grazie alle oltre 200 pellicole sfornate ogni mese, con un volume d’affari annuo di circa 250 milioni di euro (numeri raddoppiati nel giro di cinque anni in un’industria dove il budget della maggior parte dei film è di poche migliaia di euro).

 

LE PREVISIONI PER L’ORO NERO – Tuttavia, nonostante alcune prospettive di diversificazione, la Nigeria è un paese emergente grazie al petrolio. L’esportazione di petrolio e gas rappresentano più del 95% dell’export del paese e le royalties che ne derivano costituiscono l’80% del budget del governo federale. Il budget statale 2012 presentato dal presidente Goodluck Jonathan richiede introiti per circa 29 miliardi di dollari, il sei per cento in più di quanto stanziato per il 2011 (un quinto del budget sarà destinato alla sicurezza interna). Il Pil e’ previsto in crescita del 7,2% nel 2012, in linea con l’incremento del 2011 (in virtù anche di previsioni degli analisti che vedono il prezzo del barile attestarsi a circa 100 dollari al barile anche nel 2012). La Nigeria inoltre dovrebbe migliorare ulteriormente il rapporto deficit/Pil, previsto a fine 2012 al 2,75%. Tuttavia, nonostante le previsioni che vedevano l’inflazione ad un accettabile 10%, la decisione del Presidente Jonathan di tagliare i sussidi ai prezzi del carburante apre nuovi scenari di potenziale instabilità. Infatti, benché la Nigeria sia uno dei principali produttori di petrolio a livello globale, le quattro vecchie raffinerie di cui dispone coprono a malapena il 10% del fabbisogno nazionale di carburante. E a seguito della decisione di Goodluck di tagliare i sussidi, il prezzo della benzina è più che raddoppiato e sono subito comparse le barricate in piazza con morti e numerosi feriti in pochi giorni. I sindacati hanno indetto uno sciopero generala. Finora il costo reale alla pompa era stato calmierato dal governo. Una situazione che, secondo l’esecutivo, non era più sostenibile per l’erario. Da qui la sospensione dei sussidi e il conseguente aumento di benzina e generi di prima necessità.

 

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LE TENSIONI INTERNE – Si apre quindi un nuovo fronte caldo sullo sfondo delle devastanti tensioni inter-religiose che fanno da sfondo all’ascesa della setta Islamica Boko Haram. Fondata nel 2002 dall’imam Mohammed Yusuf e ispirata ai talebani afgani, la setta (il cui nome significa letteralmente “l’educazione occidentale è peccato”) è stata la vera protagonista del 2011 Nigeriano, e con i suoi sanguinosi attacchi è assurta all’onore delle cronache dei media internazionali. Boko Haram presenta molte analogie con Al Qaeda nel Maghreb Islamico (il gruppo che opera tra Mali, Mauritania e Niger), e i due gruppi si saldano in una ideale linea del terrore (che ricarca quella del Sahel) con le milizie islamiche del Sudan e quelle somale di al-Shabaab. Le operazioni di Boko Haram, composta da poche centinaia di militanti ben addestrati, armati fino ai denti ed imbevuti di ideologia, hanno subito un’impennata dall’aprile del 2011, ovvero a seguito dell’elezione del cristiano Jonathan. Un’elezione controversa, dopo il vuoto di potere creatosi a seguito della morte del presidente musulmano Yar’Adua che ha capovolto gli storici equilibri che fino ad allora avevano visto le élite politiche musulmante settentrionali bilanciare efficacemente la maggiore ricchezza e dinamicità delle regioni cristiane meridionali, e che ha rotto il patto implicito di alternanza tra un Presidente cristiano ed uno musulmano. Il governo ha risposto con la repressione, ma le ragioni della malattia rimangono inalterate e vanno ricercate nella debolezza e nella corruzione degli apparati burocratici statali e militari lontani dall’occhio del potere centrale, nell’emarginazione economica delle regioni del Nord e nella radicalizzazione strumentale delle sue élite politiche quale unica arma per bilanciare il potere del più ricco sud. Le tensioni e le violenze sono destinate a continuare in questo 2012, che si annuncia, nonostante l’esplosione economica, come un anno molto difficile per la tenuta della federazione Nigeriana.

 

Stefano Gardelli

Un buon vicino di casa

Mai come in queste ultime settimane, durante le quali si sono susseguiti i più importanti vertici delle grandi organizzazioni regionali asiatiche (SCO, APEC, ASEAN), la Cina ha manifestato la volontà di intraprendere la via della diplomazia multilaterale come first-best option, attraverso l’attivismo e la partecipazione ai vari Fora istituzionali asiatici. Per il momento la strategia di Pechino non è quella di dominare la propria area di influenza geopolitica, ma di tessere un ampio raggio di pacifiche e profittevoli relazioni multilaterali

 

NUOVE PRIORITA’ – Se fino a qualche tempo fa, potevamo affermare con convinzione che alle fondamenta dell’interesse cinese per la cooperazione strategica in Asia si riscontrava una ratio di tipo cautelare e protettiva, improntata al rafforzamento del coordinamento multilaterale in vista della sicurezza regionale, oggi, nell’agenda politica delle autorità politiche di Pechino ritroviamo accanto alla questione “sicurezza” un obiettivo parimenti prioritario: lo sviluppo economico. In un contesto globale in cui l’interdipendenza economica e la cooperazione strategica promossa dai meccanismi di azione multilaterale la fanno da padrone, la tradizionale propensione cinese al bilateralismo si concreta soprattutto in seno alle macro istituzioni regionali.

 

GOOD NEIGHBOUR POLICY – Nel recente discorso pronunciato dal premier Wen Jiabao durante il 14° Summit Cina-ASEAN (Association of South-East Asian Nations), tenutosi lo scorso 18 novembre a Bali, la svolta di Pechino verso il multilateralismo è celebrata come la più forte ed efficace risposta alle sfide poste dalla crisi economica globale e dalla globalizzazione. “Con una sostenuta e rapida crescita economica e la stabilità sociale, l’Asia orientale è la regione più dinamica del mondo, con il maggior potenziale di sviluppo, sia l’ASEAN che la Cina hanno ottenuto un ampio riconoscimento internazionale e hanno richiamato una grande attenzione per il loro importante contributo. Dovremmo […] cogliere l’opportunità di rafforzare la cooperazione e affrontare congiuntamente le sfide.” Una verità consapevole emerge tra le altre nelle parole di Wen: in questa era di stretta interdipendenza economica “nessuna regione o paese può sperare di prosperare da solo ed essere immune agli shock esterni”. Tanto più ora che la crisi del debito ha investito le economie degli Stati Uniti e dell’Europa, Pechino deve concentrare i propri sforzi sulla crescita e sullo sviluppo di mercati regionali alternativi a quelli storicamente di riferimento, e quello asiatico fa gola un po’ a tutti. D’altra parte, come biasimare il pragmatismo politico di Pechino, visti gli sviluppi inattesi prospettati recentemente negli incontri ufficiali dei capi di governo nel consesso delle organizzazioni regionali dell’Asia-Pacifico e dell’Asia centrale? Solo qualche giorno prima del Summit dell’ASEAN, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva annunciato a Honolulu al vertice dell’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) la conclusione di un accordo di massima per un parternariato commerciale transpacifico e l’apertura di una zona di libero scambio per 800 milioni di consumatori, tra gli Stati Uniti e dieci Paesi asiatici che si affacciano sull’Oceano. E durante l’ultimo incontro a S.Pietroburgo, la Russia ha di nuovo tramato dietro le quinte della SCO (Shanghai Cooperation Organization), per l’istituzione di una grande Unione Euroasiatica, che renderebbe più europea e meno asiatica l’organizzazione per la sicurezza regionale e ripristinerebbe i vecchi e mai assopiti legami di dipendenza tra Mosca e le Repubbliche centrasiatiche a sfavore della Cina e a detrimento dei suoi interessi energetici e geopolitici nell’area.

 

L’ASCESA DEL DRAGO – Sembra che tutti si stiano preparando alla grande ascesa del Drago e insieme cospirino per attuare una politica di contenimento della sua influenza economica e politica nella regione asiatica. La retorica di governo che mira a sovvertire la percezione esterna del Paese come “minaccia” per gli interessi delle altre grandi potenze globali è attiva già dal 2003. Da allora, per rassicurare partners e competitors Pechino ha iniziato da un lato a concentrare i propri sforzi sulla dimensione della diplomazia pubblica, vincolandosi al coordinamento multilaterale, e dall’altro a propagandare la volontà di attuare un’ascesa pacifica in un ordine internazionale multipolare senza mire egemoniche. Wen Jiabao ha sottolineato ancora una volta che l’obiettivo della Cina non è quello di ottenere il dominio assoluto né quello instaurare uno stallo conflittuale con gli Stati Uniti o la Russia, piuttosto quello di costruire relazioni di buon vicinato e rinforzare il partneriato con i paesi vicini. Il premier cinese ha scelto il Summit dell’ASEAN per veicolare i nuovi nodi strategici per lo sviluppo delle relazioni regionali: “In primo luogo, dovremmo rafforzare la consulenza strategica e la fiducia reciproca […] In secondo luogo, dovremmo perseguire lo sviluppo economico e il progresso sociale come una priorità assoluta. […] In terzo luogo, dovremmo concepire l’importanza dell’ASEAN nel promuovere la cooperazione in Asia orientale. […] Quarto, dovremmo difendere i nostri interessi comuni in ambito multilaterale.”

 

ASEAN +3, COMUNITÀ D’ORIENTE – L’ASEAN, nella sua articolazione 10 + 3 (ASEAN più Cina, Giappone e Corea del sud), è per Pechino il veicolo principale per istituire una sorta di “comunità d’oriente”, su modello europeo, che agevoli la cooperazione economica nel sud-est asiatico, rinforzi le relazioni di confidence-building e la partnership tra i paesi membri. I cinesi sono convinti che solo attraverso l’ASEAN si possa realizzare l’obiettivo dell’integrazione regionale e pertanto Wen ha annunciato l’inaugurazione di una missione permanente in seno all’organizzazione e il progetto di ampliare la sfera di attuazione dell’accordo di libero scambio tra la Cina e l’ASEAN-CAFTA, l’area di libero commercio. Dopotutto, consolidare l’asse ASEAN + 3 consentirebbe alla Cina di controllare lo sviluppo del meccanismo multilaterale dall’interno e di approfondire le relazioni bilaterali con i suoi vicini.

 

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EAST ASIA SUMMIT – Ora che per la prima volta Stati Uniti e Russia hanno preso parte all’East Asia Summit, il Forum annuale che riunisce i leaders di 16 Paesi dell’Asia orientale, Pechino ha attribuito ancora più importanza all’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, perché i nuovi Paesi osservatori mirano a parteciparvi in qualità di membri effettivi, quindi pensano al suo allargamento, secondo l’asse ASEAN +8. Esercitare la propria influenza sull’organizzazione regionale è uno step necessario per Pechino, che pungola perché essa diventi la sede di discussione e risoluzione delle controversie e delle dispute territoriali rispetto al Mar Cinese Meridionale, allo scopo di neutralizzare inesorabilmente ab origine ogni tentativo di ingerenza di Washington sulle questioni regionali. Infatti, anche gli Stati Uniti guardano sempre più verso oriente, dove proiettano nuovi interessi strategici. D’altra parte, il Segretario di Stato Hillary Clinton ha già dichiarato che la stabilità nel Mar Cinese Meridionale risponde ad un interesse nazionale statunitense, e preoccupa i cinesi la notizia della stipula di un nuovo accordo militare con l’Australia, che prevede la mobilitazione di 2500 nuove truppe americane che stanzieranno a Darwin, nella costa settentrionale a 500 miglia dall’Indonesia.

 

LA CINA, UN BUON VICINO – Il rafforzamento della relazione tra l’ASEAN e la Cina sembra essere opportunisticamente necessaria. L’organizzazione ha bisogno di Pechino e delle sue continue iniezioni di liquidità, dei suoi aiuti allo sviluppo e dei suoi investimenti. Pechino ha bisogno dell’ASEAN per istituire un mercato regionale e sostenere i ritmi portentosi della sua crescita economica, per consolidare nuove alleanze, tali da controbilanciare il peso di Stati Uniti e Russia nell’area ed ampliare la propria influenza regionale e internazionale, quindi per acquisire credibilità e fiducia come partner commerciale ed avviare il cammino di ascesa come potenza regionale, se non globale. Volendo concludere con le parole di Wen Jiabao, potremmo affermare che i cinesi sono determinati a rimanere “buoni amici, buoni vicini e buoni partners” per l’ASEAN e ad accrescere con l’organizzazione la partnership strategica.

 

M.Dolores Cabras

Meno male che è finito…

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Nel nostro speciale, riassiumiamo gli eventi del 2011 in due puntate. L’anno che ci siamo lasciati alle spalle ha segnato profondi cambiamenti nel modo di intendere le relazioni internazionali e la comunità globale nel suo insieme. Con la crisi economica che sferza sull’Europa, gli Stati Uniti alle prese con il ritiro dall’Iraq e la guerra infinita in Afghanistan lo scenario è totalmente cambiato mettendo l’accento sulla regione asiatica e sui focolai di crisi politica nel continente africano. Il tutto accompagnato da disastri ambientali, scandali diplomatici e la scomparsa di figure politiche di rilievo che segnano profondamente i giorni del 2011

EUROPA

GRECIA – Con il downgrading del giudizio sulla tenuta del debito ellenico la Grecia attraversa uno dei momenti più bui della sua storia ottenendo la maglia nera tra le economie europee. Anni di gestione finanziaria sprovveduta, conti pubblici truccati a tavolino costringono il governo a guida socialista del premier Giorgios Papandreu a tagli drastici e manovre draconiane, mentre scioperi e proteste studentesche militarizzano la culla della civiltà. La BCE, l’UE e l’FMI impongono misure di rigore e disciplina tramite una politica di supervisione finanziaria per mezzo della famigerata troicka, ma Papandreu teme la vertiginosa perdita di consenso e promuove un referendum sugli aiuti di Bruxelles. Poco dopo l’annuncio il figlio d’arte rassegna le dimissioni e inizia la girandola di consultazioni politiche che porteranno l’ex vicepresidente della BCE Lucas Papademos a guidare un governo di transizione, mentre il paese attraversa momenti di tensione sociale altissima.

ITALIA – Il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi rassegna le dimissioni dalla carica di capo del governo nei giorni più bui per la borsa di Piazza Affari, mentre lo spread tra Btp e Bund tedeschi raggiunge il picco di massima allerta. Non erano bastati in precedenza ripetuti scandali politico-sessuali che coinvolgevano la sua persona o il suo partito. La verità, dura da accettare tuttora, è che né l’opinione pubblica, né l’opposizione, paralizzata da continue lotte intestine, né le varie inchieste della magistratura sono riuscite ad ostacolare l’opera di quella che resterà una delle figure più controverse della storia della Repubblica italiana. Parallelamente gli italiani ritrovano un po’ di fiducia nelle Istituzioni grazie all’ascesa del carisma del Capo dello Stato Giorgio Napolitano celebrato dal New York Times con il titolo “King Giorgio”. Grazie alla sua opera di diplomazia interna Roma inaugura un nuovo governo di tecnici-professori guidato dal due volte Commissario Europeo Mario Monti che assume l’onere o l’onore di attuare tagli e riforme impensabili per i Partiti tramite l’approvazione del decreto “Salva-Italia”.

ASSE LONDRA-PARIGI-BERLINO – Con il governo di Roma escluso dai meeting dei grandi di Bruxelles rimangono Regno Unito, Francia e Germania a guidare la triremi europea nel mezzo della bufera della crisi economica. Proposte di euro-bond, ripensamenti repentini sull’eurozona, il cambio di vertice alla BCE Trichet-Draghi e il flag-waving tra i vari membri appaiono ai commentatori, soprattutto agli euroscettici, i primi segnali del collasso dell’Unione. Il Consiglio Europeo del 9 Dicembre segna la svolta delle sorti dell’asse tripartito, il premier inglese David Cameron rifiuta di aderire al Fiscal Compact, il piano di riduzione dei debiti sovrani, rompendo l’alleanza con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, intanto grazie alla credibilità europea di Mario Monti l’Italia torna a tutti gli effetti nel consesso di Bruxelles. 

SERBIA – In seguito ad una segnalazione anonima viene arrestato nella periferia di Belgrado il sospetto criminale di guerra Ratko Mladic ex comandante dell’esercito serbo-bosniaco, che aveva passato gli ultimi 15 anni da primula rossa. Le accuse di genocidio, crimini contro l’umanità e violazioni ripetute al diritto dei conflitti armati non gli avevano impedito di condurre un’esistenza tranquilla sotto falso nome. Agli inizi di giugno “il boia di Srebrenica” viene estradato all’Aia presso il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Iugoslavia (ICTY). Tra i primi a preannunciarne le sorti, il 20 luglio, anche l’ultimo degli imputati latitanti del tribunale, Goran Hadzic, ex Presidente dell’autoproclamatasi Repubblica Serba di Krajina viene catturato dalla polizia serba. Si chiude così un capitolo buio del ritorno alla normalità nella regione, grazie all’eliminazione di due delle ultime cause che chiudevano a Belgrado le porte per l’adesione all’UE.

AMERICHE STATI UNITI – Mentre gli States assistono al più grande concerto di disastri ambientali di dimensioni bibliche all’interno del loro territorio, è la politica economica sommata all’aumento dei tassi di disoccupazione ad insidiare l’amministrazione Obama. L’anno che precede le presidenziali 2012 vede il colosso americano sovrastato dalla marcia inesorabile del debito nazionale giunto al sorpasso del limite imposto per legge di 14.294 miliardi di dollari. Il compromesso tra le forze politiche permette l’approvazione del Budget Bill da mille miliardi che salva l’America dallo shutdown federale. La strage di Tucson in cui perdono la vita sei persone lascia in vita il probabile obiettivo del gesto efferato, la deputata democratico al Congresso Gabrielle Giffords colpita alla testa da distanza ravvicinata. Il 14 maggio, il Capo del Fondo Monetario Internazionale, nonché probabile candidato socialista per le presidenziali francesi,Dominique Strauss Kahn viene arrestato per molestie sessuali in seguito all’accusa di una cameriera di servizio del Sofitel di Manhattan. Mesi di speculazioni e sospetti di complotto portano il procuratore generale Cyrus Vance alla decisione di non procedere all’accusa.

MESSICO – La guerra al narcotraffico e agli onnipotenti cartelli della droga raggiunge il picco di massima violenza mentre si scoprono fosse comuni contenenti più di duecento cadaveri al confine settentrionale. Centosei giornalisti brutalmente trucidati, 12.000 morti per gli undici cartelli i numeri più eclatanti della lotta per l’imposizione dello stato di diritto mentre un inspiegabile incidente aereo uccide il ministro dell’Interno Francisco Blake, baluardo della lotta contro il traffico di stupefacenti. Intanto inizia la campagna elettorale per le Presidenziali 2012 nel segno dello sfidante di Felipe Claderon, il candidato della sinistra messicana Andrés Manuel López Obrador già sconfitto nel 2008 con uno scarto dello 0,6%. I problemi socio-economici del paese rischiano di creare un mix esplosivo con il livello di violenza inaudita che scandisce la vita quotidiana dei suoi cittadini. 

CUBA – Il cambio della guardia tra Fidel e Raúl Castro continua a portare novità sostanziali nella politica un tempo monolitica dell’isla grande tramite aperture e liberalizzazioni a più riprese. Apertura agli investimenti esteri diretti, liberalizzazione del piccolo commercio, del mercato automobilistico e di quello immobiliare le novità inaspettate del progetto di reforma per condurre Cuba fuori dall’isolamento socialista che rischia di soffocarne le sorti. Non solo rose e fiori per Raùl però, con gli anziani del partito piuttosto contrariati dalla teoria della fase iniziale del socialismo tanto cara a Deng Xiaoping, la guida spirituale della modernizzazione cinese. Nonostante i progressi, inimmaginabili fino a un decennio fa, sono ancora molti i nodi da sciogliere, in primis la liberalizzazione politica, il rilascio definitivo di tutti i detenuti politici e lerelazioni problematiche con il gigante statunitense

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AFRICA SOMALIA – Nei vent’anni che hanno segnato il fallimento dello Stato somalo, il 2011 segnerà probabilmente il baratro per lo stato del Corno d’Africa. Nonostante la diminuzione del 50% degli attacchi compiuti con successo da parte dei pirati che infestano il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano, lo spettro mortale della siccità travolge l’agricoltura e l’allevamento di sussistenza, già minata dal clima equatoriale e dalla perenne assenza di mezzi. Milioni di profughi affollano i confini fantasma in cerca di salvezza, mentre le milizie islamiche del movimento qaedista di Al-Shabaab assediano le poche riserve di generi primari disponibili. Alla siccità e alla carestia si affianca in Autunno l’intervento unilaterale delle Forze Armate keniote contro sequestri di stranieri e attentati condotti a Nairobi. Nel frattempo la Comunità Internazionale sembra essersi risvegliata dal disinteresse totale per il futuro del failed state per antonomasia. Ban Ki Moon promette l’apertura di un ufficio ONU a Mogadiscio mentre il Consiglio di Sicurezza studia sistemi di giustizia internazionale per il contrasto definitivo alla pirateria.

SUDAN DEL SUD – In seguito all’esito positivo del referendum elettorale del gennaio 2011 sulla secessione del Sud del paese da Khartoum, viene proclamato il 9 luglio il nuovo stato con capitale Giuba. L’ONU accoglie con favore l’esito positivo del percorso di pace iniziato con l’accordo di Naivasha del 2005 e il 193esimo dei suoi membri. La strada è però tutta in salita per il nuovo governo di Salva Kiir Mayardit che si trova a dover fronteggiare la quasi totale assenza di infrastrutture minime e la grave sperequazione della ricchezza tra i propri cittadini. Il paese è ricco di giacimenti petroliferi e di gas naturale ma la mancanza di uno sbocco diretto sul mare ne mina l’indipendenza nella gestione delle esportazioni attraverso il Mar Rosso. Le divisioni religiose tra musulmani e cattolici sommate alle tensioni etniche tra le diverse tribù pongono un pesante interrogativo sulla persistenza di un clima favorevole allo sviluppo e al progresso in un continente già straziato da povertà e violenza cieca.

ASIA GIAPPONE – L’11 Marzo il mondo si ferma mentre la prefettura di Miyagi viene devastata dal sisma più potente, 9 gradi della scala Richter, mai registrato nella regione che sposta l’asse terrestre di circa 17 centimetri. Ma la vera minaccia deve ancora rivelarsi, lo tsunami successivo al sisma colpisce la costa orientale radendo al suolo intere città e la centrale nucleare di vecchia generazione di Fukushima. I 4 reattori sono gravemente compromessi, nulla riesce a fermare la parziale fusione del nocciolo che contamina l’intera zona in un raggio di 30 km e l’Oceano Pacifico. Il 30 Agosto il governo del premier Naoto Kan si dimette in seguito alla rabbia destata dalle rivelazioni sulle mancate misure di sicurezza nel programma nucleare, grazie al sostegno del partito democratico Yoshihiko Noda diventa il settimo premier in sette anni. Il popolo del sol levante è chiamato a sforzi sovrumani per portare a termine la ricostruzione e tornare ai livelli di competitività del passato con il dragone cinese.

PAKISTAN – Nell’anno più difficile per le relazioni con il grande alleato statunitense, il Pakistan scopre il 2 Maggio di essere stato la patria dell’esilio segreto di Osama Bin Laden, fondatore di Al Qaeda e ricercato n°1 per l’attaco delle torri gemelle. Con un’operazione condotta da un’unità dei Navy Seals della marina americana nei pressi di Abbotabbad, Washington mette la parola fine alle minacce del suo nemico più scomodo. Le gravi violazioni al diritto internazionale e alla sovranità di Islamabad portano il governo di Asif Ali Zardari nell’occhio del ciclone, con le manifestazioni dei gruppi islamici che si moltiplicano a Peshawar e Karachi. Il 26 Novembre la notizia dell’uccisione di 24 guardie di frontiera in seguito ad un raid di elicotteri NATO rischia di sancire la fine dell’alleanza strategica con le truppe ISAF. Vengono chiusi i valichi per l’Afghanistan, fondamentali per l’approvvigionamento, la base aerea di Shamsi viene evacuata mentre la popolazione teme i famigerati droni più degli attentati a matrice islamica. A dicembre uno scandalo diplomatico riguardante una richiesta d’aiuto a Washington contro un eventuali coup dell’esercito porta Ali Zardari a Dubai per test e controlli medici, gli viene diagnosticato un piccolo infarto che lo tiene “al sicuro” fino alla fine del suo annus horribilis

COREA DEL NORD – Il 19 dicembre la notizia della morte del “caro leader” Kim Jong Il fa letteralmente il giro del mondo, mettendo in imbarazzo i servizi di sicurezza occidentali e di Seoul incapaci di cogliere segnali del fatto avvenuto 2 giorni prima. I funerali vengono celebrati da un fiume di milioni di fedeli che affollano Pyongyang nonostante il paese soffra la fame per la totale chiusura al commercio e agli aiuti internazionali. Lo scettro del potere passa al figlio sconosciuto Kim Jong Un che di certo ha tutto tranne che il fisique du rol per affrontare di petto le questioni aperte come i rapporti con la metà meridionale e la nebbia che avvolge il programma nucleare di Pyongyang. Il razzo a medio raggio sparato oltre le coste giapponesi è fortunatamente l’ultimo saluto per accompagnare nell’aldilà un autocrate di cui il mondo non sentirà sicuramente la mancanza. 

MYANMAR – Per il governo militare di Naypyidaw, l’anno appena trascorso sembra aver aperto nuovi scenari di distensione, con la legalizzazione della Lega Nazionale della Democrazia, il partito della paladina Aung San Suu Kyi e l’accordo di pace con le minoranze di etnia karen. In realtà il paese sembra essere il campo di battaglia tra il soft power statunitense che punta tutto sullo scenario asitaico per il futuro e la penetrazione economico-culturale di Pechino che vede l’ex Birmania come uno sbocco fondamentale per le merci del Sichuan e dello Yunnan. L’ex colonia britannica era nota un secolo fa per le enormi produzioni di riso, di cui era il maggior esportatore mondiale, ma i conflitti etnici, vent’anni di dittatura militare e una gestione sconsiderata del comparto economico ne hanno segnato la rovina. Oggi la patria di Aung San è classificata tra i paesi del quarto mondo secondo l’indice ONU e una svolta verso un maggiore grado di democrazia e libertà civile garantirebbe un impegno maggiore della comunità internazionale. (1.continua)

Fabio Stella [email protected]

Una primavera lunga dodici mesi

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Se dovessimo scrivere oggi la storia del 2011, la “Primavera Araba” e più in generale tutta la regione medio-orientale riempirebbero gran parte delle nostre righe. Inaspettata, controversa e tutto sommato rapida, la rivolta delle popolazioni arabe contro i governi non-democratici ha smosso le coscienze dei leader e dell’opinione pubblica mondiale. Riviviamo insieme tutti i momenti e gli avvenimenti che ci hanno tenuto col fiato sospeso nel 2011 nel ricordo si coloro che hanno dato la vita per la libertà del loro popolo

 

TUNISIA – Tutto ha inizio a a Sidi Bouzid, quando il venditore ambulante Mohamend Bouazizi si da fuoco davanti al Palazzo del Governatore locale in segno di protesta contro le requisizioni della polizia. La morte del padre spirituale della Primavera Araba diffonde la rabbia dei giovani e dei disoccupati tunisini che si radunano nella capitale dando inizio a proteste contro il potere assoluto del clan di Zine El-Abidine Ben Ali, ininterrottamente al potere da 23 anni. Le circa cento vittime degli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza e l’inaspettato grado di diffusione del moto di rivolta inducono l’erede di Habib Bourguiba a rifugiarsi in Arabia Saudita. Il Primo Ministro Mohammed Gannouchi assume la carica di Presidente ad interim fino alla sostituzione da parte del moderato Essebsi. Sono però i partiti islamico-moderati come al-Nahda a convogliare nell’arena democratica i sentimenti dei manifestanti, sarà proprio la formazione di Rashid al Gannushi, ex consulente di Tony Blair, a portare al governo il neo premier Hamadi Jemali.

 

LIBIA – In seguito alla repressione brutale di manifestazioni contro il regime di Tripoli nella città orientale di Bengasi, l’ex colonia italiana viene sconvolta da un grave conflitto civile che vede le truppe leali al colonnello Gheddafi opposte ai ribelli del CNT. Contrariamente a quanto previsto, il 19 marzo la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU dà il via alle operazioni di una coalizione di stati tra cuiStati Uniti, Francia, Italia, Regno Unito e monarchie del golfo persico. Ma le avanzate dei ribelli mancano di coordinazione, di organizzazione e di armi e mezzi, mentre le truppe lealiste dimostrano efficienza tattico-strategica sotto la guida dei figli del raìs Saif e Mutassim. Misurata, assediata e sventrata dai bombardamenti è la città simbolo della ribellione, mentre Sirte e Tripoli rimangono fedeli al regime. L’offensiva coordinata dai bombardamenti strategici della NATO persiste nonostante le critiche e le previsioni di fallimento. Con la liberazione della capitale, la sorte del clan Gheddafi sembra segnata, ma i pochi fedeli rimasti combattono fino all’ultimo sangue fino a quando il 20 ottobre Muhammar Gheddafi cade sotto i colpi degli insorti mentre cerca di rifugiarsi in seguito ad un raid aereo. È il CNT a guidare la difficile transizione, tra tensioni interetniche e una ricostruzione immane da portare a termine, il futuro della nuova Libia è tutto da scrivere.

 

EGITTO – Le sommosse popolari in Tunisia si diffondono anche nell’Egitto di Hosni Mubarak, la sfinge che guida il paese in stato d’emergenza dal 1981, le scene si ripetono con manifestanti che si danno fuoco e i giovani che protestano contro la disoccupazione il regime militare. Piazza Tahrir a Il Cairo diventa il simbolo della lotta contro le Istituzioni in migliaia vi si radunano familiarizzando con la popolazione e persino l’esercito, spaccato tra fedelissimi del raìs e protettori della rivolta pacifica. L’11 febbraio, dopo ripetuti appelli di capi di stato occidentali e dell’ex capo dell’AIEA Mohammed el-Baradei, Mubarak lascia il potere ritirandosi a Sharm el Sheikh prima che il 13 aprile l’arresto e un conseguente attacco cardiaco ne minino definitivamente le condizioni di salute. Il paese rimane in balia della giunta militare capeggiata dal feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi che mette in atto le stesse misure liberticide contro le manifestazioni che continuano imperterrite nonostanteil bilancio di morti e feriti raggiunga cifre inaccettabili.

 

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SIRIA – Il fervore dei moti di rivolta nei paesi arabi contagia anche la Siria, anch’essa in stato d’emergenza dal 1963 e sotto il giogo della famiglia degli Assad e del Partito Baa’th. Le manifestazioni chiedono un’apertura alle libertà e l’avvio di una nuova era democratica per il paese, il Presidente si offre d’impersonare tale cambiamento offrendo un nuovo governo e la riforma della costituzione alle folle nelle piazze. Dal 15 marzo il vento cambia, le riforme si rivelano l’ennesima farsa della dittatura granitica e le forze di sicurezza danno inizio ad un vero e proprio massacro in varie zone del paese. HomsDar’a, HamaLatakia e la stessa Damasco vengono assediate da mezzi pesanti, cecchini e truppe lealiste, principalmente di etnia alawita (la stessa degli Assad). Intanto la rivolta si traforma in un vero e proprio conflitto civile con l’etnicizzazione degli scontri tra sunniti e sciiti e con la formazione dell’FSA, l’esercito libero siriano composto dai disertori dell’esercito di Damasco, sotto la guida del Colonnello Riad al-Asaad. I legami con Hezbollah e l’Iran degli Ayatollah, la protezione del veto russo-cinese al Consiglio di Sicurezza ONU e l’organizzazione delle forze di sicurezza, garantiscono a Bashar al-Assad la mano libera nella repressione sanguinosa delle proteste pacifiche che causano almeno 5000 vittime tra cui anche donne e bambini.

 

IRAN – Nell’anno di massima tensione per i governi del Medio-Oriente, il regime degli ayatollah non sembra essere impensierito dai raduni di piazza e dalle seguenti “giornate della collera”. Dopo i massacri di piazza delle proteste post-elettorali del 2009 Teheran è riuscita nel condannare le opposizioni alla clandestinità e al silenzio quasi totale. Il pericolo viene in realtà dall’esterno per l’unica nazione non araba della regione e dall’opposizione dell’occidente, di Israele e delle monarchie del golfo al programma di proliferazione nucleare avviato con successo. Il 12 settembre il reattore della centrale di Bushehr viene collegato alla rete elettrica nucleare intanto le centrifughe di arricchimento dell’uranio di Natanz lavorano a pieno ritmo per garantire l’autonomia del regime dall’approvvigionamento di materiale fissile. Il Mossad e Tel Aviv sono accusati dei numerosi attentati a basi militari, al programma missilistico e a figure di spicco del programma nucleare, mentre la tensione nello stretto di Hormuz raggiunge picchi insostenibili tra minacce di chiusura e manovre militari. Le voci di un attacco preventivo da parte di Israele si moltiplicano, ma il rischio di una guerra navale per garantire il transito del 20% del greggio mondiale verso l’Oceano Indiano rischia di diventare il leitmotiv del 2012.

 

IRAQ – Il 2011 sarà sicuramente ricordato come l’anno del ritiro delle truppe americane dall’Iraq dopo l’intervento unilaterale e ingiustificato del 2003. Il 18 dicembre l’ultimo contingente lascia il paese alla volta del confinante Kuwait mettendo la parola fine all’operazione Iraqi Freedom che è costata la vita a 4500 soldati americani e circa 150mila iracheni. Otto anni di presenza militare e di contro-insorgenza hanno privato il paese della vecchia elite baathista costringendo il nuovo governo ad una ricostruzione totale delle Istituzioni dello stato. Il nuovo regime guidato dal Primo Ministro Nuri al Maliki si trova ad affrontare un livello di conflittualità senza precedenti tra sciiti e sunniti, con una serie impressionante di attentati e faide infinite. Le infiltrazioni estere, il grado di coordinamento dei movimenti della jihad lasciano un’ombra scura sul futuro dell’antica Babilonia mentre una profonda crisi politica rispecchia la divisione tra le due principali branche dell’islam osservante. Il governo subisce vari rimpasti, dimissioni e cambi di personalità ma non cede sull’obiettivo fondamentale per la rinascita democratica: la produzione di greggio. Il 2011 vede il ritorno dopo vent’anni all’estrazione di 3 milioni di barili al giorno, mentre si prospetta l’estrazione da giacimenti mai toccati fino ad ora, grazie alla supervisione delle compagnie statunitensi e britanniche.

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Piano delle pubblicazioni

Presentazione e Indice dello Speciale

indice

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 è una rubrica speciale con la quale vi offriamo un’ampia panoramica dei principali temi geopolitici dell'anno appena concluso, cercando di capire che cosa è accaduto e quali potrebbero essere le prospettive per l'anno nuovo.

Come si sono comportati i principali attori della scena internazionale? Che progressi hanno fatto nell'affrontare le questioni più spinose? Come guardano all'anno venturo?

Questo 2012 ha tutte le premesse per essere un anno cruciale per il futuro di tante parti del mondo. Noi del Caffè vogliamo accompagnarvi nei prossimi giorni in un viaggio speciale per scoprire insieme quali sono le sfide, gli appuntamenti, le situazioni, gli scenari da tenere d'occhio nei prossimi 12 mesi. Insomma, tutto è pronto per partire con il nostro outlook 2012, Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2.0!

Piano dell'opera
Vuoi vedere com'è andata l'anno scorso?
»Indice dello Speciale 2011 – Il Giro del Mondo in 30 Caffè »367 giorni dopo: cronaca di una profezia avverata – di Alberto Rossi
USA 2012: salvare (la) Barack
»Stesso slogan, vent'anni dopo – di Andrea Caternolo »Oba-mah – di Davide Colombo »USA-Cina: mossa dopo mossa – di Lorenzo Nannetti  
Occidente in crisi
»EUROvina? – di Paolo Iancale »Euro, il grande ammalato – di Davide Tentori »Occidente al centro del mondo? 2012, un nuovo inizio – di Davide Tentori  
Medio Oriente, estremo fermento
»La stagione dopo la primavera – di Rocco Troisi »Chi vincerà al Cairo? – di Marina Calculli »Libia: l'eredità del Colonnello – di Lorenzo Nannetti »Iran, lotta per la sopravvivenza – di Lorenzo Nannetti »Israele, la minaccia arriva dall'interno – di Lorenzo Nannetti »Israele, Palestina: a far la pace comincia tu – di Alberto Rossi »Siria, le mille tessere del puzzle – di Giuseppe Dentice »Turchia: il ritorno dell'impero ottomano – di Giuseppe Dentice »Iraq: via il gatto… i topi ballano? – di Giuseppe Dentice
Oriente: sempre meno estremo, sempre più centrale
»Chi conta nel Pacifico – di Beniamino Franceschini »L'anno del Drago – di Dolores Cabras e Anna Bulzomi »Russia: prova di forza – di Tania Marocchi »Il ritorno dello zar, o forse no? – di Vittorio Maiorana »India: superpotenza o terzo mondo? – di Gloria Tononi »Asia Centrale: fermi sulla via della seta – di Pietro Costanzo »Afghanistan, dieci anni dopo – di Davide Colombo »Il crocevia pakistano – di Davide Colombo  »Giappone, la rinascita del Sol Levante – di Alessia Chiriatti  
Sud del mondo, tra nuove speranze e antichi problemi
»Benvenuti al sud – di Ignacio F. Lara »Brasile, il gigante che balla il samba – di Davide Tentori »Sudan: lotta per l'oro nero – di Stefano Gardelli »Nigeria: pronta al decollo? – di Stefano Gardelli »Africa: la vedo nera? – di Stefano Gardelli »Africa, acque pericolose – di Jacopo Marazia »Messico, la faccia triste dell'America – di Andrea Cerami »Haiti, cambiare tutto perchè nulla cambi – di Gilles Cavaletto
Gli Speciali
»2012: 366 giorni in un ristretto(ne) – di Fabio Stella »2011: meno male che è finito (parte I) – di Fabio Stella »Una primavera lunga 12 mesi (parte II) – di Fabio Stella

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Educare per crescere

Il Cile è il Paese sudamericano più dinamico in questo momento, ancor di più del Brasile di cui tanto si parla. L'economia viaggia a gonfie vele agevolata da un sistema efficiente. I problemi, tuttavia, non mancano: il 2011 è stato caratterizzato dalle proteste degli studenti che chiedono una riforma del sistema universitario. Atenei quasi esclusivamente privati, rette troppo alte e livello educativo generalmente basso impediscono al Cile di compiere il passo decisivo verso lo sviluppo sociale ed economico

CILE, NUOVA STELLA SUDAMERICANA – Dalle nostre parti si parla ancora relativamente poco di America Latina. Eppure, si tratta di una regione ricca di realtà in grande crescita e fermento, non solo dal punto di vista economico ma anche sociale. Se il Brasile ricopre la parte del leone sui principali organi di informazione – e non potrebbe essere altrimenti visti i suoi duecento milioni di abitanti – non va però sottovalutata una realtà estremamente interessante come il Cile, che può essere considerato il Paese più dinamico della regione sudamericana. A vent’anni dalla fine della dittatura militare di Augusto Pinochet, si può dire che il Cile abbia intrapreso in maniera netta e definitiva il sentiero della democrazia. Da quasi due anni il Palazzo della Moneda (sede del Governo nella capitale Santiago) è occupato da Sebastián Piñera, primo esponente del centrodestra ad essere eletto dopo vent’anni al potere della Concertación, la coalizione di centrosinistra che ha avuto in Michelle Bachelet la prima presidente donna della storia del Paese. Piñera è un imprenditore prestato alla politica, e per questo è stato un po’frettolosamente definito il “Berlusconi cileno”; accompagnato da un buon sostegno popolare, tuttavia nei suoi primi due anni di Governo ha dovuto affrontare diverse emergenze che ne hanno ostacolato l’azione.

L'EMERGENZA EDUCATIVA – Dopo aver dovuto fronteggiare l’emergenza provocata dal terribile terremoto avvenuto a fine gennaio 2010, anche il 2011 è stato un anno travagliato per il Cile dal punto di vista delle agitazioni sociali. A partire dalla primavera, infatti, Santiago e le altre principali città del Paese andino sono state lo scenario di una lunghissima serie di manifestazioni di protesta tenute dagli studenti universitari e delle scuole superiori. I giovani chiedono una riforma radicale del sistema educativo cileno, che per quanto riguarda i livelli di istruzione secondaria e universitaria prevede rette particolarmente elevate: le università migliori sono quasi tutte private e molte di esse agiscono come società con fini di lucro (sebbene sia vietato dalla legge), perciò molte famiglie meno abbienti sono costrette ad indebitarsi per far studiare i propri figli. Le cifre dell’OCSE, di cui il Cile fa parte da pochi anni, affermano che il 40% della spesa per l’istruzione ricade sulle famiglie (la cifra più alta fra i Paesi membri dell’organizzazione), mentre la spesa statale per l’educazione superiore copre appena il 15% dei costi. I disordini hanno portato all’occupazione di scuole e università, provocando l’arresto di oltre 1800 manifestanti e al ferimento di cinquecento poliziotti. Il Presidente Piñera ha cercato in un primo momento di screditare la protesta derubricandola ad un problema di ordine pubblico, ma in un secondo tempo ha dovuto concedere qualche apertura al movimento studentesco, guidato da Giorgio Jackson, presidente della Federazione studentesca dell’università cattolica del Cile, e da Camila Vallejo, presidente della Federazione studentesca dell’università del Cile. Il Governo ha promesso un’estensione delle borse di studio ai ragazzi meno abbienti e delle misure per ottenere prestiti d’onore a tassi più agevolati. Troppo poco secondo gli studenti, che chiedono invece una riforma radicale del sistema. Le difficoltà accusate dall’esecutivo nel gestire la questione sono testimoniate dalla girandola che si è verificata al Ministero dell’Istruzione. Felipe Bulnes, che a luglio aveva preso il posto di Joaquín Lavín, ha infatti presentato le dimissioni il 29 dicembre, e al suo posto il Presidente Piñera ha nominato Harald Beyer. Quest’ultimo, economista di formazione ma esperto di istruzione (fu consigliere del precedente Governo di centrosinistra), ha subito annunciato che dialogherà maggiormente con gli studenti e che si occuperà delle questioni rimaste sul tappeto. I gruppi più estremi della protesta giovanile lo hanno tuttavia criticato per le sue idee “neo-liberali”. La polemica scoppiata qualche giorno fa in merito alla scelta di “ammorbidire” i testi dei sussidiari scolastici definendo il periodo pinochettista solo come un “regime militare” e non come una “dittatura” sembra la “cliegina sulla torta” di una situazione che è ancora lontana dal trovare una soluzione condivisa e soddisfacente.

RIFORMARE L'EDUCAZIONE PER AIUTARE LO SVILUPPO – Tralasciando le polemiche politiche, il problema dell’educazione è un tema effettivamente cruciale per il futuro del Cile, che è diventato il Paese dell’America Latina con il livello di benessere e di sviluppo umano più elevati. Una riforma dell’istruzione, che fu già tentata senza successo dal precedente Governo guidato da Michelle Bachelet, dovrebbe essere una priorità dell’agenda politica per almeno due motivi. Innanzitutto, a livello sociale, un sistema educativo più aperto ed egualitario consentirebbe al Cile il completamento del percorso intrapreso vent’anni fa verso una democrazia efficiente e partecipativa, capace di includere tutte le fasce della popolazione e di contribuire a colmare il divario ancora presente nel livello di distribuzione della ricchezza. Inoltre, tale riforma andrebbe a vantaggio anche dello sviluppo economico del Paese. Il Cile è l’economia più dinamica del Sudamerica, ma il livello dell’istruzione è ancora qualitativamente basso rispetto agli altri Paesi OCSE. La scuola, dunque, come motore di sviluppo sociale ed economico.

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L'ECONOMIA VOLA – dispetto delle tensioni sociali, che possono però essere anche giudicate positivamente, sintomo di una democrazia partecipativa dove anche l’opinione pubblica può giocare un ruolo importante (a differenza per esempio dell’Argentina), l’economia cilena sta viaggiando a gonfie vele. Il Prodotto Interno Lordo del 2011 è cresciuto circa del 6,5% e i fondamentali macroeconomici denotano uno stato di salute invidiabile: basti pensare che il debito pubblico costituisce appena il 9% del PIL. Numeri impensabili alle nostre latitudini. I motivi di questo successo vanno ricercati abbastanza indietro nel tempo, a partire dagli anni ’80, quando il regime di Pinochet, seppur brutale e repressivo, intraprese importanti riforme in senso economico che hanno fornito la base per lo sviluppo costante di questi ultimi vent’anni. Il Cile possiede oggi un sistema economico diversificato e non più dipendente in maniera pressoché esclusiva dall’esportazione delle materie prime come il rame, di cui è uno dei principali produttori mondiali. In questo modo la nazione andina è riuscita a sfuggire al fenomeno conosciuto come “maledizione delle risorse”, per il quale molti Paesi latinoamericani eccezionalmente dotati di materie prime non sono riusciti ad intraprendere un percorso stabile e duraturo di crescita economico. Bassa corruzione ed efficienza burocratica contribuiscono a creare il clima ideale per lo sviluppo e l’attrazione di investimenti dall’estero. Il dinamismo del Cile (che da pochi anni è entrato a far parte dell’OCSE) va ricercato anche sul piano internazionale. La politica estera di Santiago è infatti svincolata dal resto dei Paesi sudamericani, che nel corso degli ultimi anni hanno dato vita ad una serie di organismi regionali poco utili a promuovere un’effettiva integrazione politica ed economica, ed è volta a stabilire numerosi accordi bilaterali con Paesi di tutto il mondo per favorire il libero commercio. In particolare il Cile, anche in virtù della propria posizione geografica (schiacciato al di là delle Ande sulle rive dell’Oceano Pacifico), guarda alla sponda asiatica dell’oceano sottoscrivendo accordi per scambi ed investimenti con Paesi come la Cina.

CONCLUSIONI – Il governo Piñera è atteso da una sfida decisiva nei prossimi anni. Se sarà in grado di fornire una risposta in termini di una maggiore inclusione ed uguaglianza (è ancora elevata infatti la sperequazione nella distribuzione della ricchezza), così come nel senso di un’istruzione più libera e di maggiore qualità, allora il Cile riuscirà a non essere più considerato un Paese in via di sviluppo.

Davide Tentori [email protected]

Il grande ammalato

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Quello appena iniziato sarà un anno cruciale per il futuro dell'Unione Europea. Riuscirà l'euro a salvarsi, e con esso le economie degli Stati membri? Nel breve periodo, le misure proposte a dicembre con il “fiscal compact” dovrebbero mettere una pezza ed arginare la crisi. In una prospettiva più ampia, però, gli interessi nazionali degli Stati potrebbero prevalere e il disegno “egemone” della Germania potrebbe creare attriti. Ecco perchè è dunque necessario un profondo ripensamento del disegno politico, oltre che economico, alla base del progetto comunitario

CE LA FAREMO?– La domanda che tutti si pongono di questi tempi è: “Ce la farà l'Euro a sopravvivere?”. La crisi economica che sta colpendo l'Unione Europea e che è scaturita dall'esplosione dei debiti pubblici di alcuni dei suoi Stati ha infatti messo seriamente in discussione la sopravvivenza della moneta unica. Il vertice che si è tenuto a Bruxelles e che ha portato all'approvazione del cosiddetto “fiscal compact”, al quale tutti gli Stati hanno deciso di aderire meno che il Regno Unito, sembra aver restituito un po'di fiato ad un'UE con l'acqua alla gola. Guai, però, a pensare che i problemi siano già stati risolti. Se l'Unione monetaria riuscirà a salvarsi, questo tuttavia non basterà per allontanare ogni nube dal processo di integrazione europea. A nostro avviso andrà fatto un serio ripensamento di tale progetto, che abbia un ampio respiro e che non si limiti a fissare soltanto dei rigidi parametri macroeconomici. Tali misure servono soprattutto nel breve periodo, ma nel lungo devono essere affiancate da un progetto politico di portata più vasta. Andiamo dunque a delineare le prospettive dell'Unione Europea per questo 2012, partendo dalla situazione sul tappeto e descrivendo il ruolo dei principali attori.

FRAU MERKEL E LA “DIETA” IMPOSTA AI 26 – Qui non si tratta di smaltire i bagordi natalizi, ma di mettere in sicurezza i conti pubblici per evitare che si ripetano nuovamente crisi dei debiti sovrani come quella che sta sconquassando i mercati in questi mesi. Il Consiglio Europeo di un mese fa, dopo una notte di estenuanti negoziati, ha dato alla luce un accordo di natura essenzialmente fiscale, denominato “fiscal compact”. I principi sono essenzialmente due. Primo: è vietato per gli Stati sottoscrittori del patto (dato che Londra ha deciso di non aderire, si tratta tecnicamente di un esempio di “cooperazione rafforzata”) avere un rapporto deficit/PIL superiore allo 0,5%: sforato il “tetto”, scatterebbero dei meccanismi di sorveglianza diretta, mentre sforato il 3% si passerebbe all'applicazione di sanzioni, da decidere però a maggioranza qualificata. Secondo: il rapporto debito/PIL deve convergere al valore del 60%, per farlo gli Stati inadempienti devono abbassare il livello in eccedenza di un ventesimo all'anno. I principali media hanno strombazzato l'adozione di questi principi come se si trattasse di una novità assoluta; in realtà, non si tratta altro che della riproposizione dei cardini del Trattato di Maastricht, che fornì l'”architettura” giuridica ed economica per la costruzione dell'unione monetaria. Il problema risiede tutto nell'enforcement di questi principi, ovvero nella capacità di applicarli e di farli rispettare. In primo luogo, bisognerà verificare cosa succederà durante il processo di elaborazione e ratifica di questo nuovo trattato, che partirà a marzo. La paura di degli europei potrebbe favorire l'entrata in vigore del nuovo accordo: nel breve periodo, dunque, gli intoppi potrebbero essere ridotti. I problemi potrebbero cominciare invece quando si inizierà a fare sul serio. Non esistendo meccanismi sanzionatori prima d'ora, la maggioranza dei membri dell'UE era portata a non rispettare le regole del gioco. È anche per questo se si è arrivati agli eccessi della Grecia, con un deficit pari all'11% del PIL e un debito pubblico cresciuto fino al 165% del proprio Prodotto Interno Lordo. Tra questi Stati “disobbedienti” però vanno ricordate anche Germania e Francia, che se oggi svolgono il ruolo di “moralizzatrici” alcuni anni fa fecero spallucce nei confronti di Maastricht violando il Trattato alla pari di tutti gli altri per arginare la crisi economica. Alla luce di queste considerazioni, dunque, il problema principale delle nuove regole è ancora la capacità e la volontà da parte degli Stati di rispettarle e da parte delle istituzioni comunitarie di farle adempiere con severità. Sembra però improponibile per Paesi come Italia e Grecia imporre la riduzione del debito in queste proporzioni: è stato calcolato che Roma dovrebbe varare ogni anno una manovra di 45-50 miliardi di euro per riuscire ad adottare questi ritmi di convergenza. In realtà, l'unica chiave veramente efficace per ridurre questo rapporto è agire sul denominatore, ovvero innestando una crescita dell'economia. Il rigore fiscale adottato di recente dal Governo Monti non può essere l'unica strategia per il lungo periodo, perchè avrebbe conseguenze solamente recessive. Dopo aver messo in sicurezza i conti pubblici – e l'Italia ha dato un ottimo esempio che dovrebbe essere seguito anche dagli altri Stati a rischio – la parola d'ordine per l'UE dovrà essere nei prossimi anni crescita.

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QUI BERLINO – La Germania sembra essere il vero ago della bilancia di quello che potrà accadere nel prossimo futuro. La valenza di Berlino, per il suo peso decisamente superiore anche rispetto alla Francia, non è solamente economica ma anche geopolitica in senso stretto, perchè la sopravvivenza dell'Unione Europea è dipesa e dipenderà in larga parte dal disegno tedesco. La Germania è stata uno dei maggiori beneficiari dell'integrazione europea in questi ultimi anni: il valore dell'euro, modellato sul marco tedesco, ha consentito alle merci locali di non subire una valuta troppo forte e, annullando la possibilità di svalutazioni competitive, ha garantito alla Germania la capacità di esportare. Dall'altra parte, però, i tedeschi hanno anche avuto parte della responsabilità nel causare il disastro greco, la “miccia” della crisi continentale. La maggior parte delle banche operanti in Grecia sono infatti tedesche, e hanno concesso credito anche per consentire ai greci di vivere al di sopra delle proprie possibilità e acquistare le merci in arrivo dalla Germania. Per citare la definizione data da Robin Niblett, direttore del think-tank inglese Chatham House, è come se si fosse riproposto in piccolo il meccanismo dei “subprime” statunitensi. Angela Merkel ha dunque ogni interesse a difendere la sopravvivenza dell'Euro: per fare ciò, tuttavia, non può scegliere la strada dell'intransigenza e dell'imposizione agli altri Stati, dato che la stessa Germania non è immune da peccati. Un arroccamento sulle proprie posizioni potrebbe portare ad un indebolimento, più che a un ulteriore rafforzamento del potere tedesco in Europa, e ad uno spostamento verso la dimensione conflittuale più che cooperativa.

QUI PARIGI – Più critica appare invece la situazione della Francia e in particolare del suo Presidente, Nicolas Sarkozy. Con le elezioni alle porte e una situazione economica non virtuosa come quella tedesca, l'Eliseo si trova in una posizione quantomai delicata. Da una parte vi sono le esigenze di rigore per garantire la sopravvivenza dell'UE; dall'altra, il bisogno di difendere il proprio interesse nazionale per ottenere consensi di breve termine in chiave elettorale e anche per consentire alla Francia di rimanere l'unico vero contraltare al potere tedesco sul continente. Una conciliazione di interessi difficile che potrebbe far aumentare il peso delle ali estreme dello schieramento politico francese.

QUI LONDRA – Qual è il guadagno di David Cameron dopo essersi chiamato fuori dall'accordo fiscale ormai solo “a ventisei”? Difficile dirlo: il premier Tory voleva senz'altro tutelare gli interessi della City. Questa decisione potrebbe avere innescato un processo di allontanamento irreversibile della Gran Bretagna dall'integrazione europea. Facciamo un'ipotesi: se si dovesse davvero arrivare all'adozione di una “Tobin tax” nell'UE (un'imposta su tutte le transazioni finanziarie), è molto probabile che Londra decida di starne fuori anche in un caso simile. Il canale della Manica potrebbe diventare dunque molto più ampio: ma con una situazione economica nient'affatto positiva, il declino politico, oltre che economico, del Regno Unito potrebbe subire un'accelerazione.

CONCLUSIONI – Nel 2012 l'euro sopravviverà e l'Unione Europea dovrebbe riuscire a barcamenarsi e ad arginare la crisi grazie ad una maggiore disciplina fiscale che gli Stati membri, spinti dal timore di sprofondare nel baratro, dovrebbero seguire. Non ci sentiamo di escludere del tutto un'uscita della Grecia dall'euro, anche se fino all'ultimo ogni strada verrà tentata: una simile eventualità, seppur dal peso ridotto in termini relativi, potrebbe avere un significato politico molto forte e causare un effetto “domino” dagli esiti imprevedibili. Il problema sarà garantire una sostenibilità al progetto di integrazione europea negli anni a venire, dunque nel medio-lungo periodo. Quale Europa vogliamo? Quante porzioni della sovranità nazionale possono ancora essere cedute dagli Stati membri? Si tratta di due quesiti che non potranno essere elusi ancora a lungo. La rinuncia al potere di battere moneta è stata una cessione enorme della sovranità: rimangono soltanto la gestione della politica economica e della Difesa. Il fiscal compact, se approvato, comporterebbe la cessione di buona parte della prima: difficile che tutti possano essere d'accordo. Servirà dunque anche una profonda azione di ripensamento politico, per dare all'Unione un futuro stabile e duraturo che non potrà sostenersi solamente sul burocratismo fiscale. Davide Tentori [email protected]

Chi conta nel Pacifico

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Asia sud-orientale e Oceania sono due delle regioni che hanno risentito maggiormente dell’avanzata della Cina. L’aggressività di Pechino nel Mar Cinese e la sua penetrazione nel Pacifico meridionale impensieriscono gli USA, che stanno rivalutando la propria posizione in entrambe le aree. Il tutto mentre i sei maggiori Paesi del Sud-est crescono a un ritmo del 5% annuo e Australia e Nuova Zelanda resistono al 3%

SUD-EST ASIATICO IL 2011: ALLUVIONI E PROTESTE – Il 2011 del Sud-est asiatico sarà ricordato per le drammatiche inondazioni che hanno causato almeno 2mila morti e ingenti danni in tutta la regione. Per mesi, la pioggia non ha concesso tregua: Bangkok è stata sommersa, la Cambogia ha perso 250mila ettari di piantagioni di riso, le Filippine cercano ancora mille dispersi. A lasciare il segno sono state anche le proteste di movimenti che sono sorti in quasi tutta l’Asia sudorientale, simili ai più celebri omologhi (molti giornali asiatici hanno parlato di Occupy South East). Le contestazioni più dure si sono svolte in Malesia, per opera del Bersih, Coalizione per le elezioni libere e giuste, mentre gli abitanti di alcuni villaggi cambogiani, in opposizione ai piani governativi di deforestazione, si sono abbigliati come i Na’vi del film “Avatar”. Nonostante ciò, l’anno è terminato con un tasso complessivo di crescita del 5%, inferiore di due punti rispetto al 2010, ma comunque notevole considerando le difficoltà citate. La previsione per il 2012 indica la quota salire a +5,6%. TRA CINA, USA E INDIA – L’Asia sud-orientale è un esempio dei nuovi assestamenti mondiali. Se da un lato, infatti, la Cina, primo partner commerciale dell’area, ha fatto sentire il proprio peso mostrando un’inaspettata aggressività per il controllo del Mar Cinese meridionale, dall’altro lato gli Stati Uniti hanno abbandonato l’inazione della prima metà dell’Amministrazione Obama. L’impegno americano crescente nel sistema asiatico-pacifico è molto più che un semplice bilanciamento al ritiro da Afghanistan e Pakistan: è una dichiarazione d’intenti, ossia la volontà di spostare maggiori risorse verso l’Oceano Pacifico. Hillary Clinton ha definito il Sud-est asiatico il «pivot» del nuovo corso strategico, ponendo particolare attenzione sull’Asean e sull’Indonesia. Contestualmente, Washington ha offerto sostegno sia al Vietnam nelle dispute marittime con la Cina, sia all’opposizione birmana di Aung San Suu Kyi. Nella regione, però, in molti cominciano a vedere nell’India le potenzialità per garantire una valida alternativa alle stringenti logiche dualistiche. 2012: OMBRE SUL MAR CINESE – Un aspetto complesso sarà l’evoluzione delle dinamiche nel Mar Cinese meridionale: il cambio di politica degli USA rende rischioso per Pechino proseguire sulla scia spregiudicata tenuta nell’anno appena trascorso, considerato che già la fase di transizione nordcoreana tiene in allerta gli attori circostanti. A maggior ragione, la pressione statunitense sui membri dell'Asean potrebbe costituire un meccanismo piuttosto difficile da scardinare per la Cina, soprattutto se Washington riuscirà a rafforzare il proprio sostegno ad attori in forte crescita, ma con problematiche articolate.

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OCEANIA BILANCIO ECONOMICO – Sarebbe difficile definire un andamento economico dell’Oceania, giacché i Paesi locali sono dipendenti soprattutto dai finanziamenti internazionali e privi di reale potere contrattuale. L’Australia e la Nuova Zelanda hanno seguito parzialmente le sorti della crisi europea e statunitense, subendo flessioni moderate del Pil causate dal rallentamento in Asia, dalle avverse condizioni climatiche e dal terremoto di Christchurch a febbraio. Tuttavia, le stime di fine anno attribuiscono a Canberra e Wellington una crescita del 3% (prevista al 3,3% nel 2012). IL TENTATIVO STRATEGICO DEGLI USA – La tendenza degli ultimi anni ha visto la Cina penetrare tra gli Stati dell’Oceania in cerca di materie prime in grande quantità e a buon prezzo. Fiji, Nauru, o Vanuatu sono pedine fondamentali nella corsa all’approvvigionamento, ma anche punti d’appoggio per il controllo delle rotte navali. La presenza di Pechino in Oceania e il progressivo allentamento della politica interventista dell’Australia hanno spinto Washington a tornare alla gestione diretta dell’equilibrio regionale. Obama non ha fatto mistero di non gradire più la linea di Canberra e, nonostante il progetto di riorganizzazione delle Forze Armate australiane preveda un maggiore schieramento aeronavale sulla costa settentrionale, in novembre la Casa Bianca ha disposto l’invio di un contingente di marines a Darwin, chiaro segnale di posizionamento in un punto strategico dell’Oceano Indiano. Allo stesso tempo, l’Australia ha sollevato il divieto di vendita di uranio all’India: la misura è volta a riavvicinare Canberra e Nuova Delhi, ossia, contestualmente al rafforzamento della cooperazione tra India e Stati Uniti, a chiudere un sistema di difesa dell’Oceano Indiano. Altro tassello è la serie di disposizioni che da Washington sono giunte ai rappresentanti in Oceania: riguardo alle Isole Fiji, per esempio, l’ambasciatore americano ha ricevuto incarico di dialogare con il regime militare, subordinando le critiche per la violazione dei diritti costituzionali alla necessità del blocco dell’espansione cinese. AUSTRALIA: INCOGNITA 2012 – L’opinione pubblica australiana potrebbe mostrare insofferenza qualora gli Usa avanzassero, ancor prima di richieste d’intervento diretto, anche solo istanze di maggiore disponibilità a ospitare proprie truppe. L’attenzione è al largo delle coste nord-occidentali, dove si disputerà un’importante partita per i giacimenti petroliferi del Browse Basin, i quali, nonostante siano sotto la sovranità di Canberra, rientrano nelle mire di compagnie indiane e cinesi. Beniamino Franceschini [email protected]