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Natale col Caffè?!?

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… ma anche no! Vi auguriamo il Natale più sereno e gioioso possibile: fate festa, godetevela, passatelo con le persone che più amate. Tra qualche giorno poi torneremo alla carica alla grande: anche quest'anno, vogliamo proporvi un bel giro del mondo per iniziare al meglio il 2012… per adesso, buon Natale!!

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Il lobbying del futuro

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Totalmente svincolata dalle dinamiche di lobbying in voga a Bruxelles, la Cina avanza nel cuore dell’Unione Europea a piccoli passi. E punta sempre più in alto. Senza bisogno di mettere in atto uno stile “rumoroso” ed aggressivo, Pechino è già riuscita a conseguire importanti successi per preservare le proprie esportazioni nel Vecchio Continente e si appresta ad ottenere risultati ancora più ambiziosi

GLI INVISIBILI – Song Zhe, ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese presso l’Unione Europea, è un uomo sobrio e riservato, che non concede interviste. Il palazzo che ospita la delegazione cinese a Bruxelles è un anonimo edificio grigio, che suggerisce modestia e isolamento. Viene da chiedersi: dov’è la grande Cina? Qualche settimana fa, il mensile francese di economia “Expansion” riportava le parole di Gerard Legris, l’uomo a capo dell’ “Unità Trasparenza e Rapporti con i Gruppi di Interesse extra-UE” presso la Commissione Europea. Legris ha definito i cinesi in Europa “invisibili”, e ha spiegato che Pechino è del tutto tagliata fuori dai meccanismi di lobbying aggressivo che contraddistinguono la politica brussellese. Mentre le delegazioni di molti paesi extraeuropei (soprattutto USA, Giappone e Corea del Sud) si animano e si agitano tra accordi, affari e promesse con le istituzioni UE, i cinesi stanno a guardare. O meglio, scelgono altri canali per far sentire la loro voce.  Certo è che la concitata girandola del lobbying non si addice a un uomo come Song Zhe, che predilige l’austerità e detesta le public relations. LOBBYING ALLA CINESE – Eppure, lontano dai riflettori, Pechino sa tutelare i suoi interessi commerciali in Europa molto meglio di quanto non facciano delegazioni più esperte e presenzialiste. La moderazione della Cina a Bruxelles non è che una finzione, come mostrano recenti esempi di pressioni tutt’altro che low profile. Quando a Bruxelles si parlava di introdurre nuovi standard sull’uso di sostanze potenzialmente nocive nella filiera produttiva di apparecchiature elettriche ed elettroniche (cadmio in testa), la Cina ha fatto di tutto tranne che restarsene in disparte. Questo perché il cadmio è largamente impiegato nella produzione di pannelli fotovoltaici (quasi tutti made in China, dato che Pechino ambisce a divenire leader nel settore delle rinnovabili). Promettendo ingenti investimenti in Francia, i tycoons cinesi si sono potuti avvalere dell’appoggio di un numero consistente di deputati francesi, i quali hanno prontamente difeso la filiera di produzione dei pannelli solari, con il risultato che la direttiva UE sul cadmio non sarà applicabile in questo settore. Qualcosa di simile era già accaduto nel 2010, sul fronte della polemica tra la società belga Option e il gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei. Option aveva accusato i cinesi di dumping, scatenando un’inchiesta in seno alla Commissione Europea. Huawei, per tutta risposta, aveva spostato il discorso su un altro terreno, promettendo al governo belga la creazione di un hub di ricerca e sviluppo (R&D) nel settore delle telecomunicazioni. Inutile dire che Option ha subito bloccato la procedura anti-dumping avviata, ha accettato la proposta cinese, e ha addirittura concesso a Huawei di acquistare la sua subsidiary M4S, un ramo dell’azienda belga impiegata nella produzione di chip per smartphones e telefonia di ultima generazione. Insomma, la Cina non avrà i migliori lobbisti sulla piazza, ma non le mancano le carte per concludere accordi vantaggiosi nel Vecchio Continente. 

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PROSSIMI OBIETTIVI – In cima alla “to-do list” di Song Zhe restano due obiettivi fondamentali, quelli per cui l’uomo forte di Pechino a Bruxelles sta lavorando fin da quando è stato nominato Ambasciatore. Numero uno: far guadagnare alla Cina lo status di “economia di mercato” in UE (etichetta che proteggerebbe le imprese cinesi dal rischio delle procedure anti-dumping). Numero due: far sì che l’embargo sulle armi venga eliminato. Zhe, che in passato è stato Ambasciatore a Londra e Consigliere del Primo Ministro Wen Jiabao, sa muoversi diplomaticamente e in punta di piedi, e potrebbe arrivare ad entrambi. Senza colpi di testa e con grande discrezione, la Cina sta iniziando a dettare nuove regole nell’arena del lobbying e, se andrà avanti così, la sua avanzata silenziosa e invisibile diventerà presto evidente. Anna Bulzomi [email protected]

Dal Caro Leader al Brillante Compagno

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L'opinione pubblica si aspetta stravolgimenti dalla morte di Kim Jong Il, ma cambiamenti effettivi dello status quo appaiono improbabili. Una panoramica sulla situazione geopolitica dopo la morte del Caro Leader e l'imminente passaggio di consegne al figlio Kim Jong-Un. Pechino e Washington non hanno interesse a modificare sensibilmente la situazione, così come i militari nordcoreani, in questo momento arbitri della situazione interna al Paese

Tratto da “China Files” TEMPO DI APERTURE? – La morte del Caro Leader ha suscitato negli analisti un più o meno condiviso auspicio libertario e democratico. Di Kim Jong-Un non si conosce bene neppure l'età, eppure gli opinionisti di mezzo mondo non fanno altro che ripetere, tra le altre cose, che è un fan dell'NBA, che ha studiato in Svizzera o che è confucianamente troppo giovane per assumere il comando, come se questo bastasse a far prevedere un indebolimento e quindi una svolta nel regime autoritario di Pyongyang. Appare necessario fare un leggero passo indietro. Delle condizioni del popolo nordcoreano si dice molto, il che equivale a non sapere nulla: internet oscurato, il culto dei due defunti Kim come divinità terrestri, l’incoscienza sia del mondo esterno sia di quanto accade all'interno dei confini nordcoreani. TENERE ALTA LA TENSIONE – Lo scenario internazionale che crediamo di conoscere è, però, altrettanto poco trasparente: un rischio calcolato che ci appare al limite con una lucida follia, quando non con un dissennato suicidio globale. In tutto ciò c'è solo una parte di verità. Se da una parte agli USA interessa molto che all'altezza del 38° parallelo si tenga alta la tensione così da non dover smobilitare le sue truppe da un territorio cosi strategico come Seoul, dall'altra la Corea del Nord sente la propria indipendenza minacciata più dalla Cina che dagli stessi Stati Uniti, e per questo Pyongyang ha più volte manifestato la sua volontà di avvicinamento e di normalizzazione delle relazioni chiedendo colloqui bilaterali. Di fatto i nordcoreani sono spinti tra le braccia della Cina per disperazione, poiché messi all'angolo dalla quasi totalità della comunità internazionale che a questa si rivolge costantemente per fare da intermediaria con Pyongyang, mentre i cinesi sono evidentemente propensi a preservare uno status quo che non ne destabilizzi la supremazia nello scacchiere estremorientale. Una tensione, dunque, che piace: gli episodi di violenza tra le due Coree rispondevano ad una dinamica di politica interna. Si sapeva che Kim Jong Il non avrebbe vissuto a lungo, e l'ala militare del governo nordcoreano ne ha verosimilmente approfittato per non rischiare di veder cambiare le cose, considerato che (e in pochi lo ricordano) dalla morte di Kim Il Sung nel 1994 erano stati fatti molti passi avanti e molte aperture da parte del Caro Leader sia nei confronti del Sud che di tutta la comunità internazionale. Porte puntualmente chiuse in faccia, tanto per tenersi un comodo nemico-spauracchio pronto all'occorrenza (specie da parte degli USA). Kim Jong-Un ha incassato automaticamente la fedeltà del suo popolo, ma rappresenta certamente un'incognita: prima di lui suo padre, che veniva da una assai più lunga e dura formazione, seppe comprendere ed incanalare le volontà della gente, a partire dalla divinizzazione della figura del Grande Leader, Presidente Eterno.

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E I NORDCOREANI?Il popolo può essere l'unica variabile impazzita di questa equazione: una stretta meno forte sul controllo dell'informazione potrebbe essere, per i vertici del regime, l'errore, la scintilla per dare il via a mobilitazioni nello stile della Primavera Araba. Ma il condizionale è d'obbligo: è impossibile misurare quanto possa sopportare l’indigenza un popolo così lontano dal nostro e non va dimenticato che nel Juche dei Kim si è trovata un'identità nazionale che la storia aveva sempre negato alla Corea. Senza, però, volersi addentrare in ipotetiche psicoanalisi collettive, è assai improbabile che le gerarchie militari lascino al Brillante Compagno (questo l'appellativo del prossimo leader nordcoreano) la possibilità di prendere decisioni tali da intaccarne il potere. L'unico compromesso possibile potrebbe venire da un avvicinamento economico ed istituzionale del Nord alle condizioni del Sud tramite un lento processo di adattamento, ma oltre alla volontà politica reciproca ci sarebbe bisogno di un atteggiamento piu conciliante anche da parte della comunità internazionale, USA su tutti, che invece preferisce tenere la Corea del Nord nel suo status di isolamento e sussistenza. Nuove speranze vengono dai recenti colloqui (maggio 2011) di Pechino tra Hu Jintao e il defunto Kim Jong Il: dal 2003, infatti, le sei potenze interessate (Seoul, Pyongyang, Pechino, Mosca, Tokyo e Washington) avevano aperto un tavolo per gestire collegialmente le tensioni e gli avvicinamenti tra le due Coree. Proprio la questione nucleare era stata uno dei principali motivi di fallimento dei colloqui, interrotti nel 2008, e che sembravano destinati a non riprendere. La recente riapertura, ottenuta ancora una volta mediante intermediazione cinese, risponde all'esigenza nordcoreana di uscire dal suo isolamento, ed è l'ennesima voce contraddittoria di un regime che non può stare fermo: potrebbe anche collassare sotto il peso delle sue crisi. E allora non e impensabile che un successo dei colloqui a sei possa gestire la riunificazione delle due Coree, mediando tra le esigenze di tutte le parti: sebbene l'interesse di tutti sia quello di preservare lo status quo, il totale potrebbe essere differente dalla somma delle parti. Giuseppe De Stefano [email protected]

Fiji: un mare… di guai

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Dopo il colpo di Stato militare del 2009, le Fiji sono state isolate da Australia e Nuova Zelanda, ma la Cina scorge nel Paese arcipelago un punto chiave per penetrare nel sistema regionale del Pacifico. Gli Stati Uniti, timorosi di un mutamento degli equilibri, mostrano insofferenza verso la rigidità australiana e intervengono chiedendo il ripristino dei rapporti con le Fiji

 

LA CINA NEL PACIFICO DEL SUD – Dal 2005, la Cina ha intrapreso un processo di penetrazione tra i Paesi insulari del Pacifico meridionale, assicurandosi importanti punti di rifornimento in vista dell’ampliamento della propria marina e concludendo accordi che le garantiscano il controllo di rotte strategiche e l’accesso a risorse fondamentali. Contando su un’iniziale inazione statunitense e sull’ormai inefficace impegno australiano, la Repubblica Popolare ha volto l’attenzione verso le inesplorate ricchezze dell’Oceania, nei cui fondali si trovano alcuni tra i maggiori giacimenti mondiali di oro, bauxite, rame e nichel. Pechino ha ottenuto ampie concessioni in cambio di contropartite spesso esigue (per esempio la costruzione di impianti sportivi nelle Isole Samoa) in rapporto al ricavo potenziale. L’alleanza con la Cina consente, inoltre, ai Pacific Islanders di creare un fronte compatto contro le ingerenze dell’Australia, accusata di perseguire all’estero politiche discriminatorie e coloniali (nella foto sopra: il ministro degli Esteri figiano Inoke Kubuabola incontra l’omologo cinese Yang Jiechi nel 2010).

 

IL DILEMMA DELLE ISOLE FIJI – Tuttavia, sebbene ogni accordo costituisca nell’ottica australiana e statunitense un rischio di mutamento dell’assetto geopolitico, Canberra e Washington sono particolarmente interessate allo slittamento delle Isole Fiji verso il sistema cinese, poiché, oltre a essere rilevanti per popolazione e superficie rispetto ai Paesi limitrofi, esse sono geograficamente centrali nel complesso dell’Oceania sudorientale. La loro importanza nelle rotte aeronavali è stata ribadita dallo Australian Stretegic Policy Institute, che in un recente rapporto per il ministero degli Esteri le ha definite. «il cuore del sistema regionale delle isole del Pacifico». Le Fiji, caratterizzate sin dall’indipendenza da instabilità politica e da Forze Armate relativamente numerose e ben addestrate, sono governate dal 2006 dalla giunta militare del commodoro Frank Bainimarama, giunto al potere con un golpe. Dopo i tentativi di normalizzazione, nel 2009 è stata di fatto sospesa la Costituzione e, alla denuncia di Australia e Nuova Zelanda riguardo alla violazione dei diritti umani, le Fiji hanno risposto con l’espulsione degli ambasciatori.

 

TENTATIVI FALLITI – Il tentativo di Canberra e Wellington fu sin dall’inizio volto a isolare Suva (la capitale delle Fiji) dalla comunità internazionale, agendo tramite sanzioni regionali e ricerca del consenso con i Paesi circostanti. Questa politica, però, è stata completamente vanificata dalla Cina, che ha rafforzato la cooperazione, incrementando notevolmente gli aiuti economici (giunti oltre i cento milioni di euro secondo alcune stime), elogiando gli sforzi del governo di Bainimarama per la promozione dei diritti umani e stipulando importanti trattati economici, non ultimo quello per lo sfruttamento del giacimento aurifero di Namosi, che potrebbe valere tra il 2011 e il 2060 circa quaranta miliardi di euro. L’azione di Pechino, pertanto, ha inevitabilmente vanificato il tentativo australiano di isolare la dittatura figiana, sia ovviando economicamente e politicamente alle difficoltà del Paese, sia favorendo la ricostruzione di vincoli di amicizia con gli altri attori locali.

 

IL NUOVO CORSO DEGLI USA – Gli Stati Uniti, da parte loro, non sembrano più gradire le misure di Canberra nei confronti delle Fiji, giudicandole, oltre che controproducenti e inadatte a contrastare l’avanzata cinese, ormai del tutto inutili. Secondo Washington, l’Australia avrebbe progressivamente perso la capacità di definire le linee della regione, addirittura subendo la coesione degli altri Stati del Pacifico meridionale, spesso compatti nel contrastare Canberra nell’Assemblea ONU o nel Pacific Islands Forum. L’Amministrazione Obama preferirebbe che le Fiji fossero riammesse a pieno titolo alla vita regionale, poiché un’eventuale esclusiva presenza cinese nell’area potrebbe rappresentare per gli Stati Uniti, in questo periodo impegnati in un nuovo processo di dispiegamento nel Pacifico, un motivo di reale preoccupazione e instabilità. Non è pertanto un caso che Frank Reed, il nuovo ambasciatore di Washington a Suva, abbia di fatto sconfessato la politica di isolamento condotta dall’Australia, incontrando di recente il Presidente Bainimarama e citando la necessità di «un maggiore impegno diretto con il governo locale per il ritorno della democrazia».

 

Quando un ‘piccolo’ diventa ‘grande’

Da qualche tempo a questa parte il Qatar è salito alla ribalta internazionale: il piccolo emirato, che si affaccia sul Golfo Persico/Arabico ambisce ad affermarsi come Paese guida del “nuovo” Medio Oriente. Le sue ricchezze economiche e il potente ruolo mediatico del network nazionale al-Jazeera fanno di Doha un formidabile player strategico capace di incidere nei più rilevanti eventi e forum internazionali

 

UNO SGUARDO ALL’INTERNO – Il piccolo Paese arabo, guidato dall‘Emiro Khalifa al-Thani dalla metà degli anni ’90, si è contraddistinto nel panorama arabo come un Paese proiettato nel futuro e nella modernità, in netto contrasto con il passato isolazionista del precedente reggente. L’Emiro Al-Thani ha posto come punti chiave della sua azione di governo un giusto mix tra riforme politico-istituzionali, quali una modernizzazione della macchina statale, una maggiore diversificazione dell’economia e una progressiva apertura del Paese alle relazioni internazionali, nonché numerose iniziative di carattere sociale, quali un’agevolazione del dialogo interreligioso e una maggiore emancipazione della donna nella vita pubblica nazionale. Ovviamente questa grande crescita socio-economica è stata favorita non solo dalle ingenti ricchezze naturali – gas e petrolio – di cui il territorio è provvisto, ma anche dalla grande capacità politica dell’establishment nazionale, fattori che hanno permesso al Qatar di divenire un influente attore a livello globale.

 

IL QATAR TRA “AMBIGUITÀ” ED “OPPORTUNISMO” POLITICO – Il Qatar ha fatto della “ambiguità” la sua caratteristica principale in politica estera. Doha si è costruito questa immagine dinanzi all’opinione pubblica araba e internazionale, soprattutto grazie alla grande opera diplomatica del proprio governo. Infatti, l’ambivalenza politica dell’emirato si mostra da un lato attraverso la salvaguardia dei propri legami con i partners occidentali (USA e UE) e, dall’altro, tramite la capacità di accreditarsi nei consessi regionali e internazionali come nuovo punto di riferimento per l’area, in quanto portavoce degli svariati orientamenti arabi e musulmani, anche più radicali. Spesso l’Emirato ha cercato di mediare fra le istanze di rivendicazioni islamiche e le posizioni filo-occidentali dei vicini. A tal proposito, il Qatar è l’unico Paese del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) ad avere relazioni bilaterali stabili con l’Iran, nonostante Teheran venga ritenuto un Paese destabilizzante per la regione. A dispetto delle sue ridotte dimensioni, il Qatar si è posto, non di meno, quale “ago della bilancia” nelle principali questioni internazionali intervenendo sia nella missione guidata dalla NATO in Libia, sia nell’ambito del CCG in Bahrain in soccorso della famiglia reale degli al-Khalifa a seguito degli scontri tra manifestanti e polizia locale dello scorso febbraio. In realtà, la politica estera qatarina spesso bollata dai media internazionali come “spregiudicata” e “ambigua” ha mirato a preservare soltanto la sicurezza del Paese arabo dalle tensioni a carattere politico e religioso che caratterizzano l’area. Quella che è stata tacciata come “ambiguità” politica pare somigliare, invece, più ad una sorta di “opportunismo” tra le logiche aspirazioni di un piccolo Paese e il tentativo, appunto, di evitare all’Emirato di rimanere schiacciato dal peso dei due ingombranti vicini, Arabia Saudita e Iran. Questo agire politico, infatti, ha permesso a Doha di sviluppare tanto una diplomazia attenta al buon vicinato e ai buoni rapporti con l’Occidente, quanto un’accortezza politica verso le dinamiche regionali.

 

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IL RUOLO POLITICO DI AL-JAZEERA – Il network satellitare al-Jazeera, nato nel 1996 per volontà di al-Thani a seguito di un accordo fallito tra la britannica “BBC” e la compagnia saudita “Orbit Communications”, ha raggiunto in breve tempo livelli di popolarità senza precedenti in tutto il mondo arabo, trasmettendo in arabo e in inglese. Due canali non solo in lingue diverse, ma anche con audience diversi.  Nel pieno fermento arabo, il network ha assunto un formidabile ruolo di amplificatore nelle proteste. Fervente sostenitore delle prime rivolte dilagate a macchia d’olio nella regione nordafricana, alJazeera ha assunto progressivamente posizioni molto più caute quando i fenomeni di protesta hanno iniziato a diffondersi nella ricca regione del Golfo. I motivi della mutata posizione del canale satellitare sono chiaramente intuibili attraverso due fattori: uno geografico e l’altro politico. Infatti, da un lato, il Nord Africa è sembrato costituire uno scenario più favorevole per l’opera di comunicazione del network non solo per la distanza geografica, ma anche perché lontano dai legami di potere della famiglia Al-Thani. Dall’altro, invece, le rivolte in Bahrain, Arabia Saudita, Yemen o nello stesso Qatar, hanno ricevuto una minore eco a causa appunto della vicinanza geografica e degli interessi politici e dei legami familiari che legano le corone della regione del Golfo. Questo differente approccio politico agli eventi rivoluzionari, dimostra ancora una volta come l’ “opportunismo” qatarino in politica estera giochi un ruolo importante sia nella necessità di assicurare un sempre più alto profilo al Paese del Golfo, sia nel garantire “equilibrio” nelle delicate relazioni parentali-diplomatiche con gli altri attori regionali.  

 

Giuseppe Dentice

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Israele contro Israele

Le manifestazioni di ultraortodossi e coloni contro lo smantellamento delle colonie definite illegali nella West Bank non sono mai state un mistero, così come le aggressioni ai palestinesi. Tuttavia in questi ultimi mesi la frequenza e la violenza delle stesse sono aumentate, fino al punto di arrivare ad attaccare alcune basi delle IDF (Israel Defence Forces). Stiamo per arrivare a una guerra civile? Andiamo a capire quale sia la situazione

 

PRICE TAG – Nonostante il governo Netanyahu sia appoggiato da una maggioranza nazionalista e favorevole alle colonie (Likud, Yisrael Beitenu, Shas, Habayit Hayehudi, United Torah Judaism, e il recentissimo Haatzma’ut guidato Ehud Barak assieme ad altri ex-laburisti) l’Alta Corte di Giustizia israeliana, massimo organo giudiziario del paese, ha ordinato  lo smantellamento di alcune di quelle illegali. Per quanto le misure siano molto limitate, questo ha provocato le ire dei movimenti dei coloni e soprattutto delle frange più estremiste e violente. Negli ultimi mesi gruppi di coloni hanno così preso ad assaltare palestinesi e beduini nella West Bank, inscenare proteste spesso sfociate in violenza e incendiare moschee (la più recente a Gerusalemme qualche giorno fa). In tutti i casi nei luoghi delle violenze viene disegnata in ebraico la scritta “prezzo da pagare” (price tag), oltre ad altre spesso ingiuriose e anti-islamiche. Qual è lo scopo? Mostrare al governo che ogni tentativo di smantellare le colonie, anche le più piccole, porterà a una sorta di vendetta da parte dei coloni stessi, principalmente contro i palestinesi. Più colonie vengono smantellate, più rappresaglie vengono eseguite, mettendo in imbarazzo il governo stesso, incapace di mantenere l’autorità.

 

ATTACCO ALLE IDF – La situazione appare però ora quasi fuori controllo nel momento in cui il 14 dicembre un gruppo di attivisti nazionalisti e coloni (soprattutto giovani e giovanissimi) è penetrato in una base militare nella West Bank, sede del comando della Brigata Territoriale Efraim e ha ferito il vicecomandante di Brigata Colonnello Tzur Harpaz che si era avvicinato disarmato nella sua jeep. Oltre a questo sono stati danneggiati numerosi altri veicoli. Inevitabile lo sconcerto dell’esercito e del resto della popolazione, soprattutto poiché le IDF (Israel Defence Forces) sono da sempre considerate “l’esercito del popolo” in Israele dato che quasi tutti i giovani ne fanno parte per tre anni. Evidentemente però in questo caso la lealtà al proprio gruppo sociale ha avuto la meglio sul senso di unità.

 

POLITICA AMBIGUA – Volendo analizzare meglio la situazione, sono varie le cose da tenere presente. Le colonie e il suo Consiglio, che pure ha condannato l’evento ma solo in maniera marginale, appaiono sempre più come uno stato dentro lo stato, pronto a proteggere i propri interessi anche andando contro quelle stesso forze armate che li proteggono dagli estremisti palestinesi. Secondariamente la classe politica israeliana, con l’eccezione solo dei partiti nazionalisti e ultraortodossi, sta iniziando a vedere le colonie come un problema che interessa non soltanto i palestinesi ma anche Israele stesso, minandone la stabilità. I giornali israeliani già riportano come alcuni politici parlino ormai apertamente di terrorismo ebraico, termine che non veniva impiegato da decenni e più precisamente dall’eliminazione dei gruppi LHI e Irgun negli anni quaranta. Allo stesso tempo però, l’escalation di violenza deriva anche proprio dal linguaggio e dai toni spesso molto aggressivi di alcuni esponenti dei partiti della destra nazionalista, che di fatto appaiono giustificare tali azioni.

 

CHI PROTEGGERE? – L’elemento che va maggiormente seguito è l’atteggiamento delle forze armate, spesso esposte in zone turbolente proprio per proteggere i coloni, come ad esempio a Hebron. Già da qualche anno molti ufficiali hanno espresso dubbi circa la difficoltà di mantenere motivati i propri soldati in tali situazioni, schiacciati tra il pericolo di estremisti islamici e l’ostilità dei coloni. L’attacco alla base innalza però la tensione e pone il problema di come reagire la prossima volta che un gruppo di contestatori cercherà di entrare in una base. Per ora infatti le forze armate non sono autorizzate nemmeno ad arrestare eventuali contestatori ebrei, mentre la polizia territoriale, che può farlo, ha forze insufficienti per coprire con tempestività il territorio. Il risultato è che l’esercito ha di fatto le mani legate. Tuttavia, già più di un membro della Knesset ha richiesto che le IDF possano usare la forza, fino ad arrivare ad aprire il fuoco per proteggersi. Nemmeno Netanyahu però si può permettere di inimicarsi l’esercito (tipicamente supportato dalla destra), e dunque non potrà esimersi dall’operare per fornire alle truppe il modo per proteggersi.

 

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CAMBIO DI MUSICA – Con parte del suo governo riluttante a condannare pienamente l’evento e la prospettiva di vedere una guerra ebrei contro ebrei (molti coloni sono riservisti o ex-militari e possiedono armi), il governo potrebbe trovarsi in una posizione intermedia poco piacevole. Il rischio è che l’esercito non aspetti autorizzazioni politiche a difendersi; il Generale Mizrahi, fino a ieri comandante del Comando Centrale, ha infatti dichiarato apertamente che le sue truppe non si faranno intimidire e che se riceveranno l’ordine di abbattere altre colonie lo faranno senza farsi fermare (come avvenuto anche ieri a Mitzpeh Yitzhar). Del resto, che la musica sia cambiata per i coloni è confermato dalla decisione di ieri sera del Ministro della Difesa Ehud Barak e del Capo di Stato Maggiore Benny Gantz di sostituire Mizrahi stesso alla guida del Comando Centrale col Brigadier Generale Nitzan Alon, ben conosciuto per essere su posizioni anti-coloni.

Tra grandi speranze e tensioni latenti

La penultima settimana del 2011 si apre tra tendenze discordanti: in Europa la Francia conferma la politica di contrapposizione con Londra, mentre rischia di scontrarsi apertamente con la Turchia per antichi rancori. Intanto in Asia la Corea del Nord rientra nei ranghi della non proliferazione mentre il Pakistan trema di fronte alle voci dell'ennesimo colpo di stato militare. In America le primarie dei repubblicani entrano nel vivo mentre il Medio Oriente rischia di arrivare al 2012 con lo scontro diplomatico in Iran e una guerra civile dichiarata nella Siria degli Assad. C'è spazio per speranze e tensioni nel ristretto di questa settimana.

EURASIA

Lunedì 19 – I Presidenti di Commissione e Consiglio Europeo José Manuel Barroso e Herman Van Rompuy saranno ospiti a Kiev del Presidente ucraino Viktor Yanukovych per il quindicesimo EU-Ukraine summit. I punti principali delle discussioni riguarderanno l'agenda delle riforme ucraine e i legami tra l'Unione Europea e il paese dell'est Europa per quanto riguarda l'obiettivo condiviso dell'associazione politica e dell'integrazione economica. Ci sarà spazio anche per trattare tematiche scottanti quali le conseguenze del progetto di liberalizzazione dei visti, le preoccupazioni per i diritti umani e delle minoranze e i rapporti di Kiev con i paesi vicini quali Moldavia, Bielorussia e Fed. Russa.

Giovedì 22 – Si riunisce il Consiglio di Governo della Banca Centrale Europea, essendo il secondo meeting del mese di dicembre verranno discusse esclusivamente materie che non riguardano la politica monetaria dell'eurozona, comunque collegate alle competenze della BCE. Verranno tirate le somme dei primi 10 anni di funzionamento della struttura e delle prospettive di allargamento dell'unione monetaria dopo l'ingresso dei nuovi membri. Sarà l'occasione per capire quale ruolo ricoprirà in futuro la struttura guidata da Mario Draghi negli sviluppi della ripresa dell'economia greca e degli altri paesi in difficoltà finanziarie, mentre le maggiori agenzie di rating annunciano declassamenti incombenti.

FRANCIA – Mentre la tempesta Joachim lascia le coste nord-occidentali con un bollettino disastroso, i rapporti diplomatici di Parigi sembrano risentire delle stesse tensioni mentre si avvicina la scadenza per le presidenziali del 2012. Dopo la mancata stretta di mano tra Cameron e Sarkozy al Consiglio europeo, ci ha pensato il Ministro delle Finanze francese François Baroin a raggelare i già stilizzati rapporti con Londra criticandone i fondamentali economici. Intanto la votazione in seno al Parlamento di una legge sul genocidio degli armeni del 1915 potrebbe sancire la rottura con un altro attore europeo, la Turchia. La minoranza armena è una delle più cospicue in Francia e il provvedimento potrebbe colpire tutti coloro che negano l'eccidio compiuto dall'Impero ottomano un secolo fa. Ankara ha già promesso il ritiro dell'Ambasciatore a Parigi e la rottura delle relazioni bilaterali tra i due paesi se la legge dovesse passare.

AMERICHE

STATI UNITI – I candidati repubblicani alla nomination per le presidenziali del 2012 si affrontano in una sfida all'ultimo sangue per conquistare i voti dei simpatizzanti del G.O.P nell'Iowa, dove le primarie scatteranno il 3 gennaio. Newt Gringrich, populista di pancia si appella ai contrasti tra magistratura e popolino accusando i suoi competitors di concorrenza sleale, Michelle Bachmann affronta una marcia a tappe forzate di dieci giorni attraverso le 99 contee dello stato affiancata dal Governatore di New York Rick Perry nella caccia al voto dei piccoli imprenditori. La vera stella dei repubblicani, Mitt Romney, ha guadagnato invece il supporto del più importante quotidiano locale e del Governatore della Carolina del Sud Nikki Haley. Le primarie in Iowa non saranno sicuramente determinanti per il successo dei candidati, ma essendo il primo scontro elettorale in programma, determineranno le future linee di dibattito.

ARGENTINA – Il secondo mandato di Cristina Kirchner si fa sempre più insidioso, infatti una proposta di legge approvata sabato dalla Camera dei Deputati potrebbe compromettere le proprietà dei grandi latifondisti stranieri nel paese sudamericano. Mille ettari a persona, sia fisica che giuridica, questo il limite per le future concessioni nei confronti degli investitori non nazionali. Prima tappa dell'ambizioso progetto sarà la creazione di un Registro unico nazionale per le Terre Agricole, una sorta di censimento, per comprendere quanti dei 206 milioni di ettari del territorio nazionale siano in mano straniera. Il gruppo Benetton, tramite la Compagnia de Tierras Sud Argentino detiene 900 mila ettari in Patagonia dove alleva greggi dalla lana pregiata. Il vero obiettivo della misura sono però le penetrazioni dalla Cina, interessata ai territori del sud del paese in gran parte disabitati e perciò sfruttabili immediatamente.

AFRICA

Martedì 20 – Con la comunicazione da parte del Consiglio di Sicurezza, degli Stati Uniti e del Regno Unito della restituzione di circa 80 miliardi alla Banca Centrale di Tripoli si chiude il capitolo delle sanzioni dopo la caduta del regime di Gheddafi. Intanto tra le maggiori sfide che attendono il CNT il disarmo dei gruppi ribelli è al primo posto dell'agenda, scade martedì l'ultimatum per l'abbandono della capitale di tutti i comitati della resistenza. In caso di mancata attuazione il Consiglio Locale di Tripoli ha già autorizzato l'esercito a chiudere le strade al traffico e a procedere all'espulsione dei gruppi armati. La scorsa settimana attentati, sequestri lampo hanno colpito alcune figure di spicco del nuovo governo, causando persino la chiusura dello spazio aereo della capitale. Il vero problema resta la disoccupazione dei giovani con la produzione petrolifera prevista in pieno recupero solo per la fine del 2012, con il ritorno ai 1,6 milioni di barili di greggio al giorno.

SOMALIA – Ali Mohamoud Rahge, portavoce del gruppo fondamentalista Al Shabaab, ha minacciato apertamente il governo del Gibuti che aveva mostrato interesse nell'invio di truppe a sostegno dell'operazione di peace-keeping dell'Unione Africana AMISOM, che opera a Mogadiscio. Domenica nella capitale del failed state per antonomasia un soldato governativo ha giustiziato davanti ai passanti increduli il giornalista televisivo somalo Abdisalan Sheikh Hassan, in seguito ad un diverbio. La visita del Segretario Generale dell'ONU Ban Ki Moon e la promessa dell'apertura di una missione delle Nazioni Unite nel paese non sembra aver portato grossi cambiamenti in un paese in cui lo stato di diritto è ormai un ricordo lontano.

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ASIA

COREA DL NORD – Gli incontri dello scorso week-end tra l'inviato statunitense per i diritti umani Robert King e il responsabile per l'America del Nord del Ministero degli Esteri Ri Gunn hanno portato ad un accordo di massima tra Stati Uniti e Pyongyang sull'abbandono del programma di arricchimento dell'uranio a fini militari. In cambio della sospensione della proliferazione nucleare nordcoreana, Washington garantirà la fornitura di aiuti umanitari per 240.000 tonnellate, la cui distribuzione sarà sorvegliata da inviati internazionali. Il regime di Kim Jong Il affronta una delle più gravi crisi alimentari della sua storia in seguito all'innalzamento dei prezzi dei generi di prima necessità e a causa della quasi totale chiusura del paese verso l'esterno. Il risultato dell'accordo potrebbe sancire la riapertura dei nuclear-talks tra Stati Uniti, Russia, Cina, Giappone e le due Coree abbandonati nel 2008.

KAZAKISTAN – Da venerdì scorso nel Kazakistan sud-occidentale, in particolare nella regione di Mangistau, sono in corso violenti scontri tra la categoria dei lavoratori del greggio e le forze di sicurezza di Astana. Il numero di morti a causa delle proteste è arrivato a 14, mentre il Presidente Nazarbaev, da sempre sostenitore della liberalizzazione economica non democratica, ha imposto un coprifuoco di venti giorni sulla città di Zhanaozen, epicentro degli scontri. I lavoratori delle industrie petrolifere del distretto si battono esclusivamente per ottenere maggiori diritti sul posto di lavoro e condizioni più umane, in una delle ex repubbliche sovietiche più interessate dagli investimenti esteri.

Lunedì 19 – La Corte Suprema Pakistana è chiamata a giudicare lo scandalo della richiesta di aiuto diretta alla Casa Bianca da parte di un membro dell'entourage del Presidente Asif Ali Zardari. Intanto nella giornata di domenica gruppi islamisti hanno organizzato proteste nelle città di Lahore e Peshawar contro le truppe americane e NATO e in sostegno dei talebani che lottano nelle regioni tribali. Il Presidente Zardari è ancora ricoverato a Dubai, ufficialmente per problemi cardiovascolari, in realtà si teme l'ennesimo putsch dei militari, favoriti dal precipitare dell'alleanza con Washington e dalle accuse di corruzione ed incompetenza mosse dai media locali. Il Generale Ashfaq Kayani, capo di stato maggiore, smentisce qualsiasi mossa da parte degli alti ufficiali, la storia del paese dice però il contrario.

MEDIO ORIENTE

Mercoledì 21 – Con il sostegno del disegno di risoluzione depositato dalla Russia al Consiglio di Sicurezza ONU, la Lega Araba sembra intenzionata ad internazionalizzare la situazione in Siria. Secondo il premier del Qatar all'incontro dei Ministri degli Esteri dei paesi arabi di mercoledì si discuterà soprattutto delle modalità d'intervento dell'ONU nel paese, che avverrà tramite paesi della regione. In effetti lo scontro tra i ribelli dell'esercito libero e le forze di sicurezza del regime potrebbe costituire una minaccia alla pace della zona mediorientale. Le misure provvisorie che il Consiglio di Sicurezza è chiamato a prendere sono volte a non pregiudicare i diritti e le posizioni di entrambe le parti in conflitto. Il cessate il fuoco e l'ingresso di una forza araba di coalizione con compito di peace-keeping potrebbe essere accompagnato dall'ingresso di osservatori a Damasco, in modo da rallentare la carneficina che ha colpito finora circa 5000 persone.

IRAQ – La guerra in Iraq è ufficialmente terminata domenica all'alba con il ritiro degli ultimi contingenti americani dalle basi militari nel paese. Quasi otto anni di intervento armato hanno spazzato via Saddam Hussein e gli uomini chiave del regime baathista, portando al potere uomini nuovi, come il Presidente Jalal Talabani e il Premier Nuri al-Maliki. 4800 i soldati caduti della coalizione, pari a zero il numero delle WMD (armi di distruzione di massa) trovate nel paese, circa 800 i miliardi spesi per le operazioni militari. Ma mentre i marines tornano in Kuwait nelle basi americane, Baghdad è tutt'altro che stabile, una violenta crisi politica colpisce il paese, già diviso per le fratture religiose tra sciiti e sunniti. La formazione laica Iraqiya, forte di 82 deputati ha deciso di abbandonare i lavori del Parlamento contro le minacce e le intimidazione nei confronti dei colleghi dell'ex premier Iyad Allaoui. Toccherà al Partito Radicale Sciita del capo spirituale Moqtada Sadr tentare una mediazione tra le parti, tramite la figura del leader politico Baha al-Araji.

IRAN – Si rincorrono le voci, diffuse dal giornale ebraico Yedihot Aharonot, di un possibile colpo mortale da parte di Teheran contro un satellite spia della CIA. Se la notizia venisse confermata si tratterebbe del secondo strike iraniano in pochi giorni nella guerra diplomatico-tecnologica che coinvolge il paese degli ayatollah e gli Stati Uniti. Intanto, nota di colore, l'erede dello Shah, Reza Pahlavi ha denunciato ufficialmente al Tribunale Penale Intrernazionale (TPI) la guida suprema Ali Khamenei per crimini contro l'umanità nei confronti dei prigionieri politici. La televisione di stato ha mostrato nel week-end le immagini della spia americana arrestata nelle scorse settimane, si tratterebbe di Amir Mirza Hekmati, cittadino statunitense di origini iraniane, analista d'intelligence addestrato a Bagram, Afghanistan per infiltrarsi tra le fila dei padaran.

Fabio Stella [email protected]

Dimmi come parli e ti dirò chi sei

Il soft-power, ovvero l’utilizzo della cultura e di altre pratiche diverse dall’uso della forza, è una maniera molto efficace per ottenere influenza geopolitica in altri Paesi. Si tratta di una tecnica adottata anche dalla Cina, che attraverso la diffusione della lingua negli altri Paesi del sud-est asiatico cerca di agevolare la propria penetrazione politica ed economica. Vediamo come funzionano queste dinamiche attraverso l’intervista a Frank-René Lehberger, sinologo e analista politico

 

“Promuovere l’insegnamento cinese come lingua straniera è di importanza strategica per diffondere la lingua e la cultura cinese in tutto il mondo, per migliorare la comprensione e l’amicizia reciproca così come la cooperazione economica e culturale  e gli scambi tra la Cina e gli altri paesi, per elevare l’influenza della Cina nella comunità internazionale”.

 

Questo non sembra essere solo un breviario introduttivo sull’insegnamento della lingua cinese all’estero diffuso dal Ministero dell’Istruzione della Repubblica popolare cinese, è molto di più. È un progetto strategico di esercizio del soft power, il cavallo di battaglia della nuova diplomazia culturale di Pechino. La lingua veicola le idee, i costumi, i valori di un Paese al di fuori dei confini nazionali, facilitando il confronto interstatale e consolidando, o creando ab origine, nuove aree di cooperazione non solo culturale ma anche economica e politica. Si sa, la cultura contraddistingue sempre una grande potenza, e mai nessun altro Paese come la Cina, nei suoi 5000 anni di civiltà, ha saputo sfruttare questa risorsa così sapientemente, esercitando la propria influenza sui paesi vicini e lontani. Per capire appieno il potenziale del Zhongguo Ruan Shili, il soft power cinese e la forza della fascinazione della cultura e della lingua del Paese di Mezzo, abbiamo interpellato un esperto del settore, Frank-René Lehberger, sinologo e calligrafo. Attraverso una puntuale analisi storica delle esperienze pregresse della Cina, René ci ha prospettato le criticità e i punti di forza della strategia di Pechino e del suo soft power in Asia sud-orientale.

 

D. Frank René, lei ritiene che la promozione della lingua cinese all’estero sia uno degli strumenti che Pechino utilizza per esercitare il soft power?

R. Gli Istituti Confucio hanno lo scopo di diffondere il soft power cinese, convincere gli stranieri della superiorità culturale della Cina e accrescere la conoscenza del cinese all’estero. Questi sono tutti aspetti della propaganda “esterna” della Cina.  Ufficialmente, i 300 o giù di lì Istituti Confucio offrono la possibilità di apprendere la lingua, la cultura, l’arte e la storia della Cina, e operano sotto una struttura no-profit, l’Ufficio del Consiglio internazionale della lingua cinese o Hanban. Che questa è una entità di grande importanza politica diventa chiaro dopo aver ascoltato il discorso del 2004 del promotore della propaganda cinese e membro del Comitato permanente del Politburo del PCC, Li Changchun.” Secondo lui gli Istituti Confucio sono, testualmente: “una parte importante dell’organizzazione della nostra propaganda all’estero”. Come tali devono essere strettamente allineati con il dipartimento di propaganda del PCC (Zhongxuan bu). Nella Repubblica Popolare Cinese (RPC; qui per amor di chiarezza Hong Kong, Macao e Taiwan escluse) la propaganda non è solo pubblicità piatta o una sorta di “pubbliche relazioni aziendali per lo Stato”, ma una questione di vita o di morte per il PCC. Inoltre l’Hanban fa parte di un programma strategico elaborato per neutralizzare ciò che resta del soft power “democratico” di Taiwan all’estero. Taiwan ha collaudato un sistema di lingua cinese conosciuto come Guoyu, il più serio concorrente dell’Hanban. Per quasi 60 anni, la maggior parte dei cinesi d’oltremare (Huaqiao) in tutto il mondo hanno appreso il Guoyu e hanno adoperato nelle scuole delle loro comunità per lo più materiali didattici forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione di Taiwan.

 

D. La migrazione e la diffusione della lingua cinese hanno contribuito a costruire una immagine positiva del Paese di Mezzo. Come descriverebbe la dimensione geopolitica di queste due variabili a fronte del crescente soft power della Cina nei paesi del sud-est asiatico?

R. Inizio con il ricordare che il Sud-Est asiatico è molto vario. Grandi ondate di migranti cinesi sono arrivate nel Sud-est-asiatico tra la fine dell’epoca Ming (17 ° secolo) e il 1950, da luoghi davvero disparati linguisticamente, come lo Yunnan, il Guangxi, Hainan, il Guangdong, il Fujian, il Zhejiang. I migranti, per lo più poveri o  commercianti, dopo essersi stabiliti nelle città portuali del sud-est asiatico si impegnarono soprattutto nel commercio con le loro terre d’origine e formarono corporazioni, triadi o società (Gongsi). Pertanto, nel contesto del Sud-Est asiatico non è corretto parlare di lingua cinese (il Putonghua si è diffuso tra i cinesi solo dopo il 1950), quanto piuttosto di una miriade di complicati dialetti del sud della Cina. Ancora oggi, i discendenti dei primi migranti cinesi nel Sud-est-asiatico parlano soprattutto il loro dialetto locale. Per loro il dialetto era ed è ancora un modo per dimostrare la loro identità culturale, diversa e separata da quella indigena. Inoltre, il dialetto era spesso usato come mezzo di comunicazione segreta, per proteggere loro e le loro attività commerciali in un ambiente reputato ostile. La Repubblica di Singapore (l’unico paese a maggioranza cinese e di lingua cinese nel mondo dopo la Cina), è il primo paese nel sud-est asiatico che ha attivamente incoraggiato l’eliminazione dei dialetti cinesi in favore del Putonghua, dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Malesia nel 1965.  In Thailandia, dove il 10% dei cittadini è di etnia cinese, l’immagine della Cina è abbastanza positiva e le successive ondate di migranti cinesi sono state assimilate facilmente nella società thailandese, anche attraverso il riadattamento dei cognomi cinesi.  Al contrario, in paesi come l’Indonesia, la Malesia, il Myanmar e il Vietnam, prevale la sinofobia. Prendiamo ad esempio il Vietnam, con un passato da stato-vassallo del Paese di Mezzo e per questo portato a risentire del sinocentrismo. Negli ultimi dieci anni il Putonghua è diventato estremamente popolare tra gli studenti e le giovani generazioni vietnamite. Ma questo significa automaticamente che dietro a questi sviluppi c’è l’influenza culturale della Cina? Questa popolarità è esclusivamente di natura pratica: connessa con i crescenti investimenti della Cina e con le buone prospettive di lavoro per gli studenti locali. In quei Paesi, per tutti gli anni ’90, si è sentito di più l’esercizio del soft power di Hong Kong e Taiwan che quello di Pechino. In generale, i circa 600 milioni di persone non cinesi nel Sud-est-asiatico sono molto più interessate a sapere se 1,3 miliardi di cinesi si impegnano o meno in investimenti saccheggiatori, o nello sfruttamento delle risorse naturali, nelle pratiche di lavoro sleali e commerciali intimidatorie, piuttosto che pensare alle scuole di lingua o agli eventi di propaganda gestiti dall’Hanban”.

 

D. Tenuto conto del legame tra la Cina e il sud-est asiatico, crede sia possibile trasformare la diplomazia culturale in influenza politica ed economica?

R. Credo che l’Africa esemplifichi meglio del sud-est asiatico il successo della diplomazia culturale cinese. Essenzialmente perché la grande maggioranza degli africani non ha alcuna idea chiara sulla Cina. In realtà, questo è piuttosto vantaggioso per la Cina, perché ci sono meno legami storici. Ironia della sorte, i risultati della propaganda cinese nel Sud-est-asiatico sono molto più mitigati, perché quei paesi conoscono i loro vicini cinesi abbastanza bene e i cinesi non hanno bisogno degli Istituti Confucio per spiegare la loro cultura e il loro comportamento. Dal 2007, le élites africane del mondo economico, finanziario e politico e quelle dell’apparato giudiziario, di sicurezza e militare dei rispettivi paesi, sono assoggettate all’intensa offensiva seduttiva della Cina. Ma quelle élites sono naturalmente curiose di quello che la Cina ha da offrire loro e di come queste offerte si differenziano da quelle dell’occidente.

 

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D. Il sinocentrismo e il modello “centro-periferia”. Può spiegare l’importanza della lingua cinese e il segreto della sua attrattiva nel Sud-Est asiatico?

R. Quando si esamina la storia culturale del sud-est asiatico, si scopre che le lingue e la cultura cinese non hanno avuto un grande impatto lì. A parte alcuni antichi regni vassalli nel Nord Vietnam, tutte le altre antiche culture evolute del sud-est asiatico (ad esempio quelle Pagan, Sukhothai, Dvaravati, Lan Xang, Angkor, Champa, Srivijaya, Borobodur, Melayu) sono state molto più influenzate dalla cultura indiana e indù che da quella cinese. Fatta eccezione per il nord del Vietnam, l’influenza cinese si è concentrata principalmente sul commercio, ma il commercio dei prodotti e non delle idee. Molti storici della Cina antica accentuano ovviamente l’importanza della relazione di obbedienza e ammirazione tra i paesi vassalli della periferia del sud-est asiatico “culturalmente inferiori” e il centro, la Cina imperiale, ma è lecito chiedersi se le relazioni siano state esattamente come descritte o siano in realtà meri riflessi di un modo di pensare “politicamente corretto”. Il segreto dell’attrattività attuale cinese è legato all’economia: è il libretto degli assegni cinese, sono gli investimenti nelle grandi infrastrutture o le merci a basso costo e non tanto la lingua di per sé.

 

D. Zhongguo Ruan Shili. In un memoriale Ming (1425) si afferma che nulla è più importante dell’uso della cultura cinese per cambiare le abitudini degli stranieri. Pensa che la Cina ambisca a far divenire il cinese la lingua internazionale del futuro?

R. Durante l’era dei Ming, l’ossessione sinocentrica di “cambiare” (Hua) le abitudini culturali dei popoli vicini in qualcosa di “cinese civilizzato” (Hua) era limitata all’estero. Gli antichi cinesi credevano che esistessero alcuni “luoghi incivili” (Huawai zhi Di), in pratica le terre al di fuori della sfera di influenza sinocentrica, alcuni di loro credevano addirittura che fossero abitati da casi disperati di “semi-umani” (qinshou). Nel 21° secolo, l’idea di trasformare intere nazioni in compiacenti stati confuciani è qualcosa di assurdamente anacronistico. Un segno che il sinocentrismo culturale è morto da tempo è il trionfo dell’ideologia “straniera” del marxismo-leninismo, che dal 1919 ha travolto la Cina e ha radicalmente cambiato le abitudini cinesi. Durante il movimento studentesco nazionalista del 1919, un giovane progressista cinese gridò “Abbasso il confucianesimo”, mentre Mao Zedong più tardi coniò lo slogan iconoclasta: “Abbattere i 4 vecchi ” (PO sijiu) e “criticare Lin Biao e Confucio” (Pilin pikong). Mao ha trasformato il soft power in hard power e distrutto gli ultimi riflessi dell’ordine confuciano nel PCC. Nella Cina di oggi, la vera e propria “cultura cinese” si trova soprattutto nei musei o nei festival folcloristici per i turisti, ma non nella vita quotidiana cinese. Il soft power nella sua forma attuale suona vuoto e l’influenza culturale della Cina sarà molto probabilmente solo di breve durata. Una grande banca statale cinese ha fatto una recente indagine, scoprendo che il 70% della ricca élite cinese oggi è pronta ad emigrare. O quantomeno, i nuovi ricchi cinesi sono intenzionati a farlo in un futuro prossimo, volando verso gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, portandosi via tutto il denaro, decisi a mandare i propri figli ad Harvard, Yale, Cornell, Stanford, Berkeley, Oxford, Cambridge. Non solo io ma anche le élite cinesi sembrano pensare che la lingua del futuro sia solo l’inglese e non l’Hanban. Anche se il Putonghua sta rapidamente diventando più importante, non riuscirà a soppiantare l’inglese come lingua franca internazionale (parlato da circa 1.000 milioni di madrelingua e non madrelingua). La ragione basilare è che l’inglese è la prima o la seconda lingua ufficiale in decine di paesi in tutto il mondo. In confronto il cinese / Putonghua è l’unica lingua ufficiale in soli due paesi asiatici: Cina (inclusa Hong Kong, Macao, Taiwan) e Singapore. Mentre in due paesi musulmani è la lingua semi-ufficiale di una minoranza, politicamente impotente: Malesia (20% di etnia cinese) e Brunei (25% di etnia cinese).

 

M.Dolores Cabras

Una regina a Buenos Aires?

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Domenica 11 dicembre Cristina Kirchner si è insediata ufficialmente alla Casa Rosada, dando inizio al suo secondo mandato come Presidente dell'Argentina. La Kirchner ha modificato la formula di giuramento inserendovi anche un richiamo al marito Néstor, scomparso un anno fa. Vediamo come le formule e i simboli spesso possono essere indicativi delle dinamiche di potere. Inoltre, diamo uno sguardo alle sfide che si pongono dinnanzi all'esecutivo nei prossimi quattro anni

LA CERIMONIA – Domenica 11 dicembre, nel corso di una cerimonia che si è svolta presso il Congresso (l'assemblea legislativa), Cristina Fernández de Kirchner ha iniziato ufficialmente il suo secondo mandato da Presidente della Repubblica Argentina. L'investitura è stata seguita da un discorso di settantadue minuti interrotto per circa sessanta volte dagli applausi dei presenti: due numeri che, insieme al 54% dei suffragi ottenuti dalla “Presidenta” alle elezioni dello scorso ottobre, rendono l'idea dell'elevato consenso di cui gode la Kirchner, in questo momento all'apice. All'atto di insediamento hanno preso parte i principali Capi di Stato della regione sudamericana: dalla brasiliana Dilma Rousseff al cileno Sebastián Piñera c'erano tutti, a parte il venezuelano Hugo Chávez, grande amico della leader argentina ma ancora convalescente in seguito alla terapia seguita per sconfiggere il cancro. CRISTINA E IL LINGUAGGIO DEL POTERE – Durante il suo discorso la Kirchner ha toccato molti punti, rivendicando in primo luogo i meriti della sua azione di Governo durante il primo mandato e provvedimenti come il sistema delle “retenciones móviles” (le tasse sull'esportazione di prodotti agricoli che hanno creato parecchi dissapori con la potente lobby degli agricoltori), la nazionalizzazione dei fondi pensionistici e la Legge sulle Telecomunicazioni, considerata dal Governo un passo avanti verso la libertà di espressione ma osteggiata dai grandi gruppi mediatici come quello del Clarín in quanto giudicata limitativa di questa stessa libertà. “Preferisco la qualità alla quantità” ha affermato Cristina, giustificando così il basso numero di leggi approvate durante il quadriennio 2007-2011. Tuttavia, l'elemento più emblematico del discorso della Presidenta è stato il ricorso ad una “nuova” formula di giuramento. La Kirchner ha infatti aggiunto alla frase Si así no lo hiciera, Diós, la Patria me lo demanden” il pronome “él”. Chiarissimo il riferimento al marito Néstor, precedente “inquilino” della Casa Rosada dal 2003 al 2007 e scomparso improvvisamente un anno fa. La morte prematura di Kirchner, che secondo alcuni avrebbe potuto indebolire il potere di Cristina, si sta in realtà trasformando in un elemento di legittimazione del suo stesso potere. Il prestigio e la popolarità dell'ex Presidente sono infatti altissimi tra la popolazione argentina, dal momento che fu durante il mandato di Kirchner che il Paese sudamericano iniziò a riprendersi dalla terribile crisi economica del 2001/2002 e a intraprendere un cammino di rapida ed impetuosa crescita che continua ancora oggi. Cristina è ben conscia di ciò e i riferimenti al marito scomparso sono ormai una costante dei suoi discorsi. Così come la presenza al suo fianco dei due figli, Máximo e Florencia, già impegnati ai vertici del Partido Justicialista (il primo è leader della sezione giovanile). Che siano i primi segni del tentativo di instaurare una sorta di “dinastia” al potere dell'Argentina? La perpetuazione di un altro Kirchner alla Casa Rosada non sembra un evento remoto: Cristina potrebbe mettere mano alla Costituzione, che vieta la possibilità di una terza rielezione consecutiva, ma anche agevolare il passaggio di consegne a Máximo, che nel 2015 avrà trentotto anni.

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SQUADRA CHE VINCE NON SI CAMBIA – Rispettando in pieno questa metafora presa in prestito dallo sport, Cristina ha deciso di confermare in buona parte la compagine ministeriale che aveva decretato il successo del suo primo mandato. Una sola la novità di rilievo: “silurato” l'ex vicepresidente Julio Cobos, che durante la prima amministrazione Kirchner era passato all'opposizione, il posto è stato preso dal fidatissimo Amado Boudou, ministro uscente dell'Economia e collaboratore più stretto della Presidenta. La carica di Boudou sarà ricoperta da Hernán Lorenzino, precedente sottosegretario all'Economia: una scelta dunque in assoluta continuità con il passato, così come per tutti gli altri ministeri di “peso” (come agli Esteri, dove rimarrà ad operare Hector Timerman). Che dire invece del programma di Governo? Anche in questo caso la parola d'ordine sarà “continuità”? In realtà, almeno per quanto riguarda la politica economica, alcuni primi segnali di cambiamento sembrano esserci. L'esecutivo ha annunciato che ridurrà in maniera consistente i sussidi, che fino ad oggi venivano erogati praticamente a pioggia sulla popolazione (vedi il nostro precedente articolo, “Pacchia finita?”) e che intraprenderà una lotta all'inflazione, perseguendo una politica industriale non più volta all'aumento dei salari ma ad incentivare gli investimenti nelle imprese. Il principale sindacato del Paese, la CGT (Confederazione Generale del Lavoro) ha già dichiarato la propria contrarietà ai tagli: questo potrebbe rappresentare un problema per la Kirchner, dato che il sindacato rappresenta storicamente uno dei principali bacini di consenso del peronismo. Eppure, queste misure sembrano un passaggio obbligato per l'Argentina, se si vogliono porre le basi per uno sviluppo solido e duraturo, non più “drogato” dalla leva della spesa pubblica e dell'assistenzialismo. Cristina avrà davvero il coraggio di cambiare rotta, a costo di veder diminuire la sua popolarità nel breve periodo? “Regina Cristina”, in questo momento così favorevole, la scommessa potrebbe anche giocarsela.

 

Davide Tentori redazione@ilcaffegeopolitico.net

 

Burro o Cannoni?

Con l'Europa che esce dal Consiglio rafforzata ma senza Londra e la Conferenza di Durban che si chiude con un fiasco sventato all'ultimo, la settimana che ci attende si apre con l'evento clou dell'ottava Conferenza WTO a Ginevra, sul fronte della diplomazia commerciale. Si rincorrono intanto le minacce di azioni armate un po' in tutto il globo con il natale conteso in Corea, la scadenza dell'ultimatum di Assad a Homs e le voci dell'ennesimo complotto virale contro la sicurezza degli Stati Uniti. A voi la scelta, con cosa gustate il ristretto di oggi: burro o cannoni?

EURASIA

Lunedì 12 – Il Premier serbo Boris Tadic, dopo il colpo basso ricevuto venerdì con il rinvio della candidatura di Belgrado per l'ingresso in Europa, riallaccia i contatti con l'alleato più fidato della regione, l'Italia. Visiterà le città di Trieste, Udine e Treviso dove incontrerà esponenti delle rappresentanze locali ed esponenti dell'industria veneta, tra cui Luciano Benetton, per il rafforzamento della cooperazione economico-commerciale.

Mercoledì 14 – I Ministri del Commercio dei paesi membri dell'Unione si incontreranno con il Consiglio per gli Affari Esteri per preparare l'ottava conferenza ministeriale della WTO che si terrà a Ginevra dal 15 al 17 Dicembre. Discuteranno la proposta della Commissione per l'apertura di negoziati bilaterali con Egitto, Marocco, Giordania e Tunisia per l'innalzamento dei rispettivi accordi d'associazione euro-mediterranea e il progetto di aree di libero mercato. Il Consiglio è inoltre chiamato ad approvare l'accessione della Russia nella WTO.

Giovedì 15 – Il Presidente della Federazione Russa Dimitry Medvedev sarà ospite a Bruxelles del presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy e da quello della Commissione Manuel Barroso per l'EU-RUSSIA Summit. All'ordine del giorno i rapporti tra l'unione e la Federatsiya e le questioni scottanti dei paesi membri UE ritenuti dalla Russia parte del suo estero vicino così come le recenti vicissitudini in Ucraina e Bielorussia. L'Alto Rappresentante C. Ashton è stata criticata nel week-end da alcuni parlamentari europei delle ex repubbliche sovietiche per il trattamento preferenziale riservato da sempre alla questione dell'est Europa.

AMERICHE

U.S.A. – Si rincorrono le voci di un ennesimo complotto, stavolta sotto forma di attacco di cyber-warfare, contro le strutture della Casa Bianca, del Pentagono e dell'FBI. Responsabili del tentativo sarebbero nientemeno che i servizi segreti di Iran, Venezuela e Cuba che puntavano a mandare in tilt i sistemi di sicurezza di sedi e centrali nucleari. A  sventare l'episodio sarebbero stati degli ex studenti dell'Università Nazionale Autonoma di Città del Messico. Nell'intrigo che, se confermato, rappresenterebbe un motivo di alta tensione, sarebbero coinvolti, secondo gli stessi studenti e alcuni parlamentari americani, l'Ambasciatore cubano in Messico e il Console Generale venezuelano a Miami, Livia Antonieta Acosta.

PANAMA – L'ex dittatore Manuel Antonio Noriega è tornato Domenica notte a Panama City, dopo 22 anni trascorsi tra le carceri di Stati Uniti e Francia. Dovrà scontare altri 20 anni in un paese che lo ha ormai dimenticato. Esperto d'intelligence, lotta al narcotraffico e terrorismo, giunse al potere dopo la morte del suo leader Omar Torrijos nel 1981. “Amico sincero” della CIA ai tempi di George W. Bush, garantì la mancata sovietizzazione del paese del canale, e grazie all'ampio appoggio politico, il suo regime liberticida si liberò dell'influenza americana criticandola duramente. Nel 1987 alcuni ufficiali dell'esercito lo accusarono di riciclare i proventi del cartello di Medellin di Pablo Escobar e i fratelli Ochoa. L'operazione “Just Cause” degli US Marines lo costrinse alla resa a suon dell'odiato rock il 20 dicembre 1989, mentre era assediato nell'ambasciata vaticana.

ASIA

Giovedì 15 – Sabato 17 – Il Primo Ministro indiano Manmohan Singh si recherà nel fine settimana in Russia per una visita ufficiale. Putin e Medvedev avranno l'occasione di discutere con la loro controparte della cooperazione strategica e militari tra i due paesi, che nel maggio scorso aveva subito una brusca caduta – con il ritiro della Marina russa dall'esercitazione congiunta con quella indiana – in seguito al cambiamento di condizioni per la vendita della portaerei Admiral Gorshkov, ora INS Vikramaditya, e per alcune incomprensioni sullo sviluppo congiunto del caccia Mikoyan MiG-35. Si parlerà anche di cooperazione nel settore energetico-nucleare, con l'implementazione del progetto di costruzione di impianti nucleari civili nel sub-continente, sotto la supervisione di tecnici di Mosca.

PAKISTAN – La base aerea di Shamsi, nel Pakistan del nord, è stata evacuata nella tarda serata di domenica dall'esercito americano in seguito all'ultimatum ordinato dal Governo di Yousuf Raza Gilani poco dopo l'incursione di un drone americano che ha causato la morte di 24 soldati. Alcuni alti ufficiali dell'esercito di Islamabad hanno ammesso di aver ricevuto ordini politici di aprire il fuoco contro qualsiasi drone faccia ingresso nel territorio pakistano; i posti di frontiera sono stati muniti di sistemi d'arma anti-aerei per mettere fine all'impunità delle violazioni di sovranità. I rapporti tra Pakistan e Stati Uniti hanno forse raggiunte il livello più basso dall'invasione dell'Afghanistan; un asse di rifornimento strategico è stato chiuso per protesta, i parlamentari di Islamabad minacciano la revisione dei trattati di cooperazione militare.

COREA DEL NORD – Nuovi venti di guerra in Corea, per motivi decisamente particolari: potremmo definirla la guerra delle luci di Natale. Il regime di Pyongyang ha condannato la decisione di Seul di riprendere la tradizionale accensione di alberi natalizi illuminati lungo il confine contestato del 38^parallelo. L'elite atea del regime comunista del nord denuncia l'iniziativa bollandola come un atto di guerra psicologica volta a convertire il popolo alla religione cattolica, molto diffusa al sud. La minaccia è chiara: se il 23 dicembre, come da programma, le luci saranno visibili da Kaesong, la più grande città del nord vicina alla frontiera, Seul potrebbe affrontare conseguenze inaspettate, niente male come biglietto di auguri.

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MEDIO ORIENTE

Lunedì 12 – Il Consiglio di Sicurezza si riunisce in sessione straordinaria per discutere della repressione continua del regime di Bashar al Assad nei confronti delle manifestazioni pacifiche degli oppositori al governo. Nel fine settimana il Segretario Generale dell'ONU Ban Ki Moon ha criticato apertamente il vertice politico siriano per l'indifferenza mostrata agli appelli della Comunità Internazionale per misure più umane nei confronti dei civili disarmati e dei minori che continuano a morire, stando alle cifre del Consiglio Nazionale Siriano. Sul tavolo dei rappresentanti anche l'attacco della scorsa settimana ad un convoglio della Missione UNIFIL a Tiro in Libano, che vede coinvolto in forze anche il contingente italiano.

Intanto in terra di Siria scade lunedì l'ultimatum lanciato dal Presidente Assad ai manifestanti e ai disertori assediati dalle forze di sicurezza a Homs, la città simbolo della protesta, lasciando intendere fra le righe che in caso di mancata resa ci sarà da attendersi un vero e proprio massacro. Fu proprio in seguito a minacce simili che il Consiglio di Sicurezza aveva approvato lo scorso 19 Marzo l'intervento militare in Libia, volto ad evitare una strage nella città di Bengasi. Le situazioni sono naturalmente imparagonabili, così come gli interessi in gioco, ma la minaccia di un'ulteriore catastrofe umanitaria è ora reale e ha una data precisa.

IRAN – Dopo l'esposizione del Sentinel RQ-170 da parte dei Pasdaran iraniani, il regime di Mahmud Ahmadinejad ha fatto sapere che chiederà all'ONU di condannare la violazione della sovranità territoriale tramite le scuse ufficiali di Washington, che naturalmente non riavrà mai il suo drone indietro. Torna intanto libero il regista Mojtaba Mirtahmasb, autore del documentario “This is not a film” diffuso dalla BBC di Londra sulle condizioni del regista Jafar Panahi, formalmente libero, ma sotto stretto controllo delle forze di sicurezza di Teheran.

AFRICA

Giovedì 15 – Dopo gli scontri dell'anno scorso che hanno portato alla cacciata di Laurent Gbagbo e all'insediamento del legittimato Ouattara, i cittadini della Costa D'Avorio sono chiamati ad eleggere i 225 membri dell'Assemblea Nazionale unicamerale. Repubblicani dell'attuale Presidente, Democratici e Liberali si contendono un elettorato profondamente ferito dai ricordi degli scontri vissuti sulla propria pelle. Probabilmente è ancora troppo presto per una riconciliazione nazionale e c'è ancora posto per appelli che strumentalizzino la rabbia e il dissenso verso il passato, mentre i sostenitori del decaduto Gbagbo invitano la popolazione all'astensione.

Sabato 17 – Elezioni legislative anche per il Gabon, altra ex colonia francese del Golfo di Guinea, dove i votanti sono chiamati a scegliere 111 membri che insieme ad altri 9, nominati direttamente dal Presidente Ali Ben Bongo succeduto al padre nel 2009, formeranno la camera bassa, l'Assemblea Nazionale. Una sfida essenzialmente a due, quella di Sabato, in cui il Partito Democratico del leader Bongo contenderà la maggioranza all'Unione del Popolo, priva del suo padre storico Pierre Mamboundou, morto a metà ottobre all'età di 65 anni.

CONGO – Come previsto nei “ristretti” precedenti il seguito delle elezioni presidenziali in Congo hanno portato il paese sull'orlo del caos, per l'ennesima volta. Il leader dell'opposizione Etienne Tshisekedi ha contestato i risultati elettorali auto-dichiarandosi il leader legittimo della Repubblica. Benché la dichiarazione non abbia alcun significato legale, il coinvolgimento dell'opinione pubblica e delle bande di ribelli che tuttora si muovono per le strade di Kinshasa potrebbero far esplodere una polveriera da sempre considerata a rischio dall'ONU.

Fabio Stella [email protected]

Tutto calcolato

A metà novembre gli Stati Uniti hanno lanciato la loro nuova strategia per l’area del Pacifico, che prevede, tra le altre cose, l’invio di 2500 marines in una base nel nord dell’Australia. La decisione aveva irritato Pechino, ma i toni non erano diversi da situazioni simili del passato. Martedì scorso Hu Jintao ha innalzato a ben altro livello lo “scontro” verbale con gli Stati Uniti, esortando la propria marina ad “accelerare il proprio sviluppo” e a “prepararsi alla guerra”. Cerchiamo di capire quanto di retorico e quanto di vero ci sia dietro tutto ciò

 

UNA RELAZIONE COMPLESSA – Che il rapporto tra Cina e Stati Uniti sia problematicamente complesso, e che le azioni in politica estera prese da un lato creino fibrillazioni nell’altro, è cosa ben nota da tempo. Ma ciò che Hu Jintao ha pronunciato martedì 6 dicembre di fronte alle forze della marina (PLAN, People Liberation Army Navy) sembrerebbe un’escalation della tensione piuttosto seria. Intendiamoci, non si corre il rischio di una guerra tra le due superpotenze. Ciononostante, la frase di Hu impone una riflessione sull’intensificarsi delle relazioni geopolitiche sull’intero scacchiere asiatico. Se l’invio dei soldati in Australia rappresenta la più ampia espansione delle forze militari statunitensi in Asia dai tempi del Vietnam, si tratta anche della prima volta che Pechino, per bocca del suo presidente, pronuncia parole così esplicite. Forse troppo. Il discorso di Hu arrivava alla vigilia del dodicesimo incontro annuale tra ufficiali dei due rispettivi eserciti, dove si discutono le questioni di maggiore attrito tra i due paesi, dalla vendita di armi a Taiwan al Mar Cinese del Sud. Forse anche per questo l’amministrazione Obama ha minimizzato le parole del presidente cinese.

 

L’AZIONE AMERICANA – Nel rapporto diretto con Pechino, la strategia di Washington è di mantenere un rapporto non conflittuale – su questa linea la decisione dello scorso settembre di non vendere a Taiwan i moderni F-16 C/D, ma di optare per il solo ammodernamento dei jet già in dotazione alle forze taiwanesi – memori del congelamento delle consultazioni in campo militare tra i due paesi per tutto il 2010, causa episodio analogo di vendita di armamenti a Taiwan. La Cina è paese in ascesa e di crescenti interessi strategici, soprattutto dal punto di vista territoriale. Le parole di Hu sembrano mirate a sostenere questi interessi (sovranità sul Mar Cinese del Sud) e di dare una risposta “adeguata” alle mosse strategiche degli Stati Uniti nel Pacifico. Lo scorso novembre, Washington ha messo in atto un’azione su larga scala in Asia Orientale, con l’obiettivo di rassicurare i partner dell’area sul suo impegno nel Pacifico. “Nell’area dell’Asia-Pacifico, nel XXI secolo, gli Stati Uniti ci sono e ci staranno”, così si è espresso Obama il 17 novembre scorso di fronte al parlamento australiano. La strategia era stata anticipata in un articolo intitolato “America’s Pacific Century” (il secolo americano nel Pacifico) scritto dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, e apparso sul numero di novembre della rivista Foreign Policy. Dove si afferma l’importanza strategica per gli Stati Uniti di quell’area per i decenni a venire. A metà novembre Obama, prima con il lancio di una zona di libero scambio, che darebbe vantaggi agli alleati americani nella regione (escludendo la Cina) e, poi, con la decisione di inviare 2500 marines in una base nel nord dell’Australia, ne ha messo in pratica i principi. Per fare in modo che il segnale giungesse a destinazione, l’azione statunitense ha assunto una certa enfasi quando la Clinton in visita nelle Filippine ha tenuto un discorso a bordo di una nave da guerra americana.

 

 

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TENSIONI – Che le frasi di Hu e l’azione statunitense alzino la tensione in un’area già surriscaldata dalle preoccupazioni per l’ascesa cinese, è evidente. Inoltre, esiste il rischio che s’imbocchi lo stretto sentiero che porta dritto ad una situazione da “Guerra Fredda”. Allo stesso tempo, però, è importante notare come le mosse sino-americane, rispondano, se non interamente, almeno in buona parte, a logiche interne ai rispettivi stati. L’amministrazione Obama si sta preparando alle elezioni dell’anno prossimo, così come la quarta generazione di leaders cinesi è pronta per il passaggio di consegne a quella successiva, la quinta. Sono momenti delicati in entrambi i paesi. Fin dai tempi di Bush senior è abbastanza normale che si usino toni forti e si ostenti sicurezza nei confronti della Cina. Aggiunge voti. E Obama non sarà un’eccezione. Anche se bisogna sottolineare che la “politica cinese” di Obama ha seguito un percorso inverso rispetto ai suoi due predecessori: accomodante a inizio mandato e più deciso verso la fine. Ne è prova la dura presa di posizione nei confronti della Cina di Bush figlio a inizio mandato, e il continuo rinvio della vendita di armi a Taiwan negli ultimi due anni in cui è stato al comando, desideroso di non interrompere la luna di miele instaurata con Pechino nel corso degli anni. Commessa poi passata di mano agli uomini di Obama, con le relative conseguenze. Ciò è ancora più vero sul lato cinese. Storicamente, in Cina, la successione al potere è sempre stata un passaggio molto delicato fin dai tempi dell’età imperiale. L’eterna paura dell’instabilità, del caos, della mancanza di una guida stabile, ha creato sempre forti reazioni. Le parole di Hu, rientrano in questo quadro. Pronunciate per riscaldare gli animi ai settori più nazionalisti della società cinese e per dimostrare che la Cina sa il quando e il come rispondere alle minacce provenienti dall’esterno (vere o presunte che siano). L’obiettivo è di dimostrare che il potere è saldo nelle mani della nomenclatura comunista in una fase di potenziale instabilità, come il passaggio di potere a Xi Jinping e Li Keqiang.

 

Insomma, tutto calcolato.

 

Marco Spinello

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Democratura

Da Mosca – Così lo scrittore croato Matvejevic descrisse quello Stato di diritto in cui, pur esistendo apparentemente meccanismi costituzionali ed istituzionali di tipo democratico, il vero potere è in mano a pochi, che ne fanno uso clientelare spartendolo tra i più influenti gruppi d’interesse economico e politico, allo scopo di mantenere un equilibrio di fondo nel sistema. Con le travagliate elezioni parlamentari del 4 dicembre, la Russia ha confermato di appartenere a questa categoria. Direttamente da Mosca, il resoconto della giornata e alcuni spunti di analisi

IL RESPONSO DELLE URNE – Per i prossimi cinque anni siederanno ai banchi della Duma i membri di quattro partiti: Russia Unita (ER) con 238 seggi su 450, Partito Comunista (KPRF) con 92 seggi, Russia Giusta con 64 seggi e Partito Liberal-Democratico (LDPR) con 56 seggi. Le altre formazioni, tra cui la social-liberale Mela (Yabloko), che pure è stata curiosamente preferita dai votanti negli Stati Uniti, non hanno superato la soglia di sbarramento del 5% e sono rimaste fuori.

I risultati non erano affatto scontati: ER, il partito attorno al quale orbita il (futuro) Presidente Putin (che però correrà da indipendente alle future elezioni presidenziali del 4 marzo) ha perso in un sol colpo 77 seggi, insieme alla maggioranza dei due terzi necessaria per emendare la Costituzione che, nel 2008, aveva permesso di prolungare il mandato presidenziale da 4 a 6 anni e quello dei deputati da 4 a 5 anni.

UNA GIORNATA LUNGHISSIMA – La giornata è stata tesa e interminabile. Nelle 21 ore trascorse dall’apertura dei seggi in Chukotka (a poche centinaia di km dall’Alaska) alla chiusura di quelli nell’exclave di Kaliningrad (confinante con la Polonia) è accaduto di tutto.

A Mosca, in tarda mattinata, il centro città è stato blindato e militarizzato, più di 50.000 poliziotti hanno serrato la Piazza Rossa e braccato ed arrestato alcuni oppositori che, riunitisi in gruppi nelle piazze antistanti a essa, Piazza del Trionfo e Piazza del Maneggio (sulla quale peraltro si affaccia la stessa Duma), denunciavano irregolarità e brogli.

Contemporaneamente, in rete, i principali siti di informazione libera ed antigovernativa tra cui Livejournal, la principale piattaforma di blog del paese, Radio Ecko, unica radio indipendente superstite, e Golos, ONG che aveva meticolosamente catalogato e sistematizzato migliaia di presunte irregolarità elettorali, erano stati resi inaccessibili con attacchi di denial of service.

Non solo, sin dai primi exit poll si sono propagate voci, alla fine del conteggio dei voti rivelatesi infondate, secondo le quali sarebbe stata in bilico la maggioranza assoluta di ER, che incredibilmente, in tal caso, avrebbe dovuto coalizzarsi od allearsi con alcune opposizioni per promulgare ogni singola legge.

Alla fine i risultati sono andati diversamente, e Putin è riuscito ad ottenere, una seppur risicata maggioranza assoluta. A questo proposito, sono illuminanti le ermetiche dichiarazioni di Garry Kasparov, ex campione di scacchi riciclatosi in nemico della politica:”In Russia, in tempo di elezioni, sono le regole ad essere imprevedibili ed i risultati ad essere fissi”. Nulla di più appropriato.

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VECCHIO E NUOVO A BRACCETTO – La tendenza è bizzarra. Nonostante i russi (che sono il popolo più internauta d’Europa con 51 milioni di navigatori su 144 milioni di abitanti) riescano ad aggirare, mediante una rete che assorbe ogni voce ed informazione che non trova spazio nei media classici, censure e populismo di televisioni e radio generaliste controllate dai poteri forti, continuano a crescere i voti del KPRF, guidato da Ghennadi Zyuganov. Burocrate modello, egli è noto per essersi contraddistinto, quando era quadro del Ministero Sovietico della Propaganda, per aver criticato Glasnost e Perestroika e per aver appoggiato, nel 1991, il Putsch di Mosca, la svolta autoritaria interna al PCUS che accelerò il disgregamento dell’URSS.

E a votare i comunisti non sono solo gli anziani con pensioni non adeguate all’inflazione e gli abitanti delle città che punteggiano la ferrovia Bajkal-Amur o la costa dell’isola di Sakhalin dove nulla, davvero nulla è cambiato dagli anni ’80. Come infatti conferma il dato secondo cui, in occasione delle elezioni parlamentari del 2007, uno dei pochi seggi elettorali in cui il KPRF ebbe la maggioranza fu quello situato presso l’Università Statale di Mosca (la più prestigiosa istituzione accademica del paese), i comunisti sono popolarissimi tra studenti, intellettuali e scienziati, i quali vaneggiano il ruolo primario e rispettatissimo che cultura e scienza avevano, ora rimpiazzate dal denaro, nel vecchio sistema.

Evidentemente, mentre al russo medio, le cui principali preoccupazioni sono nutrirsi dignitosamente, cambiare la vecchia Lada e trascorrere più tempo possibile nella dacia di campagna, il partito di Putin ER, che garantisce un certo ordine di fondo, va più che bene, l’intellighentia non riesce, anche a distanza di decenni, a trascurare i suadenti e gloriosi richiami di un passato diverso, da alternativa, da superpotenza.

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MAGGIORANZA ASSOLUTA – Ma torniamo al voto ed alle sue implicazioni. Poco dopo la chiusura delle urne sono apparsi in pubblico per regalare delle lapidarie dichiarazioni il Presidente Medvedev ed il (passato e futuro) Presidente Putin.

Il primo, tra saluti e ringraziamenti quasi commossi, quasi a volersi congedare dai russi dopo una presidenza iniziata per caso e conclusasi nell’ombra, ha manifestato velata soddisfazione per i risultati, parlando di dimostrazione della democraticità del sistema. Il secondo, glaciale, ha provveduto a definire ottimale il risultato (pur non credendo in ciò che diceva).

La verità è che da quando, nello storico 24 settembre 2011, i due si sono scambiati arrogantemente le cariche, si è guastato l’ingranaggio del congegno che ha permesso a Vladimir Putin di tenere, nel consenso generale, le redini della politica russa per un decennio. È lo stesso Putin, ora, ad averlo capito.

Sul futuro c’è ora un immenso punto di domanda; i veri potenziali oppositori come l’ex sindaco di Mosca Yuri Luzkhov e gli oligarchi Mihail Prokhorov e Mihail Khodorkhovsky sono stati emarginati dalla politica statale poco dopo aver tentato di entrarvi, e sono rimaste solo le pittoresche opposizioni parlamentari, spazianti dal veterocomunismo al panslavismo.

Sembra perciò che Vladimir Putin diverrà il più longevo Presidente russo dopo Josif Stalin. Inizia ad essere chiaro però che sempre più persone sono desiderose di un forte cambiamento. Se questo verrà dall’alto o dal basso attualmente non è ancora dato saperlo; di fatto, il vento di novità ipotizzato in seguito agli exit poll sia rinviato a data da destinarsi.

Vittorio Maiorana [email protected]